sabato 30 maggio 2020

Domus e forum


Lasciare le scarpe fuori dalla porta. Fino a qualche tempo fa o, ancora più precisamente, fino a febbraio 2020, era in Italia una pratica minoritaria e vagamente eccentrica, quasi fricchettona. Con l’epidemia di Covid-19 le cose stanno però cambiando, almeno stando alle scarpe che vedo moltiplicarsi sugli zerbini del condominio dove abito. È inutile ricordarne la ragione, e, per quanto io non faccia lo stesso, mi sembra prudente e sensato.
Diversamente dal nord Europa ma anche dell’area mediorientale, la casa italiana è sempre stata considerata un’estensione del fuori, dove amici e conoscenti e perfino Testimoni di Geova non devono deporre le armi prima di entrare, rappresentate simbolicamente dalle scarpe. Anche in questo si riflette la profonda e radicata socialità del nostro popolo. Al limite, i più igienisti, specie nei decenni precedenti e tra le famiglie di modesta estrazione, ti pregavano di strisciare le suole sopra alle pattine, degli scampoli di feltro su cui si consumava un gioco proletario (sorta di moviola del pattinaggio) che mi è sempre piaciuto, restituendo dignità a case umili ma ben tenute senza sottrarla all’ospite, a cui veniva risparmiata la condizione degradante di veder sgusciare il pollicione dai calzini.
È stato solo con gli anni ottanta che, anche qui, qualcuno ha iniziato a chiedertelo, dapprima timidamente e poi con sempre maggiore imperio: Puoi toglierti le scarpe, per favore. Il sospetto è che dietro a tali richieste, accompagnate dall'odore dolciastro degli incensi accesi accanto a elefantini intagliati nel mogano, più che l’emulazione di qualche guru indiano si riflettesse un sentimento inconscio di subalternità e invidia sociale, a cui reagire replicando i comportamenti dei ricchi– comportamenti e ricchi conosciuti solo per il tramite televisivo, naturalmente. E così anche a Rozzano o a Centocelle la casa diventava il sostituto piastrellato del celebre Riva Corsaro, il motoscafo dei cumenda milanesi, quello su cui Jerry Calà e Cristian de Sica scorrazzano con altri agiati baby boomer in Sapore di mare, oppure un tempio sacro, una moschea, prima di trasformarsi in un reparto di terapia intensiva.
Mi piace pensare che a emergenza terminata le cose torneranno come prima, e la maggioranza dei miei connazionali a considerare la propria abitazione un'increspatura del mondo, magari un po' più tiepida e riparata ma della stessa sostanza, leggi, consuetudini. Niente scarpe sullo zerbino, insomma. Con gli ospiti accolti nell'interezza della loro identità, 
e cioè ascoltando anche quell'alfabeto pronunciato dall'abito ancora prima della bocca, calzature comprese. Abito che fa il monaco e non il contrario, come uno sciocco proverbio vorrebbe farci credere, per sottostare infine alla minima religione domestica con cui omologarci a un culto neo ricco o scandinavo o arabeggiante del tutto estraneo alla nostra tradizione, oltre che diciamolo pure brutto in sé.
Ma temo non sia così, e che questa epidemia sancirà un confine sempre più marcato tra domus e forum, quasi di ostilità. Perciò le scarpe, con cui calchiamo i luoghi pubblici, ossia letteralmente ne facciamo un calco, un'impronta non da lasciare al suolo ma da esso incorporare, più che per ragioni igieniche dovranno arrestarsi all’ingresso di quelli privati. I quali avranno smesso di contemplarli.

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