martedì 27 aprile 2021

Sfornation


Mi viene da vomitare ogni volta che apro Facebook, e leggo quello che la gente scrive su Facebook, me compreso; in fondo un orinatoio è fatto per pisciarci dentro, e solo in una circostanza su un milione, se ti chiami Duchamp, riesci a cavarci un'opera d'arte. In ogni modo un chiaro segnale, di più, un sintomo, che rientra nel mio sistema bioritmico. Succedeva anche a Thomas Bernhard, dopo un mese che abitava in un luogo gli veniva a noia, e se insisteva la noia si tramutava in fastidio, congestione, ripulsa e infine orrore. Un orrore, nel mio caso, che si appunta come una medaglia al disvalore sulle cose, fa esplodere con fantasie di tritolo palazzi e villette, per sterminare, quando non c'è più nulla da abbattere, ciò che rimane di quel monumento di cartapesta che la specie a cui appartengo si edifica da sola. Ne è defilata briciola il panettiere con la bustina bianca sul capo, pedala in un alba rugginosa con la cesta colma di biovi e francesi e michette, sono ancora tiepidi e fragranti, io sto dormendo ma mi piace immaginarlo canticchiare sfornation, la stessa contagiosa canzoncina di Ninetto Davoli in un celebre spot degli anni settanta. Solo trasferendosi in un luogo diverso, non migliore, diverso, il grande scrittore austriaco (sto parlando di Bernhard, non del panettiere e nemmeno di Ninetto che era romano de Roma, una di quelle persone che sembrano generate dalla geografia, più che dalla storia), Bernhard riusciva a placare la sua avversione; per breve tempo trovava il nuovo approdo persino simpatico e grazioso, se non proprio amabile. Poi doveva andarsene anche da lì, magari per tornare nell'odiato luogo di partenza, di cui si era provvisoriamente scordato la sensazione di ripugnanza; o forse, semplicemente, aveva iniziato a percepire lo spazio esterno come estraneo, con quello sguardo benevolo che i turisti riservano al folclore locale, anche quando contiene intollerabili abusi. Ne ricavo che, come per Bernhard, ma in fondo anche Ninetto, è giunto per me il momento di montare sulla mia bicicletta per trasferire sguardo e parole da un'altra parte, nel viaggio canticchiare sfornation, mentre qualcosa di radicalmente nuovo lievita al mio interno; se avrò forza e determinazione riuscirò a impastarlo e poi metterlo in forno, trasformarlo in pane. Ma già sapendo che anche quella parte, prima o poi, comincerà a procurarmi disgusto, il pane diventerà secco, i denti si spezzano se provano ad azzannarne la crosta, le mammelle delle mucche avvizziscono come tanti cazzettini mosci e privi di sperma, e tornerò a pisciare nell'orinatoio di Facebook. Che alla fine, chi non piscia in compagnia o è un ladro o una spia

Invisible Monsters

Ieri ho scritto su Facebook un post sui giovani che è stato schifato da tutti. Bene, mi piace quando vengo schifato, significa che sono sulla strada giusta, in un medium-messaggio che per sua natura fa schifo. Insisterò allora sull’argomento, nella speranza di risultare ancora più sgradito.

I giovani, si diceva. Se la società fosse un congegno quale probabilmente è, i giovani ne rappresenterebbero la propaggine estrema, mossa, anche se non determinata (stiamo parlando di un congegno sul modello della cibernetica), da ingranaggi anteriori. Sono insomma quello che si dice l'ultima ruota del carro, ma per attualità metaforica aggiorneremo il carro a camion, anzi autotreno, visto che quella dell’Occidente è una lunga e auto-articolata storia, una soria in cui io so io e voi  i barbari, gli africani, gli altri  nun siete un cazzo. E mi pare evidente: l’autotreno è guasto, un autotreno guasto che passa correndo lungo la statale con un carico di sale, come cantava Francesco De Gregori in un album del 1992.

Dal momento che il motore non è visibile, richiuso com'è dentro al cofano – non ho mai capito dove sia il cofano in una motrice, ma immagino ve ne sia uno –, possiamo però cogliere solo il movimento delle ruote, il loro spostarsi ondivago tra le corsie, viene il dubbio che il conducente sia impazzito oppure abbia bevuto, per restare all'opera di Francesco De Gregori. Ma cosa potevamo aspettarci da una società che ha eletto il motto va dove ti porta il cuore a proprio navigatore satellitare, spesso confondendo cuore e minchia, in un mondo di nani sono lì a pochi centimetri, e lascio da scovare di quale canzone si tratti nel caso.

Questi enigmatici e, almeno a me, vagamente ripugnanti sedicenni di cui ho scritto – con o senza mascherina, cambia poco –, sono dunque il postremo effetto di un albero motore mosso da adulti ancora più ripugnanti, che stanno rinchiusi al calduccio dei cilindri a guardarsi l’ultima serie di Netflix, dopo avere iscritto i figli a ogni cazzo di corso a disposizione: corsi di inglese, ovviamente, ma anche calcio, calcetto, karate, nuoto, scacchi, oboe, danza del ventre, blow job, qualsiasi corso meno quello che sarebbe davvero utile, ossia come aggiustare un autotreno che va in pezzi.

In ogni caso, non sarà stato del tutto inutile: col ritorno delle zone gialle e i figli fuori dai coglioni, divano e tivù sono nuovamente tutti per loro, mostri dal telecomando in pugno e le pantofole per non rigare il parquet. E quei mostri generatori di mostriciattoli, a scanso equivoci, siamo noi.

domenica 25 aprile 2021

Che ore sono?

 


A sedici anni io ero un coglione da manuale dei coglioni. Coerentemente, frequentavo solo coglioni come me, così non avevamo problemi con i neuroni a specchio. Ora che ci penso, tutti i sedicenni che ho conosciuto, a sedici anni (altrimenti non avrebbero potuto essere sedicenni), erano dei coglioni, compreso i pochi che mi accade di conoscere ora.

Le uniche eccezioni che mi vengono in mente sono Rimbaud e Mozart, ma in effetti non li ho conosciuti di persona. Anche Gesù, come viene descritto nel Vangelo dell'infanzia dello pseudo-Tommaso, a sedici anni era un coglione, con inquietanti manie di grandezza. Un’età in cui è del tutto irrilevante l'intelligenza – anzi gli intelligenti sono i peggiori, i primi della classe, i secchioni –, ma la disposizione al mondo che si traduce in simpatia; alla lettera: essere sim-pateticicon-senzienti verso gli altri, com-passionevoli nei confronti degli animali, meravigliati per il fatto che qualcosa, semplicemente, esista, invece di nulla. E soprattutto molto molto curiosi!

Tutte qualità che della futura intelligenza rappresentano la premessa, come ci mostrano romanzi di formazione quali Pinocchio o Le avventure di Huckleberry Finn, Il giovane Holden. Non ho perciò contrarietà alla proposta di estendere il voto ai sedicenni, peggio di noi non possono fare; per conto mio, si potrebbe votare perfino a dieci anni, fondare un partito per ripristinare la produzione del Big Jim. Tanto meno, mi fa storcere il naso il fatto che i sedicenni si salutino ora dicendo bella zio, oppure ascoltino canzoni con testi di puro demente turpiloquio, tengano la mascherina come un tovagliolo penzolante sotto il mento e poi vadano a trovare i nonni, cose così, da coglioni appunto.

Quel che mi inquieta è piuttosto l’impressione che mi ritorna ogni volta che ne incrocio uno, chiamiamolo il sedicenne tipo o Mr. Sixteen Junior: in lui non ritrovo il riflesso della mia coglioneria di allora, ma l’immagine di un alieno in un b-movie degli anni cinquanta, un marziano proprio, imbronciato e chiuso dentro un micro mondo impermeabile e semplificato, e cioè senza tanti giri di parole: Mr. Sixteen Junior mi è antipatico.

A Pasolini stavano antipatici i giovani capelloni, ci ha pure scritto un invettiva sulle pagine del Corriere della Sera, il politically correct era negli anni settannta solo un'espressione ben nascosta nei dizionari d'inglese. A me invece sono antipatici questi ragazzetti con lo stesso taglio di capelli dei calciatori, lo smartphone in pugno su cui scorrono svelte le dita, il passo strascicato e l'assenza di qualsiasi traccia di vitalità dentro lo sguardo; troppo sbattimento anche dare gli esami per la patente del motorino, che poi tocca andare da qualche parte.

Luoghi comuni? Sì, certo. Ma rimpiango i tempi in cui i luoghi comuni prendevano la forma di giovani canaglie con la faccia da schiaffi, come si diceva delle teppe: i Franti, i Lucignolo, i Giamburrasca o Noodles o Gigetto, un mio compagno di scuola che rubava la stilografica al preside, quando ce lo mandavano con una nota sul registro. Sì, meglio Gigetto che questo corteo funebre di zombie 2.0. Sempre coglione era, eravamo, ma almeno mettevamo allegria a noi stessi, ogni volta che passavamo davanti a uno specchio. A cui alle volte, per dire quanto coglione ero, chiedevo che ore sono?

(Ps - Aggiungo o, meglio, ribadisco di essermi attenuto a una fenomenologia tipo, che lambisce se non proprio celebra lo stereotipo, di cui esistono infinite e forse più realistiche manifestazioni. Ma confermo che a quel livello lì, di una superficie oltre la quale poco mi interessa avventurarmi, i sedicenni di oggi non mi sono simpatici. Ma niente niente, se non si fosse capito.)


sabato 24 aprile 2021

Preghiera, o sul perché, da laico, prego con Papa Fracesco

 


Io ho due passioni: le arti marziali miste o MMA, uno sport da combattimento dove gli atleti si scannano all’interno di un ring ottagonale perimetrato da una gabbia, con l'unico limite di non mordersi o cavarsi occhi e genitali, e la teologia.

Una volta mi piaceva molto anche sostare dietro ai distributori in compagnia di giovani prostitute slave, nelle narici odore di preservativi sottomarca, profumi ugualmente sottomarca misto a sudore di ascelle, pube e altri parti anatomiche, infine idrocarburi, quelli finalmente di pregiatissimi marchi: Agip, Esso, IP.  Ma come recita Qoèlet, c'è un tempo per ogni cosa, e quel tempo è ora trascorso. Con esso anche quello di infilarmi in una gabbia a petto nudo per vedere se sopravvivo a un essere umano simile a me – simile anche nel terrore che precede l'ingresso –, già che come sostiene l'antropologo e fighter Daniele Bolelli, "compito di ogni uomo è diventare un eroe". Mi rimane dunque solo la teologia.

Forse a qualcuno è sfuggito, ma Papa Francesco ha inaugurato una maratona vaticana di preghiera, con cui si propone di contrastare gli effetti della pandemia, diciamo pure sconfiggerla. Gli ha risposto dalle pagine di la Repubblica Vito Mancuso, per cui l'iniziativa rappresenta una forma regressiva di spiritualità, basata su una visione superstiziosa e clericale del divino, intrisa di elementi magici e neo pagani. Io non sono d'accordo.

La questione è più complessa e delicata, toccando aspetti essenziali non solo del cattolicesimo romano, ma anche della radice giudica da cui diparte. Sergio Quinzio, ex ufficiale della Guardia di Finanza e raffinatissimo pensatore, aveva portato il problema al suo intrinseco paradosso: onnipotente e misericordioso, quando siano aggettivi ricondotti a Dio o, anche solo, a un dio, si escludono reciprocamente, come la vicenda storica testimonia - stupri, guerre, terremoti, ma anche bimbi soggetti a scandalo, violenza. Dov'era Dio in quei momenti? Dunque se Dio è impotente è inutile pregarlo, ma anche se è un po' stronzo.

Papa Bergoglio mostra al contrario fiducia nelle possibilità di convivenza tra gli attribuiti divini, con ciò iscrivendo il proprio pontificato dentro l'ortodossia cattolica, di cui in fin dei conti è legittimo rappresentante. Negare che la preghiera possa influire sull'ordine del mondo, o, più radicalmente, neppure a Dio sia concessa la ricreazione del creato, significherebbe condurre il pensiero oltre il limes della tradizione fondata sui testi: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto" (Luca 11, 9-10).

L’obiezione di Vito Mancuso si colloca così in un orizzonte post cattolico, come da lui rivendicato da tempo, bisogna dire con qualche buona ragione. La prima mi appare la soluzione escogitata già da Leibniz per rispondere all'annoso problema della presenza del male, tradotto con il termine teodicea: Dio si fa piccino piccino per rendere liberi gli uomini, estremo gesto d'amore che limita lo slancio amoroso di un suo futuro soccorso, ad esempio nel caso di una pandemia.

Immaginare un pontefice romano post cattolico, è però chiedere un po' troppo all'immaginazione religiosa. Ma anche all'immaginazione laica e post cattolica, se non addirittura post cristiana, che dovrebbe essere possibilista verso le possibilità della preghiera, ad esempio mettendo seriamente a tema le acquisizioni della fisica delle particelle, meglio nota come meccanica quantistica.

Da Heisenberg in poi, è accertato l'assunto per cui non esiste un osservatore della realtà che sia realmente esterno, ma, perlomeno a livello infinitesimale, la dimensione puntiforme della materia è intrinsecamente legata allo sguardo che la interroga, e su di essa pone delle aspettative, più o meno consce. La preghiera è in buona sintesi proprio questo: una forma strutturata e spesso rituale di aspettativa sulla vita, che cerca di riconfigurarne il corso, o come direbbe un fisico far collassare la funzionane d'onda. In cui la realtà tangibile è come se evaporasse in assenza di un testimone, rendendo, almeno in potenza, il Figlio creatore quanto il Padre. E l'uomo demiurgo.

Certo, tra uomo e mondo, in un'ottica religiosa, si pone il tramite di una divinità separata, oltre che vagamente distratta. Una sorta di gioco di sponda che non ha finora offerto grandi prove di precisione, né di sollecitudine. Ed è appunto l'obiezione di Sergio Quinzio. Ma non possiamo liquidare la preghiera come un retaggio arcaico e superstizioso, e ciò sia a livello scientifico sia spirituale. Piuttosto, un modello compatibile per quanto non accertato né accertabile; compatibile con la tradizione, nel primo caso, e con le equazioni fisiche nel secondo.

Tra Vito Mancuso, che pure seguo e apprezzo, e Papa Bergoglio, nella circostanza mi sento dunque in sintonia con il secondo, più volte criticato per occuparsi troppo del mondo e poco di Dio. E invece no, per una volta assume radicalmente il suo ruolo di pontifex, ossia facitore di ponti tra il piano della materia e quello dello spirito. Da politico progressista, Francesco, torna così a essere sciamano. Quando il telefono rosso tra i due regni si chiama proprio preghiera.

Collaudi sentimentali

 


Dopo due settimane dall'inizio dalla mia iscrizione a Dating, l'agenzia di collocamento cuori gentilmente offerta da Mr. Zuckerberg, mi sento di confermare tutti gli stereotipi sull'umano, ma proprio tutti. Naturalmente è un'affermazione limitata a quel sottoinsieme antropologico che sono i rapporti erotici e sentimentali, quasi sempre – quasi sempre su Dating, per essere precisi – caratterizzati da un sottile gioco di potere attivo sotto traccia, in cui vince chi possiede un maggior capitale da far valere nella compravendita. Tradotto in sociologhese: uno status superiore, per quando l'orizzonte mercantile rende maggiormente l'idea, se non proprio la condizione di merci tra altre merci.

Le tre valute attualmente in corso su Dating, con cui realizzare i propri acquisti amorosi, sono bellezza, età e prestigio economico e sociale. Tre stereotipi appunto, coniugati diversamente, ma nemmeno troppo, tra i generi; in altre parole, anche le donne non di rado ricercano un compagno più giovane, oltre che bello e prestigioso. L'unica differenza sta forse nel fatto che gli uomini, avendo imparato l'arte povera di fare di necessità virtù, sono maggiormente disposti a mediare rispetto a un'asticella posta a vertiginose altezze, le donne no. Ma è solo un'ipotesi, non avendo potuto consultare i profili maschili.

La sensazione finale è comunque quella di avere scorso il soggetto di un film già visto troppe volte, su cui nessun produttore investirebbe un euro. Ma quel produttore sbaglierebbe, perché, volendo restituire l'attualità dell'immaginario umano, si deve tornare all'Ottocento, quando le donne spasimavano per gli ufficiali ussari e gli uomini per le giovani fanciulle in fiore. Ci si offre così senza realmente offrirsi a un altro composto di sangue e nervi e affanni, ma ricalcando un ideale utopico, fantasmatico, che possiamo ricondurre al vecchio Principe Azzurro. Chi si discosta da tale immaginario telematico, novissimo quanto arcaico, rappresenta merce di scarto, destinata a rimanere sugli scaffali di Dating. Essendo un prodotto soggetto a scadenza, io mi sono rimosso da solo.

venerdì 23 aprile 2021

Giovinezza, corso rapido di italiano per stranieri

 


A sedici anni mi trovavo all'isola d'Elba, da solo. Il termine solo, dopo mamma, pizza e vaffanculo, è uno dei primi a essere imparato dagli stranieri. In seguito ripetono le parole apprese ogni volta che incontrano un italiano, forse per mostrare amichevolezza o, meglio, quella complicità un po' ebbra da tavolata dell'Oktoberfest, anche quando si tratta dell'insulto. Un concetto apparentemente preciso – o sei con qualcuno o non lo sei – ma a ben vedere sfuggente, pieno di sfumature e slittamenti. Nel mio caso il significato era letterale: senza famiglia, amici, neppure conoscenti. Solo, alone, do you understand?

Pochi mesi prima avevo abbandonato la scuola, era stato un inverno burrascoso culminato con la fuga da casa. Soliti turbamenti da adolescenza in provincia e, in fondo, faceva premio con le ragazze atteggiarmi a James Dean; alla domanda dove abiti rispondevo dopo aver ravvivato il ciuffo: "Everywhere."

E in effetti così era stato, almeno per un paio di settimane in cui avevo mendicato asilo nelle soffitte di conoscenti e appena conosciuti, a loro volta gratificati dall'ebbrezza malavitosa di ospitare un fuggitivo. Poi ero tornato a casa con la coda tra le gambe e una ferita che non rimarginava sul palmo della mano sinistra.

A una festa privata non si trovava l'apri bottglia, quando si dice essere al posto giusto al momento giusto. Con convinzione drammaturgica  – Stanislavsky sarebbe stato fiero di me  – avevo gridato: "Ci penso io!" Quindi avevo provato a infrangere il collo di una Ceres alla maniera dei pirati, per poi berla a garganella. Risultato: le stimmate. Se spalancavo la mano per salutare dalla poppavia del traghetto che mi aveva sbarcato a Portoferraio, il taglio riprendeva a sanguinare.

Alla fine tutto si era sistemato. Quasi tutto. Grazie a un lontano parente che lì possedeva un campeggio, ero riuscito a trovare lavoro come aiuto bagnino a Lacona, dove si tramanda che Napoleone amasse fermarsi per un pisolino, stendendosi all'ombra di un enorme pino marittimo al limitare della spiaggia. Ancora adesso lo si può ammirare, è dietro i bagni dell’albergo Lacona, il luogo in cui lavoravo io. Svetta tra le Mercedes e le Toyota nel parcheggio ma tace i sogni del piccolo corso, rimasti impigliati ai suoi aghi.

Ero arrivato ai primi di giugno, e una sera dello stesso mese decisi di avventurarmi a Marina di Campo in autostop; avevo sentito di una discoteca da quelle parti, il suo nome era Tamarea. Trovare un passaggio per Marina di Campo non fu difficile, ma la discoteca non stava proprio lì, e piuttosto sul promontorio roccioso di Capo di Fonza, tra fichi d'india e rosmarino selvatico. A piedi dal paese, un'ora circa.

Mi avviai con l'intento di riprendere a fare autostop, ma il traffico nella stradina che avevo imboccato era ridotto ai minimi termini. Dopo un quarto d'ora in cui camminavo al buio, quelle quattro lettere che si ripresentavano a ogni passo, solo, solo, solo, si udì finalmente il rumore di un’auto. No, era una moto, me lo confermava l'unica luce proiettata dal fanale anteriore. Luce, un'altra bella parola da insegnare a uno straniero.

Allungai il braccio e quindi il pollice, replicando l'ago di una bussola che punta sempre al nord della folla, il polo magnetico del branco, dove cercare i miei coetanei che certamente stavano già ballando al Tamarea, dimenando i Roy Rogers che avevano preso il posto dei jeans Carrera. I nostri padri ancora non si erano fatti una ragione che bisognava spendere il doppio per avere lo stesso, e continuavano a indossare abiti che avevano una marca (Lebole, Marzotto, nomi che solo a pronunciarli ci facevano ridere) e non un marchio. Come se bastasse battezzare un vitello e non imprimergli il destino con il ferro rovente.

Distinguere un giovane da un vecchio, anche di spalle, era dunque semplice: bastava leggere l'etichetta sui pantaloni. Per il resto, la serena fiducia che il peggio fosse passato e il meglio sul punto di dischiudersi, fiorire in una nuova primavera, era la stessa, le generazioni si rinsaldavano attraverso una cornucopia che eruttava Girelle Motta, villette geometrili e nuovi canali sul televisore al centro del soggiorno; la mamma ne aveva uno più piccolo in cucina, da cui fuoriusciva musica sempre più leggera e interruzioni commerciali. 

Tutte considerazioni postume in quel momento, in cui l'unica urgenza era quella di sbarazzarmi del termine che mi assillava, insegnarlo a un olandese, passarlo a un crucco come si faceva ogni volta che si incrociava una suora: solo, tuo!

Intanto il rombo del motore si avvicinava. Di più, mi aveva superato. Si trattava di un uomo. A guardare meglio compresi che era un ragazzo come me, i suoi indumenti erano pieni di etichette alla moda, non poteva essere un adulto. Che gran bastardo! Nemmeno mi aveva degnato di uno sguardo, era sfrecciato davanti al mio pollice sulla sua moto da cross. È allora che sfoderai la terza delle parole italiane che imparano gli stranieri appena mettono piede in Italia, la cacciai dalla gola dopo aver richiamato dai polmoni tutto il fiato che avevo. Mi piacerebbe restituirgli un’eco, ma fu solo uno schiocco isolato nella notte, come una scoreggia sfuggita nella sala d’attesa di un proctologo.

Si accese a quel punto la lucina rossa del freno, la moto si fermò, invertì la direzione di marcia e in un attimo fu davanti a me, con il faro che mi sparava dritto negli occhi. "Sei tu che mi hai gridato vaffanculo?"

"Vedi molte altre persone in giro?"

L'incipit del dialogo è da film di Sergio Leone, ma soprattutto il silenzio che seguì. Io sono alto un metro e ottantaquattro, allora ero robusto, sportivo, a braccio di ferro il secondo più forte del bar paninoteca Number One; venivo dopo uno che giocava nella nazionale juniores di rugby, un Marcantonio che metteva paura solo a vederlo. Pensieri che mi ronzavano in testa, se fosse un fumetto starebbero nella nuvoletta. Stavo cercando di caricarmi.

E però, accidenti, anche lui non sembrava messo male… Sotto la t-shirt a bande orizzontali bianche e blu, da marinaio, ma con l'acquilotto di Armani ben in vista, si intuivano spalle forti, e braccia che già immaginavo intente alla lotta. Un bookmaker inglese ci avrebbe dato cinquanta e cinquanta. Una stima a cui doveva essere arrivato anche il mio avversario, che dopo avermi fissato a lungo – io ovviamente non avevo abbassato lo sguardo – mi dice: "Che facciamo?"

Mi guardai in giro. A destra c'era un fosso a cui seguiva un canneto. A sinistra un prato arso, con un olivo solitario al centro. Sopra, stelle a profusione e un minimo spicchio di luna. Con in sottofondo la risacca del mare e, più lontano e attutito, il tum tum delle basi elettroniche, mescolate al vociare che proveniva dal Tamarea. 

Non male come location per una pubblicità del cornetto Algida. Mancavano solo le ragazzine con gli zainetti Naj Oleari, di fronte a cui far bella figura, tenere la parte, mostrarsi il maschio alfa. Ma senza nessuno a guardare mentre ci prendevamo a pugni, anche se avessi vinto cosa potevo guadagnarci? E poi è quasi sicuro che avrei rovinato il mio giubbino Stone Island, mi era costato una settimana di lavoro, dieci ore al giorno di pedalò da trascinare sulla risacca per fünftausend lire, fünftausend eine stunde. Il mio tedesco si fermava lì, l'equivalente di mamma pizza vaffanculo.

"Non so..." dico allora con un tono più conciliante. E lui: "Vabbè, dai, salta su! Ti porto al Tamarea."

Ciò che seguì è pura archeologia dagli anni Ottanta: raffiche di Gin Fizz, luci stroboscopiche, capelli con la sfumatura alta e la Gommina e il ciuffo e, finalmente, a tutto volume, le note di One Night in Bangkok e Fade to Grey, con True degli Spandau Ballet partiva lo strusciarsi dei corpi abbronzati nei lenti. Nella cornice di quella Polaroid dai colori già un poco stinti, a restituire, per paradosso, una sensazione ancora più realistica e quasi commossa, da lapide funeraria, io e il mio nuovo amico (amico, friend, prietene, amigo, quale meravigliosa parola, comunque tu la traduca!), io e il mio ex nemico che ridiamo e diciamo sciocchezze a ragazze sfiorate a bordo pista; a volte ricambiavano, più spesso no. Curiosamente, chi accoglieva l'abboccamento non capiva la nostra lingua, solo il movimento delle labbra. Somigliava al bacio di un pesce rosso nell'acquario dei ricordi.

Se dovessi spiegare a una di quelle ragazze ormai divenute donne, qualcuna già anche nonna, il termine italiano giovinezza, gli racconterei allora questa storia. In una delle infinite lingue del mondo, o probabilmente nell’unica che io davvero conosca.

giovedì 22 aprile 2021

Bravi ragazzi

Uno diceva che il Covid non esiste, lo scriveva anche sui social network, è tutta un’invenzione di Bill Gates, quell’ebreo! Ma un altro giorno diceva che il Covid l’ha creato Bill Gates, così lui ti vende il vaccino, quell’ebreo, è tutto un magna magna postava sui social network, e con le reti 5g va a fine che Bill Gates ti controlla, non lo sai?, informati. Ma se gli facevi notare la contraddizione – se qualcuno l’ha creato esiste, e se non esiste non l’ha creato nessuno – ti rispondeva che questo è proprio un bel modo di ragionare da ebrei, e poi iniziava a canticchiare bravi ragazzi siamo amici miei, tutti poeti noi del ’56.

mercoledì 21 aprile 2021

Cervi in autunno, o sullo scrittore mondo



Lo scrittore è un mendicante. Lo scrittore è diventato un mendicante, meglio. Non è infatti stato sempre così. A Cechov pare che scrivere non piacesse particolarmente, e però aveva questo talento, con cui si guadagnava qualche soldo; gli facevano comodo per arrotondare nel suo difficile apprendistato come medico condotto: l’attività in cui si riconosceva, di cui era davvero orgoglioso ("ho molti amici e di conseguenza molti clienti. Una metà li curo gratis, l'altra metà mi paga cinque o tre rubli a visita"). Ma la sua non era una figura isolata, nel secolo scorso e ancora di più due secoli fa: si scriveva perché esisteva una domanda sociale di parole organizzate, strutturate. Un bisogno di senso insomma, da reperire attraverso le narrazioni.

Ora non è più così, il senso viene cercato altrove oppure è diventato ornamentale, accessorio come un optional eccentrico dell'auto; il segnalatore di cervi lungo la carreggiata, mettiamo. Ecco, lo scrittore, diversamente da quanto pensava Marianne Moore, non mostra più rospi veri dentro giardini immaginari, ma cervi a primavera in un mondo che volge all'autunno; i cervi riducono progressivamente la propria temperatura corporea, il battito cardiaco rallenta per prepararsi a un lungo inverno, dove al calare della neve scompaiono i cacciatori ma anche ogni altra cosa, tra cui i lettori.

Per questa ragione lo scrittore, in un'epoca in cui la sua opera non conta più nulla, è divenuto una figura tanto diffusa, se non addirittura universale: colui che mendica lo sguardo attraverso un cappello pieno di parole protese verso il vuoto, come viene fatto sui social network, giustamente diventati il modello di scrittura del nostro tempo. Il miraggio è quello di un lettore a caso, un like, un commento o un cuoricino, unica moneta con cui remunerare le capriole verbali dello scrittore mondo, che ha preso il posto delle opere mondo teorizzate da Franco Moretti. Una moneta, per sua natura, tendente a immediata inflazione, e così pochi minuti dopo si deve ricominciare tutto da capo. Ma nessun problema ti sussurra Mr. Zuckerberg, io ti offro un lampo nelle tenebre, tu mettici la fatica del lavoro. Un'offerta a cui sarebbe bello poter rispondere come Massimo Cacciari a Gianni De Michelis, quando gli offrì la tessera del PSI. No, grazie, sono già ricco di famiglia.

martedì 20 aprile 2021

Il guerriero

 


Uno aveva visto otto volte The Warriors, il film, in italiano I guerrieri della notte, ma secondo altri il numero esatto era nove e per altri ancora dodici. Più passava il tempo e più aumentavano le volte in cui, si diceva in giro con un sorrisetto appena accennato, era andato a cinema a vedere la pellicola, gli piaceva in particolare la sequenza in cui Ajax dice a un membro dei Baseball Furies: "Ti infilo quel bastone nel culo e poi ti sventolo come una bandiera."

Qualcuno l'aveva sparata ancor più grossa, azzardando la cifra inverosimile di quarantasette. Per quarantasette volte acquistare il biglietto, traversare gli spessi tendoni di velluto, sedersi, se possibile, dietro a persone basse e soprattutto con pochi capelli, quindi spalancare orecchie e pupille già a partire dai trailer. Un'impresa consentita solo a patto di spostarsi di città in città, seguendo la programmazione itinerante.

In quella di provincia in cui viveva con la madre e la nonna un po' sorda, The Warriors o, se si preferisce, I guerrieri della notte, veniva proiettato in una sala umbertina da teatro con le poltrone bordeaux intonate al sipario, mentre nel locale della parrocchia venivano prese a prestito le sedie dalle aule in cui si teneva la dottrina, per poi darvi retrospettive di Stanlio e Ollio o le pellicole con Bud Spencer e Terence Hill, Franco e Ciccio, sempre e comunque di coppie si trattava. Quanto al terzo e ultimo cinematografo, era riservato ai film porno, roba da segaioli insomma, non da guerrieri quale lui si sentiva.

Deve essere per questa ragione che, quando sì presentò per l'ennesima volta di fronte alla sala umbertina con i soldi per il biglietto, ma trovò ad accoglierlo il faccione sorridente di Dustin Hoffman e, un po' più sotto nel manifesto, seguendo la stessa gerarchia dei nomi, quello di Merly Streep, girò i tacchi e tornò a casa, forse considerando Kramer contro Kramer una storia un po' troppo da donne, come le biciclette con il canotto basso.

Nel giro di pochi mesi, The Warriors spariva dai cartelloni cinematografici dell'intero nord Italia (oltre le trasferte sarebbero divenute troppo dispendiose), mentre nei negozi di elettrodomestici facevano capolino i primi videoregistratori, parallelepipedi un po' gnucchi che promettevano una replicazione infinita. Con i soldi della pensione di reversibilità, la nonna gliene regalò uno fornito di telecomando, così da poter saltare le scene noiose, ossia quelle dove non sibilano catene o tintinnano spranghe. Fu la ricompensa, ma è solo un'ipotesi, per ripeterle i dialoghi che l'anziana faticava a udire.

Nemmeno ci è dato sapere se continuò a vedere The Warriors o quale altro film, da uomo oppure da donna, film bicicletta in cui mostrare le gambe mentre si pedala con un abitino di cotone a fiori, di cui poi strillare i dialoghi alla nonna, gli ha detto TI INFILO QUEL BASTONE NEL CULO E POI TI SVENTOLO COME UNA BANDIERA.

Semplicemente, ci si dimenticò progressivamente di lui e del suo formidabile record.

Confusione

 


In quasi tutti i commenti che ho letto e ascoltato sul caso Grillo, vengono confusi piani diversi del discorso, dunque del giudizio che diviene così ideologico, prima ancora che improprio.

Il primo piano è quello politico: il leader di un partito di governo ha utilizzato uno spazio solo formalmente privato (il suo blog), ma in realtà luogo di comunicazioni pubblica per finalità del tutto personali, oltre che delicatissime in quanto sottoposte al vaglio della magistratura, e per uno dei reati più odiosi.

Ma in questo reato, quello di stupro di cui è accusato il figlio, e siamo qui al secondo e diverso piano, non ci sono una presunta vittima e un presunto carnefice, ma due vittime e due carnefici, sempre presunti oltre che alternativi: o c'è stato stupro o non c'è stato. Ha infatti ragione Grillo nel ricordare che se qualcuno ti accusa di violenza sessuale dopo un'orgia in cui era consenziente, sta esercitando su di te una violenza speculare allo stupro; uno stupro civile, potremmo chiamarlo così.

Ovviamente non sto dicendo che le cose siano andate a questo modo, né che siano comportamenti ugualmente gravi, ma che il motivo per cui il videomessaggio di Grillo deve essere messo all'indice concerne solo al primo dei due piani in cui abbiamo provato a distinguere la comunicazione, e per quanto la sua assoluta mancanza di attenzione umana verso la ragazza genera quantomeno sconcerto; ciò anche se si fosse come lui sostiene "offerta", per usare una terminologia già fortemente ipotecata da una visione asimmetrica dei rapporti, ossia sessista.

Rimane invece la prima questione, che, per qualità formale ma non certo degli interpreti, potrebbe essere paragonata al Papa che si affacci dalla terrazza di San Pietro. Quindi cerchi di convincere i fedeli che quella bicicletta su cui è stato visto pedalare il nipote: non l'ha rubata, no, ve lo giuro, gliel'ha prestata un amico!

Ma non è davvero il caso che noi, replicando l'errore del leader pentastellato, distribuiamo ora giudizi di colpevolezza e assoluzione, anche quando questi siano impliciti a una ricapitolazione empatica non meno che immaginaria dei fatti. Fermo restando lo scivolone politico del padre e la coglionaggine del figlio, come Grillo stesso, e con ottime ragioni, l'ha chiamata.

domenica 18 aprile 2021

Diabolik

 


Uno somigliava a un gattaccio di strada appena uscito da un bidone: magro, il pelo arruffato, sporco, con un muso aguzzo pieno delle cicatrici guadagnate nelle lotte per l'accoppiamento, in cui a prevalere erano micioni ben più adatti a tramandare i loro geni. Lo chiamavano Diabolik e di lavoro svaligiava appartamenti.

Se negli appartamenti che svaligiava non trovava soldi o gioielli – cioè quasi sempre, tocca purtroppo aggiungere –, Diabolik apriva il frigorifero e vedeva cosa ci stava negli scomparti. Nel caso il contenuto fosse di suo gusto (ma era di bocca buona), iniziava a mangiare e soprattutto a bere, come nella sequenza di un celebre film del 1958.

Dopo aver mangiato e, soprattutto, bevuto, non di rado si addormentava sul sofà dove lo trovavano i proprietari al rientro, acciambellato alla maniera di quel gattaccio di strada che pareva; numerose le lattine di birra vuote sparse sul tappeto, come pezzi di una partita a scacchi sempre sul punto di ricevere scacco matto.

Quando lo svegliavano, il più delle volte accompagnati dalla polizia, rispondeva sfregandosi gli occhi cisposi: “E voi chi  cazzo siete?!”, girandosi poi dall’altra parte e riprendendo a dormire.

Questo nel celebre film del 1958 però non viene mostrato. Altrimenti, invece de I soliti ignoti, si sarebbe intitolato Diabolik.

Maradona

 


Uno lo chiamavano Maradona e sembrava contento. Non che ci credesse per davvero di essere Maradona, ma quando qualcuno lo chiamava col suo vero nome, che poi era Armando, lui rispondeva: “Armando come Maradona”, e poi iniziava a correre mimando le finte del campione argentino nel dribblare gli avversari.

Una frenetica attività fisica che ci porta a immaginarlo atletico e magro, ma così non era e al contrario il suo aspetto era piuttosto corpulento, diciamo pure grasso. Forse perché, nei pochi momenti in cui non correva, mangiava Pocket Coffee, di cui pare fosse particolarmente ghiotto. Non aveva nemmeno bisogno di acquistarli, le persone glieli offrivano di continuo, per poi osservarlo mentre se li infilava in bocca senza scartare l’involucro, che sputava al termine di una paziente ruminazione in un gesto che faceva ridere chi gli aveva offerto il cioccolatino. Per tale ragione non ne rimaneva mai sprovvisto.

Un giorno, era ancora giovane anche se non si è mai capito quanti anni avesse di preciso, né la sua provenienza, Maradona era morto. Per l’esattezza era esploso, ricoprendo le persone che gli stavano attorno e gli lanciavano Pocket Coffee – mangiane un altro Maradona, facci un dribbling Maradona! – del contenuto delle sue viscere, e cioè caffè e cioccolato mescolati in una poltiglia informe. Si dice, si racconta ancora adesso a distanza di anni, che nel depositarsi sugli abiti dei presenti si era immediatamente trasformata in merda.

C’è però anche chi insinua che questa sia una storia inventata, e Maradona ancora adesso stia correndo e trangugiando Pocket Coffee da qualche parte.

martedì 13 aprile 2021

Mottarello


Quando leggo le dichiarazioni di poetica di alcune persone che scrivono, forse dovrei chiamarli scrittori e, se è utile per capirsi, li chiamerò così, quando leggo che la missione (usano proprio questo termine: missione), la missione di questi scrittori è dire il Vero, oppure pronunciare l'Autentico, scrivere sospinti dall'urgenza del Bene tanto quanto di scoperchiare il Male, o, ancora, che non basta dire il Vero l'Autentico il Bene ma bisogna farli, condurli alla soglia dell'Essere attraverso le parole, già che il linguaggio, sostiene un celebre filosofo, è un atto, un gesto come fare la pipì da un cavalcavia sopra le auto che sfrecciano, questo il celebre filosofo non lo dice e nemmeno che qualcuna, è estate, probabile abbia la capotte retratta, le parole urina impregnano allora la camicia di cotone bianco del conducente, cotone popeline per la precisione, quindi macchiano i sedili, il foulard amaranto della signora, tutte le volte che sento gli scrittori dire queste cose (e forse hanno anche un po' di ragione) compare davanti a me Marcello Mastroianni, sta mangiando un Mottarello nella pausa delle riprese di un film in cui recita anche un collega americano, ha naturalmente frequentato l'Actors Studio, Mastroianni continua ad addentare il suo Mottarello mentre l'altro, sotto un sole boia, strilla, piange, si dimena come un ossesso ("I have to get into the role", gli aveva confidato tra un ciack e l'altro), e sentendosi chiedere perché non facesse anche lui così ("Why don't you do the same?"), non cercasse dentro di sé l'emozione corrispondente, il trauma originario, la verità biografica che legittima la finzione e stesse invece lì a sbocconcellare quel Mottarello che aveva iniziato a colargli piano sulle dita, gli risponde, all'americano, pare sia una storia vera: "Perché sono un attore. E dunque recito."

lunedì 12 aprile 2021

Dubbi

 


Ma in quel genere di film dove ci sono decine di uomini che, alla fine o meglio quasi, uno alla volta o anche in due o tre contemporaneamente, si avvicinano, gli uomini, a una giovane donna inginocchiata per terra, in questo modo sembra ancora più piccola e minuta a chi guarda quel genere di film, oltre che naturalmente bianca, se non proprio pallida e comunque come si dice caucasica, mentre gli uomini sono neri, quel genere di uomini neri che alla fine di questo genere di film, o, meglio, quasi alla fine, rilasciano sul suo corpo a volte pallido ma però sempre bianco (in testa, in bocca, sulle guance) una sostanza vischiosa che anche lo spettatore sogna di rilasciare, e in effetti non di rado rilascia, ma non e come vorrebbe sul corpo di una donna: giovane: pallida: comunque caucasica - altrimenti non si spiega la serialità -, alla fine questa volta per davvero di quel genere di film, al parrucchiere che le lava i capelli glielo dicono cosa è successo prima, la sostanza vischiosa in cui affonda le mani assieme allo shampoo che schiuma soffice e morbido e in rima?

domenica 11 aprile 2021

Piove, once again

 


Piove, finalmente. Da bambino, quando pioveva, restavo tutto il giorno su un divano grigio topo a guardare la tivù, o perlomeno dalle quattro di pomeriggio in poi, dopo che i programmi erano iniziati sulle notte del Guglielmo Tell di Rossini che scorrevano su una campitura di cielo e nubi solcato da tralicci risalenti dal basso, o forse erano reti bianche sulle tonalità caliginose offerte da un monitor Telefunken in bianco e nero, non l'ho mai capito.

Raggiunta la preadolescenza, approfittavo delle giornate di pioggia per fare le prove generali di ciò che immaginavo mi attendesse nella vita, sulle ginocchia un giornaletto che poteva chiamarsi (a seconda della fortuna nei ritrovamenti in una radura del bosco, meglio nota come camporela) Blitz, Penthouse, Le Ore Mese, Caballero. Insomma, mi masturbavo.

Un’attività proseguita con cadenza regolare fino a che – ma erano passati molti anni, forse dieci, molte giornate di pioggia – altre giornate di pioggia non venivano, per essere impiegate nel riordinare gli appunti universitari, oppure andare a cinema (Full Metal Jacket, Gli intoccabili, Rain Man…) o, ancora, raggiungere o essere raggiunti da un amico con cui ascoltare l’ultimo album di Bruce Springsteen; alle fidanzate non piaceva Bruce Springsteen, come in quella canzone di Paolo Conte in cui le donne odiavano il jazz e non si capisce il motivo. E se non c’era a portata un amico o una fidanzata o un album di Bruce Springsteen tanto odiato dalle donne, e davvero non si capisce il motivo, allora tornavo a farlo, nelle giornate di pioggia, ma sempre meno spesso.

Proseguendo nei compleanni da festeggiare con ritrosia crescente, le cose non cambiarono poi di molto: al posto degli appunti dei corsi universitari di filosofia teoretica e morale (il bene coincide col male minore, questo il riassunto scarabocchiato su un foglio convertito in aeroplanino, dopo la lettura delle 354 pagine della Critica alla ragion pratica di Kant), ci fu nelle giornate di pioggia qualche visita a musei, spettacolo teatrale, partita a biliardo; ma anche cantine o solai da riordinare, in cui riporre sci e racchette da tennis. Perfino Bruce Springsteen fu messo da parte e rimpiazzato, ora ascoltavo Mahler e Bach – le donne, avevo compreso, più che Mahler e Bach amavano gli uomini che se li bevevano fino all'ultima nota, con il volto improntato a un’espressione estatica, se non proprio ebete –, ma ogni tanto e quando non mi vedeva nessuno ancora ascoltavo Springsteen. Infine, sempre più diradata, quella vecchia abitudine giovanile; i giornaletti pornografici erano naturalmente spariti, soppiantati da un'immaginazione ancora piuttosto fervida. L’assistente alla poltrona dal seno voluminoso e tiepido sotto al camice verde, lo potevo avvertire sulla spalla mentre il mio dentista mi trapanava un premolare, oltre alle fidanzate degli amici (mica tutte però e in particolare una biondina e spigolosa, un po' antipatica ora che ci penso, ma tanto sexy), le prime ragazze a cui correva il mio pensiero, seguito a stretto giro dalla mano.

Oggi piove, dicevamo. Oggi piove e i tavoli da biliardo quasi non esistono più, ma sarebbero comunque stati inaccessibili. Lo stesso cinema, teatri, musei, piste da sci e campi da tennis, che non frequento più da anni. Quanto a Mahler e Bach, boh, non ho tanta voglia di ascoltare musica, me li tengo buoni per quando devo fare bella figura con una donna appena conosciuta, e Springsteen confesso che mi ha un po’ stufato, con le sue t-shirt bianche dalle maniche rivoltate in cui infilare il pacchetto delle Lucky Strike. La lettura, poi, è incompatibile con i miei occhi malandati. Che fare, dunque…

Il divano grigio topo è ancora lì, solo ha cambiato colore, adesso è verde ramarro, così come il monitor Telefunken che si è snellito e dilatato, fino a raggiungere i cinquantacinque pollici attuali. Ed entrambi mi sussurrano: Prego, accomodati, bentornato. Come vedi la terza età è meno dolorosa di quel che dicono, si ritorna al punto di partenza, basta sostituire i desideri con i ricordi e il gioco è fatto.

Dall’altra parte ci sta il bagno, lo smartphone con cui sarebbe un attimo accedere a YouPorn, scalare nuovamente la vetta del desiderio. Accidenti, che ci vuole mi dico, non scendo nei dettagli ma insomma, è una di quelle attività per cui due mani sono pleonastiche, o meglio ridondanti: una è più che sufficiente, e come si aggiunge per le cose semplici, può essere fatta anche a occhi chiusi. Infine piantare la bandierina della mia virilità sul cucuzzolo innevato, farla sventolare ancora, once again, once again, once again...

Morale, ho guardato su Netflix quattro film con John Wayne, nel finale dell'ultimo sta per entrare in casa, ma, proprio prima di varcare la soglia, si volta e dilegua nella prateria con quel suo passo stanco strascicando gli stivali.

venerdì 9 aprile 2021

Verdetto

 


Mi ha suscitato un sorriso ma anche molta tristezza, lo spot pubblicitario con la bambina che insegna ai coetanei le buone maniere: "Prima dovete chiedere per piacere, e poi, ricordatevi, sempre dire grazie!" Un sorriso perché le buone maniere sono una cosa importante, e il fatto che della bontà rappresentino in fondo solo l'involucro, la maniera appunto, non ne sminuisce il valore: anche la sposa non coincide col suo abito bianco, e però dopo averlo indossato quanto diventa più bella!

Ma è subentrata in seguito la tristezza, perché, ho pensato, una comunità umana che ha bisogno di promuovere le buone maniere pubblicamente, denuncia l'implosione di quel sistema testimoniale che si chiama famiglia, dove le buone maniere venivano apprese in uno scambio privato di parole e soprattutto esempi, per continuità generazionale. Mentre questi bambini che in tivù si insegnano le buone maniere uno all'altro, ci restituiscono tra le righe un verdetto senza appello: voi genitori moderni, progressisti, che giocate a calcetto e fate corsi di pilates e saltate ai concerti insieme a noi, a culetti sodi magari ve la cavate ancora, ma come genitori non valete un cazzo.

mercoledì 7 aprile 2021

Polvere, un collaudo sentimentale

 


Uno scrittore è una persona non più intelligente di altre, anzi è di solito un po’ stupida, almeno secondo lo scrittore Raul Montanari che, tra il serio e il faceto, così si esprimeva a riguardo dei suoi colleghi. Non che non siano bravi in ciò che fanno, ma, per scrivere, anche bene, l’intelligenza si rivela spesso una zavorra. Fanno eccezione, riporto sempre, Aldo Busi e pochissimi altri.

Per quel che ho compreso vivendo prima ancora che leggendo e scrivendo, mi sembra Montanari abbia ragione. Però uno scrittore, se non sempre cervello, possiede un corpo, con cui può fare esperienza delle cose, quindi scriverne. Credo non sia molto diverso dai collaudi a cui vengono sottoposte le automobili appena uscite dalla catena di montaggio.

Avendo più consuetudine con la scrittura che non con gli automezzi, ho così pensato di fare un collaudo verbale. Mi sono accorto che Facebook ha implementato una nuova funzione: Dating si chiama, e come si ricava dal nome serve a stabilire contatti tra quelle che un tempo si sarebbero dette anime sole, nella speranza che possano evolvere in amicizia, relazione, anche solo un caffè o una sveltina, sono in fondo cavoli loro o, meglio, nostri, già che ho deciso d'iscrivermi.

Ma poi perché continuare a nasconderci dietro a un dito, dopo più di un anno di segregazione cominciamo a essere un po’ tutti a corto di ossigeno, anche quando il saturimetro ci promuove a pieni voti. La desueta immagine di anima sola mi calza dunque a pennello: un’anima sola a cui, sotto sotto, non dispiacerebbe incontrare un’altra anima sola, con cui fare le normalissime cose che si fanno in queste circostanze. Insomma, mi sono iscritto.

La prima cosa che ti viene richiesta è inserire una fotografia, io ne ho scelta una realizzata a una festa senegalese alla moschea di Pontevico: unico viso pallido seduto in terra, come si conviene nella convivialità africana, contornato da centinaia di neri; così mi levo subito dai coglioni donne in orbace o camicia verde ho pensato, oppure aspiranti mogli di notai, manager, commercialisti, includendomi strategicamente dentro una categoria a target limitato, ma non certo di lusso. Un oggettino eccentrico di arte povera, ecco.

Bisogna quindi rispondere ad alcune domande, nessun test in cui sia richiesto acume – possono dunque cimentarsi anche gli scrittori –, roba da casting per un posto da tronista su Canale 5; tipo tre aggettivi per descriverti (curioso, inventivo, generoso, anche qui ho fatto un po’ il furbo), oppure qual è il tuo orario preferito nella giornata (le 16.20, quando, alla metà degli anni settanta, iniziava Zorro in tivù).

Compilato in una manciata di minuti il tutto, ci si affida alla propria buona stella, cominciando a scorrere i profili degli utenti di sesso opposto. Ed è qui che inizia la vertigine: si viene immediatamente convertiti in un dio greco rapace e capriccioso, che in pochissimi secondi, a volte addirittura meno di uno, con una semplice occhiata stabilisce vita morte e miracoli dell’essere umano che gli si presenta speranzoso, da inserire in una casella preformata – foto sulla battigia con posa da odalisca e labbra stette nel fare boccuccia, libro preferito The Secret, dichiarazione facoltativa di intenti: “Ciaoooo, sono una ragazza semplice e solare, amo la Nutella, Totti e i balli latino americani”, ok ti ho inquadrato mascherina, pollice verso. Avanti un'altra.

Ma la vera e profonda vertigine non è ancora questa, quanto essere sottoposti allo stesso trattamento. Se in così poco tempo io avevo potuto visualizzare centinaia di profili, e ad alcuni, senza un vero criterio se non proprio a casaccio, avevo posto come richiesto il mio segno di gradimento, lo stesso deve essere accaduto anche a me: moltitudini di donne a cui scorre davanti la mia immagine, quindi mi scrutano, giudicano, ma chi cavolo è questo adagiato in terra come un vitello, trovandomi infine indegno (se non proprio ripugnante) per sorseggiare assieme un semplice caffè. Bocciato!

Un totale screditamento dell’io – io qui, io là… – che contiene qualcosa di mistico, spirituale. Al fondo dell’abisso di Dating, a ben guardare, si dischiude infatti la consapevolezza di essere più che un vitello un criceto, un criceto tra criceti che si affanna a correre nella ruota senza arrivare da nessuna parte, figurarsi a un rapporto reale e vissuto. Un niente di niente. E ciò perché, per chi ti osserva con neutrale e consumistico distacco, non possiedi un valore di scambio adeguato, e l’unico capitale è l'immensità protesa del tuo desiderio.

In pratica, Dating, senza richiederti alcuno sforzo o compenso, ti insegna quanto viene acquisito in decenni di lambiccata pratica zen, ma che anche il cristianesimo ha saputo riassumere con mirabile formula: polvere sei, e polvere tornerai. Che è poi la condizione preliminare per diventare ciò che si è: sbarazzarsi dai cascami dell'identità sociale, la coda del pavone, la criniera del leone, riconoscendoli quale riflesso di un pettegolezzo appreso e restituito, un si dice. Polvere, sì.

Ma in attesa dell’aspirapolvere, se qualche donna di buona volontà volesse prendere quel benedetto e sempre rimandato caffè insieme, basta che mi cancelli dagli amici (Dating è attivo solo tra persone che non siano già in contatto) e poi mi cerchi nel catalogo: io sono quello bianco tra i neri, quello, un po' impolverato, che una volta era il più bello della classe, e ora non ha ancora ricevuto alcun mi piace, è questa la formula a indicare i candidati al soglio del proprio cuore. Solo la distratta compiacenza di sguardi ormai ipotecati da un fantasma, il ritorno a cavallo del vecchio principe azzurro.

Nel caso però fate in fretta, non sono certo di reggere in vetrina fino a domani: anche i criceti, prima o poi, devono scendere dalla ruota, e prendere una boccata d’aria fresca.

lunedì 5 aprile 2021

Metamorfosi

Oggi mi ha contattato un lontano conoscente, non ci sentivamo da più di cinque anni, forse dieci. Chissà perché, scriveva di cose un po' da ebrei, va bene che lui è ebreo e così io pure rispondevo con cose un po' da ebrei, ho questa tendenza a compiacere l'interlocutore, a continuare a guidare anche quando mi perdo in auto, sono curioso di vedere dove portano le strade. Non che ne sappia molto, intendiamoci, di cose da ebrei, però guardo le serie in tivù e fino a Shtisel lì ci arrivo, ed è partita una lunga conversazione in chat. Poi il mio lontano conoscente è passato a cose un po' da giganti, e anche questo è normale ho pensato io, lui è alto più di due metri, ma in seguito, ed è già più strano, a cose un po' da nani, diceva gli avrebbe fatto comodo un nano metti caso come me, serviva per realizzare dei brevi video sui comandamenti. Dei video muti ha aggiunto dopo una pausa in cui potevo avvertire il digitare del testo dall'altra parte, un ebreo gigante e uno nano diceva ancora lui, e io lo immaginavo tutto infervorato, un gigante ebreo infervorato con i payot che gli cascano sulle guance, il nano fa da mentore muto al gigante, solamente segni come nelle vecchie comiche, che ne dici ha concluso, l'ho capito perché non stava più scrivendo, dovevo rispondergli. A quel punto mi sono grattato la testa, e in effetti, riflettevo, rispetto ai suoi 210 centimetri i miei 184 sono poca roba, però forse non si dovrebbe parlare di nanismo, non in senso letterale almeno. E poi con l'ebraismo non c'entro nulla, se indosso un preservativo devo prima scoprirmi il prepuzio, e così ho detto: Ma sei sicuro, sicuro sicuro che sono proprio io, il Guido, il nano, l'ebreo, con cui vuoi girare dei video muti sui comandamenti, solamente segni come nelle vecchie comiche...? Certo ha detto lui, il gigante, Guido, in spiaggia, ad Alassio, non ti ricordi, quando camminavamo assieme sulla battigia tutti si giravano per fotografarci? Mai stato ad Alassio. Però è stato lo stesso bello, per qualche manciata di WhatsApp nel giorno della Pasquetta dei gentili, vedermi trasformato in un ebreo minuscolo, il cappellaccio nero e la redingote dello stesso colore, la barba lunga, a discettare con un altro ebreo tanto più grande sulle tavole che Mosè ha ricevuto da Dio in persona su una montagna che, insomma, è più simile alla collinetta di San Siro. Il tutto senza neppure bisogno di aprire bocca.

Un marziano a Sondrio

 


Se invece che a Roma atterrasse a Sondrio il marziano di Flaiano e chiedesse a me cosa è cambiato nel frattempo (il racconto è stato scritto nel 1954, quindi adattato per il teatro dallo stesso Flaiano nel '60, restituendo a Gassman, regista e interprete con i capelli ossigenati, la prima razione di fischi e pernacchie, infine per il cinema nel 1983), credo gli risponderei: Caro Kunt, questo il suo nome, quando sei tornato su Marte con le pive nel sacco, io sognavo di fare l'amore con Nastassja Kinski, o, in alternativa, con Sophie Marceau, dopo esserci a lungo sbaciucchiati sui divanetti in similpelle di una discoteca che si chiamava Mulino della frega, ma i più maliziosi sboccati chiamavano Mulino della fregna. Il tutto sulle note di Reality, di Richard Sanderson. Ora sogno invece di essere vaccinato con Pfizer, o, in alternativa, con Moderna, dopo aver fatto una coda di mesi in attesa del mio turno, mentre i più maliziosi sgamati ripetono che è solo un'invenzione di Bill Gates. Il tutto sulle note di Pem Pem, di Elettra Lamborghini.