giovedì 3 dicembre 2020

Lettera aperta a scrittori e intellettuali e giornalisti di sinistra. Anzi, no, di destra

 


Nei giorni scorsi ho scritto un intervento in cui provavo a mostrare, dietro le posizioni di alcuni virologi ormai in palese conflitto tra di loro, altrettante ipoteche politiche, che io trovo legittime in quanto espressione di un sentire diverso, a sua volta premessa di scelte diverse in materia di profilassi sanitaria. Destra e sinistra, semplificando. Bassetti e Galli, per non rimanere sul generico.

La nuova destra liberista ha maggiormente a cuore le libertà dell'individuo (tra cui quella di ammalarsi), mentre prevale, anzi e come vedremo in seguito dovrebbe prevalere a sinistra la tutela della collettività, di cui fanno parte anche le persone più esposte a un decorso fatale della malattia, e cioè i fragili e gli anziani  oggi 983 morti, per la cronaca.

Riconosciuta la legittimità culturale di entrambe le posizioni (che si equivalgono sul piano filosofico, non certo su quello etico), ma anche la profonda differenza interpretativa e perfino affettiva che le sostiene, viene il sospetto che il continuo richiamo all'immediata ripresa della didattica in presenza da parte di molti intellettuali e scrittori e giornalisti di sinistra, sia in realtà frutto di una mentalità di destra. Ma non destra per modo di dire: destra destra.

Fate tornare a scuola mio figlio è infatti il refrain ripetuto un po' ovunque, non traumatizzate mio nipote e i suoi giovani amici, costretti a un'overdose di PlayStation e a quella roba astrusa che è la didattica a distanza, DAD, sarà mica l’equivalente inglese di papà...? Cazzo mi frega – sotto testo – se poi qualche anziano ci lascia le penne, anzi già che ci siamo apriamo pure cinema e teatri, senza dimenticare le sale da concerto: perché essere di sinistra fa tutt'uno con la cultura; un tempo la si scriveva con la kappa, come Kossiga.

Libertà dunque, proprio come a destra, di godere dei piaceri della propria parte, nella totale indifferenza a un tutto umano che viene percepito come astratto – certo, i piaceri saranno magari diversi: a destra la settimana bianca a Cortina, l'happy hour, il trenino in discoteca sulle note di Disco Samba, mentre a sinistra è un quartetto di jazz scandinavo o una lezione su Svetonio. E anche quando si parla di diritto, nella pseudo sinistra che rivendica con gli occhialini da lettura in pugno l'istruzione in presenza, è diritto dell'in-dividuo, l'habeas corpus del professore: qui, ora, davanti a me, poco importa se magari ha sessantacinque anni e si caga sotto per il rischio che corre.

Lo ricordava ieri sera Luciano Gattinoni, professore emerito all'Univetsità di Göttingen, ospite nella trasmissione di Bianca Berlinguer. L’apertura delle scuole non va intesa come un punctum, e piuttosto un processo che include momenti diversi ma collegati, che vanno dall'uscita di casa la mattina al rientro con i mezzi pubblici, senza scordare la disposizione all'intimità fisica che manifestano taluni popoli rispetto ad altri; e al netto della pandemia, preferisco di gran lunga la prossemica italica a quella, mettiamo, giapponese.

Ha così poco senso parlare di focolai scolastici la cui incidenza sarebbe particolarmente bassa, la ministra Azzolina ha fatto di tale non evidenza un mantra, quando la processualità aggregata a cui è più corretto riferirsi (chiamiamolo sistema-scuole-aperte) rappresenta il secondo fattore quantitativo nella diffusione del contagio, dopo grandi eventi collettivi come maxi concerti e partite di calcio. E questi sono al contrario dati certi, offerti dal Comitato Tecnico Scientifico.

Eppure, c'è chi continua a volerli ignorare, richiamandosi al diritto costituzionale all'istruzione; nel quale non viene però specificata la modalità, la forma concreta con cui deve avvenire il trasferimento dei saperi, e ancora più importante la formazione del futuro cittadino. Viene così un sospetto ulteriore: che quel diritto sia un diritto a godere della propria immagine riflessa in chi lo reclama, da rintracciare nello specchio dell'abitudine, della pigrizia intellettuale, se non diritto a un godimento tout court; ed è la "jouissance" di cui parlava Lacan, il quale aveva smascherato la falsa coscienza che si celava dietro ai movimenti del maggio francese.

Forse è allora arrivato il momento, caro scrittore e intellettuale e giornalista di sinistra, che qualcuno te lo dica, come Pasolini lo disse agli studenti di Valle Giulia. Sì, anche tu non mi piaci, allo stesso modo per cui al grande poeta e regista non piacevano i figli di papà con i capelli lunghi e l'espressione "paurosa, incerta, disperata (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici." Ad esempio, quando la mano che aveva appena scagliato il sampietrino veniva nascosta dentro i tasconi dell'Eskimo.

Una vecchia storia superata, mi risponderai: scrittore, giornalista, intellettuale di sinistra. Eppure gli zombie hanno questa tendenza a ritornare. Perfino la moda, secondo i suoi infiniti riflussi, sembra accordarsi a quel tempo di giubbini stretti stretti e bocche spalancate, con l'unica differenza che il pronome noi sta progressivamente riducendo di circonferenza. Ora quasi coincide con quella dell'io, a cui fare seguire il verbo voglio.

Ma Pasolini era una forza che viene dal passato, la sua immaginazione poetica includeva millenni, intere ere geologiche, e già aveva intuito ("io so, ma non ho le prove") la sovrapposizione maliziosa tra individuo e mondo, l'egoismo celato dietro l'ostensione della virtù. Per questo, adesso come allora, starebbe probabilmente con i poliziotti, con gli infermieri, con gli anziani rimossi dal tuo sguardo avido di cultura; una volta venivano chiamati ospizi ma adesso hanno messo Netflix e la carta igienica all'aroma di mughetto, divenendo RSA. No, non gli piacevate e non gli sareste piaciuti neppure ora, "buona razza non mente" e non cambia.

Solo che Pasolini si rivolgeva a studenti di sinistra, mentre tu e tuo figlio – quanto non mi piace pure lui, scusa se te lo dico – che con slancio epigonale reclama i suoi diritti come i genitori, le sue libertà, mai quelle di chi crepa o anche solo tira a campare, sì voi siete diventati culturalmente antropologicamente e perfino fisiognomicamente di destra.

mercoledì 2 dicembre 2020

Lino Ventura

 


Nei giorni scorsi, approfittando del Black Friday, ho acquistato un profumo. L’ho preso così, al buio (blind buying lo chiamano gli anglosassoni), solo perché scrivevano nella descrizione che è ispirato a Lino Ventura. Il corriere me l’ha consegnato oggi. Ho aperto il pacco con prudenza. Sul dorso della mano, più facile da annusare, ne ho spruzzata una nuvoletta. È vero, è comparso Lino Ventura. Il suo odore. Quello di Gitanes senza filtro accese da uno zolfanello, inseguimenti su una Citroen DS con i fari gialli nella nebbia, il bancone di un bar di quart’ordine su cui gli amanti clandestini stanno piegati senza parlare; più in là qualcuno rovescia, per troppa foga nel gesticolare, il suo bicchiere di pastis: "Attention, tu as mouillé ma veste!" E poi cinema di provincia con le sedie in legno e il telone rammendato, lo schiocco delle bocce di metallo – ricorda il caricatore infilato nella pistola , sul porfido di un vicolo di Marsiglia, l'insegna luminosa del motel ha l'ultima lettera infranta dal tiro di una fionda (al suo interno, una donna non più giovane si sta rimettendo i collant), con una coppia di fanti l'uomo dal dente d’oro rilancia al tavolo di poker (un altro si raddrizza il berretto e riflette sul da farsi…), cani neri annusano il vento nel piazzale deserto di un distributore di GPL, incontri di pugilato truccati male, pioggia, Francia, impermeabili color crema… Ah come è bello, ogni tanto, abboccare all’amo di un immaginario fin troppo logoro e sfruttato, e intonarsi al canto consumista di sirene con i bigodini in testa.


martedì 1 dicembre 2020

Fuori dalla grazia

 


Ieri ho guardato per intero una puntata del Grande Fratello Vip, non solo qualche spezzone come a volte mi capita, così per suscitare quei brividini di orrore che alimentano l'autostima. Io non sarò mai come loro pensavo infatti seguendo la travagliata liaison tra Elisabetta Gregoracci e Pierpaolo Petrelli, Enock e la sua liberatoria eliminazione dalla casa ("finalmente stasera potrò cagare") o la disperata ricerca di una banana da parte di Malgioglio. Una banana matura, ci tiene a specificare.

No, io non sarò mai come quei criceti da esposizione, io non correrò dentro la ruota acefala del glamour  un glamour di risulta dove si inscena la parte senza imparare alcuna arte –, io di qui, io di là… Ma siamo proprio sicuri? Forse, basterebbe cambiare il tempo del verbo. Io non sarò perché già sono, secondo la dinamica immaginaria della disidentificazione post tutto, che in realtà mi identifica per opposizione: "codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".

Proseguendo nel mio cocciuto masochismo televisivo, i versi di Montale lasciavano spazio a quelli di una canzone di Vinicio Capossela: "ovunque proteggi la grazia del mio cuore" viene ripetuto nel refrain come una nenia infantile e un po’ ubriaca, "la grazia del mio cuore, la grazia del mio cuore..." Quella grazia che mi sembrava perdersi nei concorrenti ogni volta che aprivano la bocca – e cioè ventiquattro ore al giorno, anche nel sonno –, facendo tutt'uno tra pensierini da quinta elementare ed emozioni primarie, da buttare in faccia allo spettatore per ribadire che anche i ricchi piangono, come titolava una telenovela di qualche lustro fa.

Alla fine, mi è rimasta la sensazione che questa sia una trasmissione davvero geniale, nella quale viene restituita un'allegoria pop dell'epoca che stiamo vivendo. Un tempo in cui la continua espressione di ogni stato d’animo transitorio, brucia, al suo nascere, la possibilità di trasformarlo in pensiero compiuto, non concedendogli lo spazio interiore per una lenta maturazione; come se bevessimo il mosto nell’impazienza di attendere il vino, di attendere qualsiasi cosa.

La grazia coinciderà forse con il tempo invernale dell’attesa, che si nutre di un movimento di segno opposto: dal fuori al dentro, secondo l'intuizione di un altro poeta, John Keats. Scrivendo al fratello George nel 1819, così sugellava la sua lettera: "chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora avrete compreso l'uso del mondo."

Ma quando al mondo viene sostituita l'espressione del proprio mappamondo, che succede? L'anima, invece di farsi, probabilmente si disfà. E la grazia che ne è l'immagine senza forma, la musica senza suono, la poesia senza parole rimane indifesa, perduta. Non hai protetto ovunque la grazia del tuo cuore! Lo comprendiamo continuando nella lettura di John Keats: “dico fare anima intendendo per anima qualcosa di diverso dall’intelligenza. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente se stessa.”

Ed è quanto avviene non solo ai concorrenti del Grande Fratello Vip, ma a tutti noi che invece di confessarci nell'intimo di una chiesa o anche solo a un buon amico, di fronte a due birre medie, lo facciamo in pubblico sul sagrato di un social network. Senza grazia. Senza anima. Senza identità da donare a quella scintilla che si spegne. E però un mucchio di like da spendere come gettoni sull’autoscontro.

lunedì 30 novembre 2020

Mythos


Alice ed Ellen Kessler, le gemelle tedesche che sdoganarono le gambe nei varietà televisivi degli anni sessanta, aprendo la strada all'ombelico della Carrà nel decennio successivo, hanno dichiarato di avere già disposto perché le loro ceneri vengano rimescolate con quelle della madre. In un’altra intervista, una delle due aveva adombrato il suicidio se fosse sopravvissuta alla sorella; insieme siamo nate, e insieme ce ne andremo. Proprio come i Dioscuri. Particolari che mi tornano alla mente sulla scia delle manifestazioni per la morte di Maradona: un mito, si è detto giustamente. Un santino laico a cui si intona la trenodia neo pagana di un’intera commossa città.

Le gemelle Kessler e Maradona sono qui a testimoniare della sopravvivenza del mito in epoca moderna. Ma sarebbe forse più giusto dire del suo volto solare, apollineo: la perfetta parabola delle punizioni dell'argentino a sorvolare la barriera prima di insaccarsi nell'angolino in alto tra i pali, sono l'equivalente sportivo del compasso formato dalle gambe delle Kessler, con cui misuravano il mondo per conferirgli senso e misura, come viene detto dal personaggio di un film di Truffaut. Ma esiste anche un volto oscuro del mito, in Star Wars è rappresentato da Darth Vader; sotto la corazza si muoveva il corpo dell’attore e culturista David Prowse, morto proprio ieri. E sono già due miti che scompaiono a distanza di pochi giorni.

Nelle sere di clausura che caratterizzano questo tempo sospeso – una terra di mezzo tra la vita e il suo doppio – sto seguendo The Boys, serie televisiva prodotta e distribuita da Amazon. Vi sono rappresentate le vicende di un gruppo di supereroi: laidi, corrotti, vanitosi e perversi. Gli dei sono diventati malattie, verrebbe da dire di fronte alle bellissime storie ideate da Eric Kripke – peccato l’abbia già detto Jung, a proposito della psicopatologia. Il compito della psicanalisi, almeno e appunto nella sua declinazione junghiana, sarà allora sviscerare il nucleo mitologico che cova sotto i comportamenti quotidiani, per poterli integrare dentro una personalità compiuta.

Si può ricavare che quando un mito si impone sugli altri dentro una singola esistenza, sono spesso pasticci. Il mito di cui è rimasto vittima Maradona è quello del Puer Aeternus: un fanciullo non di rado dotato di qualità semidivine (e ciò che Maradona sapeva fare con una palla al piede davvero esorbita la sfera dell’umano), ma che pressato dal proprio talento non riesce a diventare adulto, si dibatte negli slanci desideranti dell'infanzia, divenuti capriccio quando un dono particolare viene confuso con l’universale, fino a che non ne viene schiacciato. Caravaggio, Mozart, Jimi Hendrix, James Dean… Sì, tutti fanciulli eterni.

La struttura operante del mito che ha ghermito Maradona per stritolarlo in un estenuato declino psicofisico, come Laocoonte tra le spire del serpente (la cocaina è solamente il correlativo materiale), può però anche essere manipolata con intenzione; in questo caso abbiamo ciò che Furio Jesi, grande studioso italiano di mitologia prematuramente scomparso, ha chiamato macchina mitologica. L’esempio a noi più vicino è probabilmente il leader della Lega Matteo Salvini.

Nel suo obiettivo di imporsi politicamente, Salvini si è circondato di abili consulenti che sondano gli umori più viscerali dell’elettorato, cercando di corrispondervi con risposte semplificate e altamente simboliche, ossia e di nuovo mitiche: baciare pubblicamente il rosario, citofonare a presunti spacciatori, sfidare le precauzioni sanitarie attraverso un corpo glorioso, a cui come tutte le divinità non può accadere nulla. Se i suoi spin doctor non c’hanno ancora pensato, suggerisco un ruolo per Salvini nella terza e auspicata stagione di The Boys, basta cucirgli addosso una mantellina verde.

Maradona e le Kessler si avviano invece a essere imbalsamati nella teca dei rimpianti, quella leggendaria epoca dell’oro, e degli eroi, in cui il mito era ancora un fenomeno sorgivo, non mediato da sempre più cinici strateghi. Se una morale possiamo trarre dalle vicende di questi giorni, è che senza miti finiremmo col corrispondere a procedure tecniche impersonali, esatte, in ultima analisi senza vita. Ma anche i miti, e i simboli che ne rappresentano la forma esteriore, l’involucro dorato e a fiocchi e a sbuffi dell’uovo di Pasqua, possono nascondere una sorpresa sgradita. Meglio dunque vagliarli con il pensiero, prima di aderirvi con il cuore.

domenica 29 novembre 2020

Chinotto

 


Da qualche tempo, il chinotto è diventato un argomento politico dirimente. Intervistati in un salotto televisivo, uno a caso, tanto si assomigliano tutti come i Puffi (c’è Puffazio, Puffettagruber, Puffloris etc.) i politici di sinistra non è raro che si lascino andare alla seguente confidenza: "Guardi... " pausa gongolante e ammiccamento all'intervistatore, "alla Coca-Cola io preferisco il chinotto."

Immagino si riferiscano al Chinotto San Pellegrino, anche se la marca non è specificata – come se poi qualcuno si precipitasse al supermarket ad acquistare quella marca lì, dicendo alla commessa mi dia il chinotto di Renzi –, e nemmeno in quale punto dell'arco parlamentare si collochi il Tamarindo Erba e la Cedrata Tassoni.

In ogni caso, inizio a sospettare che sia questo il motivo per cui, da altrettanto tempo, ho smesso di votare per i partiti di sinistra; ossia di votare tout court, già che quelli di destra non li prendo proprio in considerazione. Tra una destra alla Coca-Cola, un populismo allo spritz e una sinistra al chinotto, anche no. Grazie.

sabato 28 novembre 2020

Right & Left

 



Matteo Basetti finalmente cala la maschera. Intervistato da Emergenziana Panella, detta Tiziana, a L’aria che tira, dichiara pubblicamente di non essere di sinistra. E dal momento che la domanda era se fosse di destra o di sinistra, la figura retorica della litote ci restituisce il segreto di Pulcinella: Bassetti è di destra.

Che Massimo Galli fosse di sinistra, anzi di estrema sinistra, come i più sottolineano con tono spregiativo (quando a me il termine sinistra appare inseparabile dall’aggettivo estrema, contenendo una visione palingenetica del mondo), era invece noto a tutti. Per sua stessa e orgogliosa ammissione.

Non possiedo le competenze per giudicare le posizioni cliniche dei due, ma la variabile politica non mi sembra affatto eccentrica, e forse è a partire da lì che si può fare un po’ di chiarezza su quella che sta diventando la guerra dei virologi, con rispettive tifoserie.

La propensione destrorsa di Bassetti, ad esempio, ci aiuta a comprendere quale sia la sensibilità che indirizza le scelte della nuova destra (non la destra storica, attenzione!), tutta volta a celebrare l’individuo nel suo libero pensiero, espressione e prassi; un individuo sempre più svincolato dai legami comunitari, secondo quella formula semplificatoria chiamata liberismo.

Se è questo il sentire del tutto legittimo di Bassetti, non stupiscono le sue reiterate esternazioni attenuative verso la pandemia, già che una rigida profilassi finirebbe col ridurre le libertà personali, tra cui quella di ammalarsi; poco importa che sia lo Stato (ossia di nuovo la comunità) a sostenerne poi le cure.

Gli fa eco il rigorismo di Massimo Galli, che incorporando, altrettanto legittimamente, lo stato d'animo prima ancora del pensiero di sinistra, è piuttosto incline a salvaguardare le persone come insieme; tra cui quella componente minoritaria, ma inseparabile dal tutto, che sono i fragili e gli anziani, più esposti a una prognosi negativa del contagio.

Chi ha ragione, dunque?

La mia preferenza si sarà forse intuita, ma credo che l’importante sia avere chiara la domanda, già che la medicina come scienza esatta è una narrazione tardo moderna, tra le più superficiali e sciocche. In altre parole e per dirla con Fosco Maraini, una fanfola.

La medicina è al contrario un racconto del mondo che contiene lo sguardo di chi lo racconta, e da potenziali pazienti abbiamo il diritto di conoscere quello sguardo: sempre politicamente ipotecato, mai neutro e definitivo. Come ogni storia è insomma un’opera aperta, il cui finale andrebbe consegnato al lettore. In questo caso tutti noi.


venerdì 27 novembre 2020

Una valle con sei dita

 


Sono nato e ancora mi trovo in una valle tra catene orizzontali di montagne, non verticali come avviene in genere, ossia nella direzione del meridiano di Greenwich, e già questa cosa la rende anomala, simile una persona con sei dita per ciascuna mano.

Per il resto, le uniche singolarità sono rappresentate dalle donne, pare molto belle, di un paesino nella sua parte alta, frutto di un dono del Doge di Venezia: dopo le ondate di peste del 1630 e '35, duecento schiave armene furono offerte in moglie ad altrettanti artigiani del piccolo villaggio, che si erano distinti presso la Serenissima per finezza nel lavoro. Questi forse ricambiarono con qualche sacco di grano saraceno, con cui tutt’ora vengono prodotte delle particolari tagliatelle da condire con verze, coste, patate, formaggio, aglio, pepe e burro fritto – molto burro, le tagliatelle devono quasi galleggiarvi –, per la felicità di ingordi e cardiochirurghi. E questa era l’altra singolarità della valle con sei dita in cui sono nato e ancora mi trovo, altre non me ne vengono in mente.

Non un pittore eccelso, un poeta maledetto, un rapinatore famoso negli anni settanta e tantomeno un bomber che ha finito la carriera nel Frosinone, sempre più svogliato e bolso. Va be’, qualche politico democristiano e addirittura un ministro dell'Economia con l'erre moscia; che però non valgono un concorrente al Grande Fratello o un quarto posto al Festival di Sanremo, per cui il giorno successivo commentare in una piazza quasi svizzera: “L’è un di nos!”

Nell’intento di supplire a questa totale assenza di notorietà, anni fa si vociferava che la fidanzata di Elio, il cantante di Elio e le Storie Tese, fosse nata proprio qui, particolare che sembrava riscattarci da lunghi secoli di oblio; e in effetti confermo, prima stava assieme a un mio amico che si è immerso vestito nel lago di Como, dopo aver posato il portafogli semivuto e lo Swatch su una panchina. I sommazzatori hanno cercato il corpo per giorni, senza risultato (dimenticavo, nella valle in cui sono nato e ancora mi trovo c'è una strana propensione al suicidio, forse l'unico modo, o quello che abbiamo trovato, di eliminare alla radice il dito di troppo che indica l'orizzonte, ma chi ne segue la direzione trova solo recinto di montagne).

Eppure non tutti si danno per vinti – dai, la fidanzata di Elio è poca roba, parliamoci chiaro –, ci sarà pure qualcosa che ci colleghi al brusio del mondo, e se non per primeggiare almeno ratifichi l'esistenza, rendendo visibile anche la nostra carrozza nell’esausto treno d’Occidente.

Ad esempio mio padre, ogni estate mi ricorda che la Cucinotta viene a trascorrere le vacanze da queste parti, lo legge su un giornale locale le cui locandine strombazzano la clamorosa notizia per i distratti come me, sopra un occhiello a informare della solita rissa tra ubriachi in un bar – sì, proprio quella Cucinotta, Maria Grazia, quella a cui Troisi legge le poesie scritte da Neruda ne Il postino!

Ma io gli rispondo che non vale: la Cucinotta è nata a Messina nel 1968, l’anno in cui Sergio Endrigo ha vinto il Festival di Sanremo con Canzone per te; ma anche lui è di Pola, ce ne andasse bene una...

Una totale nebbia di evidenza pubblica, che sembra però diradarsi questa mattina. Leggendo i dati della Protezione Civile mi accorgo infatti di vivere nella città con il maggior numero di contagi da Covid-19, la quale, a sua volta, appartiene alla provincia con il maggior numero di contagi, e di nuovo nella regione stato continente con il maggior numero di contagi, come un'infinita matrioska che ci veda al suo cuore pulsante.

Insomma, per una volta siamo i primi in qualcosa! Devo assolutamente telefonare a mio padre per avvertirlo.

giovedì 26 novembre 2020

Il tempo degli eroi



La morte di Maradona. Oggi non si parla d'altro, e chi non parla piange oppure conta: uno, due, tre... Io non riesco a superare questo numero. Oltre a Maradona, gli altri due, per me, sono stati Muhammad Ali e Pietro Mennea. Gli unici atleti che nel compiere un gesto sportivo – e lo facevano benissimo – riuscivano a trasportarmi oltre a quel gesto, in una regione del sentire che pareva includere anche me, il mondo, tutto quanto, forse persino Dio che di certo gioca a calcio meno bene.

Immagino che attendere per ore Fausto Coppi al ciglio rovente di una strada, oppure Tazio Nuvolari o, retrocedendo ancora, intraprendere trasferte di giorni solo per poter vedere Leonida di Rodi, il campione dei campioni, implicasse simili e inspiegabili composti emotivi, prima che motivazioni estetiche. Ma la natura di evento dello sport si offre nel solo tempo presente, e quelli non erano miei contemporanei, non ho potuto specchiarmi nelle loro imprese, esistere per interposta persona.

La morte improvvisa di Diego Armando Maradona – l'ultimo rimasto dei tre – è dunque come se mi gettasse in un nuovo tempo della storia; più che postmoderno lo chiamerei posteroico, dove i campioni sportivi (penso a Messi, o a Cristiano Ronaldo) sono perfetti esecutori tecnici di prodezze, ma del tutto privi di quell'epos ambiguo che li avebbre resi metà uomini, con le inevitabili cadute, anche di gusto, e metà dei. La miglior sintesi del sentimento verso l'eroe sportivo la ritrovo nella voce rauca di Paolo Conte: "io sto qui che aspetto Bartali / troppa strada nei mie sandali /quanta ne avrà fatta Bartali... / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da Italiano in gita."

Maradona, il sorriso un po' guascone da argentino in gita, negli occhi e al contrario ha sempre tradito un velo di tristezza, in questo (e solo in questo) simile alla musica della sua terra: "il tango, un pensiero triste che si balla". Come se da sempre presagisse la fine dell'epoca degli eroi, per me cominciata la mattina di oggi mentre facevo la barba. Nello specchio potevo vedere un corpo caucasico in mutande, un corpo soggetto alle leggi della biologia, un corpo che si fa ogni giorno più flaccido e stanco. E la sua ombra gloriosa, dov'è? Se n'era andata, puff, con l'ultimo degli eroi. Riposa in pace Diego.


mercoledì 25 novembre 2020

Speciazione

 


Parliamoci chiaro: che un funiviista, o come diavolo si chiama, abbia tutto l’interesse a che la sua attività non venga sospesa, mi sembra umano. Ma quanto scemi sono quei nostri connazionali che, nella peggiore pandemia degli ultimi cento anni, si infilerebbero, anzi meglio scalpitano per infilarsi in una gigantesca scatola di sardine per  essere issati – fianco a fianco, fiato a fiato – con altri simili scemi verso le nevi più candide e farinose?

Il problema, prima ancora che sanitario, politico, economico, a me appare antropologico. La nostra società sta manifestando una biforcazione che non è unicamente procedurale (come comportarsi a certe condizioni date), ma specchio di una trasformazione più radicale e profonda; nella biologia evoluzionista viene chiamata speciazione: una nuova specie prende avvio da una precedente, senza però subentrarvi. Le due specie procedono così parallelamente – e indipendentemente, anche se spesso da separati in casa – prima che una prenda il sopravvento e si imponga sull’altra.

Un termine rilanciato, tra il serio e il faceto, in forma estensiva da Igor Sibaldi, acuto giocoliere verbale in odore di New Age. Qui ha però colto davvero nel segno, e sarà difficile la futura convivenza sulla stessa terra, addirittura negli stessi luoghi di lavoro e assemblee condominiali, tra gruppi post-umani così drammaticamente diversi.

Per trovare una simile situazione bisogna arretrare di trentacinquemila anni, quando, per un breve periodo, l’Homo sapiens sapiens convisse con l’Homo neanderthalensis. In quel caso sappiamo tutti come andarono le cose, ma ora l’esisto della sovrapposizione evolutiva non è per nulla scontato. E non è da escludere che, tra una ventina di anni, ci si ritrovi ancora nel pieno di una pandemia; con l’unica differenza che al posto di Lilli Gruber, Crisanti, Bassetti e Galli, la colonna sonora sarà affidata a Umberto Smaila, in diretta a reti unificate dalla consolle del Bilionaire. 

Senza tante menate potremo così intonare Maracaibo, canticchiarlo allegramente ("Maracaibo, mare forza nove...") da dentro la cabina di una funivia che risale affollata, risale spensierata il costone innevato del Cervino, risale per poi ridiscendere come sempre sono stati i cicli della storia.


martedì 24 novembre 2020

Pedigree

 


Tra le pochissime cose che il web può insegnare, c'è la costituzione della malta con cui si aggregano (o disgregano) i mattoncini dell'umano. Chiamiamola pure antropologia, o sociologia.

La prima e più elementare acquisizione antropologica che si può ricavare da Facebook, è che non è affatto vero che le donne tendano naturalmente a costituire gruppi solidali tra di loro – la cosiddetta sorellanza femminile –, mentre ciò avviene a determinate e rare condizioni di quell'artificio immateriale che poi chiamiamo cultura.

Un esempio. Avete mai provato a lasciare un commento su un post scritto da una poetessa di sinistra, ossia qualsiasi poetessa già che non si dà, da oltre mezzo secolo, il caso di un poeta di destra, non dopo che Ezra Pound è stato esibito in una gabbietta come un canarino?

È quasi impossibile ottenere risposta, a meno che non siate anche voi un poeta e di sinistra e soprattutto una donna. Se essere marxisti fosse ancora considerato di sinistra – e non lo è –, io potrei beneficiare di quella password; comunque non sufficiente a dischiudere la porta blindata del pregiudizio.

In questi gruppi di discussione il vincolo di genere è davvero forte: tutto un darsi di gomito tra donne, amiche, sodali; ma appunto anche specchio politico e culturale, in cui si guarda agli altri per vedere sé stessi. E se alla dogana d'accesso non presentate le tre suddette stimmate, verrete espunti dalla discussione come una verruca dal calcagno, o nell’ipotesi meno cruenta ignorati.

Con rigidezza appena attenuata, la stessa dinamica esclusiva possiamo verificarla in tutti i contesti relazionali dove è presente uno status sociale (vero o presunto, e cioè percepito solo all'interno della comunità) e uno sfondo ideologico; con ciò intendendo il particolare budino in cui politica e cultura vengono mescolati, prima che la colla di pesce li solidifichi in un unicum compatto.

Intendiamoci: cultura, coscienza politica ed elaborazione della propria identità di genere rappresentano dei valori positivi, che però finiscono col frammentare l'umanità in micro caste sempre più ringhiose tra di loro. Et voilà, ecco serviti i social network.

Ammesso e non concesso che continuare a scrivere poesie dopo i diciott'anni sia un gesto civile, e non una cosa un po' da cretini come suggeriva Benedetto Croce, dobbiamo ricavare che le leggi di natura sono molto diverse da quelle umane. E il linguaggio, momento fondativo da cui si avvia il processo di civilizzazione, più ambiguo di quanto comunemente si creda, già che serve a unire gli uomini almeno quanto a dividerli.

Per quel che vale la mia opinione, tra un cane che ti usma il buco del culo prima di decidere se mordere o scodinzolare, e un poeta che ti fiuta il curriculum letterario e ideologico, io preferisco di gran lunga il primo. Meglio ancora se privo di pedigree.

domenica 22 novembre 2020

Il dicibile e la sua ombra


Ieri, mentre ero in coda dal fruttivendolo per acquistare i caco mela, o cachi mela, non so bene come si fa il plurale ma sono buonissimi, ho sentito un mio coetaneo (e però con molti più capelli, tutti neri), un cinquantenne dall’eleganza vetusta fare la seguente affermazione: “C’è solo una cosa più brutta di un uomo che fa jogging, ed è una donna che fa jogging.”

Oddio, che frase brutta e volgare ho pensato. Intollerante. Sessista. Un concentrato di scorrettezza politica; non basta ad assolverla la fobia virale che ci stringe le viscere e altre parti anatomiche. Malgrado il mio piumino sdrucito e la sciarpa scozzese che ci fa cazzotti, mi sono così sentito di parecchi gradini superiore a quell’uomo elegante – più coltivato e civile, diciamolo pure.

Tornando a casa con il mio sacchettino di caco mela, o cachi mela, insomma ci siamo capiti, ho continuato a pensare alla sua uscita, la sua infelice e brutta e stupida uscita di fiato dalla bocca, filtrato dalla mascherina. Ma più ci pensavo, più mi accorgevo che c’era una parte di me che sconciamente vi aderiva…

Non era un pensiero, intendiamoci, non un concetto o peggio un’asserzione, ma uno stato d’animo confuso. Vedevo scorrere davanti agli occhi delle donne non più giovani che arrancano con un rictus facciale, le scarpe tecniche attraversate da lingue di fuoco, dardi metallizzati; e poi i leggins sudaticci, la felpa simile al colore degli evidenziatori Stabilo Boss con cui in terza media si sottolineava la cifra 1492 (scoperta dell’America veniva scritto accanto a matita, si sa mai che la confondessimo con la cilindrata dell’auto di papà).

Soprattutto, percepivo l’assoluta intransitività – umana, civile, affettiva – di chi corre indifferente a tutto e tutti, con occhio solo per il cardiofrequenzimetro compulsato in continuazione, come lo scolaro che conta i minuti in attesa della campanella. Quando suonerà verrà svelato il monumento alla propria incorruttibile salute.

Eppure, queste sensazioni, so che non le posso dire, non le posso scrivere e in fondo neppure ammettere. Dunque dimenticatevi ciò che avete appena letto: non riconoscerò mai che siano le mie parole; e infatti sono ancora dentro che vagano in cerca d’autore, come i sei personaggi di Pirandello.

Nei giorni scorsi ho letto l’intervento di uno scrittore, Giordano Tedoldi. Quando entro in libreria, confidava sulla sua pagina Facebook, faccio sempre più fatica ad accostarmi alle nuove uscite, mi sembrano tutte simili tra loro: ben scritte, edificanti, rispettose di minoranze etniche e sociali, ma prive di quello scarto che non le rende necessariamente più belle – sono anzi spesso imperfette, quelle poche disallineate –, e però tanto più interessanti. I primi nomi a cui si pensa in questi casi sono Cèline e Houellebecq; ma ne esiste anche una versione italiana, Dante Virgili.

Il tema mi sembra così diventare: la dicibilità e la sua ombra . E ricordiamo nuovamente, ormai lo fanno un po’ tutti, volta più volta meno, la settima asserzione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.”

Tra ciò che va taciuto io includerei l’imperfezione del mondo; ma non un’imperfezione qualunque, e piuttosto quella che si realizza nel gesto goffo di fare il bene, o, essendo impossibilitati, nello sviare un po' vigliaccamente il male. Un’imperfezione virtuosa dunque, se è vero che neppure noi gradiremmo essere riconosciuti per le piccole incrinature di cui siamo portatori, specie quelle che non ci vedono responsabili. Diciamo pure e in modo un po’ roboante: la ferita ontologica.

A Wittgenstein fa però eco Samuel Beckett, quando, a conclusione de L’innominabile, scrive: “Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo.”

Mentre tolgo dal sacchetto i cachi, chiamiamoli per prudenza a questo modo, li afferro con delicatezza e li ripongo nella cesta della frutta, mi viene da sintetizzare così la minima avventura dal fruttivendolo: esistono i pensieri, la filosofia, esiste la buona educazione che fa capo al dicibile; poi esiste un regime della lingua più sfumato e ambiguo, che chiamerei provvisoriamente immaginazione. Immagino attraverso le parole, più che dire attraverso l’immagine. E lì che la letteratura continua dove si arresta il concetto.

I libri di Michela Murgia, Saviano, Alessandro D’Avenia, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente, magari sono pure scritti bene ma ci trovo dei pensieri in qualche modo già pensati, ci trovo il dicibile. Manca l’immaginazione, da sempre un po’ maleducata. Mentre i libri da cui ricavo una sfida – una sfida in forma di specchio, in cui non scopro se sono il più bello del reame ma parti di me occultate sotto la divisa d'ordinanza – sono quelli che, senza affermarlo, riescono a includere quei pensieri che non riesco ad ammettere nemmeno a me stesso, posso solo immaginarli. Ad esempio, che le donne che fanno jogging anche a me fanno un po’ schifo...

sabato 21 novembre 2020

Breviario di filosofia traumatica

 


Nei giorni scorsi ho scritto un paio d'interventi sul tema del trauma, a cui sarebbero sottoposti (è opinione comune sui social network) i giovani che non possono beneficiare della didattica in presenza, e più in generale patiscono gli effetti della pandemia. E sull’ultimo punto sarei sorpreso del contrario.

In entrambe le occasioni è intervenuta su Facebook una persona che manifestava disappunto: da principio circostanziato e cortese – dunque gradito –, ma poi via via sempre più generico con richiami offensivi alla mia persona ("ci prendi gusto, eh", "che cosa triste", "com'è brutto il tuo tono", “informiamoci prima di parlare”).

Ora io non voglio ravvivare il dibattito, che la persona in questione ha interrotto, ogni volta, senza offrire risposta alle mie domande. Cosa che non rappresenta un problema, intendiamoci. Secondo il filosofo Giorgio Agamben si tratta addirittura del nuovo galateo sociale, in cui risposta e domanda procedono separate; ciò da quando il corpo dell’interlocutore – il corpo fisico proprio, quello smarrito nella comunicazione intermediata dalla tecnologia – ha perduto la sua forza vincolante, quale specchio concreto da cui ricavare il senso del dovere. Una volta si riassumeva il tutto con l’espressione metterci la faccia. Da qui il termine ir-responsabilità che caratterizzerebbe il nostro tempo: non sentirsi in debito di una risposta dovuta all’altro, una risposta di qualsiasi tipo.

Ho richiamato il pensiero di Agamben perché mi sembra fare da cornice esplicativa del nostro non intenderci: sia col mio distratto interlocutore, sia, più in generale, sul web. Ma restiamo al caso specifico, da cui sarà forse più semplice allargare in seguito il quadro.

Quando ironizzavo sul trauma che viene attribuito ai giovani, lo facevo in una prospettiva arcaica della responsabilità, in cui il desiderio personale entra in un rapporto dialettico con il desiderio dell’altro. Non stavo insomma negando il disagio giovanile, per quanto la sua rivendicazione traumatica mi sembra provenire dagli adulti – politici, genitori, psicologi dall'aria imbronciata ma tanto telegenica – più che dagli stessi giovani, in una forma che a me appare ipotecata da una forte dose d'ideologia.

Anche perché: a cosa porterebbe la soddisfazione del desiderio giovanile di ritornare a una vita normale, se non a un ulteriore incremento dei contagi che ricadono (traumatizzandoli) su categorie diverse: medici, infermieri, forze dell'ordine, anziani. Ossia in un tono vagamente pomposo, la comunità umana nel suo insieme.

Il fatto che la persona più volte intervenuta sia uno scrittore, anzi un bravo scrittore – si chiama Enrico Macioci e consiglio la lettura del suo ultimo romanzo, Tommaso e l’algebra del destino – mi porta a una riflessione ulteriore: è ancora la parola scritta, la parola pubblica, il luogo in cui il linguaggio collauda il suo senso, oppure sta diventando una pratica in cui il desiderio coincide con il godimento (jouissance lo chiama Lacan, con ciò intendendo un impulso al piacere non limitato alla sfera sessuale), e l’urgenza alla soddisfazione individuale ha la meglio sul suo argine collettivo, costituito dalla parola quale ordine simbolico?

È un quesito meno intellettuale e astratto di quanto può apparire, a cui l’esempio che ho portato può offrire di nuovo chiarimento.

Se noi decidiamo di intendere il sostantivo trauma in una chiave del tutto generica ed estensiva, in cui ogni piccola privazione, contenimento, moderazione, diviene trauma, avremo una società ipertraumatica in cui ciascuno rivendica soccorso, e pochissimi sono pronti a offrirlo. Con questa giustificazione: cazzo vuoi, ho il mio trauma! Non vorrai mica traumatizzarmi ancora. Lasciami andare a giocare a calcetto con gli amici, se no poi dovrai pagarmi lo psicologo. Ognuno fa insomma i traumi suoi.

Viceversa, attribuendo al trauma un valore linguisticamente più circoscritto e meditato (nel mio testo facevo riferimento a Anne Frank, il cui trauma aveva natura diversa, diciamo pure più profonda, da chi è costretto a un’inflazione di Netflix e PlayStation), restituiamo alla lingua la capacità di discriminare il mondo, che è appunto quanto dovrebbe saper fare uno scrittore.

Una discriminazione che ha carattere performativo, se è vero quando sostiene un altro filosofo, John Searle, che le parole sono atti, con effetti corrispondenti. Nella circostanza, continuare a scrivere di riattivare IMMEDIATAMENTE la didattica in presenza potrebbe anche portare a quel risultato, trasferendo il trauma dei giovani alle già citate categorie più a rischio. E ricordo en passant che questa è la prima epidemia nella storia che risparmia proprio e solo le giovani generazioni.

Ma come uscire dal circolo vizioso dei diritti, quando, come in questo caso, hanno tutti ragione, tutti qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare, che drammaticamente si escludono? Nel linguaggio popolare potremmo tradurlo con i proverbi: è impossibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, o tirare la coperta in entrambe le direzioni.

Ci soccorre il terzo e ultimo dei filosofi che mi piace ricordare, a conferma del fatto che la filosofia proprio inutile non è. Emanuel Kant. Per l’appartato genio di Königsberg il bene corrisponde sempre al bene maggiore, secondo una gerarchia da graduare sull’asse inclinato delle relazioni umane. In un orizzonte comunitario ossia morale ossia politico, il bene maggiore coinciderà allora con la scelta del trauma minore – che attenzione: non significa contraddirlo, ma ridimensionarlo in una sorta di movimento a salire dello sguardo che nel cinema viene chiamato dolly; quando l’ironia è propriamente una strategia discorsiva finalizzata a ridimensionare la strategia opposta: l’iperbole enfatica, che usando lo stesso paragone filmico potremmo vedere come primo piano ristretto. Ancora una volta non è difficile, quando passiamo dalla teoria alla prassi.

Tra uno studente di prima liceo, traumatizzato perché non può tirare il cancellino al suo compagno ed è costretto alla didattica a distanza, e il trauma di un anziano positivo al Covid, o quello di un infermiere che deve lavorare dodici ore al giorno in condizioni estreme, verso chi proviamo più solidarietà, più empatia? Se la risposta è i secondi, si continui con la didattica a distanza e non si rompa più i coglioni. Grazie.

venerdì 20 novembre 2020

Tutti a casa di Mulo



Della mia adolescenza, anche se mi sforzo, riesco a ricordare solo l’odore dolciastro del Tenax (ma anche la sua sensazione appiccicosa, il colore verde ramarro), da riversare con abbondanza sui capelli dopo aver fatto interminabili docce; uno shampoo alla mela verde schiumava come la bocca di un vitello che rumina in penombra, prima di scivolare sul corpo abbronzato. E poi l’adesivo di Radio Studio 105 che avevo appeso sul frontalino del PX, oltre a una ragazza cicciottela con la cresta alla moicana; di lei mi è rimasta l'immagine oblunga del cranio, dolicocefala, da cui fuoriesce l’eco sempre più flebile di una voce. Ma allora era grido, decibel, era il richiamo del muezzin rivolto a un'assemblea di fantasmi, che mi includeva nel lenzuolo bianco con cui si ricoprono i morti, poco importa se di fame o di pistola, quando il tenente Colombo si ferma, esita, si gira, e poi e fa la domanda che fa balbettare l'assassino. Tutti a casa di Mulo, strillava intanto la ragazza con la cresta, tutti a casa di Mulo! E chissà poi se ci siamo andati veramente: a casa di Mulieri, da cui il diminutivo Mulo, chissà se ho infilato la chiave nel PX, calciato la pedana di avviamento, e, dopo aver passato la mano destra sul capo, ritornandola imbrattata di Tenax, quindi ingranato con la sinistra la prima, tok, polso che si torce e falangi piegate sulla leva della frizione da rilasciare all'improvviso, per raggiungere casa di Mulo con una piccola impennata... Sì, tutti a casa di Mulo!

giovedì 19 novembre 2020

Modesta proposta

 


Conosco tre professori e tutti e tre sono stati contagiati dal Covid-19, di cui due con sintomi. Naturalmente tre casi non fanno statistica e non intendo sussumere tendenze più generali. Mi ha però stupito la notizia dei professori che manifestano assieme agli studenti contro la didattica a distanza, mettendo in scena (o in pratica) una lezione di fronte ai cancelli chiusi di alcuni istituti scolastici; è avvenuto sia in Emilia sia in Toscana.

Una prova di grande altruismo, dal momento che non sono i giovani, almeno quelli sotto i vent’anni, le vittime designate del virus, ma persone adulte quali sono appunto i professori. Questi rischiano dunque sulla loro pelle, come si dice. Ma anche, è il caso di ricordarlo, su quella dei genitori dei giovani che torneranno a casa dopo le lezioni in presenza, o dei congiunti degli stessi professori e amici e cassiere e conoscenti e nonni. Insomma, sulla pelle di tutti noi.

Ricordo un po’ pedantemente che la scuola in presenza – e per scuola intendo l’insieme delle pratiche da quando si esce di casa a quando si rientra dopo le lezioni – è il secondo fattore quantitativo nell’incremento dei contagi, dopo grandi assembramenti come concerti e partite di calcio. Secondo il CTS, la didattica in presenza contribuisce infatti per un valore di 0,4 all'indice di contagio, l'ormai ampiamente citato RT0. Un numero che sembra piccolo piccolo, ma in realtà, nella circostanza, è altissimo!

Mi permetto così una proposta: lasciamo scegliere liberamente; scegliere ai professori ma anche ai ragazzi e alle loro famiglie. Chi tra di loro vorrà continuare le lezioni in presenza potrà farlo in istituti albergo dove risiedere stabilmente; sì, anche la notte: qualcosa di molto simile ai college americani, per intendersi.

Potrebbero essere utilizzati allo scopo le caserme dismesse, oppure gli alberghi attualmente deserti. Niente mezzi pubblici da prendere, ci si sveglia e si è già a scuola. Niente nonni e genitori e parenti da infettare. Una bolla perfetta e luminosissima di virtuosi che si riflette in sé stessa, come Narciso nello stagno.

Rimane l’altra metà della luna, quella nascosta dal cono d’ombra dell’eroismo, troppo umana per fare notizia; le infinite formichine che preferiscono difendersi dal formichiere, i normali, i cauti, i cacasotto del preferisco vivere. Per loro non cambierebbe nulla. Continuerebbero a seguire le pratiche suggerite dal buon senso, tra cui le ottime risorse formative offerte dalla didattica a distanza. Mi sembra un buon compromesso, no?

Banging on my drum



Il Partito Democratico a me ricorda un vecchio spot pubblicitario di una nota marca di pile elettriche. Ci sono degli orsetti, centinaia di orsetti che percuotono un tamburo di latta; ognuno e per la precisione ha il suo tamburo, piccole bacchette infilate tra le zampe, e battono, battono, come in una canzone di Lou Reed: I’m banging on my drum, / I’m banging on my drum. / Then banging on my drum, boy, /and I’m having lots of fun...

Dopo moltissime ore di sarabanda, giorni, forse settimane, qualcuno di questi orsetti si ferma, altri battono sempre più piano, solo una flebile eco ritorna della baldanza iniziale. Finché rimane un solo orsetto che, imperterrito, continua a battere il suo tamburo.

Quello è l'orsetto caricato con le pile Duracell. Quello è il PD.

A la guerre comme à la guerre

 


Se vogliamo insistere con la metafora della guerra, forse dovremo imparare a gestire anche l'attribuzione delle medaglie. Leggo ad esempio il titolo di un articolo de la Repubblica di oggi: "Il prezzo della pandemia lo pagheranno i ragazzini", a firma di Caterina Pasolini.

Lo so che i titoli dei giornali non li scrivono i giornalisti; con un nome tanto bello e un cognome che è pura forza dal passato, la Pasolini non avrebbe mai potuto scrivere una sciocchezza del genere. A parte l’orrendo suffisso in “ini” (ragazzini) come la molletta sulla coda di un gatto, questa è l’unica epidemia nella storia – dico: l’UNICA! – dove non si registrano decessi tra i minorenni, al massimo e in rari casi poche lineette di febbre.

Una delle tante e cosiddette post verità, che si accompagna alla geremiade per il presunto trauma giovanile causato da un eccesso d’intimità – si dice – con divano, Netflix e PlayStation. Per smascherarne la retorica basterebbe guardare gli spot del Governo tedesco, il quale dà inaspettata prova di un’ironia vagamente British – flashforward tra cinquant’anni, con un ex giovane che ci confessa ridacchiando: “Nel 2020 mi hanno chiesto di non fare nulla, e poi sono stato pure chiamato eroe…”

Per la forza evocativa che scaturisce dai contrasti, tornano alla mente le pagine del diario di Anne Frank. Quanta leggerezza, curiosità, perfino eros e pettegolezzo nello sguardo di una preadolescente confinata in una soffitta di Amsterdam, mentre le SS la stavano cercando. E quello era un trauma vero, non le piccole rinunce del presente che vengono gonfiate da un’enfasi protettiva.

Che i ragazzi ma soprattutto i genitori, gli adulti, insomma il cicaleccio da social network a cui come si può vedere non mi sottraggo, imparino a desiderare come faceva lei, Anne. Un desiderio – a differenza ancora di lei, a cui fu negata la realizzazione – da proiettare oltre l’angusto perimetro della quotidianità, quando dopo il terzo giorno i corpi usciranno dai sepolcri condominiali, e il fiammifero della vita tornerà ad accendersi per reciproco sfregamento. Certo, prima della scintilla bisognerà fare almeno tre o quattro tentativi, mica funziona sempre al primo colpo come Jean Gabin con una Gitanes che gli pende dal labbro.

Chiedo infine alla redazione de la Repubblica, per il futuro, di prestare maggiore attenzione quando appuntano le loro medaglie al valore. Che in questo caso vanno immediatamente spostate sul bavero di medici, infermieri, forze dell’ordine; senza dimenticare ladruncoli e accattoni e soprattutto quegli anziani che stanno stramazzando nella RSA, oppure sono attaccati a un tubo senza poter vedere i loro famigliari; particolare non sempre negativo, quando sono gli stessi nostri connazionali ad averli rimossi dallo sguardo, per confinarli in un ospizio.

Ma nelle guerre ci sono anche i generali, a cui in seguito vengono titolate le vie. Spero solo di non imbattermi un giorno in viale Conte o corso Azzolina: l’unica generalessa a voler salvare i suoi giovani militi da un pericolo che non corrono, per trasferirlo a tutti noi.

Divorzio sociale



Semplificando al massimo: se le persone indisponibili a farsi somministrare il vaccino per il Covid-19, anzi uno dei vaccini, ormai ne abbiamo tanti, superassero il 30% della popolazione, il virus non potrebbe regredire fino alla sua definitiva scomparsa, e dovremmo abituarci all'idea di una convivenza a tempo indeterminato; ovviamente con terapie sempre più efficaci ed eventuali mutazioni che lo rendano meno aggressivo; ma non si può escludere anche una mutazione più carogna.

Sia come sia, una situazione altamente probabile, con la maggioranza delle persone in scacco di una minoranza vagamente ottusa o distratta, replicando un format tipico degli amanti abbandonati: l'oggetto d'amore (nella fattispecie la salute) non vuole più saperne dei loro baci e carezze, e pende dalle labbra di un bellimbusto (i no vax) che se ne frega di entrambi, intento com'è in improbabili intrugli a base di fiori di Bach.

In tali situazioni o si affronta il rivale e gli si spacca la faccia – fuor di metafora: si assume l'imperatività dello Stato autoritario, obbligando tutti a vaccinarsi –, oppure si scodinzola ai piedi dei recalcitranti con la querimonia speranzosa degli ex, cercando di fargli cambiare idea con suppliche disperate, in un tripudio di trottolino amoroso e dudu dadada; e in questo caso la lancetta delle probabilità pende nella direzione opposta.

Se una sintesi antropologica si può ricavare dalla triste avventura dell'ultimo anno, è dunque che dal patto sociale stiamo passando al divorzio sociale. Condizione che temo si ripresenterà in altri contesti, non potendo, come cantava quell'altro, rifare un letto ormai disfatto.

venerdì 13 novembre 2020

Le cose degli altri


Juliana, Juliana Hoxhaj. Lo leggo su un manifesto funebre in un font vagamente lezioso. Sta sulla bacheca arrugginita a fianco del parcheggio del consorzio di Montagna, dove lascio l’auto per avviarmi nella camminata mattutina. Una passeggiata prima di pranzo, mezz’ora circa tra i vigneti del castel Grumello, e una nel pomeriggio. Totale un’ora d’aria al giorno, come i carcerati.

Juliana Hoxhaj…

A lato la fotografia di una donna come si dice nel pieno della vita. Indossa un abito di cotone a riquadri bianchi e blu nello stile delle tele di Piet Mondrian, i capelli lunghi sono sciolti su spalle robuste. Ci ha lasciati Juliana Hoxhaj, 42 anni, lo annunciano il marito Andon, i figli Lorena ed Enrico, guardo meglio… È lei.

L’avevo conosciuta un paio di anni fa, quando, su suggerimento di un amica – è brava, energica e veloce –, è venuta a casa nostra per aiutare mia madre nelle pulizie domestiche. Credo di averle parlato non più di due o tre volte. Sì, tre.

Durante la prima mi aveva enumerato i personaggi televisivi e i cantanti che le piacevano. Purtroppo, non ne conoscevo nessuno. Nella seconda è stato per un giudizio senza appello e diritto di replica. Le donne albanesi sono più belle di quelle italiane. In che senso, scusa? Sono più belle perché sono più in carne, e aveva concluso la frase con un sorrisetto compiaciuto. Credo sia inutile aggiungere che lei fosse albanese.

Alla terza conversazione mi ero già costruito il mio bel pregiudizio: abbiamo gusti e interessi diversi, in particolare sulle donne – per me Irène Jacob rimane il modello inarrivabile di bellezza femminile, e tanto in carne non è. Insomma, mi ero predisposto a comunicazioni formali e distratte. E invece boom! Ho un cancro, mi ha detto senza tanti giri di parole, non posso più venire a fare le pulizie. Un cancro al seno. Ma non voglio morire: ho due figli, sono ancora giovane. Poi una lunga pausa. Ho troppe cose da fare!

Da quella volta l’ho intravista in una sola occasione, io in auto e lei a piedi. Camminava a piccoli passi, gonfia per il cortisone e con un foulard in testa a velare gli effetti della chemioterapia. Devo confessare che l’impossibilità di scambiare due parole l’avevo vissuta con sollievo. Vigliaccheria? Probabilmente.

Mia madre le telefonava i primi tempi per sapere come stava, ricavando l’impressione che non ne parlasse volentieri. Così aveva desistito, e, col passare dei giorni e l’incalzare degli eventi, ci eravamo quasi dimenticati di Juliana. Fino a questa mattina.

Non voglio dire altro di lei, credo non mi spetti; l’ho conosciuta troppo poco e solo in superficie, senza aver fatto nulla per incidere la scorza che separa dal frutto. Mi limiterò dunque a far risuonare nella mia testa quell’ultima frase: ho troppe cose da fare.

Mi ricorda una conversazione, forse inventata, attribuita a Miguel de Cervantes, a cui qualcuno chiese come mai avesse scritto il Don Chisciotte solo a un’età ormai avanzata; cinquantasette anni, che all’epoca erano davvero tanti. Prima avevo delle cose da fare, aveva risposto senza scomporsi.

Ci sono persone che hanno delle cose da fare prima, brigano, sgobbano, si cimentano; altri invece dopo, nei tempi supplementari della vita. Ci sono le persone e ci sono i fatti. Infine ci siamo noi, che non sappiamo quasi nulla di entrambi.

Poco importa se queste cose coincidano con la scrittura di un capolavoro o con la rimozione delle carcasse degli acari sepolte sotto a un tappeto dell'Ikea; badare ai propri figli, farli crescere sani e forti e onesti; oppure avere un corpo in carne, ascoltare improbabili cantanti. Poco importa.

Semplicemente, ognuno ha le sue cose da fare, anche i vecchi parcheggiati nelle RSA, quelli che pagano pegno per essere "fuori dal ciclo produttivo", chi può dire che non abbiano ancora delle cose da fare, e se valgano più o meno delle cose dei giovani, dei giovani dentro, le nostre cose…

Cose, che bella parola! La usano i bambini come un vaso in cui mettere dentro un po’ di tutto. Spero solo che Juliana, nei due anni trascorsi dalla diagnosi del suo male, sia riuscita a realizzare le cose, tutte le sue troppe cose, per quanto ne dubiti molto. Se così fosse il vaso delle cose sarà rimasto a bocca aperta, in attesa di essere imboccato.

Saranno allora persone diverse (un figlio, il marito, la sorella o magari quell’amica che me l’aveva raccomandata) a dover completare le cose lasciate in sospeso da Juliana. Perché farsi i cazzi propri – ed è questa la lezione che mi porto a casa dalla mia passeggiata tra le vigne – a volte equivale a mettere le mani dentro le cose degli altri.

Buone cose Juliana, Juliana Hoxhaj, e che la terra ti sia lieve.