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lunedì 19 agosto 2024

Di chi sono figli i figli? O sul caso di Ari Boulogne

Di tutta la bagarre degli ultimi giorni sulla morte del grande attore, il più bello di sempre – più bello anche di Alcibiade, di Adone? – viene stabilito all'unanimità, a me interessa solo una cosa: di chi sono figli i figli, quando “mater semper certa est, pater numquam”?

I latini avevano saputo trarre conseguenze pratiche dal loro motto, distinguendo tra paternità biologica e paternità astratta, simbolica – figlio è chi mi succede dentro i codici umani e certi della civitas, prima che nell’incerta confusività di natura. Per questo Cesare può pronunciare (ammesso che l’abbia davvero pronunciata) la celebre frase “anche tu, Bruto, figlio mio!”, quando il congiurato era nato dall'unione di Servilia e Marco Giulio Bruto.

Per istituire tale vincolo civile esisteva un rituale: afferrare con mani salde il fanciullo sui fianchi e innalzarlo verso il cielo, dove i numi tutelari della città avrebbero sigillato il rapporto. Il problema non è dunque stabilire di chi fosse figlio biologico Ari Boulogne: i genitori erano Christa Päffgen in arte Nico, la cantante tedesca dalla voce roca dei Velvet Underground, e Alain Fabien Maurice Marcel Delon, per gli amici detto solamente Alain, Alain Delon. Punto.

Potete diversamente immaginare la madre dell’attore che, trovandosi per caso accanto il giovane negli Stati Uniti, dice al nuovo compagno: "Ma guarda quanto è carino, somiglia tanto al mio Alain da piccolo, me lo prendi?" "E va be', se proprio ci tieni..." E così dopo essere passati dalla cassa, come all’Ikea, se lo portano nella banlieue parigina dove lo crescono, cosa che in effetti è avvenuta. No, la questione è un’altra, e riguarda le ragioni per cui Alain Delon non abbia mai voluto alzare al cielo il proprio figlio naturale.

Provo a rispondere nel modo più brusco: io penso fossero fatti suoi. Sembra cinico a dirsi, ma nessun sentimento può essere imposto per legge, a maggior ragione l'amore, un verbo che non regge il modo imperativo. E così quel particolare amore che è l'amore paterno: può soltanto essere vissuto. Ci sono semmai i doveri economici, gli assegni familiari, scopare è un gesto che talvolta produce degli effetti, di cui si è giustamente responsabili. Ma questa è un’altra storia.

Certo, può non piacere che gli umani mettano al mondo figli come gatti, riprendendo in seguito la propria vita randagia. In fondo cosa chiedeva Ari, l’ha supplicato per tutta una vita di sventure, conclusa nel 2023 per overdose di eroina? Solo vedere sventolare il cognome di quell’uomo con gli occhi di ghiaccio, i suoi stessi occhi, quando la fragilità nervosa l’aveva invece presa dalla madre, sventolare accanto al proprio nome di battesimo: Ari Delon, suona anche bene.

Lacan suggeriva che ciò che amiamo nell'altro è l'unicità comunicata dal nome. Dovette accontentarsi del cognome del compagno della nonna, l'unico maschio ad alzare il suo corpo in direzione degli dei. E magari, dal padre vagheggiato (lo vedeva giganteggiare sui manifesti cinematografici), ricevere anche qualche buffetto ogni tanto, a Natale il pranzo in famiglia con la cerimonia dei regali da scartare. Come non sentire questi sentimenti come nostri?

Più difficile intercettare, e riconoscersi, nei sentimenti di chi non ha voluto concedere gli elementi minimi di una relazione genealogica tra prima e poi, provando empatia per un rifiuto; il rifiuto di un rifiutato, a suo tempo, dal proprio padre, se vogliamo essere precisi. Eppure non è ciò che ci è richiesto, ma solo il rispetto per una scelta che avvertiamo come distante, addirittura disumana. Ma non possiamo imporre il nostro sentire a chi ne ha uno tanto diverso. Anche se si chiama Alain Delon.

venerdì 26 luglio 2024

McGuffin, o sul processo creativo

 

Nei giorni scorsi ho pubblicato due micro racconti, a pochissimi giorni di distanza li ho inseriti qui e anche su Facebook. Entrambi sono passati un po’ in sordina, ma va bene così, non ne rivendico il valore; in fondo li ho scritti solo per poter arrivare al ragionamento che sto per fare. Oltretutto, nemmeno 3000 like ti assicurano della bontà di un testo, altrimenti Fedez sarebbe meglio di Dostoevskij.

Ma torniamo ai due racconti, che in realtà erano la medesima storia. La prima versione narrava una vicenda realmente accaduta (il corvo di due miei conoscenti imitava le voci degli operai intenti nei lavori di ristrutturazione della casa dei vicini), restituita attraverso un lavoro di scrittura limitato alla forma, e cioè alla selezione dei vocaboli, al loro rapporto, ordine cronologico dei fatti, in questo caso del tutto lineare. Nella retorica antica avrebbero detto che si era saltata la fase dell'inventio, passando direttamente alla dispositio e all'elocutio.

Nel secondo racconto quella stessa vicenda viene rielaborata e mescolata con altri eventi reali, fino al punto di occultarla agli occhi del lettore. Si tratta, in parte, di materiali personali (avevo un amico che negli anni Ottanta andava in vacanza a Sanremo, e quando tornava diceva Diofà) e in parte collettivi (Portobello). La loro fusione fa imboccare al racconto una strampalata direzione onirica, del tutto opera di finzione.

Lo sceneggiatore Angus MacPhai chiamava questo espediente compositivo McGuffin, un termine, poi ripreso e reso popolare da Alfred Hitchcock, che non sta a significare nulla di definito, e piuttosto un generico evento che ha funzione di innesco, da cui la trama successiva si può anche svincolare. Tradotto in metafora, abbiamo un seme piantato nella terra, che da lì in poi prende a generare: può essere un fiore, una carota, un albero stortignaccolo o una maestosa sequoia. Ma fermiamoci qui, non entriamo nel complesso problema della qualità artistica, del gusto, anche del talento.

Ciò che voglio arrivare a dire è che come esiste un McGuffin drammaturgico – quello utilizzato da Hitchcock  probabilmente esiste anche un McGuffin mentale, connesso all'invenzione di cui già abbiamo accennato. Può essere qualcosa che abbiamo vissuto oppure letto, sognato, copiato, manomesso, ingerito, annusato, intravisto dal finestrino di un treno in corsa, ma si deve sempre partire da un'esperienza affinché l’impulso creativo venga attivato, la pura fantasia non esiste. Possiamo guardare alla terra come alla mente, senza semi la mente è un deserto di sabbia, o come diceva il mio compagno di scuola Corrado Lapsus un deserto di piastrelle, in quarta elementare sosteneva che nel deserto ci fossero le piastrelle.

A tutto ciò viene dato il nome di processo creativo, ci sono molte teorie al riguardo, io prediligo la versione di un altro regista. Jim Jarmush la vede così: “niente è originale. Ruba da tutto ciò che suscita l’ispirazione o che alimenta la tua immaginazione. Divora vecchi film, nuovi film, musica, libri, dipinti, fotografie, poesie, sogni, conversazioni casuali, architettura, ponti, segnali stradali, alberi, nuvole, distese d’acqua, luce e ombre. Delle cose da cui rubare, prendi solo quelle che parlano direttamente alla tua anima. Se lo fai, il tuo lavoro (e furto) sarà autentico. L’autenticità è inestimabile, l’originalità non esiste. E non preoccuparti di nascondere il furto.”

Di seguito i due micro racconti a cui ho fatto riferimento.

1) The Raven, a true story

Avevo un'amica che aveva una sorella che aveva un marito che aveva un corvo. Il marito parlava, il corvo no. Un'estate, nella casa accanto alla casa della sorella della mia amica dove viveva con il marito e con il corvo - ma il corvo stava fuori, una spaziosa voliera lo ospitava in giardino - fecero dei lavori di ristrutturazione. La sorella della mia amica e il marito e il corvo abitavano in Valtellina, e non si capisce per quale ragione (ammesso che ve ne sia una) i vicini si affidarono a una squadra di muratori bergamaschi. Probabilmente perché sono più bravi dei muratori valtellinesi, e anche di quelli mantovani, varesotti, livornesi, bolzaneti o bolzanini o bolzanesi, non so come si scrive. Insomma i muratori bergamaschi sono più bravi, non c'è storia per nessuno. Così dicono almeno. Al termine dei lavori, che coincise con il termine dell'estate, i muratori bergamaschi se ne andarono. Avevano fatto un buon lavoro, onorato la loro fama. Tutti gli altri rimasero: i vicini, la sorella della mia amica, suo marito e pure il corvo, che all'improvviso si era messo a parlare. Diceva porco di qua, porco di là, per lo più riferendosi a santi e madonne e con inequivocabile accento bergamasco. Diceva anche pota pota pota. A me sembra una bella storia, peccato solo che sia vera. Avrei voluto inventarla io.

2) Portobello, o sull'happy end

Penso a una storia con protagonista un uomo nato intorno alla metà degli anni Sessanta, ha un sogno ricorrente. Tutte le notti sogna Portobello, il pappagallo dell'omonima trasmissione condotta da Enzo Tortora tra il 1977 e il 1983, e poi per un'unica stagione nel 1987, dopo le tristi vicende giudiziarie.

Il sogno compare nel suo teatro onirico alle 2.47, un orario che per la cabala ebraica e la numerologia significherà forse qualcosa, ma non per questa storia. 2.47 precise precise, lo sa perché alle 2.48, puntualmente, si sveglia. E dice: “Diofà!”

Un tipico motto di sorpresa piemontese, strano perché il nostro personaggio non è piemontese, probabilmente ha sentito l’espressione da ragazzo a Sanremo, dove si ritrovava con un gruppo di coetanei di Asti. Tornato a Sondrio al termine delle vacanze (il nostro personaggio è dunque valtellinese) la ripeteva con gli amici del Bar Sole, compiacendosi per l’esotismo del suono. Ma ci voleva, allora come adesso, una ragione per sbottare.

In questo caso coincide col fatto che Portobello ha finalmente parlato – un evento che ha dell'inverosimile, accaduto una sola volta con Paola Borbone. Peccato che nel sogno non abbia detto Portobello, come richiesto dal programma, ma anch'esso Diofà. Cosa fare…?

Enzo Tortora si consulta con gli autori, in studio è presente un notaio, sentono il suo parere e poi decidono di assegnare comunque il premio al concorrente, un bel gruzzoletto in gettoni d’oro. Alle 2.49 il nostro personaggio può così riprendere a dormire. Sì acciambella come un gattone sul lato sinistro, un mezzo sorriso a baciare il cuscino. Perché questa è una storia che finisce bene.

sabato 20 luglio 2024

Son tutte belle le mamme del mondo, specialmente su Facebook

Son tutte belle le mamme del mondo, lo cantavano Giorgio Consolini e Gino Latilla al Festival di Sanremo del 1954, da loro vinto con Tutte le mamme. Che non sono solamente belle, ma, continua la canzone,grandi tesori di luce e bontà \ che custodiscono un bene profondo \ il più sincero dell'umanità.

Forse dovremmo iniziare a considerare la canzone popolare, insieme a quel generatore di figure gigantesche e luminose che irradia a partire dalle colline di Hollywood, l’equivalente su scala collettiva dei sogni e dei lapsus freudiani, a fare da specchio segreto in forma più attendibile che non nell’arte colta, troppo sorvegliata per poter mostrare la nudità del re.

Ma allora tocca prendere in considerazione anche una canzone del 1928, Balocchi e profumi, fu scritta da Giovanni Ermete Gaeta e da principio interpretata dal tenore Fernando Orlandis, a cui sono seguite decine di versioni – più celebre quella di Luciano Tajoli, ma strepitosa la maniera con cui Peppe Barra la trasformò in un pezzo di teatro d'avanguardia. Qui pure si parla di una mamma, ma non propriamente un tesoro di luce e di bontà, e poco importa che nel finale avvenga il cattolico pentimento, per renderla compatibile all'Italietta con rosario e moschetto. A rimanere in testa è il refrain: “mamma, mormora la bambina \ mentre pieni di pianto ha gli occhi \ per la tua piccolina \ non compri mai i balocchi \ mamma, tu compri soltanto i profumi per te."

Un’immagine di madre opposta e complementare a quella che emerge dalla canzone di Consolini e Latilla: vanitosa, egoista, o come suggeriva Lacan una madre coccodrillo che ingoia i propri figli, e per occultarne gli appetiti sparge profumo sopra al gesto di cannibalismo. Per la psicoanalisi la madre è questa e quella, non diversamente dal padre, a un tempo Crono e Odisseo, in un arco teso che coniuga gli opposti psichici, per quanto i singoli individui possano protendere da uno dei due lati.

Ma allora non è vero che i social network, almeno quelli di vecchia generazione come Facebook, sono un luogo in cui poter finalmente vuotare il proprio sacco, non possedendo un padrone (come nella stampa tradizionale) che stabilisce la linea editoriale ed è pronto alla censura. Sono piuttosto l’equivalente di un’altra funzione psichica che Jung chiamava persona, ossia maschera, dal nome che prendevano le maschere indossate dagli attori nel teatro greco. Io almeno non ho mai letto il post di una madre che scriva qualcosa del genere: “Ieri avrei dovuto acquistare i libri scolastici per mia figlia. Ma poi sai cosa ho pensato: ha già troppi libri, sta tutto il tempo a leggere. Massì, al diavolo, con gli stessi soldi mi sono presa l’ultimo profumo di Chanel  una vera favola!”

Anche Chiara Ferragni e Fedez, che pur nella separazione continuano a essere uniti dalla menzogna spettacolare, quando ci sono di mezzo i figli sono pieni di amorosa sollecitudine. La progressiva perdita di interesse dei giovani per i social orientati alla parola credo dipenda in buona parte da questo: attraverso la scrittura è più facile travestire le emozioni primarie (sedurre, essere sedotti, ossia transitare tra le opposte polarità di un desiderio che non ammette interferenze, quali i figli rischiano di essere), in una messa in scena del privato che è più scena che privato; e questo non è necessariamente negativo, mantenere delle zone psichiche in ombra evita la dispersione del nucleo centrale con cui ci identifichiamo. Un paravento chiamato discrezione, un tempo era la virtù borghese per eccellenza.

Ma borghesia e gioventù non sono mai andati troppo d’accordo, ed è tratto comune alla gioventù l’essere devoti a ciò che viene percepito come vero – la propria verità, ovviamente. Loro la cercano, e a volte la trovano, più nelle immagini che nei testi; nei selfie ad esempio, secondo l’antico adagio che il corpo non mente. Ma anche nelle parole delle canzoni indirizzate al mercato giovanile ci sono verità a cui noi abbiamo smesso di prestare ascolto, considerandole oscene. Nel tormentone musicale dell’estate, Tony Effe ci comunica che “vengo da Roma centro, è pazza del mio accento \ vuole un figlio con me solo per farlo ricco e bello \ sto contando milioni, mi dispiace, non ho tempo.”

Viene un dubbio… non sarà l’equivalente attualizzato e coniugato al maschile di Balocchi e profumi?

Se anche Tony Effe avesse un figlio – certamente fatto ricco e bello come la matrice originaria, nel rap ogni pensiero deve trovare piena espressione, non sono ammessi impliciti e giri di parole, al bando la discrezione – ci dice che non avrebbe tempo per lui, per lei, per nessuno. Come la mamma del 1928, impegnata ad acquistare profumi e non balocchi per la propria bambina, il padre virtuale che si impone sull'estate 2024 è impegnato a contare milioni. Non mi pare sia cambiato molto.

Poi possiamo anche dire che tutto ciò ci fa schifo, ma se non altro è uno schifo vero, uno schifo autentico, basi ritmate nuove per vecchi sentimenti. O per essere più precisi: il riflesso di quel composto di luci e ombre che da sempre va a comporre l’umanità; più ombre che luci in effetti, almeno nei tempi ombrosi in cui per nominare una borsa da donna si usa la metonimia del brand  "seh, metti tutto nella Prada" continua Tony Effe, "ti porto con me in una villa a Copacabana." Ed è qui che incontriamo lo scarto epocale con la cassettina in periferia, da combinare con una mogliettina giovane e carina, agognate da Gilberto Mazzi in un'altra canzone del ventennio.

Al primo dubbio ne segue a questo punto un altro, e cominicio a sospettare che quella che incontro verbosa sui social (e di cui faccio parte) non è l’umanità, ma una sua versione riveduta e corretta a fin di bene, ben figurare nella fattispecie, come i baci tagliati nei cinema parrocchiali durante gli anni Cinquanta. Un rimosso che emerge e travolge il protagonista nella sequenza finale di Nuovo Cinema Paradiso. La nuova domanda così diventa: quanti baci rubati dal parroco ci stiamo perdendo perdendo tempo sui social? Speriamo che anche a noi, prima o poi, qualcuno li restituisca…

venerdì 21 giugno 2024

Solo un dio più salvarci

Nella nuova stagione di Call My Agent, Gabriele Muccino, nel ruolo di sé stesso, pronuncia questa frase: "Non c'è niente di più bello di famiglie disfunzionali che si sbranano."

Ci ripensavo leggendo della furibonda lite, in un ristorante romano, tra Paolo Virzì e l'ex moglie Micaela Ramazzotti, nella quale sono stati coinvolti il nuovo compagno di lei e la figlia trentacinquenne avuta dal regista nel precedente matrimonio.

Ciò che richiama il gesto ferino dello sbranarsi è la presenza sul luogo anche dei figli minorenni (quattordici e undici anni) dei due, ad assistere a graffi, pugni, piatti e sedie che volavano, urla, telefonini scagliati al suolo.

Ora io penso che sia Virzì che Ramazzotti siano persone intelligenti e sensibili, e per arrivare a tanto – infliggere un trauma ai propri figli, prima ancora che a sé stessi – dovevano essere carichi di una tale intensità emotiva chiamata dio dagli antichi; nella fattispecie Ares, il dio della guerra.

Ma ciò che manca al cinema italiano contemporaneo non è proprio questo? La presenza di un dio, di emozioni primarie e riconoscibili, intensità, potenza espressiva. Muccino la chiama bellezza, e mi sento di dargli ragione.

Si comprende così come la sua non era una battuta ironica, ma una sorta di riflessione meta cinematografica: in un mondo dove le ex coppie si sbranano a ristorante il cinema è rimasto indietro; le botte della pellicola della Cortellesi possiedono qualcosa di artificioso e programmatico, il dio è altrove.

Naturalmente non esiste solamente il dio della guerra: ci sono anche i maneggi di Ermes, la seduzione di Artemide, la tracotanza di Zeus etc. Ormai solo un dio, come disse Heidegger da anziano, può salvarci. O perlomeno può salvare il cinema italiano, che diversamente si trova a essere sconfitto dal gossip.

La separazione di Virzì e Ramazzotti (ma anche quella di Chiara Ferragni da Fedez) ci coinvolge più dei film in cartellone. Nella prima avvertiamo il gusto dolciastro del sangue, nei secondi solo passata di pomodoro.

domenica 19 maggio 2024

Bacio bacio bacio

 

Marrakech Express è probabilmente il film di Salvatores che mi è piaciuto di più. Giuseppe Cederna, nel ruolo di Paolino, è uno degli interpreti principali. Durante il viaggio dei quattro amici partiti da Milano alla volta della città del Marocco occidentale, a ogni telefono che incontra prova a chiamare casa. Ma ci sono sempre degli impedimenti, gli altri lo incalzano per ripartire, oppure cade la linea, e riesce a dire solo bacio bacio bacio.

Un tormentone a cui pensavo quando l'ho incrociato alla libreria Alice di Sondrio, Giuseppe Cederna, non Paolino, tra interprete e personaggio si fa sempre un po' di confusione. È il prezzo che un attore deve pagare per vedere giganteggiare la propria faccia sul grande schermo. In realtà tutto è minuto in lui, un uomo basso e magro dai lineamenti gentili, sebbene il naso sia pronunciato. Si aggira tra gli scaffali scorrendo i titoli senza un obiettivo apparente, di tanto in tanto ci sfioriamo senza parlarci; in libreria si tende a evitare convenevoli tra sconosciuti, circonfusi da quel silenzio, un po' saputello, che talvolta lascia spazio alle note di Miles Davis o di Keith Jarrett, fa pendant con l'aristocratico sussiego delle copertine Adelphi.

Alla fine qualcosa deve avere trovato, e anch'io, ci presentiamo alla cassa in perfetta sincronia: Prima Lei. Ci mancherebbe, faccia pure. Troppo gentile... Durante i salamelecchi ci accorgiamo che entrambi impugniamo un libro di John Berger, non lo stesso titolo ma è sufficiente per cambiare tono e darci del tu: "Anche tu leggi John Berger?" mi chiede. "Sì, mi piace molto", e ancora prima dell'aggettivo vedo i suoi occhi azzurri illuminarsi. "Aspettami allora" mi sussurra mentre ritira il resto, e poi fa segno di seguirlo fuori.

Raggiunta la sua auto, una Volkswagen Polo parcheggiata a poche decine di metri di distanza, estrae uno zainetto e, all'interno, un'agenda o qualcosa del genere, da cui pesca un foglietto che mi mostra, sopra uno scarabocchio illeggibile. "È la firma di John Berger" mi dice orgoglioso. "Gli ho chiesto l'autografo a una presentazione in Francia, è un uomo straordinario, perfino bello, non sai che emozione..." E mentre continua a parlare con entusiasmo di John Berger mi sembra di vedere una ragazzina di Memphis, anni Cinquanta o giù di lì.

Il maglioncino color pastello con la sigla del college, la gonna plissettata, non si capisce da dove estragga una foto di Elvis da mostrare all'amica del cuore, indicando l'autografo con la sola piega del sorriso. E in effetti da quella volta ho la sensazione di essere anch'io amico di Giuseppe Cederna, ogni tanto torna da queste parti (la sua famiglia proviene da qui, è figlio di Antonio e nipote di Camilla Cederna, entrambi di Ponte in Valtellina dove è rimasta la casa di famiglia, un palazzo del Seicento già dimora dell'astronomo Giuseppe Piazzi), ma la verità è che non ci siamo più rivisti.

I libri belli creano illusione di amicizia, fuori e dentro la pagina. E l'amico del tuo amico, per definizione, è tuo amico. Holden Caulfield vorrebbe telefonare agli scrittori di tutti i libri che gli sono piaciuti, ci mette in guardia dal rischio di provare la stessa tentazione, guarda che è così anche per te, pochi gli danno retta. Gli altri, Giuseppe, io, sognano vecchie cabine telefoniche, non è necessario conoscere il numero di John Berger, che nel frattempo è morto. Basta alzare la cornetta e poi dire: bacio bacio bacio.


sabato 18 maggio 2024

La dolce bugia

Il mio rapporto con il cinema contemporaneo in fondo somiglia al suo oggetto. Penso a una sequenza di Caro diario, Nanni Moretti seduto a lato del letto su cui è disteso un critico cinematografico (a interpretarlo è il compianto Carlo Mazzacurati), lo sferza con le parole delle sue stesse recensioni, che gli rilegge in forma di contrappasso:

"Quel film coreano era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti... Superfemminista, fiammeggiante e demoniaco... Girato come se fosse un trip alla Spielberg entrato nei ritmi e negli spazi futuristi... E c'è poi il Pasto nudo di Cronenberg: puro pus underground ad alto costo."

Naturalmente c'era molta ironia, e non ho difficoltà a trovare dei registi viventi le cui opere mi siano piaciute anche molto; i primi nomi che mi vengono in mente sono Mike Leigh, Kaurismaki, Jarmusch, Herzog, Guédiguian o, in Italia, Gianni Amelio e Garrone, ma quest'ultimo a fasi alterne. Il punto non è però stilare delle graduatorie di merito, ma la relazione tra merito e piacere. Il mio piacere di spettatore.

Sono così arrivato alla conclusione che ciò che mi turba in Caro diario non è la sciatteria del linguaggio di certa critica (puro pus underground è in effetti un'espressione strampalata), ma il fatto che quel linguaggio trovi referenzialità nelle categorie di valore, e queste nel mondo.

Detta in modo più semplice: per raccontare il presente si finisce coll'imbattersi nel pus underground, possiamo anche chiamarlo in un altro modo, ma la fioritura di un ciliegio ha smesso di imporsi quale esperienza significativa, e come giusto i registi ne hanno preso atto.

Il problema sono dunque io, non il cinema contemporaneo. Io che non ho più tanta voglia di un'idea di cinema ereditata dai Lumière – la verità prima di tutto, il cinema come riflesso della vita – che ha avuto il sopravvento sull'alternativa suggerita da Georges Méliès: una bugia, come si dice, a fin di bene, che conduce il mio occhio-razzo dentro l'occhio della luna.

È la stessa dolce bugia con cui si conclude Miracolo a Milano, con i poveracci che vengono assunti nel cielo del possibile cinematografico a bordo delle loro scope volanti; giusto il tempo di girarsi e fare ciao ciao con la mano alla Madonnina, e poi via in direzione di "un regno dove buongiorno vuole dire veramente buon giorno". E chissà che lì non ritrovino Dumbo, sostenuto nel viaggio dalle sue orecchie alate, o Mary Poppins con il suo ombrellino.

Ma quasi nessuno racconta più bugie a fin di bene, a cui sarei disposto a credere, e sono così obbligato a vedere duplicato un incubo di terra: la realtà, o meglio questa pus-realtà dalla cui ferita distoglierei volentieri lo sguardo.

martedì 19 marzo 2024

Bellezza e giustizia

 


– Vuole una sigaretta?

– Ho smesso quando sono rimasta incinta.

– Ha fatto bene. Allora adesso è il momento di ricominciare.

La donna prende la sigaretta che gli porge Jude Law nei panni di Pio XIII, e prima che lui gliel'accenda dice: – Fumare è bello.

– No, fumare non è bello – la corregge il Papa. – Fumare è giusto.

Da The New Pope, di Paolo Sorrentino

lunedì 18 marzo 2024

Soluzioni mitiche a problemi reali

James Hillman, lo psicologo analitico dal sorriso di un bambino, uno di quelli che ti prestano volentieri la loro bicicletta, Hillman suggeriva di cercare i miti antichi nelle figure aggiornate e perfino sgangherate del presente. Alcuni sono facili facili, che so: scorgere Ares dietro alle fattezze slave di Putin o Afrodite nella zia Patrizia del film di Sorrentino (quando si toglie il costume turchese e si sdraia sul barcone, lì non è più la zia Patrizia e nemmeno Luisa Ranieri: agli occhi dei gitanti è la più bella tra tutte le divinità), come vedere nei ventisei centimetri del fallo di Rocco Siffredi la versione 2.0 di Pan. Ma si può fare di meglio. Questa mattina, ad esempio, per quasi un'ora sono stato chiuso nel tubo di una risonanza magnetica da tre tesla, solo lo spazio di un accendino a separarmi dalla parete ricurva. È allora che ho avuto l'intuizione. Non un cinquantenne malconcio all'interno di una sofisticata apparecchiatura medicale di nuova generazione, all'improvviso mi ero trasformato nel profeta Giona: il suo Dio gli dice di andare a predicare a Ninive ma lui non gli dà retta, e si dirige invece a Tarsis non sentendosi all’altezza dell'incarico. La teologia successiva l'ha definita vocazione, dal latino vocare, chiamare, però si capisce meglio se pensiamo alle cartoline illustrate. Ogni vita una cartolina alla ricerca della giusta cassetta delle lettere in cui imbucarsi; se indovina la fessura farà piacere non solo a chi la riceve, ma anche a chi ha scritto poche parole di circostanza: Qui c'è il sole, noi stiamo tutti bene tranne Romoletto che ha vomitato dopo avere mangiato le cozze. Baci e abbracci! Poi sono arrivate le mail e con esse lo spamming, che hanno coinciso con il crollo delle vocazioni, non solo religiose. Ma torniamo a Giona. Allo scoppio di una violenta tempesta confessa la sua negligenza ai compagni di viaggio, i quali lo gettano in mare per fare pace col Dio del risentimento; sotto testo: il tentativo di sfuggire a destini postali impegnativi produce effetti ancora più impegnativi. Intanto, bisogna trovare il modo di uscire dal ventre della balena in cui finisce... Pinocchio ha lo stesso problema con il pescecane, “l'Attila dei pesci e dei pescatori” aggiunge Collodi, dove incontra Geppetto che gli confida di essere stato mangiato due anni prima “come un tortellino di Bologna”. Ma non è la stessa condizione di essere ingoiati dalla risonanza magnetica, prigionieri del suo angusto budello? Alla luce di queste vecchie storie le mie tribolazioni sanitarie cominciano ad avere un senso, e forse anche una via d’uscita, sia pure di servizio; la porticina defilata che imbocca Truman al termine del Truman Show. Magari basterebbe farla finita con l'essere una marionetta nel teatrino dei social, oppure credere in un paese dei balocchi che non è mai esistito – Mangiafuoco mi ha graziato già una volta, ma ho dilapidato le sue cinque monete d’oro –, e andare una volta per tutte a Ninive dove inventarmi qualche cazzata da raccontare.

domenica 17 marzo 2024

Un eroe dei nostri tempi

 

Da un paio d’anni, come molti, ho cominciato a pronunciare il termine geopolitica. La ragione è tristemente nota e coincide con l’invasione russa dell’Ucraina, a cui sono seguite le tensioni nell’Oceano Indiano per Taiwan, l’attentato di Hamas del 7 ottobre e la spropositata reazione israeliana. Ai droni che volano nei nostri cieli corrispondono così nuovi vocaboli, ci frullano in bocca per imitazione dei commentatori televisivi, era già avvenuto durante la pandemia. Allora si parlava di immunità di gregge, spillover, proteina Spike, oggi di zone cuscinetto e choke points nella navigazione mercantile.

Di certo un segnale, perlopiù brutto, quando i linguaggi settoriali diventano di uso comune, travisati nel quotidiano chiacchiericcio. È quanto pensavo ieri sera assistendo alle prime due puntate di Supersex, la serie su Netflix ispirata alla vita di Rocco Siffredi. Gli attori sono tutti bravi e in particolare Alessandro Borghi (perfetta la sua replica della risata equina del pornodivo), scaltra e veloce la regia che scongiura sbadigli o la tentazione di controllare le mail sullo smartphone, sostenuta da una sceneggiatura sempre all’altezza. Eppure, mentre si passava da una gangbang a una doppia penetrazione, continuava a venirmi in mente quel termine: geopolitica.

Come se esistesse anche una geopolitica dell’immaginario – a differenza della pseudoscienza a cui si richiama non deriva da luoghi fisici, ma da luoghi altrettanto comuni che sono quelli del linguaggio. La lingua somiglia alle formine con cui da piccoli ricompattavamo la spiaggia di Rimini in figure. Di tutto ciò la biografia di Rocco Siffredi è stemma plastico: per quanto ben allestita, ciò che trasmette la fiction è la natura elementare del protagonista, vuoti slogan le frasi da lui pronunciate, stelline di sabbia che si disfano alla prima onda. Una personalità dalle reazioni sempre prevedibili, pavloviane, e ciò in buona e cattiva sorte, secondo la formula matrimoniale. Quando sono proprio le difficoltà a consentirgli di riconoscere la sua vocazione  "Tieni dinamite tra le gambe!" lo sprona il fratello , ed è fuori dubbio che scopare a quel modo lì rappresenta un talento. Insomma, tutto in Rocco Tano, in arte Siffredi come il personaggio interpretato da Alain Delon in Borsalino, è porno. Ma che cos’è il porno?

Potremmo guardare al porno come a un altro codice settoriale. Possiede infatti una funzione tecnica limitata nel tempo e nello spazio: serve a offrire lo stimolo masturbatorio ai maschi tra i tredici anni e l’andropausa, e nostalgia in chi l'ha superata. Non sono richieste altre qualità, sarebbero addirittura d’intralcio, inutili complicazioni, una volta create le condizioni fisiologiche necessarie a quell'antico gesto della mano. Nessuna simbolica dunque, nessuna profondità, prospettiva umana; e non per difetto, ma per statuto operativo. Come è avvenuto per la geopolitica e la virologia, il porno ha però finito con lo smarginare i suoi confini, caratterizzando con la meccanica stimolo-risposta-eiaculazione ampi aspetti della vita associata; per dirla col tono pomposo dei filosofi: si è fatto mondo. Un esempio? I social network.

Con il porno i social condividono l'iconicità, la rivelazione più che l'ammiccamento, la coazione a ripetersi in assenza di complessità, di psicologia se non nella sua degradata forma behaviorista. Il legante è costituito dal ritmo monotono e martellante, la cui singola unità fonetica, il post, oscilla tra il tempo minimo di un pompino e quello massimo di una copula, da concludersi con una sborrata rigorosamente in faccia, nei social surrogata in forma di like. Dopo avere consegnato il proprio segno/seme di gradimento che su Facebook ha la forma di un  pollice alzato, evidente simbolo fallico, non sono perciò contemplate soste meditative, elaborazione critica del messaggio, orecchiette a cui tornare sulla pagina del libro, come dopo il latte versato durante una sega si spegne subito il televisore. La presenza di eccezioni non contraddice l'assunto base: il linguaggio si fa specchio dell’universale, non del particolare.

In un occidente psichico sempre più a forma e misura del porno, Rocco Siffredi, campione di medietà e di affabile banalità (di nuovo quella risata equina che fa capolino come memento mori), diviene così l’erede di Alberto Sordi in Un eroe dei nostri tempi di Dino Risi, e bene ha fatto Netflix a renderlo protagonista di una serie tivù. Che in effetti non parla della sua vita, ma della nostra.

lunedì 11 marzo 2024

Ceccherini, o sull’estetica marxista

Ceccherini che commenta la notte degli Oscar con la frase “tanto vincono sempre gli ebrei” commette nella migliore delle ipotesi una gaffe, e nella peggiore dice una scemenza colossale. Poi però prova a spiegarsi, aggiungendo che con le sue parole si riferiva al contenuto – tutti quei film nei quali gli ebrei e, in particolare, la Shoah sono assunti quale oggetto – e non a una presunta lobby ebraica che da sempre si spartisce i premi.

Al riguardo, una mia amica insinua sorniona: pensa cosa sarebbe successo se avesse detto tanto vincono sempre i film sullo schiavismo… È vero, sarebbe successo un casino. Ma i film sullo schiavismo, come i film sugli ebrei, non sono lo schiavismo, e piuttosto opere di finzione che muovono a partire da tale premessa storica; da onorare sempre e comunque, aggiungo a scanso equivoci: ma che possono produrre opere mediocri.

Se Ceccherini fosse stato più chiaro e meno impulsivo si poteva anche concedergli delle ragioni, e non solo accettarne le scuse. Ci sono infatti dei contenuti (e la Shoah e lo schiavismo sono tra questi, ma anche, attenzione, l'immigrazione clandestina con le numerose sofferenze connesse, che è il tema del film di Garrone cosceneggiato da Ceccherini) la cui enormità drammatica produce un pregiudizio virtuoso, mettendo in secondo piano la forma attraverso cui vengono restituiti dal racconto cinematografico.

Non è certamente il caso della Zona di interesse, e al Dolby Theatre di Los Angeles ieri non è stata premiata la Shoah ma una sua specifica restituzione prospettica (la prospettiva è ovviamente quella di Jonathan Glazer) che pare possedere i caratteri autentici dell'arte – ma possiamo dire lo stesso della Vita è bella di Benigni, che pure vinse l’Oscar a partire dal medesimo tema?

A Ceccherini, da toscano come Benigni, la coincidenza probabilmente non sfugge, e con parole sbagliatissime prova a dirlo. Una volta chiarite le sue intenzioni si potrebbe anche chiudere la polemica. E semmai provare a comprendere ciò a cui rimanda, chiedendoci se, nel sistema delle premiazioni, non sia tutt’ora presente un’ipoteca dell'estetica marxista, per cui i contenuti prevalgono sulla forma.

lunedì 27 novembre 2023

Patriarcato

Il dibattito di questi giorni sul patriarcato mi ha ricordato una battuta pronunciata da Kant, che per una volta mostra di possedere non solo intelligenza ma anche senso dell'umorismo: c’è un genere di medici insinua il filosofo di Königsberg, i medici della mente, che pensano, ogni volta che trovano un nome, di aver trovato una malattia.

Ora quella frecciatina andrebbe forse ribaltata di segno, già che nel suo significato letterale – e cioè aderendo alle categorie antropologiche da cui proviene – il termine patriarcato è del tutto improprio a descrivere il presente: è una vecchia parola per definire una nuova malattia.

Il patriarcato, come ha ricordato Massimo Cacciari ospite da Lilli Gruber, può essere sintetizzato dal concetto di patria potestas, che prima delle parole latine che lo esprimono (in questo aveva ragione Kant: le parole arrivano quasi sempre dopo le cose, quando non le generano come nella buona novella cristiana) si manifesta in Occidente a partire dall'invasione dei Dori, intorno alla metà del secondo millennio a.C. Quindi si consolida nelle successive ondate ariane dall'Asia centrale, che dilagando nelle terre del tramonto importano il loro modello sociale fondato sulla tripartizione tra sacerdoti, guerrieri e contadini o piccoli artigiani. Tutti maschi, naturalmente.

L'organizzazione anteriore può essere solo ipotizzata – il matriarcato? – ma è certo che da quel momento in poi il padre ha un dominio totale sulla famiglia e l'uomo sulla comunità, con interessanti variazioni che però non ne stravolgono il modello. A Sparta, ad esempio, la donna aveva un ruolo molto più rilevante che ad Atene, dove ci si stupiva che Pericle compisse dei gesti pubblici di tenerezza verso la compagna Aspasia.

Poi il patriarcato entra in crisi, come è evidente, continua Cacciari, nelle tragedie shakespeariane: Otello, Macbeth e Lear sono tutti maschi la cui potestas vacilla, senza però crollare come avverrà a seguito della rivoluzione industriale con conseguente urbanizzazione, dando vita alla classe borghese che si accompagna alla fine del patriarcato. Un mondo ancora ampiamente sbilanciato verso il lato maschile, ma in cui l'eccezione alla regola si fa quantomeno licenza.

È di nuovo l'arte a testimoniare il cambiamento: tra Emma e Carlo Bovary, poniamo, chi guida e chi è guidato? A me sembra che si siano persi entrambi; con la differenza che Emma cerca nuove direzioni al suo malessere, finendo con l'essere travolta da quella bussola ingannevole che è il desiderio mediato, mai davvero suo, e Carlo si involve, ripiegando su sé stesso come un fiore senza acqua.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati concede al patriarcato un ulteriore secolo di sopravvivenza, anche se io sarei più propenso a chiamare quella fase di trapasso maschilismo – l'epoca dei vari fascismi lo fu al massimo grado, con significative differenze tra nord e sud, campagne e città – culminando comunque nel 1968. Da lì in poi nulla è stato come prima.

Carlo Bovary o Zeno Cosini o, ancora, i maschi inetti alla vita nelle opere di Cechov, divengono così l'emblema involontario del maggio francese, e la dolente involuzione del loro status virile non si discosta molto dal presente digitalizzato; mentre nelle donne il bovarismo si converte in rapporti sempre più saldi con il reale, emancipandosi dalla pappa di sogno romantica.

In una percentuale minoritaria di maschi, il progressivo svuotamento di potere sulla donna che smette di essere davvero propria, se non nei testi delle canzoni, si traduce in rabbia e rancore; ed è la probabile altra faccia della medaglia costituita dallo sconcerto provato da chi ha compiuto diciotto anni il 20 settembre del 1958, giorno in cui la legge Merlin imponeva la chiusura dei bordelli. E io…? avranno pensato i più focosi tra di essi, in un sentimento di espropriazione che è tutto il contrario dell’onnipotenza simbolica confezionata dal sistema patriarcale.

Dal punto di vista testosteronico, ossia limitato alla sola forza fisica e non biologica, gli uomini rimangono però potenzialmente dominanti, e così a qualcuno potrebbe venire la tentazione di infrangere la teca in cui lumeggia l'oggetto desiderato, guardare ma non toccare. No, io voglio dunque io posso, è la reazione di quei pochissimi alla perdita del regno. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli, ancora recita una preghiera rivolta a un maschio caucasico anziano e con la barba.

È questo il pensiero anche di Erri De Luca che, senza l'assertività spiccia di Cacciari o le volute intellettuali barocche di Recalcati, ma con la dolcezza partenopea che lo contraddistingue, parla di sentimento maschile della disgregazione. Quella disgregazione del maschio che nel cinema ha trovato forse la migliore sintesi nelle pellicole di Marco Ferreri; rispetto al languore romantico o alla vertigine primonovecentesca fotografano un elemento più attuale: la donna percepita come alterità ontologica assoluta, e non solo come subalterna emancipata.

Peccato che nel cinema contemporaneo non sia presente quell’acutezza di sguardo, sempre accompagnato da una poetica bizzarria, affettuoso sberleffo di chi non giudica ma apprende. Pensiamo alla pur apprezzabile pellicola di Paola Cortellesi: l'impegno civile è qui massimo, ma flette la coscienza analitica che dovrebbe fargli da sfondo, restituendo una vicenda particolare che non riesce guadagnare risonanza universale, farsi stemma di mondo. Si ha piuttosto l'impressione che cerchi di dare un vecchio nome alla confusione instabile del presente. E invece dovremmo fare ciò che Kant rimproverava a un genere di medici, i medici della mente: cercare nuovi nomi, nuove forme e ragionamenti. Più complessità, insomma.

Ma va bene partire anche da lì, Cortellesi, più che i fasti di un ormai inesistente patriarcato, ci ha mostrato gli strascichi di quella cultura sopravvissuta oltre due millenni; non un canto del cigno, ma l’ululato del lupo braccato dai cacciatori. Ora sarebbe bello che qualcuno ne afferrasse il testimone e sviluppasse il discorso, lo precisasse. A un tempo complesso parole e immagini complesse. Nuove.

giovedì 2 novembre 2023

Riassunto di riassunti

Le immagini di Chiara Ferragni sono inevitabili, lo sono in senso letterale, dove guardi guardi appare sul web come la Madonna ai tre pastorelli di Lourdes, Lucia, Giacinta e Francesco. Questa volta replica la celebre sequenza di Basic Instinct in cui Sharon Stone scavalla e accavalla di nuovo le gambe dal lato opposto, sostando per un infinito secondo con le cosce divaricate. A poche ore dalla pubblicazione su Instagram già dilaga, si mostra anche a chi compia una ricerca sui conventi della Confraternita camaldolese dell'Ordine di San Benedetto, o sulla ricetta della bagna cauda.

Essendo una bella ragazza poco male, possiamo adeguarci alle regole che prova a imporci (riuscendoci) e dare una sbirciatina là sotto. Oppure potremmo fare come la piccola vedetta indiana, e innalzarci sulla collina dell'esperienza sensibile nel tentativo di guardare più lontano, trattando poi l'immagine alla maniera di un testo. In tal caso ciò che vi leggiamo non riguarda più solamente lei, ma anche noi.

È vero, l'abbiamo premesso, quella sequenza di Basic Instinct è celebre, ma ancora più celebre è la bionda influencer di Cremona, la copia sopravanza in numero l'originale. Un ribaltamento di prospettiva a cui la modernità ci aveva già introdotto; ad esempio attraverso la Monna Lisa con i baffetti disegnati da Duchamp, le cui riproduzioni hanno finito coll'attrarre più sguardi della versione di Leonardo.

Una circostanza però sempre interna al mondo dell'arte: Duchamp era un artista, scaltro fin che si vuole, ma comunque artista, e cioè persona che esercita un ars, un fare. Azione per la quale aveva dovuto acquisire delle specifiche competenze, abilità espressive frutto di studio, lavoro, paziente e dedito apprendistato. Lo stesso vale per Sharon Stone – scuole di recitazione, casting, copioni da imparare a memoria – prima di ottenere da Paul Verhoeven la parte di Catherine Tramell, la scrittrice e psicologa sospettata di avere ucciso l'amante con un punteruolo.

Chiara Ferragni invece no. Le è bastato indossare il corpetto bianco e dischiudere leggermente le gambe, ciak si gira, buona la prima, via subito con la pubblicazione sui social, passaparola, milioni di visualizzazioni, like, cuoricini.

Nessun moralismo, intendiamoci. Perché devo farmi il mazzo per imparare un contenuto o un modo per esprimerlo – dipingere, recitare, la tabellina del sette, il nome dei sette nani etc. – che nel giro di pochi anni verrà realizzato molto meglio dall'intelligenza artificiale?

Ferragni tutto ciò l'ha compreso con largo anticipo, a ricordarci Cristoforo Colombo nel suo navigare ormai scoraggiato, prima di intravedere un gabbiano con un rametto verde nel becco: noi siamo Colombo, Ferragni è il candido pennuto che ci porta primizie dal Nuovo Mondo.

Un tempo e un luogo dove saremo esonerati da ogni sforzo compreso quello creativo, il doppelgänger avrà sfrattato di casa il legittimo proprietario, i cosplayer dilagheranno come minuscoli virus al mercato del pesce di Wuhan, e finalmente potremmo reclamare con orgoglio di essere solo il riassunto di mille riassunti, ribaltando, anche qui, il senso di una bella canzone Samuele Bersani. Basterà aprire le gambe e il gioco è fatto.

domenica 20 agosto 2023

Un amore grande. Ma quanta grandezza siamo disposti a concedere al nostro amore?



L'ho rivisto ieri sera per la terza volta, e per la terza volta ho trattenuto a stento le lacrime; massì diciamolo: qualcuna mi è pure sfuggita sul cuscino. Importante che non mi abbia visto nessuno.

Mi riferisco all'episodio San Junipero presente nella terza stagione di Black Mirror, si trova ancora su Netflix. Per chi non l'avesse visto - ma vedetelo! - cercherò limitare gli spoiler, per quanto qualcosa ci scapperà. Questo però lo posso dire senza compromettere la sorpresa: contiene l'idea cinematografica più potente, tenera, spiazzante e, per paradosso, plausibile vista negli ultimi anni sullo schermo.

Non è importante che la regia sia un po' televisiva, anzi lo è totalmente, ma in senso non spregiativo, come per Stendhal che dichiarava il suo stile letterario ispirato al Codice Civile napoleonico, niente preziosismi da primo della classe. E così anche in San Junipero la regia è piana e senza la ricerca di abbellimenti calligrafici, quel guarda come sono bravo che si avverte come sotto testo di tanto cinema americano. Una scelta in levare che fa risuonare ancora di più i dilemmi che dischiude nella mente dello spettatore.

Intanto: è una storia d'amore, da principio adolescenziale e sbarazzina, si potrebbe essere portati a credere di trovarci invischiati in un teen movie. Niente di più sbagliato. Le possibilità che la tecnologia lascia intravedere già adesso, figuriamoci tra una manciata di anni, pongono infatti a questo amore acerbo interrogativi inediti e concreti.

Quando si dice ti amerò per sempre, ad esempio: e se non fosse solo un'iperbole...

Lasciamo il dubbio in sospeso e torniamo a un altro elemento recuperato dalla tradizione, qual è il tema del doppio. Qui viene rimodulato in forma esponenziale: le due protagoniste, attenzione, cominciano gli spoiler, sono una il doppio dell'altra, ma anche di loro stesse. Quindi abbiamo la nostalgia verso un passato reale divenuto mitico nel ricordo: gli anni Ottanta, e da quel ricordo la forbice si spalanca tra gioventù artificiale e vecchiaia autentica. Entrambe sono presenti in una sincronia che imprime una sterzata in direzione della fantascienza.

Ma saremmo fuori strada anche se pensassimo di avere così trovato il bandolo della matassa. Viene infatti richiamato un problema ben vivo nel presente, l'eutanasia, a cui si aggiunge quel pizzico di omosessualità che nel cinema contemporaneo non guasta. Ma è di nuovo riletta nella prospettiva del doppelganger: l'omosessualità non tanto, o non solo, come ricerca esterna di un corpo di genere uguale al proprio, ma, in chiave junghiana, di una parte diversa che sta all'interno di ciascuno, a cui l'altro fa da specchio.

Potremmo chiamarle la parte vera e la parte falsa reclamata dalle consuetudini sociali, la maschera professionale, e con ciò recuperare l'alternativa tra autentico e artificiale che già abbiamo incontrato per il tempo biografico, ponendola nuovamente in forma interrogativa.

Cosa è vero e cosa è falso se i sensi, ricreati dalla tecno-scienza, perdono la capacità di discriminare una sostanza chiamata realtà? E come comportarci quando questo confine diviene incerto, replicando la scelta tra la pillola rossa e quella blu in Matrix? Con la differenza che l'illusione qui rappresenta la via di fuga al dolore e alla degradazione del corpo, in una sensibilità neo gnostica (di segno solo invertito) condivisa con la pellicola dei fratelli Wachowski.

Ma alla fine è il quesito amoroso che nel finale si riprende tutta la scena, un AMORE che più maiuscolo non potrebbe essere. Siamo disposti, per tornare all'ipotesi lasciata in sospeso, a un sentimento tanto grande da sfidare il tempo in senso letterale, congelandolo dentro il loop di una manciata di canzoncine degli anni Ottanta. Ho provato a farlo con Heaven Is a Place on Earth di Belinda Carlisle, presente in colonna sonora con funzione sia diegetica che simbolica, e già al quarto ascolto mi era venuta la nausea.

Non però per questo episodio di Black Mirror, che probabilmente riguarderò ancora. E di nuovo mi commuoverò (ben attento a non essere visto) di fronte allo spaziare senza limite del raggio dell'amore, di ogni amore, perfino di uno nato in discoteca con i capelli impiastricciati di Tenax, e uno sfigato sullo sfondo che gioca a Pac-Man. Amore tra ragazze vecchie o vecchie ragazze, distinzione che abbiamo ormai compreso rappresentare la vera finzione. Una congiura ontologica, la chiamerebbe il filosofo Emanuele Severino.

Ma se per lui tutto da sempre è, qui, quasi messianicamente, è proprio l'amore a sconfiggere la morte, la tecnologia ne è solo lo strumento attuativo. L'elemento davvero decisivo è che ci sia qualcuno disposto a bere molti rum and cola assieme a te. Una sbornia che ha durata di eternità. Ne siamo pronti?

domenica 9 luglio 2023

Venti estati utili

Oggi non funziona il condizionatore. Oltretutto è domenica, trentacinque gradi all’ombra, lo assicura 3BMeteo. La cosa più drammatica che potesse accadermi, penso. E il condizionatore l'oggetto più utile mai inventato.

Quel termine, utile… Mi distoglie per un attimo dalla sudorazione. La concretezza del fare, associata alla calura estiva, appare quasi un ossimoro. Non la gratuità di gesti sospesi nella canicola del meriggio – scartare un ghiacciolo, sdraiarsi sul divano, posare gli occhiali –, ma un preciso tornaconto.

Dove e quando l'ho già sentito?

No, non si tratta di Eliot, lui dentro le pagine del calendario sapeva cogliere l'intenzione psichica. Utilizza un aggettivo umanizzante come crudele; lo è per il grande poeta aprile, il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera.

Mica male, ma inutile. Che cosa te ne fai di una stagione così, tanto più se i pollini ti fanno starnutire? Il fiore deve attendere ancora un altro po' prima di farsi ciliegia.

Ci si avvicina Flaiano, e però con troppo slancio; per una volta, il suo proverbiale disincanto viene convertito nella disposizione acritica del tifoso:

Non c’è che una stagione: l’estate.

Tanto bella che le altre

le girano attorno.

L’autunno la ricorda,

l’inverno la invoca,

la primavera la invidia

e tenta puerilmente di guastarla.

Bruno Martino invece l'estate la odia. Troppo calda come i baci che ho perduto –, piena di amore che è passato, che il cuore mio vorrebbe cancellar... No, siamo decisamente fuori strada.

La memoria comincia a dischiudersi, della città sepolta emerge un comignolo. Si parla di venti estati utili, a cosa non mi è ancora chiaro, venti estati come ovuli femminili che vanno consumandosi nell’oscurità del ventre, un giorno ti svegli e sei in menopausa.

Faccio una ricerca su Google e trovo l'intera frase e il suo autore. Sono parole di una nitidezza spietata, esattezza struggente. O forse, più umilmente, sono anch'esse utili. Andrebbero meditate a lungo. Se non fosse che vengono comprese solo quando la lama dell'aratro comincia ad arrugginire.

Ma lasciamo la parola a Enrico Vanzina. È lui, il regista di Vacanze di Natale e Sapore di mare, l’inventore dei cinepanettoni, il genio che esce dalla lampada. Per ammonirci:

La vita sono venti estati utili, è triste ma è così. Dai quattordici ai trentaquattro anni succede tutto: conosci quella che amerai, quella che ti lascerà, conosci quella con la quale farai i figli, conosci gli amici veri. Succede tutto in queste estati.

Ps - queste estati, nel mio caso, erano quelle estati, accompagnate dalla voce di Umberto Tozzi. Usciva dai juke-box, dalle radioline appese allo specchietto retrovisore, da ovunque per strillare ti amo a tutto ciò che incrociava. In queste mie estati da cinquantasettenne, succede solo che si guasti il condizionatore.