domenica 29 agosto 2010

Contemporanei


Il 26 agosto è morto Raimon Panikkar, lo scopro soltanto ora.

Tempo fa, chiedendomi in quale cavolo di epoca fossi ruzzolato, mi ero dato questa provvisoria risposta: sono vivo, mangio, respiro mentre mangia, respira e vive anche Raimon Panikkar.

E' un mio contemporaneo, insomma. E trovavo consolante questa sensazione.

Contemporanei come Dante e Guido Cavalcanti, come Bacon, Shakespeare e Cervanes; gli ultimi due morti addirittura lo stesso giorno, il 23 aprile 1616. Oppure come Topolino ed Eta Beta, il cui nome esteso è Pluigi Psalomone Pcalibano Psallustio Psemiramide Pluff, e condivide le rogne di Topolino con Pietro Gambadilegno pur provenendo da un tempo futuro, il 2447.

Cosa Topolino faccia esattamente nella vita però non l'ho mai capito, e a maggior ragione Eta Beta; a parte sgranocchiare palline di naftalina e starnutire ogni volta che vede una banconota, a cui è allergico.

Raimon Panikkar invece è stato un grande teologo spagnolo. Ma anche un chimico, un letterato, un filosofo; tutte materie in cui aveva conseguito una laurea, oltre alle svariate honoris causa. Pare inoltre che parlasse una ventina di lingue, anche se lui si schermiva all'argomento, spiegando che in modo fluente e corretto non più di una decina, tra cui l'italiano.

Il nucleo del suo pensiero teologico si può riassumere nel concetto di “cosmoteandria”, presente anche nel titolo di uno dei suoi numerosi libri, qui pubblicati solo in parte; di ciò bisogna ringraziare Jaca Boock per il prezioso lavoro di traduzione. Scomponendo questo termine spigoloso che sembra uscito da un fumetto di Eta Beta, otteniamo tre elementi distinti. Vale a dire il mondo o meglio la realtà materiale (cosmos), Dio (theos) e l'uomo (anthropos).

Nessuno di essi, come in una trinità innervata, reificata nell'ordine manifesto delle cose, può però darsi in modo indipendente dagli altri. E' la relazione, come già aveva intuito Agostino, a costituire l'identità delle singole parti, e parlare di gerarchie spirituali non avrebbe dunque alcun senso. Dio ha bisogno dell'uomo quanto l'uomo di Dio. E il mondo, questo mondo, è il luogo del possibile incontro.

Lo spirito - santo o meno - rappresenta così il tramite di tale relazione tra uomo, Dio e mondo, il cui effetto sta semplicemente nella consapevolezza della sintesi: tornare alla casa del Padre non significa altro che tornare a casa propria, come per gli alchimisti rinascimentali.

Oltre alle suggestioni alchemiche, il pensiero di Raimon Panikkar si nutre della tradizione speculativa orientale, da lui approfondita per origini biografiche (il padre era un aristocratico indiano), studi e lunghi soggiorni a Varanasi, la città santa nei pressi del Gange. A chi gli chiedeva come potesse dichiararsi vicino alle posizioni buddhiste e induiste, senza negare il Cristianesimo a cui si era votato come sacerdote e gesuita, lui rispondeva che la spiritualità non procede per opposizioni logiche:

"Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindú e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano".

Come a dire che se, nella carne, non si può essere vivi e morti allo stesso tempo, nell'anima questo non solo è possibile, ma necessario. Tanto che il Cristianesimo sarebbe davvero una piccola cosa - una cosa morta - se chiudesse le finestre allo spirito, quando soffia all'esterno delle proprie stanze. O come amava dire, la religione è qualcosa che lega (religio) ma anche slega, libera ed espone al libero flusso delle cose, soprattutto quelle che più ci appaiono estranee. In questo immetterci al cospetto dell'Altro, in tutti i sensi, il Cristianesimo scorge ciò che gli è proprio. Ed è il sublime paradosso religioso, la folle scommessa.

Ecco, più che un teologo sincretico, occupato in costruzioni meccaniche con elementi spuri, Raimon Panikkar appariva allora come qualcuno che spalanca porte e finestre e si dispone alla brezza dello spirito, che per definizione soffia dove gli pare. Sì, un uomo che amava respirare, vivere, forse anche magiare come il Buddha storico, che dicono sia morto per un'indigestione di funghi.

E così pure io continuo a mangiare, vivere, respirare. Ci mancherebbe. La sera mi capita di leggere qualche pagina di Dante, Shakespeare, Cervantes o più spesso Topolino - ma chissà che fine ha fatto Eta Beta, non se ne parla più... E canticchio una canzone triste e leggera, perfino, ma solo ogni tanto.

La parole di quella canzoncina però continuano a sfuggirmi, e anche la nostra epoca senza boccaglio. Dove Raimon Panikkar ha smesso di aprire porte e finestre e poi semplicemente respirare. Ma anche di pensare all'ossigeno che mette in relazione il cielo con il cuore, di scriverlo in lunghi e profondi volumi, e di pregarlo di continuare a soffiare in questo tempo, già che un altro tempo non è dato.

L'unica felice eccezione è Eta Beta, naturalmente, che ha in tasca un biglietto di ritorno per il 2447.

E' allora grazie anche a Raimon Panikkar se ho capito che questa è la porzione di orologio a me assegnata, la mia chance e unica scheggia di eternità. Ma con chi posso condividere il ticchettio delle lancette, gli scossoni del viaggio, adesso che lui è tornato a casa? Vediamo quali compagni di scompartimento sono rimasti: Denis Verdini, forse... O Maria de Filippi, Lapo Elkann, Belen Rodriguez.

Ma soprattutto mi mancherà il suo sorriso, il sorriso di Raimon Panikkar. Lo schiudersi della labbra in quel modo che nemmeno dopo anni di actor studio, no, in quel modo lì sorrideva solamente lui... Un uomo di cui era bello sapersi contemporanei.

(PS - Segnalo questo breve e intenso filmato su Youtube, dove è possibile trovare molto altro materiale sul teologo scomparso, tra cui lo spezzone di una bella intervista realizzata da Franco Battiato. Ricordo inoltre, e raccomando, anche l'ottimo sito curato da Gianfranco Bertagni. In cui è presente una mirata selezione di testi in italiano di e su Raimon Panikkar)

martedì 24 agosto 2010

Antigone o Creonte?, o sul dilemma etico degli autori Mondadori


Nel mio post precedente ho fatto riferimento a un utilizzo alternativo e più occasionale di questo blog, non certo a un congedo definitivo, come da alcuni è stato inteso. In particolare, verranno pubblicati testi con una genealogia indipendente - il mio è insomma un congedo dall'attività di blogger, che alla lunga ho trovato sterile e dissipativa. Coerentemente a quanto anticipato inizio col presentare un mio commento inserito sul sito web dello scrittore Fulvio Abbate. Il tema era quello degli autori pubblicati da Mondadori, in seguito alla richiesta di chiarimenti amministrativi, o più in generale etici, del teologo Vito Mancuso.


Caro Fulvio,
in questo tuo ultimo intervento sul problema di coscienza che coinvolge gli autori Mondadori, sollevato dal lucido e appassionato articolo di Vito Mancuso sulle pagine de
la Repubblica, in cui rilanciava interrogativamente la questione, tu suggerisci una soluzione (univoca) che potremmo definire etica, e così riassumibile:

andarsene da Mondadori. Punto. Stop.

Ascoltandoti con il consueto interesse, a me è venuto però da spostare l'asticella del dubbio ancora più a monte, chiedendomi a quale etica tu e Vito Mancuso faceste riferimento...?

Non è una provocazione, davvero, ma un dubbio serio e argomentabile. Infatti, mentre Mancuso manifesta un'incertezza quantomeno procedurale, tu emetti una sentenza che non contempla margini di discussione. Aderendo quindi, senza esitazione, a un orizzonte pubblico e civile dell'idea di bene, che come un uovo di Pasqua già contiene in sé la sua risposta.

Ma esiste anche un'etica dei rapporti umani concreti e individualizzati, ciò che un tempo si sarebbe forse chiamato "onore". Proviamo allora, anche solo per gioco, a osservare tutta la faccenda in una particolare definizione policentrica dell'etica, così come prospettata dalla riflessione filosofica di Immanuel Kant. E cioè seguendo l'ipotesi, suggerita dagli stessi autori Mondadori, che nella specifica situazione siano presenti non una ma due figure di bene, o di virtù laica, tra loro in tacita competizione.

La prima figura di bene, unanimemente addotta dal coro dei mondadoriani, è una sorta di adesione prerazionale ai valori di amicizia e di riconoscenza umana. Che si accompagna a un giudizio netto e coerente in merito ai redattori, capi redattore, direttori di collana e funzionari Mondadori, tra cui lo stesso Antonio Franchini da te giustamente ricordato. Ecco, la ragione da loro implicitamente sostenuta sarebbe quella che non si tradisce chi ti ha trattato con rispetto e favore, non si voltano le spalle all'amico che ha così consentito, negli anni, la tua massima libertà espressiva.

Sull'altro piatto della bilancia kantiana, abbiamo però la presunta - anzi probabile - negligenza amministrativa dei vertici aziendali, che grazie agli appoggi politici (in questo caso sono molto più che appoggi, direi una coincidenza di stato), che grazie insomma alla nota condizione del conflitto di interessi, si configurerebbe ora come zavorra di un male non più personale ma collettivo.

Una legge che non mira, come dovrebbe, all'interesse pubblico. Ma a una utilità privata, meschinamente aziendale.

Abbiamo a questo modo due figure di bene che confliggono. La lealtà ristretta e individualizzata a un altro concreto, umano e professionale, di contro alla lealtà all'Altro universale e indotto: il popolo, la società civile, le istituzioni democratiche e perfino un'idea trascendentale e assoluta di giustizia. Ma abbiamo anche due figure di male altrettanto esclusive, quali il disonorevole tradimento dell'amicizia e della riconoscenza umana (andando via da Mondadori), che si contrappone al tradimento dei patti di equivalenza, anche ma non solo economica, di una comunità organizzata su basi formali (rimanendo in Mondadori).

Questo breve esempio, magari un poco ingenuo, lo trovo comunque utile per spostare il giudizio da un piano che a me appare eccessivamente astratto - una vaga idea di bene e di virtù - a uno specifico aspetto della questione, più sdrucciolevole ma anche più preciso, incarnato. Che porta a un esito non meccanico e moralistico, ma ineludibile nella sua forma logica, nella sua cogenza interrogativa.

Infatti gli autori che decidessero di continuare a pubblicare i loro libri con l'editore Mondadori, considererebbero, anzi considerano il bene privato - la lealtà all'amicizia - superiore al bene pubblico, pur non negando necessariamente la virtù civile che viene così subordinata. Darebbero insomma una risposta "filologicamente" di destra, intendendo con destra quella corrente storica del pensiero che fonda l'idea del bene nella fedeltà cameratesca all'amico, e cioè nella parte rispetto a un tutto percepito come artificioso e lontano.

Ed è una prospettiva tribale, da moralità del sangue e della terra. Dove l'interlocutore si limita all'orizzonte della sua visibilità fisica, all'esperienza vissuta tramite i sensi.

Mentre chi optasse per un cambio di editore, come don Andrea Gallo, reputa, almeno da un punto di vista gerarchico, il bene pubblico quale bene superiore. E dunque vincolante i comportamenti personali, in conseguenza dell'intellettualizzazione e astrazione dell'immagine dell'altro, come credeva lo stesso Kant. Un bene maggiore, se non un bene assoluto, e per tale ragione un bene democratico. Ma più mediato e slegato dall'esperienza diretta e viscerale del mondo.


O se vogliamo dirla con una battuta: gli autori Mondadori si trovano ora a dover scegliere tra Antigone e Creonte, e non è detto che i ruoli siano così scontati...

lunedì 16 agosto 2010

(...)




Come già anticipato nel post del 14 agosto, Fontana con soldino termina qui. Non essendosi stabiliti significativi legami di reciprocità, diciamo così, non mi sembra di dovere alcuna ulteriore spiegazione. Se non forse a Carlo, l'unico assiduo e partecipe frequentatore di questo blog, che essendo anche mio amico e complice libraio, avrò di certo occasioni in ciò che chiamano "vita vera". Un'espressione che fino a qualche tempo fa trovavo nauseante e sciocca - come se non ci fosse verità, perfino più verità, in una pagina di Faulkner che in una domenica pomeriggio in visita a un ipermercato - ma che sto invece tornando a rivalutare. Massi, caviamocela a questo modo: saluto e ritorno alla vita vera, o almeno ci provo ad averne una come dio comanda. Quanto a Fontana con soldino, ho deciso di non chiudere in via definitiva. Di cancellare tutto, insomma. Oltre alla memoria in archivio di questa esperienza, che in ultimo valuto come positiva e perfino emozionante, è possibile, anzi probabile, che in futuro io faccia qui confluire i testi che andrò via via realizzando, il mio lavoro giornalistico e narrativo. Le cui finalità e cadenza, trovo importante sottolinearlo, saranno però autonome ed estranee alla curiosa genetica di un blog. Saluti, dunque. E buone cose.

sabato 14 agosto 2010

Capriole, o sui dubbi ginnici del blogger


Mi sono accorto, stavo verificando il numero delle visite quotidiane su questo blog, c'è un contatore elettronico che se ne occupa non devi fare nulla, solo inserire un codice html e poi accenderti una Marlboro, se fumi, io no, mi sono accorto che questo blog raggiunge una media di contatti intorno alla cinquantina, almeno quando pubblico un nuovo intervento. Che, pensavo, è più o meno il numero di persone presenti durante l'ora di ginnastica a scuola, quando vengono unite due classi normali da venticinque. Metà della palestra viene poi occupata dalle femmine con una professoressa tutta per loro. Di solito batte un tamburello, o perlomeno nei primi anni ottanta funzionava così, per qualsiasi cosa le professoresse di ginnastica battevano un tamburello, e vestivano in tuta. Ma questo non solamente nelle ore in cui erano impegnate dalle lezioni, anche di pomeriggio, la sera quando vanno a cinema con il fidanzato, sempre con una tuta attillata per evidenziare i muscoli tonici e scattanti, geometrica compostezza femminile che assale pure le compagne, impegnate in esercizi ortogonali da raduni del sabato fascista, con Starace che balza nel cerchio di fuoco a torso nudo e pantaloni immacolati e lunghi. L'altra metà della palestra è invasa da maschi scatenati e sciolti, il professore legge la gazzetta e si accende una Marlboro, se fuma, io ora non più, mentre gli scatenati giocano a pallone con regole autarchiche, o fanno le capriole sopra a un materassino verde. Chi già frequenta un corso di judo, è sempre più bravo degli altri a fare le capriole sul materassino verde - giocando a basket, a me venivano così così - mentre quelli che ascoltano la musica dark non la fanno proprio ginnastica, dicono che è una roba inutile volgare rozza, restano in disparte a fumare Rothmans, Chesterfield oppure Dunhill. Gli altri, terminate le loro capriole, rispondo a quelli che ascoltano la musica dark, il ciuffo cadente fin sopra agli occhi e gli abiti neri, anelli e collane ma non pesanti come quelle dei metallari - i tatuaggi ancora non dilagavano, e nemmeno il piercing -, gli altri rispondo con una parola in dialetto di queste parti che suona più o meno così: "fruscett", credo si capisca cosa vuol dire. Io invece ascoltavo Bruce Springsteen e facevo le capriole sul materassino verde e giocavo a basket. Fumavo anche Marlboro, allora. Insomma stavo a posto. A parte questo, mi sono accorto dal mio contatore delle visite - sta in basso a destra, la scritta ShinyStat - che ogni volta che pubblico un nuovo intervento è come se facessi una capriola davanti a tutti, ragazze e ragazzi, durante l'ora di ginnastica. O come se leggessi il mio temino davanti alle due classi nuovamente ricomposte e distratte: i maschi non vedono l'ora di tornare in palestra la settimana successiva, fare le capriole e giocare scatenati al pallone, la professoressa in tuta, sotto sotto si intravedono le mutandine, forse sono di pizzo, il tamburello tum tum tum, i dark che fumano pigramente Rothmans, Chesterfield oppure Dunhill. E le femmine, le femmine non so... Davvero, non so, continuo a non sapere e non capire. Eppure, attraverso questa memoria scolastica, mi sembra di poterlo percepire, lo vedo prima ancora di sentirlo, una cartolina dagli anni ottanta che mi ha lasciato un po' di malinconia e molti dubbi. Non so dunque se continuerò ad andare avanti col mio blog, Fontana con soldino è possibile che finisca qui. Non c'è progetto, relazione, gioco. E nemmeno riconoscimento, diciamolo pure. Un esercizio ginnico senza disciplina del corpo e umana condivisione. Sì, faccio sempre più fatica a comprendere le ragioni di una capriola. E non avendo fatto judo, non ho mai imparato a cadere in piedi.

venerdì 13 agosto 2010

Sara

Nel telefonino, a me la rubrica elettronica nel telefonino,
almeno all'inizio, a me sembrava una grande invenzione:
semplice, tecnologica, svelta e tutto quanto:
ti viene in mente qualcuno e premi un tasto
e scorri un elenco e premi un altro tasto
e dall'altra parte vien fuori il tuo nome,
sopra a un altro telefonino.
Ecco, io pensavo, almeno all'inizio,
che doveva essere così per ognuno.
Ma la mamma, vedo mia mamma
lei continua a ricopiare i numeri su un foglietto
di carta ingiallita, con le righine piccole, da computisteria.
Così quando le vien da chiamare Pincopallino, la mamma
cerca il suo foglio di computisteria nella borsa,
dove ha segnato tutti numeri di telefonino
di tutte le persone che conosce
e anche il gruppo sanguigno, se la investono.
In questo modo, mia mamma, ma solo certe volte,
quando trova il foglietto ingiallito nella borsa,
le è passata anche la voglia di chiamare,
si accorge di non avere mica niente da dire
a Pincopallino, e rimette nella borsa il suo foglietto.
Da alcuni giorni - perché non provare mi sono detto -
ho iniziato a praticare anche io questo sistema:
quando mi vien da telefonare, qualcuno che conosco,
sta nella rubrica elettronica del mio telefonino,
prima cerco un foglietto, un pezzo di carta qualsiasi,
nel portafoglio o in tasca o perfino in terra,
tanto non cambia nulla, è per prendere tempo...
rimandare.
Fino a che, ieri, non incontro uno
- stavamo al supermarket -
uno gentile, mi vede chinato mi dice Cosa stai cercando,
posso darti una mano, lo faccio volentieri?
E guardava anche lui per terra,
sotto gli scaffali, dove ci sta lo shampoo antiforfora
e a me veniva un po' male, mandarlo via così, era uno gentile
doveva essere lì a causa della forfora e insomma
gli rispondo Sì, grazie, sto cercando Sara:
dopo Sabrina e prima di Stefano.

giovedì 12 agosto 2010

La cagna di nove anni

La cagna di nove anni oggi mi ha detto che non voleva entrare nella fontana per bagnarsi la pancia. In realtà non me l'ha proprio detto, ma è la prima volta che la cagna di nove anni non entra nella fontana, quindi si accovaccia come uno che entri nel mare, prima di tuffarsi, prima di tuffarsi uno si bagna le braccia e poi la pancia e poi il petto. Infine il tuffo. E' la prima volta che la cagna di nove anni non vuole immergersi nella fontana come un bagnante appena entrato in mare, a piccoli pezzi, provvisori compartimenti di sé, con le ondine che gli arrivano ai coglioni e lui saltella all'arrivo di ogni nuovo frangente, che gli lascia un alone umido sul costume, come se si fosse fatto la pipì addosso. Così, pensavo, la vita di un cane somiglia un po' a quella di chi sia lì lì per fare un tuffo: prepararsi e aspettare saltellando il proprio momento, prepararsi e aspettare racchiuso in parti, recinti, scatolette e bocconi, con il guinzaglio in bocca e il solletico ai coglioni delle ondine. Sì, pure io sono un po' stufo di bagnarmi sempre e solo la pancia, ho risposto alla cagna di nove anni.

martedì 10 agosto 2010

Divagazione patetica che più patetica non si può, o sulla fisica dei solidi



Oggi ho visto la mamma di Franca che non riusciva a salire sopra alla sua bicicletta.

Franca è una mia compagna di scuola delle elementari. Piccola, graziosa, minuta. La mamma di Franca è sempre stata tutto il contrario: un donnone dall'aspetto contadino, direi romagnolo. Anche dal cognome si intuisce che non sono originari di queste parti, ma non saprei bene dove collocarli, né quanti anni potesse avere allora.

Alle elementari le coordinate spazio-temporali sono come fluttuanti, e si precisano solo dentro la presenza di un corpo.

Ginevra aveva capelli lunghi, soffici e luccicanti. Ricordava la protagonista di un carosello che inizia con un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, e continua con una famiglia scandinava che lancia sassetti dentro l'acqua. La ragazza del carosello però era bionda, mentre i capelli di Ginevra neri neri, del colore del corvo. Un giorno Ginevra denunciò la maestra per averle strappato una ciocca dei suoi scintillanti capelli corvini, e si presentò a scuola con un taglio a caschetto, alla Caterina Caselli. Non sono certo dell'autenticità dell'episodio, ma l'immagine della maestra che impugna i lunghi capelli di Ginevra e poi la strattona da una parte all'altra della classe, mi sembra possedere qualcosa di familiare.

Sì, familiare come un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, mentre una famiglia scandinava lancia sassetti levigati sopra al pelo dell'acqua, rimbalzano e rimbalzano ma non vanno mai a fondo. Restano come sospesi nel tempo.

Oppure è il busto esile e dritto di Giovanni, che spunta appena dallo schienale curvo e sottile, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano le sedie e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto. Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il luogo dell'ispezione, e già da quello intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi in classe, sempre più intenso e penetrante.

Farsi la cacca addosso, già, in seconda elementare.

E poi la gioia feroce di essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli - inizio a ridere insieme agli altri, a schernirlo e a dargli del puzzone smerdolone - mentre da sotto la montatura pesante dei suoi occhiali in celluloide spillano i primi goccioloni. Ma lui continua a rimanere immobile, con una lava marroncina che spunta e cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia.

Un totem, un vulcano senza sonoro. Questo è Giovanni. Da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Di Corrado rimane la minuscola cicatrice di quando mi morse un avambraccio. Stavamo al doposcuola, fino alle quattro e mezzo del pomeriggio tutti i giorni, tranne il sabato e il mercoledì, poi iniziava Zorro in tv. Un Pitbull che non molla la presa, in tre cercavano a turno di staccare Corrado dal mio avambraccio, di aprirgli le mascelle con un righello o un compasso. Dovette arrivare il bidello, che mi liberò come l'amo dalla trota. I miei genitori, con prudenza e una sottile aristocratica vena di razzismo - le condizioni igieniche in cui viveva la famiglia di Corrado apparivano quantomeno dubbie -, mi costrinsero a seguirli poi al pronto soccorso, per l'iniezione antitetanica.

L'unica differenza tra Zorro e il carosello di Ginevra è che Zorro aveva un cavallo nero. Mentre Corrado, lo chiamavamo Calimero.

Isacco invece era sempre l'ultimo a terminare il compito. Chi prima chi dopo, consegnava il suo foglio dove Pierino ha cinque mele, ne mangia due, quante ne rimangono? Cose così, lieve brezza per i neuroni. Ma evidentemente non per Isacco. Che dopo svariati minuti di penosa concentrazione iniziava a sudare, a sbuffare, ad ansimare. Infine, rassegnato ma non per questo meno rabbioso con se stesso, ribaltava in terra il suo banco di formica verdina, esibendo il vasto firmamento delle cicche appese là sotto.

Un' eredità calcinata e rosa pallido, quella che Isacco ci rivelava, appartenuta a chissà quali precedenti scolaresche. Che ci passavano le loro deiezioni alimentari come il testimone dell'atleta nella staffetta.

E poi l'abito di Silvia una mattina di carnevale. Un vestito lungo e azzurro e ricamato, da damina incipriata alla corte del re Sole, con la sottoveste in pizzo e un'anima conica di metallo a sostenere il tutto. Ricordava la struttura della gondola lariana dei Promessi sposi (l'immagine era presente nell'abecedario alla voce B di barca), ma il viso era quello ovale e splendido di una piccola matrioska, più bella di Orietta Berti. E vederla così, per la prima volta senza l'offesa di una pecetta bianca incollata all'interno di una lente, che gli oculisti in quel tempo amavano infliggere ai bambini.

Corpi, sì, solo questo. Corpi da vedere e da annusare.

Come quello della mamma di Franca, che oggi non riusciva a salire sulla sua bicicletta. Non la incontravo da anni, di lei solo il ricordo di quando raggiungevo la figlia per i compiti e invece di una Brioss ci offriva un caco arancione e sfatto, nelle interminabili merende. Franca invece non l'ho più vista, ma mi diceva un altro compagno - Claudio, i capelli ancora tutti neri e conficcati sul cranio minuscolo e appuntito - che Franca, 43 anni, è già diventata nonna. La mamma di Franca è dunque la bisnonna. Ci prova e ci riprova, alla maniera di chi tolga le rotelle alla Graziella per la prima volta, ma il corpo pesante e vecchio viene ogni volta reclamato dalla terra.

Non come i sassetti della famiglia scandinava, che stanno ancora adesso rimbalzando, il cavallo bianco correndo a briglia sciolta sul bagnasciuga, senza nessuna forza di gravità, nessuna divinità marina o ctonia a ricordare che il prestito è scaduto.

La cosa veramente strana, allora, non è vedere i tuoi genitori invecchiare prima di sprofondare con un ciuf. A quello ti abitui giorno per giorno, il peggio viene dilazionato nello specchio dell'abitudine. Strano e doloroso è incontrare i genitori dei tuoi compagni di scuola delle elementari, ma non sapere infine cosa dire, se ti hanno riconosciuto anche con i capelli diradati, la mimetica da mercenario vezzoso, mentre loro stanno arrancando verso la vetta di un sellino. Né se abbia senso un gesto, una mano.

Ed è ancora il fermo immagine di Giovanni, caro Giovanni, il suo imperturbabile monumento di merda e lacrime, a venirmi in aiuto. Perdonami Giovanni, ci ho messo trentasette anni a capire che l'arguzia non è la migliore tra le virtù, né tutti i luoghi comuni sono stupidi e superficiali. Ad esempio quello che dice cacca di bimbo cacca di angelo, e tu avevi solo perso qualche piuma...

L'altro un po' meno

L'autista di quel furgone ha un braccio abbronzato
e l'altro un po' meno, tutti giorni fa consegne
suona al mio citofono, mi dice Prego scenda
ho un pacco per lei deve firmare il bollettino
dice l'autista di quel furgone parcheggiato
in seconda fila, e io scendo immediatamente.
La lieve incrinatura nel tempo quotidiano
che trasforma in dono ciò che da mesi era atteso
ma non meno sorprendente, come una promessa
mantenuta malgrado il tempo, che non è mai
quotidiano. O forse è il presente, somiglia un poco
all'autista di quel furgone che mi fa cenno
con la mano come dire Sei tu? Finalmente
non sai da quanto ti cerco, vengo da lontano.
E lo si vede proprio che il braccio è più abbronzato
al sole tiepido in aprile dal finestrino
l'altro un po' meno, mi dice firmi il bollettino.

venerdì 6 agosto 2010

Carburatori, pistole, cartelle maculate & torta di mele (dimenticavo: orzata)


Sfogliando un forum di discussione su internet, scopro che una mia amica, scrivendo pubblicamente a una conoscente comune, la chiama tesoro. Non avrei mai detto che questa mia amica utilizzasse l'espressione tesoro. In genere la usano gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne nelle commedie americane degli anni cinquanta, la traduzione italiana per darling. Nei film recenti credo si siano invece messi a tradurre darling con cara, se non sono gli americani stessi che ora dicono dear, non so, ma davvero non me l'aspettavo che la mia amica avesse questa espressione tra le sue corde.

O forse, più che nelle corde, un'espressione sta tra le gambe delle persone, come per gli sportivi. Ci sono quelli che hanno nelle gambe i cento metri in meno di undici secondi. Magari non li faranno mai, resteranno tutta la vita sprofondati dentro un divano a sgranocchiare pop corn e a guardare Elisir in televisione e poi la moviola, la domenica sera, e però continueranno ad averceli tra le gambe: i cento metri in meno di undici secondi, come Mennea che a vederlo non l'avresti detto mai.

Dopo che mi sono imbattuto in questo forum di discussione su internet, ho iniziato a pensare che la mia amica aveva tra le gambe l'espressione tesoro anche tutte le volte che siamo usciti assieme: all'Excelsior per un film, l'unico film che si può vedere qui; il miglior margarita al Jom Bar di Tresivio; Morbegno la sera a camminare e a bere acqua fresca con l'orzata, parlando di libri nel senso di come si impilano ed espongono, si catalogano in una grande libreria. Ecco, tutte quelle volte lì a me è venuto il dubbio che lei sotto sotto pensasse la parola tesoro, come gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne dentro i film americani degli anni cinquanta, quando vanno incontro al marito sullo zerbino con la scritta welcome e gli annunciano radiose che la torta di mele è venuta uno splendore: "a shining apple cake", chissà se dicevano così...

Tesoro però lo dicevano di sicuro, e anche la mia amica, l'ha perfino scritto, in un forum di discussione su internet.

Il grande scrittore tedesco Uwe Johnson ci ha lasciato dei libri bellissimi, come Schizzo per un infortunato. Anche il protagonista del libro è uno scrittore tedesco, riuscito a sfuggire negli Stati Uniti dalla Germania nazista, dove ha poi ucciso la moglie per averne scoperto il tradimento con un politico fascista. Nella realtà, non so se Uwe Johnsonne ne fosse già al corrente scrivendo il suo racconto, ma la sua stessa moglie aveva una relazione con un funzionario dei servizi segreti della DDR, a cui spediva delle informative che riguardavano la vita privata del marito, sorvegliato per tutti i lunghi anni del suo soggiorno americano.

Ogni cosa è diversa da come sembra nei libri e nella vita di Uwe Johnson. Tua moglie, la donna che ti aiuta a mettere un cerotto quando inciampi in quel maledetto foruncolino facendoti la barba, ti spia e tradisce con il peggior nemico, gli affetti si tramutano in conflitti. Ma i conflitti non esplodono mai e restano sopiti, inespressi, come i centro metri tra le gambe mentre guardi Elisir in televisione, pescando dentro un sacchetto gonfio e unto di pop corn.

Walter Guastaldi invece era uno che non te le mandava a dire. Una volta, in terza media, l'ho visto estrarre una pistola da una cartella ricoperta con il pelo maculato di un'animale e puntarla in fronte a uno che il giorno prima gli aveva pestato un piede o detto qualcosa di sbagliato. Era la prima volta che tutti noi ci trovavamo davanti una pistola vera, ma la scena non ci impressionò davvero più di tanto. Se uno il giorno prima uno ti pesta un piede o dice qualcosa di sbagliato, è normale che il giorno dopo gli punti una pistola tra il naso rosso per il raffreddore e l'attaccatura bassa dei capelli. In televisione funziona così, non sto parlando di Elisir.

Poi suonò la campanella e rientrammo in classe al termine dell'intervallo. Anche quello con l'attaccatura bassa dei capelli, fortunatamente ancora vivo e col suo bel nasone rosso, cercando di non starnutire mentre camminava trascinando i piedi al fianco di Walter Guastaldi, attento a non ripestarglieli. Lui al primo trillo si era affrettato a riporre con cura la sua pistola tra il pelo bianco e marroncino forse un giorno appartenuto a un cavallo, o a una capretta sardo-maltese.

Adesso Walter Guastaldi fa il meccanico, è sempre alto ma non è più magro magro, i capelli completamente ingrigiti e sottili baffetti da giocatore di bocce francese, carezzati con soddisfazione dopo un boccia-punto millimetrico in un vicolo acciottolato di Marsiglia. Anche in terza media Walter Guastaldi faceva il meccanico, entrava in aula con le mani orgogliosamente adornate dall'alone di grasso di un carburatore difettoso, ma l'officina era del padre e lui lo aiutava soltanto; almeno quando non era occupato a puntare una pistola in fronte a qualcuno. Le volte in cui l'Opel Corsa di mia mamma perde colpi, lei dice non portarla alla Opel, quelli non capiscono niente, ci prendono i soldi. Portala da Walter che è uno onesto e svelto e insomma è un bravo meccanico. Questo pensa mia madre di Walter Guastaldi, e lo penso anche io.

L'officina si trova poco prima del ponte sull'Adda andando da Sondrio verso Albosaggia, a ridosso di un enorme pornoshop. Quando ci vado, in officina, non nel pornoshop, lui mi riconosce immediatamente dall'automobile, e mi dice ciao caro. Appena apro la portiera e gli vado incontro per stringergli il dito mignolo sollevato come per vedere se c'è vento - i meccanici non ti danno mai la mano, questa è la prima regola - lui mi dice sempre e solo così: Ciao caro. Che a me quando un uomo ti dice ciao caro, non so perché, ma di più quando me lo dice uno che in terza media arrivava a scuola con una pistola nella cartella di pelo maculato marrone e nero e bianco, a me viene un po' da ridere. Ma un ridere bello, che mi lascia contento anche dopo.

Invece se uno mi dicesse tesoro non credo che sarei tanto contento. Lo dicono gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oltre alle donne nelle commedie americane degli anni cinquanta. Ma lo scrive anche la mia amica su internet. Ricordo che quando le ho offerto un bicchiere d'orzata nella veranda di un piccolo baretto di Morbegno, era la prima volta che assaggiava quella bevanda. Ecco, un'altra di quelle cose, non ho mai capito bene il motivo, ma sei contento quando sei tu a far scoprire a qualcuno a cui tieni una cosa che a te appare come un prezioso segreto. E l'orzata è certamente una cosa preziosa, forse non segreta ma buona, e perfino bella: se ti trovassi a giocare bocce insieme a Walter Guastaldi per un vicolo di Marsiglia, potresti scambiarla per un pastis.

Eppure un'orzata non è un pastis, una moglie non è un'agente segreto che ti spia mentre fai la barba, un'amica non dovrebbe usare espressioni come tesoro e un meccanico salutarti con ciao caro, a distanza di trent'anni da quando l'hai visto puntare una pistola in fronte a un tuo compagno di pallamano. Così, più ci giro intorno, e più un finale a questa storia davvero non riesco a trovarlo. Ma tutto ciò mi procura una strana e misteriosa confusione, uno stordimento che diventa il principio di una serenità sommessa. La quale sfoca e mescola i pensieri come lo sciroppo d'orzata, quando affonda e si disperde dolcemente in un bel bicchiere di acqua fresca.

giovedì 5 agosto 2010

Il Bar vecchio e il Bar nuovo


Il Bar vecchio sotto casa mia l'hanno comprato anche quello i cinesi. Ora mia mamma lo chiama Bar nuovo, ma al pomeriggio ci stanno sempre i pensionati che giocano a briscola, le carte unte e ingiallite, con in palio il giro dei frizzanti corretti Aperol o per i più ostinati Campari. La rivincita a scopa.
La sera, però, già a partire dal tardo pomeriggio, da quando il Bar vecchio è diventato il Bar nuovo sono arrivati anche gruppi di giovani marocchini, giovani albanesi, giovani macedoni e giovani "dei nostri", come si dice da queste parti. Più che altro, giovani.
Mia mamma pensa che sia per via della cameriera del Bar nuovo: è piccola, graziosa, gentile e con un sorriso largo e contagioso, che scatta come il braccio del Big Jim quando viene pigiato il tasto nascosto sulla schiena.
In questo caso, il sorriso della cameriera del Bar nuovo scatta quando vede qualsiasi cosa che si muove. Lei sorride. Automaticamente. Pavlovianamente. Come se avesse solamente due opzioni espressive: sorriso on \ sorriso off.
Alcune sere fa sono entrato al Bar nuovo per acquistare una bottiglietta di acqua minerale, da sorseggiare durante un viaggio in automobile fino a Milano. Appena ho attraversato la porta di ingresso è partito il braccio del Big Jim, e la cameriera del Bar nuovo mi ha offerto uno dei sorrisi più sorridenti che, giuro, mi ha fatto mai uno "dei nostri", come dicono da queste parti.
"Desidero una mezza minerale da portar via" ho detto subito io. "Non gasata, per piacere".
"Come ti chiami?" mi ha risposto la cameriera del Bar nuovo, un po' parlando e un po' sorridendo: on, off, on, off...
"Mi chiamo Guido" le ho detto ricambiando con poca convinzione il sorriso. "E tu, posso sapere anche il tuo nome?"
Mi ha risposto con un suono quasi immediatamente scordato, ma sono certo che non fosse un nome cinese. Ci ripenso mentre pago la bottiglietta di acqua Levissima, non gasata, tra me e me penso che quel nome subito infilato nel cestino dei pensieri pareva quasi un nome d'arte, da spogliarellista; ma non lo dico a mia Mamma che se no poi pensa le cose strane, chissà...
Il giorno dopo, rientrato a notte tarda da Milano, sono ripassato di fronte al Bar nuovo, che sta sotto a una pensilina rovente e affiancato da molti negozi evidentemente poco appetibili, alcuni dei quali con un cartello affittasi esposto da mesi. Al termine della pensilina ci sta l'edicola dove prendo tutti i giorni la Repubblica, Zagor Te-Nay una volta al mese e a cadenza settimanale i dvd di filosofia del Corriere; mia mamma dice che è perché ho smesso l'università e non mi va ancora giù.
Mentre superavo l'ingresso spalancato del Bar nuovo, ho sentito una voce, da dentro, ormai avevo già oltrepassato la porta, che gridava:
"Ciao Guidooooo..."
Torno indietro di pochi passi e infilo la testa dentro. Ci stanno i pensionati che giocano a briscola, la rivincita a scopa, frizzante Aperol Campari tutto in regola; un giovane albanese infila qualche euro nella slot machine, mentre con l'altra mano impugna una lattina stretta e alta, credo sia una bevanda energizzante, il braccio molle lungo il fianco; la proprietaria di un negozio di scarpe all'angolo della pensilina tiene una sigaretta spenta tra le dita, ordina due caffè, di cui uno macchiato, e conversa con una conoscente facendo finta di litigare per chi paga, la sigaretta spenta brandita come un pugnale. Infine c'è il sorriso della cameriera del Bar nuovo nella modalità on, il braccio del Big Jim che cala il suo colpo di karate con la certezza che nessun legno può resistervi, prima di tornare provvisoriamente in posizione off e ripetere piano:
"Ciao, Guido".
"Guido"rispondo io, "ti ricordi il mio nome?"
"Certo, io ricordo tutti i nomi".
"Puoi ripetermi allora per gentilezza il tuo?", e a quel punto ho già raggiunto il bancone, le sono di fronte separato solo dalla parata di bustine dolcificanti: zucchero normale, di canna, al fruttosio e ora anche piccole buste colme di miele d'acacia, per i più snob.
"Milou, io mi chiamo Milou. E' Un nome francese", dice lei.
"Francese, sì, certo. Come il titolo di quel film: Milou a maggio, lo conosci?"
Mi sorride. Non capisco se stia per un sì oppure per un no. O forse è un modo per dire che non le importa, tutto quello che sta fuori l'istante in cui stiamo respirando le appare come ridondate. E qui e ora ci stanno solamente due persone che un po' respirano un po' parlano un po' sorridono, e i loro nomi come sospesi sullo zucchero.
Milou.
Guido.
"Ora devo andare, ti auguro una buona giornata Milou", aggiungo dopo il suo lungo silenzio sorridente.
"Buon giorno a te, Guido."
Mi avvio lungo la pensilina rovente, alle spalle il tintinnio delle monete del giovane albanese che ha finalmente vinto qualcosa, le vetrine con i cartelli affittasi e il dvd di filosofia che mi attende incelofanato all'edicola; oggi dovremmo essere arrivati a Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro me.
Ma in fondo basterebbe forse anche meno, penso mentre la proprietaria del negozio di scarpe continua a fingere di bisticciare con l'amica - la-prossima-volta-pago-io-non-si-discute! -, e uscita dal locale può finalmente accendere la sua sigaretta. Basterebbe che i "nostri", tra noi, insomma, come si dice da queste parti e anche senza sorridere, basterebbe provare a chiamarci ogni tanto per nome.
E poi respirare.

mercoledì 4 agosto 2010

Profondità, superficialità... provando a fare un po' di ordine


Ok, vada per la profondità. Quelli che, come il grande critico e saggista francese George Steiner, quando parlano di filosofia lo fanno in greco o in tedesco; discutono di teologia patristica in latino; citano in italiano interi lunghi passi dell'opera cantata; ma per i discorsi di cucina naturalmente il francese, e l'inglese per tutto ciò che viene dopo la seconda guerra mondiale. Ecco, verso questo tipo di profondità provo una normale ammirazione, anche se mi incute un poco di timore.

Mi è diversamente ostile la superficialità di tutto quanto si avvicini a Simona Ventura. Quello è il mio barometro semantico, più sento odore di Simona Ventura e dei suoi amici stilisti, manager automobilistici, calciatori e per non dire degli stacchetti danzanti e i gridolini compiaciuti, la prosopopea dell'indignazione facile col ditino alzato, più effettivamente non trovo altro termine per definirla: superficialità.

Eppure ho l'impressione che questi termini polari - profondità \ superficialità - non corrispondano ai tratti dominanti di questo tempo, che più spesso si assestano su forme sfumate e ad essi intermedie. Bisognerebbe trovare allora dei termini più appropriati, più autentici.

Esiste ad esempio una particolare forma di superficialità che consiste nel navigare a vista, prestando attenzione alle mutevoli condizioni del mare, alla forma esatta e sempre diversa dell'onda, il suo frangersi disuguale. Persone, cioè, che pur essendo sprovviste di una cultura enciclopedica, mantengono vivo l'interesse e l'attenzione verso il dettaglio, ascoltano quel che gli viene detto ed è piacevole ascoltare. Verso questa vigile attitudine per le superfici dell'accadere, ipotizzo un termine diverso, un sostantivo più appropriato.

Chiamiamola provvisoriamente "superficiosità".

A tale atteggiamento di serietà fenomenica, è accomunabile, per contrasto, la profondità di chi affastelli semplicemente immersioni nei saperi, ma si distingue dal nozionismo per una postura riflessiva, discriminatoria e compiaciuta. Una sorta di seriosità noumenica, diciamo così.

E siamo giunti al cospetto di una presunta élite del pensiero. Alcuni hanno voluto chiamarla "radical chic", ma è un termine ugualmente limitato, riferendosi a una cultura settaria esclusivamente di sinistra. Io lo trovo invece un atteggiamento universale dell'umano, che fa della pensosità corrucciata la propria griffe di appartenenza. Una boutique affollata dove incontriamo la vocazione ad entrare nella dimensione sommersa degli eventi, scandagliando le componenti non manifeste dell'iceberg, le cause prima degli effetti. Il problema è che a molte di queste persone manca un vero talento d'apnea, e, a differenza del buon George Steiner con i suoi molti e profondissimi idiomi, si limitano agli elementi estetici del conoscere.

Come se Celentano desse lezioni d'inglese attraverso il testo della sua canzone Prisenensicolanciusol.

Ecco, questo atteggiamento del pensiero, più che al pensiero stesso si riferisce all'induzione ipnotica di un suono, o meglio ancora alla colonna sonora del pensare. Abbiamo così diversi stili musicali del pensiero profondo, che forse anche in questo caso dovremmo battezzare in modo alternativo alla profondità.

Può andare, "profonditudine"?

E' ad esempio un segnale inequivocabile di profonditudine quello di chi entri in libreria e chieda l'ultimo libro uscito dell'editore Adelphi; un editore che ha fatto della profonditudine un suo stemma fulgido di riconoscimento. Ma esiste anche una profonditudine Feltrinelli o Einaudi o per non parlare di certi lettori del Manifesto, che si avvicina in effetti alla categoria già incontrata del radical chic.

In linea più generale, potremmo riconoscere nella profonditudine l'atteggiamento di chi voglia ricollocare immediatamente l'esperienza dentro categorie già preformate; e attraverso le stesse categorie, emulare il gesto anticonvenzionale di chi si sottragga alla corrività dei pensieri superficiali, da esso biasimati come il male peggiore.

Il finto profondo, o "profondituto", è così in buona sostanza un superficiale, ma di secondo grado. Una persona mediamente scolarizzata, aggiornata, perfino arguta e rapida nel cogliere l'andazzo generale. Qualcuno però che ha la necessità di un navigatore satellitare di ultimo modello, preimpostato dalla tribù sociale d'appartenenza. Con le cartine ben dettagliate, può così avventurarsi lungo le rotte battute dell'ovvio, sollazzarsi alle rotonde del banale.

A questo livello ci imbattiamo in un'illuminante convergenza con una nozione più volte incontrata in questo blog, quella di kitsch. Come già abbiamo avuto modo di definirlo, il kitsch rappresenta infatti un’adesione enfatica, ma depurata da ogni elemento di problematicità o di sforzo interpretativo, ad un modello alto e riconosciuto, a cui si accordi un consenso preventivo.

O detta in forma più icastica, con le parole di Abraham Moles: “il kitsch è l’eccesso nella mediocrità”.


Provando dunque a ricapitolare. Abbiamo alcune persone, autenticamente colte e curiose, che utilizzano gli strumenti del sapere per entrare nel profondo delle cose. Per loro la cultura corrisponde alla zavorra del sub: li aiuta a penetrare negli abissi opachi del mondo, a cui aspirano per genuino desiderio di conoscenza.

Quegli stessi saperi, per altri, si traducono invece in uno scafandro, che dopo averli accompagnati in profondità lì anche infine li trattiene, come prigionieri dei troppi libri letti. Una condizione simile a quella descritta da Platone nel mito della caverna: si guardano in giro pensando che siano quelli i fondali marini, ma si tratta invece della tappezzeria dello scafandro. Sempre più chiusa, opprimente. Ma soprattutto senza la sferzata di una ventata fresca e vivificante di ossigeno.

Abbiamo quindi i veri superficiali, su cui non è nemmeno il caso di ritornare. Sono superficiali e basta, dicono cose superficiali, balbettano la loro esistenza dentro una lingua semplificata ed imitativa, che ricavano dalla figure prevalenti del consenso e dello svago. Ma di questa esistenza piccina piccina, in fondo, si accontentano.

La palma della mia simpatia va infine ai "superficiosi". Uomini e donne che sembrano trascurare gli abissi del pensiero, la concentrazione intellettuale. Eppure sono tutto all'opposto che superficiali. Non si affidano infatti a uno dottrina estrinseca o imposta, ma provano a guardare le cose negli occhi di volta in volta. Sì, stanno in superficie. Ma solo perché hanno compreso che nel finale del Piccolo principe si annida un luogo comune pericoloso, di quelli che piacciano tanto alle persone che si stimano profonde.

Loro sanno che l'essenziale è invece ben visibile agli occhi. E come Spinoza confidano nei saperi artigianali, nell'arte sottile dell'ottico. Quindi semplicemente provano a mettere a fuoco.

Un corpo è un corpo è un corpo, o su come lo sguardo mette alla porta l'altro


Nella savana di Facebook, da qualche tempo mi sono accorto del diffondersi di una nuova specie. Si tratta di un'abitudine, femminile in particolare, che riguarda donne che in molti casi considero e ammiro, e di cui seguo il lavoro quando me ne capita l'occasione. Coinvolge infatti scrittrici, poetesse, intellettuali. Donne dai molti e articolati interessi, ma soprattutto di buone parole.

Qui però invece di parlare, di scrivere come sanno fare - e lo sanno fare bene, appunto - hanno cominciato a mostrarsi, a fotografare i minuti dettagli del loro corpo. C'è come un'ossessione centripeta in questi scatti, un'introversione dello sguardo che seziona il "condominio di carne" di cui sono provvisorie inquiline, per usare una bella espressione di Valerio Magrelli, con una perizia analitica che lascia spesso sorpresi. Ma che non può non indurre a un confronto con narratrici altrettanto grandi del passato.

Emily Dickinson, ad esempio. Immaginarsi Emily Dickinson mentre si fotografa un piede, un ginocchio, la curva del collo o quella leggera di un seno. Eppure anche Emily Dickinson ha trascorso l'intera e reclusa esistenza a studiarsi, ad analizzare il suo corpo minuto e pallido nelle infinite possibilità di senso.

Possibilità, a me sembra dunque questa la parola chiave. E significato.

Emily Dickinson ma anche Sylvia Plath, Elsa Morante, Flannery O'Connor, Cristina Campo, Karen Blixen, Marguerite Duras... Nella prosa femminile delle maggiori artiste del secolo passato, la ricognizione letteraria si dava spesso come tentativo di comprendere le possibilità del corpo; possibilità di sottrarsi al puro dato sensibile, per coniugarsi in una relazione significativa.

Perfino nella furia collettiva e personale di eventi drammatici, Anna Frank non si scorda mai del corpo - del "suo" corpo - e ne scruta le metamorfosi nel particolare. Ma anche qui, il pronome possessivo ha la necessità di essere incorniciato dalle virgolette. E infatti da qualche parte, sotto altri cieli o bombardieri della Luftwaffe, è sempre presente un corpo diverso, il fantasma di un innamorato o semplicemente di un altro, che restituisca al corpo il potere di semiosi.

Eraclito sosteneva che il fulmine governa ogni cosa, ed è come se questa diversa polarità della carne avesse il potere di suscitare la scintilla, originare il flusso del racconto. Se non ci fosse un altro, implicato nella grande letteratura femminile, il corpo resterebbe muto, crogiolo organico ma privo di radianza espressiva. Un enigma geometrico per lo sguardo, il contenitore vuoto ma per saturazione del contenuto, o viceversa.

Enigmaticità intransitiva di cui si caricano invece le fotografie dei corpi su Facebook. Le giovani e brave artiste che espongono qui i loro scatti, sembrano interessate alla ricognizione di un pre-testo fisiologico, una grammatica dei tessuti intesa forse come occulta morfogenesi dell'identità verbale, più che allo sviluppo di una fabula erotica e sensuale. O comunque dedite a una biografia assoluta - ciò che succede quando non succede nulla, o almeno nulla che mi tocchi in ciò che mi è proprio e proprio mio - di cui l'immagine è lo strumento privilegiato, indiscutibile nella sua inesplicabile flagranza.

Il loro corpo è così davvero e finalmente loro. Racchiuso, conchiuso, spesso raffigurato in posizione fetale, o nell'articolarsi di una specularità senza sbocco. Un femminile che prescinde da ogni confronto polare, antropologico, storico e politico. Tanto che ai confini dell'immagine è come se fosse presente un cartello con la dicitura: NON TOCCARE, ACHTUNG, PERICOLO!

Una volta si poteva magari semplificare pensando che l'uomo fosse “storia”, mentre la donna “geografia”. Dall'unione di storia e geografia scoccava la vampa del fulmine, e i carretti colmi di pomodori e zucchine cominciavano a trascorrere lenti e cigolanti sopra ai ponti, qualcuno faceva ciao ciao con un fazzoletto bianco dal finestrino di un treno, o dalla poppavia di un traghetto nello sbuffare nero e pesante del fumo Ora invece rimangono questi corpi inviolabili e condensati, come il riccio quando incontra la volpe. La muta interrogazione delle donne allo specchio della comunicazione globale e istantanea.

Mentre il cielo, là sopra, appare sempre più blu. Temporali all'orizzonte nemmeno l'ombra.


(L'immagine è della fotografa statunitense Francesca Woodman)

Sussunzioni


In una fase in cui i rapporti con gli altri - uomini, donne, familiari, politici, internauti, automobilisti, zanzare, ex colleghi di lavoro ed ex amici - sono all'insegna del più completo disincanto, per non dire di una delusione vera e profonda con cui è forte la tentazione di sussumere la categoria generale dell'umano, l'essermi per caso imbattuto in questa video-intervista a Michel Bitbol mi ha almeno un poco rincuorato. Non è l'umanità a fare schifo, ma la mia vita.