mercoledì 31 marzo 2021

Coccodrillo

Uno diceva che i teroni dovevano stare a casa loro, la Padania ai padani, di lavoro faceva il politico. In seguito si era coretto, ed erano diventati gli africani, gli albanesi, i rumeni, insomma tutti gli altri (ma meglio se con una pigmentazione tendente a leggera rosolatura) che dovevano stare a casa loro, l'Italia è la casa degli italiani. Era finita lì? Non proprio. Un giorno, alcuni si stupirono ma nemmeno poi tanto, il suo motto diventava l'Europa agli europei, e faceva spuntare dal taschino un foulard blu con stelline gialle a disegnare un piccolo cerchio, al polso dei braccialetti, tanti braccialetti, con gli stessi colori. Era ancora abbastanza giovane e in salute, ma, non potendo escludere il peggio, i giornalisti devono preparare i coccodrilli, in cui a volte si anticipano le evoluzioni successive. Si mormora così che qualcuno abbia scritto: oggi piangiamo un uomo severo ma giusto, come dargli torto, la Terra ai terreni. I marziani a casa loro!

Protezione

Uno, grosso come un armadio, si era affezionato a un altro che era invece mingherlino, e così si sentiva in dovere di proteggerlo. Se si avvicinava qualcuno per dare un colpetto scherzoso al mingherlino, gli ringhiava: "Tuchel miiinga!" E se per caso l'altro si giustificava dicendo ma no, non volevo mica fargli niente di male, si faceva per finta, guarda, l'ho solo sfiorato, quello grosso come un armadio ribatteva: "Fintel miiinga!"

domenica 28 marzo 2021

Incel

 


Nei giorni scorsi, commentando un mio post, una persona con cui sono in contatto su Facebook mi ha rivelato l'esistenza del sostantivo incel, che nasce dalla sincrasi tra i termini inglesi involuntary e celibete; chi vorrebbe una relazione amorosa ma non vi riesce, insomma. Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio matto in Amarcord, quello che si arrampica su un grande olmo da cui grida voglio una doooonna, era dunque un incel.

Il mio colto contatto, ormai eletto a mentore, mi ha edotto anche sul significato di altri due termini contigui al primo: redpillers o redpillati, sono sinonimi. A definire quegli uomini, continua testualmente, i quali “sostengono di non trombare per colpa del liberismo avanzato che ha trasformato i corpi in valori di scambio e dato troppa forza contrattuale alle donne, che finiscono per competere tutte per pochi uomini dotati di bellezza o di prosperità economica, lasciando gli altri all'asciutto. Ci sono addirittura studi che dimostrano che le file dei foreign fighters dell'Isis siano state ingrossate dal fenomeno incel esploso nelle periferie occidentali.” Interessante, no?

Ma io che conosco poco la sociologia contemporanea e più le canzonette, ho vagato con la mente fino a essere richiamato da un brano in concorso al Festival di Sanremo, era un'edizione di alcuni anni fa e non ne ricordo neppure titolo e autore. Solo un passaggio del ritornello, in cui si diceva “fermati e datti un voto”, proprio come a scuola: fermati e datti un voto.

Ed era infatti alle scuole medie che ci si cimentava del gioco crudele di assegnare un voto alle compagne, le quali ci ricambiavano con la stessa moneta. Io ero fortunatamente grazioso e stavo sempre ai primi posti – addirittura, per un pelo non fui eletto il più bello della scuola, mi fermai al secondo gradino del podio dopo un certo Filippo, detto Pippo – e quel voto finiva col coincidere con la percezione che avevamo di noi nel mercato di scambio di baci e carezze, oltre non si andava. Io valgo cinque, io sei, io otto etc.

Capisco che pensarsi in termini quantitativi sia piuttosto avvilente – e infatti lo è, oltre che certamente riduttivo –, ma nozioni para-sociologiche come redpillers e redpillati, per quanto ingenue e vagamente querimoniose, insinuano il dubbio che a essere saltata sia proprio la capacità di autovalutazione, e ciò a livello collettivo prima ancora che personale. Sì, nessuno si ferma più a meditare che voto darsi. Un voto che ci assegniamo ora in maniera svelta, disinvolta e ottimistica, a coincidere quasi sempre con il vertice della scala. Poco incidono le differenze di genere: sia le donne sia gli uomini si danno un bel dieci, dieci e lode va'.

Forse perché siamo confusi da rapporti sempre più astratti e intermediati, che finiscono con l'alimentare l'illusione di essere oggetti erotici di inestimabile valore, senza venire contraddetti da quello che si sarebbe detto un tempo principio di realtà: l'altro, o ancora meglio il suo volto quale specchio specchio delle mie brame, a confidarci chi è il più bello del reame.

Un fenomeno universale nel tempo della tecnica e dei social network, ma che in Italia ha probabilmente un grado più accentuato, quando in altre nazioni esiste una percezione di sé maggiormente cauta, se non addirittura svalutativa; ho conosciuto una donna russa di quarant’anni, una donna bellissima, ma quando parlava di sé e del suo rapporto con gli uomini, faceva sempre precedere le frasi da un sospiro, seguito dall’avverbio oramai… (oramai sono vecchia e brutta, era ovviamente l’implicito al posto dei puntini di sospensione).

Per concludere, e se tutti, a cominciare proprio dai social, facessimo una specie di gioco, e come nel golf ci assegnassimo una sorta di handicap? Pensi di essere un essere meraviglioso e perfetto, il tuo voto è ovviamente dieci e ti meritano solo uomini, o donne, di uguale punteggio. Ok, nessuno vuole interrogarti, farti rifare il compito in classe, ci crediamo sulla parola. Ma togliti anche solo per finta quattro punti, ridimensionati a sei, un bel sei politico che non si nega a nessuno, come nelle interrogazioni collettive nel ’68. Bene, quello è il tuo nuovo voto. Ti fermi un momento, un bel respiro, e poi accetti l’idea di una semplice sufficienza.

Ora puoi cominciare a guardare gli altri inquadrati in un piano americano, frontalmente, e non più da quel dolly dall’alto in basso con cui li osservavi prima. E magari, quando ci sarà concesso di togliere questa cazzo di mascherina, anche uscirci per un caffè, una birra, un bacio. Oppure resteremo degli incel, ma con una pagella composta da tutti dieci, da incorniciare sulla parete di un soggiorno in cui nessuno più viene a trovarci.

venerdì 26 marzo 2021

Petit père

Uno chiamava suo padre il mio caro papà, oppure paparino, papi, persino e dopo un corso di inglese daddy, possedeva un intero vocabolario di vezzeggiativi, che invece di regredire dopo l’infanzia si era accresciuto.

Quando il padre, ormai avanti con gli anni, era morto, aveva voluto osservarne il corpo disteso sul lettino dell’obitorio, prima che gli addetti alle pompe funebri facessero il loro lavoro. Un ultimo saluto al mio petit père - il francese non lo conosceva, ma l'espressione stava su una rivista illustrata che gli passava il vicino, dopo averla letta - aveva sussurrato alla moglie che aveva preferito attendere fuori.

Solo allora, osservandolo con gli occhi pieni di lacrime, si era accorto che i genitali erano di dimensioni superiori ai propri, molto superiori, diciamo pure enormi, e questa cosa l’aveva turbato, facendogli lasciare il locale quasi subito. Avevo freddo, si era giustificato con la moglie.

Da quel giorno, la donna si era stupita nel non udire più gli affettuosi appellativi nel ricordare il defunto, a cui l’uomo aveva da subito revocato l’aggettivo caro, quindi da paparino era passato a papà, padre, e una volta l’aveva anche sentito chiamare vecchio stronzo. Quando, esterefatta, gliene aveva chiesto ragione, lui aveva risposto: Lo so io il perché.


mercoledì 24 marzo 2021

La guerra dei vecchietti

 


In una poesia sonora di alcuni anni fa, Remo Remotti, con il consueto piglio abrasivo, invitava a mandare in guerra i “vecchietti”. Li chiama proprio così, includendosi nella categoria: i vecchietti in guerra al posto dei giovani, concludendo che è meglio morire sparati che “intubati come serpenti”.

Un’espressione brutale, per quanto di triste e diffusa attualità dopo che centoseimila nostri connazionali (106.000!), perlopiù anziani se non proprio e come lui dice vecchietti, sono già morti intubati come serpenti, morti in un solo anno, e cioè il doppio di tutti i soldati americani nella guerra del Vietnam; che è però durata vent’anni.

In pratica, facendo una proporzione temporale che tenga conto del fatto che l’Italia ha un quinto degli abitanti degli Stati Uniti, il Covid, per il nostro Paese, è stato duecento volte più letale della guerra in Vietnam. 200, sì. Sarà quindi un po' retorico, ma per nulla iperbolico usare questo termine a proposito degli effetti di un virus: guerra.

Un dato che sarebbe utile ricordare a Giorgio Agamben, Vittorio Sgarbi, Alessandro Baricco e a tutti quegli intellettuali che continuano a ripeterci che, per proteggerci dal Covid, abbiamo rinunciato a vivere, e comunque le libertà personali valgono più della sicurezza collettiva.

Un punto di vista del tutto lecito, intendiamoci, oltre che espresso con finezza affabulatoria; è perlomeno il caso di Agamben, il quale, riprendendo Foucault, la chiama biopolitica. Ma perché non fare tesoro anche dell’intuizione altrettanto fine di Remo Remotti, e rivendicare il proprio diritto di morte in una guerra guerreggiata, non solo subita?

In fin dei conti e come cantava Francesco De Gregori, la guerra fa male, questo nessuno lo mette in dubbio, ma in qualche oscuro luogo della psiche possiede una sua vischiosa bellezza. Sì, “la guerra è bella anche se fa male”. E se non vi convince De Gregori, basta leggere Junger o Hemingway od Omero. Mentre morire di Covid, intubati come serpenti, fa solo schifo.

Inoltre, toccherebbe aggiungere che la stragrande maggioranza di queste morti senza assalti alla baionetta, trincee cannoneggiate e baroni rossi volanti, avrebbe potuto essere evitata, evitata con un poco d'intelligenza istituzionale e responsabilità civile. Come?

Esattamente non lo so, ma bastava chiederlo con umiltà alle autorità politiche e sanitarie della Corea del Sud, che, con un numero di abitanti quasi pari a quello dell’Italia, ha avuto millesettecendo (1.700) decessi collegati al Covid. E anche in questo caso è utile ricordare la percentuale: 1,6%, o se vogliamo invertire il cannocchiale, ci sono stati nel nostro Paese il 98,4% di morti in più della Corea, che per ottenere tale risultato non ha messo in campo nessuna delle politiche autoritarie paventate da Agamben.

Per concludere, invece di aspettare la prossima pandemia, Sgarbi, Baricco, Agamben e tutti gli arzilli vecchietti dell’intellighenzia nostrana, su svelti a preparare lo zaino, e poi via a spezzare le reni alla Grecia!


Fly down


Uno gareggiava in bicicletta, era anche bravo, quello che si dice un passista veloce, aveva vinto sei tappe del Giro d’Italia e un Giro delle Fiandre, al termine del quale intonò O sole mio per ringraziare le centinaia di italiani presenti alla corsa, che avevano preso pioggia e vento pur di tifare per lui. Era il 1967.

Aveva però un punto debole: le donne. Quando ne intravedeva una giovane e carina sul ciglio della strada, si alzava sui pedali e, curvando il busto in avanti per essere più aerodinamico (ma alcuni insinuavano fosse unicamente per lasciar svettare il sedere), lanciava un piccolo sprint, così solo per far colpo.

I dirigenti della scuderia non condividevano queste sue esibizioni, temendo che alla lunga potessero compromettere la resa agonistica, e arrivasse al traguardo spompato. Dall'automobile dell’assistenza, quella che viene chiamata ammiraglia ed è generalmente una giardinetta, all'interno tutto un trambusto di pneumatici e pozioni miracolose e teste protese dal finestrino, ogni volta che si profilava all’orizzonte una bella ragazza gli urlavano allora: “’Ta bon Zandegù, 'ta bon!”, nello stesso dialetto veneto con cui lui si esprimeva.

Un’esortazione ripetuta talmente tante volte – tante quante il suo ardore erotico, che poco vi badava – da renderla nota anche fuori dalla piccola cerchia degli addetti ai lavori, ed estendersi col tempo ad altre situazioni, persone, luoghi. Bastava che uno si infervorasse un po', e, prima o dopo, si alzava una voce: “’Ta bon Zandegù, ‘ta bon!”

Poi Dino Zandegù, nato a Rubano il 31 maggio 1940 e ancora vivente, smise di correre, e ci si dimenticò anche di quella contagiosa espressione. Così se adesso uno va un po’ su di giri gli si dice fly down.

martedì 23 marzo 2021

Un uovo

Uno per andare all'osteria doveva percorrere tre o forse anche quattro chilometri a piedi, la strada era una statale in cui si manteneva sul ciglio. Si trattava di un omino dai capelli rossi e un'età indefinita. All'osteria poi beveva e, nel percorrere i tre chilometri, forse quattro, in senso contrario, alle volte si addormentava senza smettere di camminare, rimanendo in piedi come fanno i cavalli.

Non è chiaro se si trattasse di sonnambulismo, ma non era infrequente che si trovasse al centro della strada, addormentato, con le automobili che dovevano inchiodare per non investirlo, oppure sterzare bruscamente invadendo l'altra corsia. Quando finiva nel cono di luce degli abbaglianti, qualcuno, sulle prime, lo scambiava per un capriolo, di cui anche i cartelli stradali segnalavano il passaggio. Così oltre a frenare suonava ripetutamente il clacson. Che succede!, diceva lui fermandosi e sfregando gli occhi cisposi, ma riguadagnato il margine riprendeva a camminare tranquillo.

Compresa la situazione, gli automobilisti più scrupolosi si offrivano di accompagnarlo a casa, invitandolo a essere più prudente, con quel tono di voce che si usa con i bambini. Sì sì diceva lui, devo avere bevuto un goccetto, e all'arrivo faceva un dono per ringraziare: un uovo fresco, è delle mie galline!, e lo tirava fuori dalle tasche con la naturalezza del prestigiatore, una colomba bianca che prende il volo in un teatro.

C'era chi gettava l'uovo dopo poche centinaia di metri, giù il finestrino e via. Ma i più, presi alla sprovvista, lo riponevano nel cruscotto, dove veniva regolarmente dimenticato. Passato un mese l'abitacolo aveva l'odore delle fialette puzzolenti che, nei giorni del Carnevale, si spezzavano sotto il banco degli studenti più secchioni. E l'automobilista si ricordava dell'omino con i capelli rossi che camminava dormendo in mezzo alla strada.

Lapsus

Uno gli avevano chiesto cosa c'è nel deserto. Era in terza o quarta elementare, gli anni, quelli in cui per dire che un’automobile va veloce si diceva cento all’ora, e una giornata era caldissima quando il termometro segnava trenta gradi, astronauti stampati sulla bustina dei ghiaccioli. Se aggiungo che si chiamava Lapsus non ci crede nessuno, ma era proprio questo il suo cognome. Nel deserto, per terra, dai, proprio come al mare sulla spiaggia, lo incalzava la maestra, con i compagni che provavano a suggerire, la sabbia, la sabbia... Ma Lapsus, di famiglia povera e collocazione alpina, non era mai stato al mare, forse neppure aveva visto una draga immergersi nel fondo scuro del fiume, e continuava a fare scena muta. La maestra era quel genere di maestre di una volta, che dopo un po' le prudevano le mani. Lapsus, non farmi arrabbiare, qualsiasi cosa, ma parla! Così Lapsus, per timore forse degli sganassoni pedagogici, aprì finalmente la bocca, e disse: Le piastrelle.

Pinguino

Uno era un motociclista, anche se non aveva mai guidato una motocicletta. Del motociclista, o, meglio, del biker, però non gli mancava nulla: lunghi baffi a manubrio, gilet di pelle (l’effigie di skull & bones stampata sul retro), tatuaggi sulle braccia con i simboli della Yakuza, oltre alla propensione per la birra non meno che per le scazzottate. Ma naturalmente, ciò che ne sigillava l'identità era l'amore per le moto enormi e americane; le altre le considerava adatte ai fighetti della domenica, li chiamava così.

Se qualcuno gli faceva notare l'incongruenza, rispondeva che stava mettendo da parte il denaro, era già a buon punto aggiungeva, e poi mostrava una fotografia che teneva nel portafogli: Peter Fonda a cavalcioni di un chopper dal manubrio rialzato, il casco con i colori della bandiera americana, in una sequenza di Easy Rider. Ecco, la voglio così!

Quando nessuno, neppure i familiari che annuivano a quelle credevano ormai solamente fole, pensava che avrebbe mai preso una motocicletta, fu visto rombare sul corso della piccola cittadina in cui abitava da sempre. Fiero, solenne, ritto quasi avesse un busto ortopedico, stava sopra un'Harley Davidson nuova di zecca; non era uguale a quella di Peter Fonda, ma molto gli si avvicinava.

Una volta raggiunta l’età per la pensione – fortunatamente gli furono computati anche gli anni delle molte università cambiate, senza mai laurearsi –, l’aveva acquistata con i soldi della liquidazione, dopo avere tentennato sul colore. Alla fine, si era risolto per il nero: tutta nera, con due lingue di fuoco di un rosso cangiante impresse sul serbatoio.

Al termine del rettifilo su cui si aprivano boutique di abbigliamento, bar con i tavolini fuori, cani minuscoli che ringhiano al fianco di anziane che si confidano pettegolezzi, la strada svoltava bruscamente a destra, o a sinistra, bisogna decidere da che parte andare. Lui però andò dritto e si infilò nella vetrina di un negozio di articoli per l'infanzia.

C'è chi mormora che, di nuovo, aveva rimandato la decisione, o più probabilmente confuso la frizione con il freno. Fortunatamente non morì, anche se rimase in coma per due settimane nelle quali gli venne somministrata l'estrema unzione; fu un parroco affiliato agli Hells Angels a versargli l’olio sulla fronte, imprimendo un leggero segno della croce.

Quando lo dimisero dall'ospedale, la prima cosa che fece fu tagliarsi i baffi, la seconda regalare l'Harley Davidson (era un po' ammaccata ma, come si dice, a caval donato non si guarda in bocca) al proprietario del negozio di articoli per l'infanzia. Fu infatti grazi a lui se si salvò: col lenzuolino di una culla gli aveva tamponato le ferite, e poi imboccato un succhiotto a forma di pinguino per farlo stare tranquillo in attesa dei soccorsi.

lunedì 22 marzo 2021

Compreso me

Uno chiamava il buco del culo fabbrica di cacao e orrenda ferita la fica. Era omosessuale, naturalmente. Un altro però lo chiamava froscio, ricchione, arruso e frufru. Non c'era verso che quei due si mettessero d'accordo sulle parole. Eppure fu proprio grazie a loro, e non a Nietzsche, che altri impararono che il linguaggio è sempre un’interpretazione del mondo, mai una descrizione. Diceva anche: nessuno tocchi il portafoglio, compreso me!

Sarà lei!

Uno aveva il numero di telefono quasi uguale a quello di un negozio di articoli sportivi, cambiava solo una cifra. Così, accadeva soprattutto in inverno, poteva capitare che chiamassero per sapere se fossero pronti gli sci, o a primavera chiedendo dei Rollerblade per la bambina. Altre volte alzava la cornetta, una voce dall'altra parte: Pronto, Bosoni?, che stava per Bosoni Sport, e finiva lì con il chiarimento della svista. Quando a rispondere era la vecchia madre, di origini emiliane, però le cose prendevano una piega diversa, e se ne poteva udire la voce fin dall'appartamento accanto: Ma come si permette, busone sarà lei!

Pettegolezzi

Uno aveva messo in giro la voce che il cantante dei Simple Red, Mick Hucknall, in gioventù avesse fatto l’attore, interpretando il ruolo del protagonista di un telefilm americano di successo. La notizia apparve nei tardi anni ottanta così eccentrica e gustosa, che, una volta appresa, veniva immediatamente riportata: sai che il cantante dei Simple Red era il bambino di Tre nipoti e un maggiordomo... hai presente il rosso di quel gruppo inglese, massì sono la stessa persona… il tipo con le lentiggini e le orecchie a sventola… ma chi, il piccolo Jody, devo dirlo subito a mia sorella... e così via finché giunse nuovamente al punto in cui era partita, con l’ideatore della burla a cui ritorna come un boomerang. Ma davvero, sei sicuro?, rispose senza tradire il suo segreto. A me, uno che è nel giro, ha detto che prima faceva film porno. Il cantante dei Simple Red, sì, proprio lui, il suo nome d’arte era Big Red Banana. Così questo pettegolezzo finì col soppiantare e far dimenticare il primo.

Privacy

Uno diceva che il voto è segreto, non ha mai voluto rivelare a nessuno per chi votava, nemmeno alla moglie, ai figli e tanto meno agli amici che non aveva. Quando, già anziano, gli fu chiesto se credeva in Dio e desiderava confessarsi, prima di un intervento chirurgico estremamente delicato – il chirurgo aveva ripetuto per due volte quell’avverbio: estremamente –, rispose all’infermiera che non poteva esprimersi al riguardo, rimettendosi alla legge sulla privacy.

Efferatezze

Uno era andato in banca a chiedere informazioni sugli strumenti finanziari derivati. Mi dispiace, gli aveva detto la cassiera quando era arrivato il suo turno, per questo genere d'informazione devo farla parlare con il direttore. Sa, è molto più efferato in materia.

Stringhe

Uno quando era il momento di pagare si allacciava sempre le scarpe. Poteva capitare al bar, al ristorante, non faceva differenza, si mormora lo facesse anche dal dentista, tanto era abituato a quel gesto. Poi, dopo che qualcuno aveva saldato il contro per tutti, si avventava verso il riscossore gridando: Non accetti soldi da queste persone, faccio tutto io! Una volta fu anche visto allacciarsi i mocassini.

Due

Uno prendeva sempre due cose di tutto. Aveva iniziato con i libri: il primo lo leggeva e l’altro lo riponeva nella libreria ancora intonso, meglio ancora se dentro al cellophane, secondo un ordine suo di cui era molto orgoglioso. Era poi passato ai profumi, ai vestiti – gli abiti che non indossava mantenevano ovviamente l’etichetta – e infine, quando era aumentata la sua disponibilità economica, anche alle auto e alle fidanzate: con una faceva l’amore e l’altra la portava in giro in automobile; quella che non era chiusa in garage con i sedili ricoperti, così da preservali dalla polvere e dalla corruzione del tempo. Invecchiando, iniziò però ad accettare l’idea della transitorietà di ogni cosa, per quanto, nel dubbio e con ampio anticipo, preferì acquistare due bare.

Pizzaballa, o sul lockdown dei baci

 


Ma i baci, si danno o si ricevono? Me lo chiedo spesso quando scrivo: devo dire le ha dato un bacio, gli ha dato un bacio oppure si sono baciati…? Nel dubbio, ho provato a fare il conto del tempo trascorso dal mio ultimo bacio con una donna. Il risultato preferisco non dirlo, ma mi ha spaventato un po’. Se poi estendo il computo anche agli uomini (è accaduto una sola volta insieme a due amici, eravamo usciti un po’ brilli da un pub: un bacio veloce veloce sulla bocca con entrambi, per capire cosa ci stavamo perdendo nella nostra cocciuta eterosessualità. Non molto fu l’impressione di allora, ma dovrei riprovare a distanza di trent’anni) c’è veramente da mettersi le mani nei capelli; sì, insomma, quello che rimane. Ci sarebbero poi anche i gatti, gli struzzi, le antilopi e i canguri. Mai baciati neppure quelli. I cani sì, mi capita ogni tanto, specialmente quando guido e sono più indifeso: Mela, la mia cagnolona di tre anni e mezzo e quarantadue chili, mi infila la sua lunga bavosa lingua in bocca e io faccio bah, che schifo, ma in effetti non mi dispiace poi tanto. Le prostitute invece non baciano i clienti. Succhiano il cazzo, questo sì, ma non prima di averti fatto indossare un preservativo di una marca sconosciuta, te lo infilano direttamente con la bocca che secondo me si sono allenate prima con i cetrioli, oppure se lo fanno mettere nel sedere come l’ombrello di Altan (bisogna però pagare, in questo caso, un supplemento, me l’ha detto mio cugino), e però baci niente, è la prima regola. Quindi non posso ripiegare su di loro, e il lockdown dei baci non ammette deroghe o autocertificazioni. Neppure è consentito rubarli, oplà, un bacio stampato sulle labbra mentre il vigilante è girato dall'altra parte, con buona pace di Truffaut che ci aveva intitolato un bellissimo film. Il buon senso suggerirebbe dunque di passare ad altro  l'autoerotismo è pur sempre una resa dignitosa , ma gli antidepressivi con cui mi nutro spengono il desiderio che fa tana dentro le mutande, senza però scalfire quello di baci che si ripresenta ogni giorno più forte: baci leggeri, scanzonati, della buonanotte, oppure sul portone quando la riaccompagni a casa  la bacio, non la bacio? , o ancora profondi e appassionati e con la lingua, sono quelli tagliati dalle pellicole e proiettati nel finale di Nuovo cinema Paradiso. Una sensazione strana, la prova il protagonista nel rivederli a distanza di anni dentro una sala vuota, un tempo supplementare della vita. Ma esistono anche i tempi preliminari, le anteprime per rapidi fotogrammi, flashforward. Ad esempio quando, ancora bambino, sentivo gli adulti pronunciare un’espressione vagamente astrusa: fare l’amore, come fare l’amore?, l’amore si prova, non si fa. Quindi conclusi che fare l’amore voleva dire scambiarsi dei bacini sulla bocca, una cosa a ben pensarci anche buffa, mi faceva pensare ai pappagalli nella vetrinetta del Piccolo Zoo di via Trieste, ci fermavamo a osservarli col mio compagno Federico al ritorno da dottrina. Un giorno che suor Tecla si era buscata il raffreddore e il cuore rosso di Gesù era rimasto privo di agenti di commercio, piazzisti del senso di colpa, tagliammo per un prato su cui a breve sarebbero spuntati tre condomini del colore delle Big Babol, e lì trovammo un giornaletto che si chiamava Caballero, lo stesso nome della motocicletta di cui avevo incollato l’adesivo sul quaderno verde dei compiti. Era tutto incrostato per via della pioggia, i trifogli, la terra e forse anche la sburra, come veniva chiamato allora il seme maschile, ma qualcosa ancora si intuiva, e il desiderio di baci fu dirottato ad altre e più segrete parti anatomiche. In questo anno di reclusione è però tornato con prepotenza: baci, solo baci e che non siano Perugina, in cui qualche stronzo famoso ti vuole spiegare ogni cosa con un bigliettino di poche righe, "il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce", mah... Mi sono allora venuti in mente i telefilm americani ambientati negli anni cinquanta, dove una ragazza bionda con i capelli raccolti in una coda di cavallo, il cardigan azzurro con la sigla di un collage stampato sul retro, bacia per strada le persone in cambio di un dollaro. Di solito serve per sovvenzionare iniziative benefiche, aiuti ai poveri, agli orfani, ai fachiri che non battono un chiodo, oppure campagne elettorali o cose del genere. Sì, lo so, ora non ci sono elezioni imminenti, e per la miseria del mondo non basterebbero le labbra di Lilli Gruber. Ma se qualcuna mi dà un bacio io glielo pago bene, glielo pago in baci, come quando ci si scambiava le figurine e Pizzaballa era introvabile: hai mica Pizzaballa, ti do Facchetti e Burgnich per Pizzaballa, Pizzaballa in cambio di Anastasi e Pulici e Bonimba? Niente da fare, nessuno aveva Pizzaballa. Nessuna, in questo lungo interminabile tempo sospeso, da baciare, essere baciato, baciarsi… Insomma, ci siamo capiti.

sabato 20 marzo 2021

Castigo



Uno aveva due passioni: la passione per la pesca, a cui si dedicava da quando aveva finalmente raggiunto l'età per la pensione, e quella per le donne, ma solo se giovani, belle, audaci. Puttane, insomma. Per incontrarle andava in un night club, in cui si doveva scendere una lunga rampa di gradini ricoperti da un tappeto rosso, e risalirli, con passo stanco, all’uscita quando già quasi albeggiava. Al momento di pagare usava la carta di credito associata a un conto aperto con i fratelli, su cui avevano riversato i soldi del vecchio padre, ormai incapace di gestirli. Una volta morto, si accorsero che il conto era prosciugato, e, controllando le strisciate della carta, non fu difficile individuare il locale notturno. Gli fu così imposta una punizione: doveva rincasare tutte le sere alle dieci – dieci in punto, non un minuto di più! – per un intero anno. Lui si sottopose al castigo dei fratelli a capo chino, conscio della marachella, come un bambino ravveduto. E in effetti non fu più visto al night club dalla lunga scala con il tappeto rosso, ma pare abbia vinto un’importante gara di pesca.

Superciuk

 


Uno era stato fotografato con un serpente velenoso in pugno, stava in piedi al centro di uno spiazzo in terra battuta rossiccia, sullo sfondo alberi radi poco riconoscibili, di un verde pallido, simile a quello delle Polaroid. Attorno un gruppo di uomini dall’aspetto ispanico, ridevano tutti e, in particolare, uno piccolo piccolo sulla destra, indossava un ampio cappello di paglia e teneva un badile sollevato. Il serpente era già morto ti confidava quando era sobrio, l’aveva ucciso l’uomo ispanico piccolo piccolo con il grande cappello di paglia, gli aveva fracassato il capo con una badilata, anzi tre o quattro, i serpenti sono duri a morire. Poi avevano scattato la foto in cui era stato concesso al gringo  lo chiamavano così anche se era italiano  il privilegio di esibire l'esanime trofeo, che però tornava vivo se ti raccontava la storia dopo aver bevuto un goccetto; l'ho ucciso IO a mani nude, IO non ho paura di niente aggiungeva, IO di qui, IO di là, e andava avanti così da anni: un giorno ti raccontava una storia, e il giorno successivo la stessa storia in cui Clark Kent diventa Superman. Ma, gli amici del bar Piero, lo chiamavano piuttosto Superciuk.

Una persona difficile

Uno pensava che Dio è una persona difficile. In che senso difficile? Difficile… E non aggiungeva altro.




Nordista

 


Uno era nato vicino alla Valle dei Templi, era la seconda cosa che diceva quando gli veniva presentata una ragazza, la prima il suo nome: Piacere, mi chiamo Michele, sono nato vicino alla Valle dei Templi, mi prendi?, che stava a significare vuoi diventare la mia fidanzata o semplicemente facciamo l’amore, non si è mai capito. Purtroppo le ragazze non lo prendevano mai, e allora andava in chiesa e pregava per farsi prendere da una ragazza nordista, chiamava così le persone del nord Italia dove si era trasferito dopo avere lasciato la Valle dei Templi. In effetti non era partito proprio da lì, ma da vicino, in un paese che non specificava, solo Valle dei Templi; lo diceva a tutti e specialmente alle giovani donne nordiste, che preferiva di gran lunga a quelle sudiste. Se gli chiedevi il motivo rispondeva Boh, che ne so, e se ne andava con in testa un cappellino nero con la scritta I cuoricino Milano.



Il sosia

 


Uno pensava di assomigliare a Piero Pelù. Glielo dicevano tutti, assomigli a quel cantante con i capelli lunghi e i baffi a fiammifero e la mosca sul mento, sembra un po’ zingaro, come si chiama… Piero Pelù diceva lui, e si allontanava ridacchiando.

Un giorno era andato a un concerto dei Litfiba e aveva aspettato Piero Pelù all’uscita, oltre le transenne di metallo, il concerto era in un campo da pallone. Ciao, aveva detto lui. Ciao aveva risposto Piero Pelù. Ehi, guardami bene, non ti ricordo nessuno...?, aveva continuato lui lisciandosi i baffi a fiammifero, la mosca sul mento, se li era lasciati crescere nei mesi precedenti insieme ai capelli. Due gocce d'acqua, si diceva rimirandosi allo specchio quando usciva dalla doccia la mattina, dove canticchiava ah mamma mia el Diablo, ariba ariba el Diablo sotto il getto tiepido. Sì, mi ricordi Lauretta Masiero, aveva risposto Piero Pelù.

Da quel giorno non vuole più sentire quel nome, appartiene a un cantante con i capelli lunghi e i baffi a fiammifero e la mosca sul mento, sembra un po’ zingaro, come si chiama… Non lo conosco, dice lui.

De senectute



Da quando ho vent'anni conosco una sola barzelletta, a parte quella del fantasma Formaggino che furoreggiava alle elementari. La mia barzelletta fa molto ridere, almeno a me, e così non ho mai sentito il bisogno d'impararne altre, come invece Berlusconi che ne ha una per ogni circostanza.

I protagonisti sono solamente due: un uomo qualunque e una donna bellissima; chi me l'ha raccontata (era una persona più grande di me) le offriva le fattezze di Sofia Loren, e quando pronunciava quel nome gli brillavano gli occhi. A me no però, e, in pieni anni ottanta, ho provato a sostituire Sofia Loren con Claudia Schiffer. Molto meglio!

L'uomo qualunque e Claudia Schiffer fanno naufragio su un'isola deserta. Poi accadono delle cose, come si dice delle peripezie che non starò qui a descrivere. Nemmeno il finale; le barzellette vanno pronunciate con il corpo ancora prima che in parole, smaneggiando nell'aria e rimodulando la voce al mutare dei personaggi. Eppure, anche quando la racconto con tutti i crismi, le giuste pause, non fa più ridere nessuno, almeno tra chi non abbia superato i cinquant'anni. Gli altri chiedono: Claudia chi...?

Ho provato allora a sostituire per la terza volta la protagonista femminile: Claudia Schiffer è diventata Belen Rodriguez. A questo modo fa nuovamente ridere, per quanto le risate da me suscitate abbiano, nel ritornarmi in forma di eco, un riflesso fastidioso, e devo sforzarmi per corrispondere alla mia stessa giocondità. 'Riso amaro', come il titolo di un film con una protagonista altrettanto bella.

Comprendo così perché la persona che mi ha raccontato la barzelletta si ostinasse a identificare la donna con Sofia Loren, e con me funzioni solo con Claudia Schiffer. I greci la chiamavano Afrodite, i romani Venere, i vichinghi Freyja, ma era sempre Claudia Schiffer. La loro Claudia Schiffer.

Quando gli altri non riconosco più il nome degli dei del tuo pantheon (che sono anche i loro dei, ma entrambi non lo sapete), significa che la tua civiltà è tramontata. Sei vecchio, insomma. E come tutti i vecchi racconti sempre le stesse cose. Nel mio caso una barzelletta con Claudia Schiffer che...

giovedì 18 marzo 2021

Pugni, scacchi, pianoforti. E un vitello che si è smarrito nella nebbia

 


"Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista." Da quando ho letto questa frase attribuita a Garri Kimovič Kasparov, ho cominciato a prestare attenzione a un particolare: al termine, ma anche all'inizio, di una partita di scacchi, i giocatori si salutano freddamente, una stretta di mano e via, senza neppure guardarsi negli occhi.

Il contrario di quanto accade negli incontri di pugilato – secondo Kasparov sono entrambi degli sport –, dove all'inizio gli atleti si fissano in cagnesco, ma in seguito è tutto un fiorire di abbracci e pacche sulle spalle, specie da parte del vincitore nei confronti del perdente. Il gesto fisico del contendere ha consumato e risolto ogni violenza, come le ceneri dopo un incendio. Quella degli scacchi è invece una brace sempre pronta a riaccendersi.

Con un salto analogico disinvolto, dal fuoco sono risalito al legno, magari di un lungo pianoforte a coda. In basso si trovano tre pedali: a me ora interessa solamente il centrale, anche detto pedale tonale. Premendolo con il piede, il suono prodotto dal martelletto nel colpire la corda tesa dentro la cassa d'abete, dopo aver pigiato il tasto corrispondente sulla tastiera, viene prolungato per un tempo indefinito. Mettiamo fosse un do di seconda ottava minore, diventa dooooooooo…

Ma cosa c'entra tutto ciò – pianoforti, scacchi, pugni e incendi – con la vita, ossia quel che un filosofo continentale chiamerebbe contenuto di verità, da non confondere con la verità astratta dei matematici, per cui due più due fa sempre quattro? Piuttosto quei pensieri che hanno importanza per me, per te, per un soggetto situato nel mondo, di cui compongono il riflesso esterno come chi si specchi dentro un lago. E la risposta del lago può essere anche cinque.

La risposta che invece mi sono dato io è che il mio stare e scrivere qui, su internet e in particolare sui social network, è molto più simile a una partita a scacchi che non a un incontro di pugilato, coagulando in violenza rattenuta ma anche amore inespresso. Tutta colpa del pedale tonale, insomma. A rendere la nota affettiva infinita per quanto il significato transitorio, labile, superato a breve giro dalla mossa successiva: si legge, si scrive, ci si incazza o commuove o ridacchia e poi si passa al post successivo, senza soluzione melodica e scacco matto a sancire un finale ogni volta rimandato.

Peccato che io conosca a malapena le note musicali e i movimenti degli scacchi (con il cavallo, a volte, faccio ancora confusione), mentre mi appassiona il pugilato e tutti gli sport dove ci si mena per davvero; la stessa foga di quei ritorni da scuola in cui si posavano le cartelle a lato del marciapiede, e via anche maglione e camicia per non sgualcirli e buscarsi una ramanzina dalla mamma.

Ma poi, dopo la scazzottata immaginaria, penso a quanto sarebbe bello abbracciare, stringere forte, sbaciucchiarmele tutte, quelle rare persone con cui ho scoperto un'imprevista e tenera affinità. Sì, succede anche su Facebook. Dove (continuo a sognare) pigliare piuttosto a calci in culo – e ben inteso calcioni veri, assestati con precisione – la quantità di rompicoglioni, hater, nemici di parola per un minuto, e da lì poi per sempre con il tasto del pianoforte che si incastra, e il do muggisce all'infinito come un vitello che ha smarrito il suo branco nella nebbia.

Nei ricordi

 


Amore nei ricordi è probabilmente stata la prima canzone che io abbia imparato a memoria. Sì, certo, c’era già stata la sigla di Due ragazzi incorreggibili con Franco e Ciccio, interpretata da Daniela Goggi nel ruolo di Fata Fatuzza. Iniziava così: “a Zigo-Zago c'era un mago con la faccia blu, \ sul grande lago navigava con la sua tribù…” Ma ne conoscevo solo le prime strofe e il ritornello, mentre, con il brano de La bottega dell'arte, ci fu uno studio sistematico e puntiglioso, eseguito insieme a mia cugina Alessandra sul sedile posteriore della Fiat 125 dello zio, con cui stavamo andando all’Alpe di Siusi per una settimana bianca.

Una cosa un po’ da ricchi, sciare sulle Dolomiti, da rampolli di avvocati e commercialisti, ma fu concessa anche a me che ricco non ero – genitori insegnanti elementari, borghesia piccola piccola – seguendo la risacca sempre più esausta del boom economico, di cui sopravviva l'eco in provincia. Bastava posare l'orecchio sopra una conchiglia: per i figli un futuro diverso e migliore, sussurrava la conchiglia, la freccia delle magnifiche sorti e progressive deve puntare verso il cielo. Era l’inverno del 1977.

Abbiamo così due ragazzini di dieci anni (in realtà c’era anche mio cugino Paolo, ma lui già strimpellava gli Intillimani sulla sua chitarra), due soldatini del presente che cercano d'intonare la voce a ciò che pensano li attenda, benevolo, nel loro viaggio dentro la vita, di cui quello partito da Sondrio rappresentava a un tempo una ricapitolazione e un collaudo. E così all'arrivo a Siusi l'obiettivo è finalmente raggiunto: nessuna parola, nessuna nota di Amore nei ricordi era andata perduta, stavano tutte nelle loro teste piene di capelli dove si trovano ancora. Le parole, i capelli meno.

Me ne sono accorto oggi ascoltando una stazione radiofonica dove trasmettono solo musica italiana, erano anni che non risentivo quella vecchia canzone melodica e strappalacrime, diciamo pure minore; niente a che vedere con capolavori del genere come Liù, degli Alunni del sole, o Ti amo di Umberto Tozzi. Massì, mettiamoci pure Alan Sorrenti e i suoi Figli delle stelle.

Eppure, deve esistere un punto dentro la geometria degli affetti in cui la bruttezza di versi come “amore amore nei ricordi una bambina resterai \ con le paure e le incertezze dell’età”, incontra la bellezza degli esordi, l'accadere ancora intonso come lo strato bianco che avremmo trovato il mattino successivo al risveglio, dopo una copiosa nevicata. Bastava allungare la mano e decidere se farci un pupazzo o scagliarla contro nemici immaginari. Butto lì: quel luogo è la memoria, di più, il rimpianto. Di tutti i pupazzi rimasti neve e i nemici mancati per un soffio.

Chissà perché, quando qualcuno intende dare un’immagine vincente di sé, afferma: non ho rimpianti, solo progetti. Io invece ho solamente rimpianti. Proust c’entra solo fino a un certo punto, lui era un dandy, un cazzo di esteta: avrebbe storto il naso alla merda che canticchiavo sul divanetto in ecopelle di una berlina nazionalpopolare con il bombolone del gpl, e ai Buondì Motta con cui sono cresciuto al posto delle sue squisite e fragranti madeleine. Per non parlare del ghiacciolo Draculino e i Chupa Chups con cui si emulava il tenente Kojak.

Ma quei modesti rimpianti accompagnati da una colonna sonora ancor più modesta, sono anche un segreto progetto di bellezza – l'impossibile, opplà, torna possibile per quanto spiazzante nel suo essere molteplice, la pozzanghera neve – a cui posso accedere tutte le volte che voglio. Basta che schiarisco la voce e poi resuscito i versi finali della canzone, la brutta canzone di un gruppo romano di pop melodico sconfitto dai sintetizzatori dell'italo disco degli anni ottanta: “il tempo se n’è andato, e adesso dentro me, \ rimangono i ricordi più belli che ho di te…” E quel te naturalmente sono io, sei tu, è chiunque.

domenica 14 marzo 2021

Si muore un po' per poter vivere

 


Baricco ha scritto un bell'articolo su la Repubblica del 9 marzo. Si fa sempre un torto a riassumere gli articoli di Baricco: oltre a raccontarci delle cose ci racconta del suo saperle raccontare bene; che è diverso dal raccontarle bene e basta, bisogna accorgersi di come le parole vengono scelte e concatenate, e poi pensare: capperi, ma come scrive bene Baricco!

Qualità che gli riconosco di buon grado. Sono proprio le cose che dice e non la sua capacità di narratore, a lasciarmi perplesso. Ad esempio il fatto che, “per timore di morire, abbiamo rinunciato a vivere”.

In parte è vero naturalmente, ma la frase andrebbe completata: per timore di morire ma soprattutto di causare la morte (contagiando gli altri, magari un anziano familiare) abbiamo rinunciato a fare ciò che facevamo prima, e che solo per convenzione Baricco fa coincidere con la vita.

Il primo si chiama principio del piacere e il secondo principio di responsabilità, di cui ci parla Max Weber distinguendolo dallo slancio volontaristico al bene, da lui denominato etica dell’intenzione. Stiamo dalla parti di Sant Agostino, per intenderci.

Andrebbe quindi aggiunto che l'equivalenza tra morte (da Covid) e non vita (per prevenire il Covid) possiede qualcosa di forzoso. Dalla prima si può infatti resuscitare solo con un atto di fede, mentre dalla seconda con uno dei tanti vaccini ormai approvati, bisogna solo pazientare un altro po'.

Ma ciò che nelle parole di Baricco ha davvero smosso i miei pensieri – e qui parlo veramente solo a titolo personale – è l'idea che prima vivessimo davvero, mentre ora non lo facciamo più.

Per convincerci cita degli esempi, ne riporto alcuni: dividere il pane; abbracciarsi; incontrare gli artisti capaci di generare emozione e bellezza; ascoltare musica raffinatissima; andare lontano; urlare; insegnare girando tra i banchi; limonare con qualcuno per la prima volta; andare dai nonni; suonare uno strumento per un pubblico; ballare; fare una valigia; sposarsi; giocare a bowling; scambiarsi il segno di pace a Messa; tenere la mano a qualcuno che muore.

Non so voi, ma io non faccio più nessuna di queste cose da anni, e alcune non le ho fatte mai. Non era insomma, la mia vita, costituita da quei gesti che Baricco fa coincidere con la vita stessa – ne sono per lui il correlativo universale –, ma di altri che lui omette non so se per distrazione o perché neppure li concepisce, non concependo esistenze in cui la colonna sonora sia composta da musica meno che raffinatissima.

Gesti come allungare la mano verso le olivette dell’happy hour; fare il pieno di gpl in un piazzale sterrato dove gironzola un vecchio cane semi cieco; chiedere al cassiere della banca a cosa si riferisce quella voce non prevista tra i passivi, e a una ragazza ucraina seminuda che batte i denti nel gelo notturno della statale dei Giovi (finestrino che si abbassa lentamente) quanto vuole per quella cosa lì, no non quell’altra più faticosa, quella per cui deve fare tutto lei, a te basta slacciare la fibbia della cintura che ti ha regalato la moglie per Natale.

O ancora: ritirare i pacchi Amazon da corrieri sempre più trafelati; fermarsi di fronte alle vetrine delle agenzie immobiliari e scorrere gli annunci di case “imperdibili” – lago di Como, villa prestigiosa con torretta e posto barca! – che non avrai mai i soldi per acquistare; guardare vecchi incontri di pugilato su YouTube e le sborrate sulle tette su YouPorn; sfregare con una moneta le caselle dorate del Gratta e Vinci; consultare l’urologo; andare in un centro commerciale con la famiglia il sabato pomeriggio, confondendosi con migliaia di altre famiglie che sfilano in silenzio, un cono di gelato in mano da cui cola verde il pistacchio, cola sulle dita e poi raggiunge il polsino della camicia; lavare l’auto il giorno successivo in giardino, mi raccomando (dici a tuo figlio) anche i cerchioni in lega leggera.

Perché è vita anche questa, Baricco, e non solo musica raffinatissima, artisti capaci di suscitare emozione e bellezza, o limonare una donna, un uomo, un cavolo di qualcuno purché sia la prima volta.

E così questo lungo anno in cui non ho vissuto per non morire, acquista, almeno per me e per chi mi rassomiglia, anche un valore diverso. Potremmo dirla una sorta di ricapitolazione, consentita da quella distanza dalle cose che affina e focalizza lo sguardo, e da cui infine si può vedere, vedersi ed eventualmente cambiare.

In fondo, quando gli alchimisti rinascimentali parlavano della fase della nigredo, in cui il vecchio mondo si consuma nelle tenebre per lasciare spazio all’oro successivo, esprimevano, con un linguaggio evocativo e allegorico, un concetto molto simile al ben più volgare termine di lockdown. Ma anche i quaranta giorni in cui Gesù si ritira nel deserto con la sola compagnia delle più infide tentazioni (ad esempio quella di uscire di casa per andare a fare jogging senza mascherina), furono il suo personale lockdown.

Eh sì, di questo tempo di clausura ne avevo proprio bisogno, e me lo ricorderò con gratitudine. Come in quella canzone di Caterina Caselli, dove, da principio, si vedono le nuvole lassù, ma sempre più lontane, fino a lasciare spazio a torrenti di acqua chiara e vallate col sole. Perché si deve morire, almeno un poco e senza lagnarsi troppo come fa Baricco. Si muore un po’ per poter vivere.

giovedì 11 marzo 2021

Me l'ha detto mia cognata

 


Ieri mi sono ricordato di mio nonno Francesco, detto Cechin. È stato quando mi ha telefonato, dalla Svizzera, una mia vecchia amica che non sentivo da mesi, forse anni. Una bella sorpresa!

Come stai e come non stai, un po’ di aneddoti giovanili, ma poi, inevitabilmente, la conversazione è cascata sull’Argomento, come un’immensa calamita che attrae le parole di questo tempo.

Ha fatto il vaccino tua madre?, le chiedo sapendo che ha la stessa età della mia.

No, risponde lei, sono riuscita a convincerla a non farlo.

A non farlo?!

Sì, mi ha detto mia cognata che dentro il vaccino ci mettono il Covid.

Scusa, la interrompo perplesso, ma di cosa si occupa tua cognata?

Fa la casalinga. Però il marito posa le tegole sopra i tetti.

Ah, ecco.

Ed è così che mi è venuto in mente mio nonno Francesco, detto Cechin. Quando, già anziano, guardava i programmi d'informazione televisiva, commentava ogni tanto ammirato: “Ah, se ved che qui lì ‘i ha studiat...”

Lui aveva fatto solo le scuole elementari, e poi, con dedizione e nessun rimpianto, il contadino e il mercante di bestiame. Se però incrociava qualcuno con competenze superiori alle sue, gli riconosceva un credito, un’autorità di giudizio a cui si rimetteva di buon grado. Lo stesso si aspettava che facessero gli altri quando si parlava di mucche, di cui ne sapeva più di chiunque altro.

La società liquida dalle opinioni orizzontali diffuse dai social network, porta invece a equiparare le conoscenze di, mettiamo, Anthony Fauci (che ha passato tutta la vita a studiare i virus e come contrastarli), a quelle della moglie di un posatore di tegole sui tetti.

Niente contro i posatori di tegole, intendiamoci. Ma i risultati sono qui da vedere.

martedì 9 marzo 2021

Here I am

Seguendo una bella idea di Dino Buzzati, ho provato a compilare una lista di tutte le cose che odio, o perlomeno le più importanti.

All’inizio si fa un po’ fatica – sarà proprio odio quello che provo verso chi indossa la polo con il colletto sollevato…? Sì, è odio! –, ma poi la mano è come se trovasse sintonia con la stazione giusta del pensiero, e si procede speditamente.

Un abbrivio, nel mio caso, che non si è arrestato all’odio, ma ha proseguito con una lista analoga per l’amore. Ma lì è arrivata la sorpresa…

Mi sono accorto che, al primo posto in entrambi gli elenchi, figuravano situazioni speculari, una non avrebbe potuto esistere senza l’altra, come le due porzioni che si compenetrano dentro il cerchio del Tao, il puntino bianco al centro del nero e viceversa.

Nella lista dell’odio, con scarsa originalità, avevo indicato il rumore del trapano del dentista, solo a scriverne mi tornano i brividi. Quando l’orco verde l’avvia, l’assistente alla poltrona si avvicina e mi infila un piccolo ma non meno odioso aggeggio dentro la bocca, con cui viene risucchiata la saliva.

E però, ecco, in quel momento sopraggiunge anche una diversa sensazione: quella del seno tiepido della stessa assistente, si posa con quasi impercettibile pressione (e però io la sento) tra il collo e la mia spalla contratta sulla poltrona da astronauta, da bambino solo così venivo convinto a salirci sopra.

In quel punto rimane per tutta la durata dell’intervento, lo sento pulsare a un ritmo più lento del mio cuore. E mi ricorda che c’è una donna, c’è una madre, c’è una sorella o meglio ancora un femminile indistinto che mi protegge e consola. C’è. Punto.

La presenza discreta di quel seno – non mi importa neppure a chi appartenga, se la ragazza sia bella oppure brutta (non posso saperlo per via della mascherina, in largo anticipo sul Covid) –, quel seno si avvicina più di ogni altra cosa alla percezione concreta che ho della parola amore, poco contano le sue astrazioni.

Lo so che esistono pure donne dentista, di più chirurgo, presidi di facoltà, ministre, presidenti del Consiglio, lo so lo so e non voglio sminuire nessuno. Ma nella giornata della donna mi piacerebbe donare la mia mimosa a tutte le donne senza volto e ruoli di prestigio, un po’ drop out come me. Donne invisibili ma con un seno tiepido a ricordarti che, se hai bisogno, sono lì. Ci sono.

Silenzio assordante

A distanza di una manciata di giorni dal Festival di Sanremo, confermo, per quel che vale, la mia prima impressione: l’unica canzone davvero bella è quella di Colapesce e Dimartino, per quanto non male anche Max Gazzè ed Extraliscio.

Mi ricorda, Musica leggerissima, la pelle di un’adolescente dentro un film di Rohmer – superficie tonica e abbronzata, ma già satura e gravida dei lutti successivi. A un certo punto però compare il ponfo procurato dalla puntura di un insetto, deve essere una zanzara. Sì, è proprio una zanzara, e infatti non smette di ronzarmi nelle orecchie una frase del testo: “metti un po’ di musica leggera nel silenzio assordante…”

Silenzio assordante, non infastidisce anche voi?

Tecnicamente si tratta di un ossimoro, l’affiancamento di termini antitetici. Una strategia retorica che dovrebbe rendere la lingua più viva ed espressiva, comunicando il senso di smarrimento suscitato dal paradosso. Ma come in tutti gli artifici, l’uso, quando diviene abuso giornalistico, vezzo pigramente ripetuto in ogni occasione verbale, finisce col produrre il risultato opposto, restituendo l’impressione di sciatteria, mancanza di acutezza nominale.

Lo scrittore Raul Montanari lo chiama effetto lamiere contorte, da cui uno scrittore dovrebbe fuggire come dalla peste, anzi il Covid. Quante volte, nella cronaca degli incidenti stradali, abbiamo sentito questa espressione: il corpo giaceva tra le lamiere contorte?

Una descrizione non difettosa – le lamiere di una macchina incidentata sono effettivamente contorte – ma che il nostro orecchio accoglie senza alcun sussulto, attutita dall’abitudine. Eppure, basterebbe sopprimerne la coda per recuperare forza e verità: il corpo era disteso (non giaceva, che è ugualmente un verbo abitudinario) tra le lamiere, lamiere e basta, con la radice semantica lame che riprende a risuonare, a tagliare.

Colapesce e Dimartino avrebbero così potuto affidarsi a soluzioni alternative. Se per ragioni metriche non potevano rinunciare all’avverbio, gli si apriva la prateria offerta dal dizionario della lingua italiana. Butto lì: metti un po’ di musica leggera nel silenzio pressante, insinuante, vacante, latente…

Comunque meglio, no?, anche solo per il fatto che gli accostamenti non sono ancora entrati nel birignao giornalistico e televisivo. Ma la canzone, la bella canzone, appartiene a loro, non è mia. Li invito dunque a modificare quella frase infelice almeno nelle esecuzioni dal vivo, per scacciare la punturina di zanzara che intacca la pelle di un brano altrimenti perfetto.