venerdì 26 febbraio 2010

Il colore delle rose, o sul godimento come fattore politico


Sono tutti uguali: i partiti, i politici, gli uomini di governo e di opposizione. Non voto perché non c'è nessuna differenza, cosa me ne importa. Tutti uguali.
Se fosse un film di Nanni Moretti a questo punto entrerebbe nell'inquadratura Michele Apicella, e con la sua voce di ruggine e mentine si chiederebbe: "Chi è che sta parlando, ma chi è ...? Rossi, neri, sono tutti uguali... Ma che siamo, in un film di Alberto Sordi?" E prima di essere sbattuto fuori dal locale, farebbe ancora in tempo a dire: "Te lo meriti Alberto Sordi, te lo meriti!"
Questo però non è un film di Alberto Sordi, e nemmeno di Nanni Moretti. Ma il locale quello ci sta davvero. E' la Scighera, il circolo Arci di via Candiani, Milano, zona Bovisa. Io abito a poche decine di metri. Il tempo dunque di infilare un giaccone militare e raggiungere alcuni vicini di casa, cogliendo questa conversazione già in corso.
A parlare è una ragazza di 22 anni. I partiti sono tutti uguali, i politici. Tutti uguali.
Giorgio, seduto allo stesso tavolo e con più del doppio dei suoi anni, quando lei si alza me lo domanda sconcertato: "Ma se avessi una figlia della sua età, come farei a spiegare, con quali parole e quale autorità, a farle capire che non è affatto vero? Il rosso è rosso. Il nero è nero. E ogni cosa è diversa da tutte le altre, anche il colore dei pescetti che nuotano dentro al mare."
Guardo il punto interrogativo al termine delle sue parole ma resto muto. Come un pesce, appunto. O come succede in ascensore con un estraneo, i numerini della pulsantiera che si illuminano con spietata lentezza, sei lì che ti guardi i piedi e non ti viene nulla da dire, solo qualche colpetto di tosse. Abbozzo quindi un sorriso a mezza bocca, prima di riposare lo sguardo in terra aspettando che l'ascensore raggiunga il mio piano. Infine, dopo molti altri sorrisi e colpetti di tosse, saluto e ringrazio per la bella serata. Dando appuntamento per un dove e un quando non più certi del mio saluto.
Fuori dalla Scighera il solito grappolo di fumatori infreddoliti, piovischia.
E' passata una notte, il viaggio in macchina verso Sondrio, modestissimo ultimo cd dei Muse sull'autoradio, mattinata per uffici, quando ripenso alla domanda di Giorgio: con quali parole, quale autorità. Come spiegare la sottile arte della distinzione, a un ventenne ...?
Piove ancora.
Accendo il televisore è assisto alla riedizione di uno spettacolo di varietà, in cui un politico di destra racconta cose buffe, sta allo scherzo, cerca insomma di fare il simpatico. Nell'intenzione degli autori, e del politico stesso, ciò dovrebbe renderlo simile alla "gente", e con ciò bucare il video. Ossia piacere.
Piacere, una parola che mi appunto sopra un lembo del giornale.
Alcuni anni fa il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek, in un suo saggio di natura politica, reintroduceva, estendendola al dominio sociale, la nozione di "jouissance", utilizzata da Lacan per indicare il piacere. O ancora più precisamente jouissance è traducibile con godimento, nei termini della dinamica mentale ipotizzata da Freud. Il principio del piacere, del godimento, è diventato oggi per Žižek il metro attraverso cui si determinano le forme volontarie di associazione tra gli uomini. O più semplicemente, la comunità.
Mentre in tempi ancora recenti le comunità si costituivano su base geografica, o ancor prima etnica - la consanguineità come elemento di appartenenza tribale - il fattore aggregante è ora diventato mobile, fluido. Ma pur sempre agganciato a un minuscolo scoglio senza il quale non c'è possibilità di approdo, né il riflesso speculare necessario al riconoscimento. E questo sassetto nel mare dell'indifferenza, alla base del fragilissimo edificio comunitario, è costituito dal piacere.
Godere degli stessi piaceri e frequentare i medesimi luna park, è insomma la premessa tardomoderna di una identità sociale sempre più dislocata a macchia di leopardo. Da questo punto di vista l'idolatria musicale - le ragazze che si strappavano i capelli per i Beatles tanto a Liverpool che a Barletta - diventa allora il modello di ogni altra comunità. Lo specchio non è più conficcato dentro le radici della terra o nelle eliche del DNA, ma nel cielo delle passioni. Se non tra la scorza glassata di un cannolo.
Certo, anche il cosmopolitismo libertario rappresentava già una prima forma di emancipazione dai vincoli geografici ed etnici. Con la significativa differenza che il sentimento di identità popolare, o come si sarebbe detto di classe, aveva la sua matrice psichica dentro il dolore, in una sopraffazione violenta e diffusa quanto oscurata con le fronde della "naturalità". Non certamente un piacere, un godimento. Il pronome noi - noi popolo, noi lavoratori, noi comunisti - aveva il suo punto di irradiamento proprio a partire da un conflitto. Che generava un trauma che generava identità.
Ora non è più così, suggerisce Žižek.
Lo scrittore Giorgio Vasta, in un recente articolo su la Repubblica, aggiunge che il nostro presente si offre come serie di eventi, anche forti, anche dolorosi, che non vengono però più percepiti come trauma. Fatti separati dalle emozioni corrispondenti, potremmo dire.
Diversamente la gratificazione leggera e l'intrattenimento svagato trovano forme di amplificazione nei sistemi della rappresentazione pubblica. Radio, cinema, televisione. Anche i siti web di importanti giornali indulgono a una piacevolezza spesso pruriginosa. E il contrario del trauma è appunto il godimento, la jouissance.
Ecco allora che in un orizzonte oscurato dal trauma, una terra senza il male, il piacere assume una sorta di ruolo suppletivo, che disciplina il consenso e l'appartenenza dentro comunità del gusto, appartenenze di tipo estetico e spettacolare. E come già abbiamo avuto occasione di scrivere su Fontana con soldino, Facebook è un perfetto esempio di tutto ciò. Una dinamica del moderno che, senza tante sottigliezze ermeneutiche, noi percepiamo come regressiva.
La natura reazionaria di Facebook e del piacere come nuova radice comunitaria, è in fondo facilmente intuibile. Mentre attraverso il trauma, il conflitto, tanto la comunità quanto l'anima singolare vivono un'esperienza dentro l'opacità sensibile delle cose, cercando di integrare la differenza in una sintesi dialettica, nel piacere si tende piuttosto a privilegiare il simile, l'analogo. Il principio di realtà si trasforma dunque in particolarità. Dove il particolare è per l'appunto l'omologo, il connaturato.
Se la dimensione del particolare, del gruppo chiuso, la casta, è l'elemento che storicamente ha qualificato la cultura politica delle destre, lo scenario appena tratteggiato potrebbe allora essere battezzato come destra ludica. A cui, almeno in via teorica, dovrebbe corrispondere una sorta di sinistra traumatica.
In realtà le cose non stanno affatto in questo modo.
Come ciascuno ha continue occasioni di constatare, anche la cultura di sinistra ha preso la via di una semplificazione sorridente dentro le categorie dello spettacolare, del piacere per piacere. Così se fino a pochi anni fa icone di sinistra potevano essere l'operaio vessato, il Cipputi, o l'ostensione del corpo cristico di Che Guevara , ora vanno a costituire identità e riconoscimento le canzoncine di Jovanotti, i comici di Zelig, i film di Muccino o i libri di Fabio Volo e della Littizzetto. Che il più delle volte posseggono una loro intima piacevolezza e verità, intendiamoci. Ma che non hanno sufficiente potere di radianza, diciamo così, per richiamare l'elemento traumatico dentro l'orizzonte del piacere e dello svago.
Da questo punto di vista la forma di spettacolarizzazione che meglio incarna la nuova cultura di sinistra, è la trasmissione di Fabio Fazio Che tempo fa. Puro piacere, anche intelligente, anche arguto, ma senza la minima ombra di un trauma.
Rimane la disillusione della nostra amica di vent'anni, e l'interrogativo di Giorgio: come fare, come possiamo riuscire a spiegarle che non è vero, che le cose non stanno a questo modo, frullate e stinte come appena estratte da una centrifuga? Tutto non è uguale a tutto, e ogni parte ha il suo preciso colore.
Beh, Giorgio, forse non è la risposta che cercavi tu, ma il timido principio di un suggerimento mi sento ora di offrirtelo. Guardiamo dentro le forme del piacere, del godimento. Cerchiamo cioè di capire qual è l'idea di mondo, l'orizzonte estetico che ci propongono i diversi partiti, i giornali, confuso e infuso negli spettacoli tutti. E naturalmente nei politici che ci sfilano sorridenti e giocosi in televisione.
Quindi interroghiamo anche le risate che ci mettono in bocca, gli applausi registrati. Perché quello è piacere indotto, che perciò ha un ruolo politico decisivo: quella è propaganda elettorale! Soprattutto in questo tempo liquido e scanzonato. Dove, come si è visto, non ci è rimasto molto altro per fare comunità, se non ingozzare i carrelli e i pensieri dei medesimi diletti.
Così se nella loro idea di piacere, nelle barzellette che ci raccontano ammiccando all'intervistatore, è svanita anche l'ultima ombra di un trauma: diffidiamone, cambiamo canale e teniamoci stretto il nostro voto. Perché non c'è vero piacere senza il pungolo sottile di un trauma, anche quando nascosto come un pisello sotto a un cumulo di materassi. Non c'è vita senza conflitto e differenza che stride.
Ma in fondo anche un bambino di otto anni, che abbia appena letto il Piccolo principe, lo sa benissimo senza bisogno di spiegarglielo ancora. Che non c'è rosa che non sia rossa come solo quell'unica rosa.
Rossa.

mercoledì 24 febbraio 2010

Il bambino che viveva nello specchio


Mi accorgo solo ora che è uscito di recente un nuovo libro di Rocco Brinsi, per l'editore Diabasis. Non so di cosa parli, se sia un testo poetico, brevi prose, racconti. O forse un diario. Probabilmente tutto questo, mescolato assieme.
Mentre scrivo queste note ho comunque ordinato il libro in questione, che si intitola Il bambino che viveva nello specchio.
Rocco Brindisi è un autore a cui accostarsi piano, in punta di piedi. Nelle sue riflessioni sulla scrittura, Edgar Allan Poe spiegava come poesia e racconto fossero dei dispositivi quasi meccanici, che per accumulo direzionale portano al compimento. Rocco Brindisi è l'esatto contrario di tutto ciò.
Se la sua prosa fosse una macchina sarebbe un attrezzo completamente inutile, un accrocchio patafisico. Ma forse proprio perché inutilizzabile, sghemba, incompiuta, la scrittura rimanda a qualcosa di ulteriore. Una sorta di ineffettualità del sentire che paralizza, sgomenta. Prima di schiudere all'incanto.
Le donne nei racconti di questo magnifico autore lucano ogni tanto si accovacciano, ovunque, specie al margine di una strada di campagna. Quindi alzano i lembi della gonna, lunga, nera, con le mani a pugno come a sollevare un covone di fieno. Infine pisciano.
Semplicemente questo: pisciare, sgorgare un fiotto tiepido e dorato. E stare lì, esserci e sentire l'allagare candido e ineffabile di quel momento, fin sotto alla suola delle scarpe.
Oppure scoreggiano, sempre donne, altre donne, o ancora le stesse. Oppure fanno sssh oppure canticchiano oppure ridono, ma non tutti i denti stanno al posto loro. C'è sempre qualcosa che manca, una ferita. Che viene come ricomposta nella contemplazione, magari quella di un vecchio film, che unisce la famiglia intera, il mondo, le cose.
Rocco Brindisi è tutto ciò: un niente che satura gli spazi, i tempi.
Rimane quella sensazione intangibile di leggerezza, rarefazione; che per paradosso è stata raggiunta tramite un'enunciazione sommamente materiale, perfino organica. Mistero, appunto.
Così per una volta voglio fare anche io quello che fanno dentro i giornali e alla tivù, consigliare un libro che non ho ancora letto. Perché con la sapienza tiepida di una pisciatina, la so anche io, credetemi, una cosa che non so. Che Il bambino che viveva nello specchio sarà bello e lieve come il suo magnifico autore.

(ps - qui potete trovare un racconto di Rocco Brindisi)

martedì 23 febbraio 2010

Mi piace pensare


Mi piace pensare che qualcuno pensi che mi piace pensare. Per questo, in fondo, penso. Per darlo a vedere.

domenica 21 febbraio 2010

Kamikaze

Mi ricordo il kamikaze di Wim Wenders, l’auto che piombava in acqua sul confine fra le Germanie. Oggi è figura abusata di tempi ombrosi e crivellati. Per appiattirmi al conformismo ne ritaglio una fra le mie pagine: la ragazza vestita per la caccia alla volpe, stivali di cuoio chiaro, la sciarpa nera, la giacca scamosciata; lei che passa al trotto portando a spasso la sua carriera, lei che andrà esplodendo in un ufficio di luce.

Francesco Osti - da Itinerari, Stampa 2009 (in pubblicazione)

giovedì 18 febbraio 2010

Solo voglio parlare

"SONO IONICA E HO 31 ANNI,SONO RUMENA,SONO ARRIVATA IN ITALIA IN 1 MAGGIO 2004,SONO SPOSATA E HO 2 BIMBE,CRISTINA E LORELAI.MI SONO INSCRITTA QUA NON PER CERCARE ANNIMA GEMELLA,SOLO VOGLIO PARLARE CON NQUALCUNO,MIO MARITO NON MI AMA PIU,MT TRATTA MALE CERCA SEMPRE MOTI VI PER LITIGARE. TANTTE VOLTE PIANGO E MI SENTO SOLA.SE VOLETE PARLARE CCON ME SONO CONTENTA.CIAO E UN BACCIO A TUTTI I RAGAZZI."

IONY78, 32 anni, Chiavenna

lunedì 15 febbraio 2010

Il venait d'avoir 5 ans, o sulla nostalgia


La nostalgia, che cos'è la nostalgia?

Ma forse posto in questo modo è un interrogativo privo di senso. La nostalgia è un paradosso inafferrabile per il filosofo: è qualcosa che non è, la presenza di una mancanza.

Domanda a cui si dovrebbe allora rispondere in nome proprio, non astrattamente. Come alla visita di leva quando ti fanno abbassare le mutande davanti a tutti. Il tuo nome, le tue mutande, il tuo pisello rattrappito dalla vergogna. E anche la tua nostalgia, quell'assenza che si fa presente nel definirti quale ora sei, per tutto ciò che hai avuto senza mai davvero possederlo. E che ora ti manca.

E poi in fondo io lo so benissimo cosa è la nostalgia. E' una canzone di Dalida, "Il venait d'avoir 18 ans".

Ma invece di diciotto potrebbero essere anche otto anni, o ventotto o trentacinque. C'è sempre un tempo che sfugge alla stretta delle mani. E spesso è proprio quel tempo che, quando ci viene consegnato, facciamo di tutto per restituire al mittente, ficcando il testimone in pugno al prossimo atleta. Oppure lo scagliamo lontano, il più lontano possibile, come sassi sopra a un fiume.

Io ci andavo con mio nonno Pinin e il fiume era l'Adda. Un'ampia insenatura scavata dalla draga di un silos, vicino al ponte che porta ad Albosaggia, appena fuori Sondrio.

Mattine d'autunno, o forse di primavera, andavamo all'Adda apposta per far rimbalzare i sassi piani e levigati sopra alla superficie opaca dell'acqua, e per osservare la draga del silos tuffarsi con la furia di un gabbiano. Il nonno riusciva a realizzare anche sette otto balzi. Io due, massimo tre. Poi un misero ciuf come il tappo della vasca, quando le mani si fanno rugose, da vecchietta, e la mamma lo rilascia.

In pochi secondi il foro sul fondo si beve la festa della schiuma Vidal, quella con il cavallo bianco, e comincia a fare freddo anche sotto la salvietta; il lusso degli accappatoi solamente dentro ai film americani, dopo che le valvole della tivù si sono scaldate per bene. Sulla ceramica concava rimane lo scheletro di qualche capello, la spugna che non sapevi dov'era finita. Adesso è grassa e sformata come una Big Babol prima di scoppiare.

Al ritorno dal fiume, con il nonno Pinin, andavamo a osservare gli operai nei cantieri, che facevano grandi e belle le nostra periferie. O almeno così mi sembrava, affondando una mano in quella di mio nonno e l'altra nelle tasche di velluto a coste, dove nascondevo due o tre sassetti lisci lisci per la prossima volta che saremmo tornati al fiume.

Allora sarei stato più grande, più forte, più bravo. E se il pescatore diceva un'altra volta di andare più in là, che gli facevamo scappare i pesci, gli avrei cacato dentro agli stivaloni verdi, pisciato nel buco del culo. Poi avrei fatto un balzo e un altro ancora sempre più lontano, oltre al sassetto lanciato dal nonno.

Intanto gli operai lavoravano dentro un tempo largo che un tempo così largo lo potevi ritrovare solo a messa, la domenica mattina. Odore di incenso da sentirti male, quando stavi vicino, troppo vicino, e io ci stavo più vicino di tutti. Ero chierichetto, ma questo milioni di secondi dopo.
Chiuso nella cotta bianca con la tonachetta nera; ma ogni tanto anche rossa o perfino marrone, come quella dei frati che si arrampicavano sulla salita di Colda, ma non facevano l'autostop come i drogati. I drogati fanno l'autostop, per la nonna questo era un punto fermo. E se la mamma arrestava la 500 bianca per dargli un passaggio, ai frati, non ai drogati, loro dicevano grazie.

Solamente grazie.

Così, quando veniva Natale, tutte le parole che non avevano detto, solamente grazie, si facevano figura. O meglio radura, brusio, dilagando nell'eloquenza muschiosa del presepe, con un sistema idraulico e di luci a simulare l'inganno del tempo, le albe e i tramonti e i ruscelli. Sì, era decisamente il presepe più bello di tutti, quello dei frati di Colda. Perché è una gara il presepe. E quegli omini taciturni e barbuti, con i loro piedi nudi dentro i sandali, la pioggia, la neve, grazie prego grazie prego, la vincevano sempre.

Ma anche raggiungere lo spalto della messa grande della domenica, era una gara. Ci sono decine di messe, e poi anche i funerali, le benedizioni, occasioni ghiotte per gli aspiranti chierichetti. Ma nessuna importante come la messa della domenica mattina.

Quando riuscivo ad arrivarci e acciuffavo il turibolo, lo tenevo stretto e non l'avrei mollato più, ceduto per niente e a nessuno al mondo. Non come pietre tonde da riconsegnare al fiume.
E poi oscillare il polso e dondolarlo piano, cullarlo, il turibolo. L'odore dell'incenso che si sparge come l'anestesia del dentista, un canto soffuso e lunghe processioni per l'eucarestia. Cullarlo come un bambino morto da rianimare.

Sì, si chiama nostalgia questa cosa qui.

Bambini morti, tempo morto. Perché si può davvero morire di nostalgia in questo presente senza tasche, senza sorprese. E senza più una mano di nonno a calare sopra gli occhi, ogni volta che gli operai iniziavano ad arroventare la fiamma ossidrica.

Solo una voce, da fuori, come il playback di un vecchio film. A ricordarti che gli uomini che camminano a piccoli passi con enormi occhiali neri, il cane lupo con lo stemma della Svizzera, oscillando il bastone verso l'incalzare minaccioso di un niente, sono bambini che hanno guardato la fiamma ossidrica. Che a guardare la fiamma ossidrica si diventa così, ciechi.

E secondo me davvero abbiamo guardato il drago dentro agli occhi, per diventare quel che siamo. Sassetti che hanno smesso di danzare sopra a un fiume.

domenica 14 febbraio 2010

Parco, II

Oltre il muro e il salto degli spalti, nell’ombra della cabina di radiocronaca vedo le teste coi panama, a tratti il rinsecchito profilo tedesco. Mi chiedo quale sia l’unità di misura che segna la distanza fra me e loro e il tempo in solitudine per percorrerla. Forse anch’io finirò spettatore al polo-club a contare nelle pause i giri dell’irrigatore, oppure a seguire sempre più lontana la figura del giardiniere che passa ogni paletto…

Francesco Osti - da Itinerari, Stampa 2009 (in pubblicazione)

venerdì 12 febbraio 2010

In difesa del risentimento, una mail


Oggi ho avuto uno scazzo epistolare con un'amica, a proposito del risentimento. Lei mi confidava di non amare un certo scrittore perché troppo risentito. E' vero, quello scrittore è la persona più risentita che io conosca. Eppure io lo continuo a leggere e a seguire; e proprio per via del suo smisurato risentimento. Riflettendoci ancora, mi sono quindi accorto che lo scambio epistolare con la mia amica poteva avere un qualche contenuto generale, perfino civile. Così omettendo il contenuto della sua mail, posto la mia risposta:

“... Anche io credo che F. A. viva di profondi risentimenti. Ma a differenza tua, non ho una percezione unicamente negativa - risentita - del risentimento. Che contemplo nella sua nuda natura di risacca emotiva; un sentire nuovamente le ferite, ri-sentirle. Così a me interessa molto di più l'origine e il profilo della ferita che non le modulazioni del lamento. Perché la carne che duole dentro gli interventi di F. A., secondo me, ossia per come anche io patisco il presente, non è infettata unicamente dal demone narcisistico, ma pungolata da un sentire più generale, che non esisterei a chiamare politico o civile. In altre parole si può essere incazzati perché uno ti ha spruzzato i pantaloni passando con una motoretta dentro una pozzanghera, e da quel giorno forare le gomme a tutte le motorette che incontri. Ma questa è una forma di risentimento incivile. Oppure accorgersi che la strada è piena di buche, dove le motorette, indistintamente, quando sgasano spruzzano. Quindi incazzarsi e pretendere che chi ha lasciato quelle buche nell’asfalto le ricolmi. E questo è un risentimento sano, civile. Il risentimento di F.A. mi sembra dunque appartenere a questa secondo tipologia. Traducendosi in dolore, ma anche in sana e legittima rabbia, nell’assistere alla messa in liquidazione di un'idea di mondo selvaggiamente alternativa al minuscolo presepe borghese, con qualche semplificazione emotiva emblematizzata nel Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Estremo simbolo di rivalsa popolare che ha lasciato il posto a una caricatura imbelle della mediazione virtuosa, anche detta "valori democratici". Una pietanza a base di farro, scarpe basse, tappeti multietnici, libricini e canzonette edificanti. O se vogliamo dirlo con una parola sola: veltronismo. Il tutto condito da un buon senso che di buono ha solamente l'aggettivo, mentre lo sforzo del significare è ormai pratica consegnata a creativi, grafici, copy e pubblicitari con la mosca sopra al mento, come il volto maschile che campeggia nei nuovi manifesti del PD. Tutto ciò hanno il coraggio di chiamarlo "sinistra moderna", semplicemente perché, ignorando non solo Marx ma anche Bloch, Benjamin e il messianesimo giudaico alla base della sinistra storica, pensano che la virtù politica corrisponda con il consenso, con il rispecchiamento in una temporalità che non è nemmeno storia ma cronaca. E in effetti, dal loro punto di vista, Gesù ha perso le elezioni con Barabba perché ha sbagliato strategia elettorale ... (Poi uno può anche mangiarsi un bel piattone di zuppa al farro e non pensarci più, oppure risentirsi.)

Ti auguro giorni sereni, ciao

g.”

mercoledì 10 febbraio 2010

Manuale italiano di sopravvivenza


Segnaliamo l'uscita del nuovo libro di Fulvio Abbate per l'editore Cooper. Il titolo è Manuale italiano di sopravvivenza, e in una forma divagante, al solito estrosa e biografica ma densa di grumi civili idiosincratici a questa modernità soffusa e light (una modernità "al farro", direbbe lo stesso Abbate), racconta l'esperienza di Teledurruti, di cui abbiamo già avuto modo di occuparci. Aggiungo, a titolo personale, che l'autore mi ha contattato nei mesi scorsi per richiedermi di poter aggiungere quando scritto su Fontana con soldino come appendice al volume, con ciò gratificando lo spruzzo di questa fontana che è davvero una piccola pozzangherina. Ma che, anch'essa, prova e perfino riesce a sopravvivere, a zampillare pensieri e parole in un'indifferenza che si fa sempre più partecipe, curiosa. E' possibile rileggere qui l'intervento in questione, mentre qui la presentazione del Manuale fatta da Fulvio Abbate su Teledurruti.

domenica 7 febbraio 2010

Futura, o sul perché Facebook è reazionario



Le chiamano note. Dalla bacheca di un’amica scopro che è una funzione di Facebook. Ma forse più che scoprire dovrei dire intuisco, almanacco, non avendone ancora compreso il funzionamento per intero.
Immagino dunque che si tratti di questo. Dopo aver scritto un post, cioè un breve testo da pubblicare nello spazio informatico personale, c’è la possibilità di individuare alcuni destinatari, a cui nel momento della pubblicazione lo stesso viene associato.
Ma con un esempio dovrebbe essere più chiaro.
Trovo sulla bacheca della mia amica Lotte una poesia piuttosto sentimentale; o meglio soffusamente malinconica, ridondante. E’ di un tale che si firma Gabriel Lure. Ora non è tanto importante decidere se sia bella oppure brutta. Più che una poesia a me sembra il testo di una canzone, assumendo dal genere formulazioni sospirose quali "campanule orfane”, "lacrima gentile", "parole non dette in un giorno di pioggia …"
Ok, credo che sulla qualità del testo ci siamo capiti.
La cosa veramente interessante è dunque un’altra. Gabriel Lure non invia questa canzone senza musica a un interlocutore individualizzato, quale potrebbe essere Luisa o Maria o Giacomino. No, egli la invia a Luisa e Maria e Giacomino. Il passaggio dalla congiunzione disgiuntiva a quella coordinativa modifica insomma la natura stessa della comunicazione, che si fa collettiva senza essere globale.
Vediamo allora cosa questo implica, ma come ogni autentica novità muoviamoci per negazioni progressive.
Intanto la composizione di Gabriel non rientra nel genere epistolare, mancando di un “tu” entro cui circoscrivere l'interlocutore. Contemporaneamente, però, il testo non è nemmeno pubblico, non rivolgendosi a un uditorio indifferenziato ma a una precisa selezione di interlocutori. Insomma, un po’ come una volta avveniva a teatro con le varie autorità cittadine, a cui venivano assegnati dei palchetti separati dalla massa con poltroncine in velluto rosso (che perlopiù restavano vuote).
A questa prima considerazione, dobbiamo aggiungere che il buon Gabriel non ha realmente inviato la sua canzoncina a Luisa e Maria e Giacomino. Perché Giacomino, in effetti, non ci stava. Mentre di Luise e Marie ne erano presenti una trentina. Trenta giovani fichette a cui offrire la sua lacrimevole pena di amante e poeta incompreso.
Sì, siamo in pieno Ottocento. Con una differenza significativa. La cultura romantica, a cui Gabriel evidentemente si ispira, prevedeva una robusta cornice estetico-formale, entro cui danzavano delle coppie polari che si rafforzavano individualmente proprio per via della specularità; al limite potevano crearsi dei triangoli, quando fosse presente anche la figura indesiderata ma ineludibile dell’Altro. Diverse figure geometriche non erano contemplate. Mentre nella scena moderna Tu, Io e l’Altro hanno lasciano spazio a una folla anonima e vociante; la famigerata “gente”, che richiama la voce indistinta del coro tragico, senza però possederne l’autorevolezza profetica. Un coro che parla a cazzo di cane, si direbbe a prima vista. E come i cani abbaia alla luna e bacia la mano che tiene il bastone. Il passaggio da Popolo a gente possiamo anche vederlo a questo modo: la caduta di una sintesi nominale e cognitiva, che si fa storia a partire dalla seconda metà del Novecento.
Gabriel Lure però ci dimostra di essere già oltre, fuori dal Novecento ma con un piede ancora ben saldo nell’Ottocento. Egli è infatti sensibile, sentimentale, romantico. Però è anche sufficientemente cinico e moderno da sapere che tempo e sforzo vanno ottimizzati. Perché provarci con una sola donna, allora, quando Facebook ti offre la possibilità di farlo contemporaneamente con trenta?
Ecco allora cosa sono le note di Facebook: uno stratagemma linguistico per smarcarci dai confini storici del discorso duale, della parola "responsabile" in quanto una risposta non solo è prevista, ma dovuta. E che ora vede la comunicazione non più limitata al pozzo di un tu biografico – tu che mi leggi, tu che mi ascolti e tu che dunque mi risponderai - senza con questo però nemmeno allagare nell’oceano di un tutti civile, un tutti che si fa carico della complessità di ciò che ci è differente. Piuttosto un noi, una pozzangherina opaca, che recupera e rilancia una funzione “tribale” della lingua, chiamiamola così.
Noi infatti è il pronome che qualifica una socialità ristretta, selezionata e con pedigree – in questo caso il parametro di selezione è quello del genere sessuale, ma le discriminanti tribali potrebbero essere molteplici. E’ sufficiente che si condivida questa collocazione intermedia tra il privato (tu ed io) ed il pubblico (tutti), accampandosi in quei territori selvaggi della lingua dove vigono le uniche leggi della statistica, della probabilità e dell'analogia.
A differenza di quando si parli con un interlocutore individualizzato, con un tu, con l'ampliamento delle destinazione verbale non è più dovuta alcuna risposta, per ethos ma nemmeno per galateo. E però una risposta è compatibile, tutto diviene compatibile e facoltativo quando parliamo tra noi. Ossia quando torniamo tribali - il gruppo, il clan, le amichette di Facebook - mentre conficchiamo le nostre parole dentro il cuore pulsante del moderno.
Ecco allora in cosa precisamente è reazionario Facebook. Nel promuovere la regressione da una parola pubblica, civile, la quale metta a tema la complessità del mondo che è data dall'articolarsi di differenze significative, da approcciare per mezzo degli strumenti di una razionalità persuasiva, a una lingua idiomatica, se così possiamo dire: una lingua che ha valore d'uso solo all'interno del clan, come un gergo malavitoso. Ma per via di questa premessa strumentale, la lingua di Facebook retrocede anche da un orizzonte morale fondato sul riconoscimento dell'Altro, del suo corpo e della sua biografia, che storicamente sono a fondamento del discorso duale. Ciò che resta è l'illusione di uno spazio comunitario che si articola per analogie ludiche, il piacere e l'affinità del gusto (gli stessi cantanti, scrittori, registi da onorare) come unico elemento aggregante ed esclusivo. E quel che viene escluso dall'onda di risacca sono proprio le differenze interpretative quanto l'interrogazione singolare, lasciando sulla sabbia l'orma del vecchio mito tribale. Una comunità circoscritta dal profondo fossato della pigrizia e della diffidenza.
I creatori di Facebook, che davvero sono dei profeti della modernità, dei geni della comunicazione dissociata, hanno così intuito che il loro strumento rende realizzabile uno dei miti cognitivi del presente, che paradossalmente si realizza nel momento in cui viene rivangato l'antico. Quello del ritorno a una comunità che non è più della terra e del sangue, ma del gusto, del godimento; o meglio ancora della jouissance, per riprendere un concetto lacaniano rilanciato dal filosofo sloveno Slavoi Žižek. E con ciò della relazione non vincolante, del “ndo’ cojo cojo”.
Ma di questo davvero non abbiamo mai dubitato. Che, prima o poi, qualcuna delle trenta nel frattempo magari diventate trentuno o trentadue o quarantacinque, sacre vestali del branco, finalmente gliela dia. Al nostro malinconico astutissimo poeta.
E se saran rose e se sarà una femmina, si chiamerà Futura.

sabato 6 febbraio 2010

Pausa pranzo

Case della nuova urbanistica, senza identità, concepite e partorite nella notte di timbri e pantomima; come i giovani assicuratori che per strada, all’ora del pranzo, si salutano “cari ragazzi!”
E la ragazza dietro al banco sta benissimo: sciacqua bicchieri e ci si ammira. Attira la più giovane e rampante clientela: impiegati di banca, top manager running: secchi nella sfera d’amido e matita. Tutto un gioco di scatole magiche, alla ribalta delle fotovoltaiche.

Francesco Osti - da Itinerari, Stampa 2009 (in pubblicazione)

venerdì 5 febbraio 2010

Una brava ragazza singol

"IO MI CHIAMO MARCO L****** ANNI 46 SONO SINGOL CERCO UNA BRAVA RAGAZZA ANNI 35/38 SINGOL ITALIANA CON I SENTIMENTI SANI PRINCIPI IO SONO DI ROMA SONO UN BRAVO RAGAZZO SERIO E IN GAMBA E SIMPATICO E LAVORO FACCIO PROGRAMATORE INFORMATICA CON I COMPUTER LA RAGAZZA LA VORREI NON DIVORZIATA NON SEPARATA NON CON FIGLI PER SCOPO MATRIMONIO NON CONVIVENZA NON PERDITEMPO IO AMO MOLTO LA MONTAGNA."

giovedì 4 febbraio 2010

Per andare dove dobbiamo andare?


Un parcheggio. Io e Gianni stiamo cercando un parcheggio con la sua nuova automobile. Guida lui in direzione Lungo Mallero, dove abbiamo appuntamento per ritirare delle cornici. Superato l’incrocio di via Parolo vedo che Gianni sterza a destra in via Trento. Il Mallero scorre dalla parte opposta. Mi spiega che è a causa del parcheggio: nei pressi del luogo in cui siamo attesi non ci sarà quasi certamente parcheggio, sicuro che non c'è. Ma nemmeno in via Trento, c’è un parcheggio. La nuova automobile di Gianni è lunga, alta e sofficemente gonfia. L'odore buono delle cose appena sfornate, candida anche nella vernice. Un incrocio tra un pastore maremmano e una meringa. E però diesel, turbo diesel. Giriamo in tondo una decina di minuti - anche il cd dei Rem sembra essere finito in loop - fino a che non ne troviamo uno. Eccolo, un parcheggio! Quindi raggiungiamo a piedi il colorificio Cao, all’angolo tra il Lungo Mallero Cadorna ed il ponte Eiffel. Dove troviamo, proprio di fronte all’ingresso, un enorme parcheggio. E all’interno un poster di Totò e Peppino con la scritta: Per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?

martedì 2 febbraio 2010

Letture


Leggo. “La droga apre i sensi a chi li ha già sviluppati, e li chiude agli altri. Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa. La uso come antidepressivo.” Lo leggo alle 17 e 56 di martedì 2 febbraio 2010. Alle 17 e 57 leggo che il ministro della gioventù Giorgia Meloni ha risposto a Morgan, il quale dichiara ciò che ho appena letto, ma poi ritratta, e io leggo la ritrattazione di Morgan, Giorgia Meloni risponde a Morgan che la televisione pubblica non dovrebbe concedere ”un pulpito autorevole da cui ergersi a un intellettuale finto-ribelle pagato con i soldi dei cittadini”. E io leggo anche la Meloni, leggo tutto. Sono le 17 e 58. Il rumore sordo di uno sciacquone e mia madre esce dal bagno con una berretta da alpinista in testa. Le chiedo: Mamma, per quale motivo mi avete insegnato a leggere?