lunedì 21 marzo 2011

Infatti, o sulla felicità che davvero non costa nulla. Anzi, diciassette euro


Tommy è il figlio di una mia carissima amica che vive vicino a Bergamo. I genitori sono entrambi romeni, ma Tommy è nato in Italia sei anni fa. Il volto è tondo e vagamente continentale, compatta e solida la struttura del piccolo corpo; nell'insieme ricorda l'iconografia miniaturizzata di un guerriero dacio, anche se parla con cadenza inequivocabilmente bergamasca. L'espressione che usa con più frequenza è "infatti". Gli chiedi se desidera un toast oppure un succo alla pera e lui risponde: "Infatti". Che poi significa, intuisco, che li vuole entrambi.

Entro allora nel bar con giornali e tabacchi a ordinare un succo di pera e un toast e un tè verde e un bicchiere di birra con molta schiuma, per la mamma di Tommy e per me. Anche la Repubblica con l'inserto del sabato, su cui vado subito a controllare cosa viene detto del segno dell'ariete. Siamo a Varenna, è la prima volta che incontro Tommy, a occhio potrebbe essere Sagittario o Leone. Il suo più grande desiderio è di possedere un cane e così l'ho invitato a trascorrere un pomeriggio insieme al mio, una femmina di golden retriver di nove anni.

Si chiama Peppa, la mia grossa cagnolona bionda. Un bel po’ di tempo fa, quando stavo parlando su Skype con la mia ex fidanzata svedese che ha una figlia di nome Jeppa - allora credo avesse intorno ai cinque anni -, ho gridato il nome del mio cane per farlo smettere di spennare un peluche a forma di Topolino - Peppa, Peppa! - ed è arrivata invece Jeppa dall'altro capo dell'Europa, pensando che stessero chiamando lei: "Vad är mamma?"

Con Tommy però questo problema non c'è. Quando chiamo la Peppa lui fa solamente un sorriso grande. E poi aggiunge: "Infatti".

Abbiamo poi camminato a lungo per le stradine di Varenna, giù giù dalle scale ripide fino al sentiero sul litorale roccioso che chiamano "degli innamorati", come se gli innamorati volessero prendere possesso nominale di tutto quanto. Non ho mai trovato, per dire, un sentiero dei geometri o dei ragionieri o di quelli che hanno il mal di denti. Solo sentieri e strade e golfi e pinete: sempre degli innamorati.

Dopo il piccolo porticciolo ritratto in infiniti acquarelli che tanto piacciono agli Inglesi, di cui è presente qui una piccola ma attiva comunità, siamo arrivati a una lunga piattaforma di legno galleggiante, che fa da estensione mobile al pontile. Io mi sono incamminato sopra ma la Peppa, che ho provato a chiamare dopo essermi assicurato che non ci fossero bambine svedesi nei paraggi, non si fidava a seguirmi. Tommy era talmente impietrito che non diceva più nemmeno infatti. Ma quando la madre gli ha chiesto se anche lui avesse paura, ha scosso le spalle, in un modo che fa spesso, rispondendo che non ne aveva semplicemente voglia. Piuttosto si stupiva per la Peppa:

- Se la Peppa casca giù che le importa, tanto i cani sanno nuotare. Non come i bambini che invece vanno a fondo.

Così anche io sono rientrato dalla piattaforma e ci siamo mossi verso la spiaggetta, per mostrare a Tommy la Peppa nuotare come sanno fare i cani; che a differenza dei bambini, i quali vanno a fondo, stanno galla, e in effetti non si capisce perché avranno tutta questa paura dei pontili galleggianti. Mentre la Peppa si immergeva nell'acqua calma e gelida del lago, dimenava le zampe palmate (caratteristica che condivide con due sole altre razze) fino al rametto che gli lanciavo il più lontano possibile, lo afferrava con i denti e poi rientrava a riva per deporlo ai nostri piedi, prima di scrollarsi e bagnarci tutti, Tommy poteva riprendere a borbottare i suoi infatti. Quindi alzare le spalle e allargare il viso tondo in un sorriso largo e tranquillo, da giovane dacio che torna vittorioso dalla guerra.

Al termine del lungo bagno della Peppa ci siamo spostati ad Abbadia Lariana, dove il titolare del baretto del lido si stava allenando nella battuta di inizio del gioco del golf. Non recuperando la pallina a ogni lancio successivo, il grande prato si andava progressivamente colmando delle piccole sfere bianche; quasi un'anticipazione miniaturizzata dei tedeschi e degli olandesi che sarebbero arrivati di lì a poco, per trasformare il diafano candore in ustioni croccanti. Non so quale mazza utilizzasse ma a me e Tommy faceva un po' ridere. Sembrava l'iperbole di quegli affarini di metallo con cui si pressa il tabacco nella pipa; e non ho mai capito perché tutti quelli che fumano la pipa si lascino crescere la barba o i baffi, che poi diventano gialli e brutti. Il cielo era chiuso da una coltre compatta di nuvole biancastre, però non faceva freddo.

Dopo un altro succo di pera abbiamo raggiunto Lecco. Giorno di carnevale, coriandoli, trombette, mascherine. All’angolo degli incroci nelle vie del centro, uomini travestiti da statue dorate stavano eretti sopra a solidi piedistalli di cartapesta. Si capiva che erano persone da impercettibili gesti con cui ogni tanto si scuotevano da un'immobilità maestosa, suscitando la curiosità della Peppa ma non quella di Tommy - inchiodato di fronte a un negozio di giocattoli -, la Peppa che ad ogni movenza delle statue aggrottava le orecchie lunghe e pelose, piegano il muso di lato.

Nella vetrina della libreria Cavour una grande insegna di cartone avverte dello sconto sui tascabili Mondadori. Entro allora con passo esitante, mentre il fantasma del mio libraio di fiducia mi presenta il conto nella moneta di pungenti sensi di colpa. Alla fine è un tradimento, sì, ma piccolo piccolo: una raccolta collettiva di racconti sull'infanzia, in cui è compreso un breve testo di Eraldo Affinati. Parla di un ragazzino che si chiama Silvester e proviene dal Togo. Gli unici amici che possiede sono un pappagallino, un'anatra e un ranocchio di plastica. Al termine, quando diventa grande, sposerà forse una ginnasta polacca che sa fare la spaccata. Andranno a vivere in una casa di una sola stanza dove però c'è tutto quanto, compreso bagno e cucina. E anche il pappagallino, l'anatra e il ranocchio.

Quello che ci sta nel mezzo del racconto invece non lo so ancora, ho saltato le pagine mentre aspettavo Tommy e sua mamma, che sono scesi al piano sotto dove sono esposti i libri per bambini. La Peppa invece mi ha aspettato fuori come le ho insegnato, ma quando sono sceso per controllare a che punto fossero - vedo Tommy seduto sulle scale che sta fingendo di leggere un libro verde, credo si chiami "Diario di una schiappa" - la Peppa deve essersi sentita perduta ed è corsa dentro. Ha superato la barriera dei librai che si chiedevano da dove fosse sbucato quel cane fradicio con il guinzaglio in bocca, infine ci ha trovati e mi è balzata addosso come se si trattasse di una prova che ha superato. Non ho il coraggio di sgridarla e allora la Peppa si mette a ridere. Chi non ha cani non lo capisce, ma gli altri lo sanno che i cani, ogni tanto, all'improvviso e senza apparente ragione, si mettono a ridere.

Naturalmente "Diario di una schiappa" la mamma l'ha poi comprato a Tommy. E anche, per scollarlo dal negozio di giocattoli, un drago a tre teste che sputa lingue di fuoco. Il colore è un melange tra le trecce arancioni di Pippi Calzelunghe e il rosso vivo dei ghiaccioli di una volta, con ali sottili come quelle di un pipistrello. Quando ci siamo ritrovati con il mio amico Guido e sua moglie Giulia, la prima cosa che Tommy ha detto - la prima cosa dopo infatti, intendo - è stata che il drago costava solo diciassette euro. Così Guido e Tommy e io abbiamo pensato che forse dovremmo fare una società, rompere i salvadanai e investire tutti i nostri risparmi in draghi a tre teste che sputano lingue di fuoco. Ne acquistiamo, mettiamo, cento a diciassette euro l'uno e poi li rivendiamo anche solo a venti, che ne dici Tommy?

Con il suo accento bergamasco lui ci risponde che a scuola sono arrivati solo fino alle addizioni e dunque di queste cose non ne capisce, quindi scuote le spalle chiedendo se è tempo di rimettersi a tavola. Interviene allora Petra, la figlia di Guido che fa già la terza elementare, spiegandoci con zelo paziente che tre per cento fa trecento. Secondo lei però non è una buona idea che suo papà spenda tutto quello che possiedono in draghi a tre teste, già che allora ci sarebbe anche una Barbie in versione nuziale - con un bouquet di rose di plastica comprese nella confezione - che le pare un affare più convincente. Nel dubbio decidiamo di lasciare perdere il nostro business. Anche Tommy approva, con uno sbrigativo infatti.

Terminati gli aperitivi e le olivette seduti nella veranda del bar del Teatro della Società - "Sì Tommy, adesso è ora di mangiare" dice la mamma - ci siamo trasferiti con le automobili a Malgrate, dove abbiamo lasciato un italianissimo bigliettino sul parabrezza - siamo in pizzeria, se dovete uscire chiamateci – e siamo entrati da San Gennaro, con il cuoco culturista che fa gli onori di casa. "Con chi gioca domani il Napoli?" gli butto lì. Una domanda con cui non sbagli mai. Dopo una manciata di minuti arrivano al tavolo delle ottime pizze accompagnata da una bottiglia di Valpolicella e una Sprite al limone per Petra. Tommy però ha voluto una lattina di tè freddo alla pesca e una bistecca, che l'ha tenuto zitto per poco meno di cinque minuti. Doveva essere una bistecca buonissima!

Ecco, la serata è finita a questo modo. Un sabato come tanti altri. Bambini, cani, parole mai gridate e un clima cordiale, anche fuori. Quasi una primavera che non è ancora calda, non è fredda, non è niente. E ci sembra allora che la vita debba essere sempre così, lo diamo per scontato. Dimenticandoci per un momento del gelo e dell’afa che prima o poi arriveranno, le sciarpe e i ventilatori ben riposti nell’armadio.

Ma non deve essere stato lo stesso per Tommy. La mattina dopo si sveglia e dice a suo fratello che deve rivelargli un importante segreto.

- Qual è il segreto, dimmi Tommy?

E Tommy, assicurandosi che non li stia ascoltando nessuno, risponde in perfetto bergamdacio:

- Ieri è stato il giorno più felice della mia vita.
- Come il giorno più felice - ribatte il fratello canzonandolo un poco con affetto, - come fai a sapere che è stato proprio il giorno più felice della tua vita?
- Beh, il più felice di quelli che mi ricordo, sono un bambino, non mi ricordo di tanti giorni. Ma di tutti i giorni che mi ricordo sono sicuro che ieri è stato il più felice.

Poi fa una lunga pausa come se avesse dimenticato qualcosa - qualcosa di decisivo, la domanda chiave del tenente Colombo all'assassino che ormai crede di averla fatta franca - ma con una alzata di spalle conclude: "Infatti."

mercoledì 16 marzo 2011

Rosa Fumetto, o sullo strabismo estetico dell'Occidente


“Rosa Fumetto”, scrive la libera enciclopedia Wikipedia, “è una showgirl, danzatrice e attrice italiana.” E continua dicendo che “è stata un personaggio di spicco negli anni settanta degli spettacoli a contenuto erotico. In particolare, è stata una figura di pin-up e spogliarellista del Crazy Horse, storico locale parigino di cabaret.” Quindi viene aggiunta una manciata di informazioni biografiche sulla sua carriera, che non ne modificano nella sostanza il ritratto quasi sempre associato, anche nella memoria dei più, al termine erotismo. Beh, secondo me sono un cumulo di fesserie, e questa volta forse ho l'occasione di spiegarne il motivo.

L'innesco viene da due brevi messaggi che ho ricevuto nei giorni scorsi su Facebook. A inviarmeli è stata proprio lei, Rosa Fumetto. Cosa che naturalmente mi ha sorpreso molto, per quanto Rosa Fumetto fosse già presente tra le mie conoscenza virtuali su Facebook, dopo che ne avevo notato il nome nel lunghissimo elenco di contatti del mio amico scrittore Fulvio Abbate e le avevo inviato una richiesta di amicizia. Sorpreso ed emozionato. Anche perché il motivo per cui mi scrive è un ripetuto invito a ripensarci, a non cancellarmi da Facebook come ho dichiarato di voler fare, argomentando le ragioni con puntiglio anche su questo blog. Ma soprattutto mi ha colpito il tono: ellittico, estremamente letterario, consapevole e allusivo. Bello insomma. Un particolare tipo di bellezza che, sì, in questo caso potremmo definire erotica. Ma Rosa Fumetto davvero non lo è mai stata, erotica. Provo a spiegarmi.

Che Rosa Fumetto non fosse per nulla erotica me ne accorsi già intorno alla tarda adolescenza. Erano i primi anni ottanta quando, mi pare fosse su Rai2, seconda serata inoltrata, inaspettatamente venne messa in onda una trasmissione in cui Rosa Fumetto inscenava brevi spogliarelli integrali, il tutto soffuso in un’efficace cornice psichedelica ancora molto in stile anni settanta. Degli spogliarelli integrali, sulla Rai? Eppure anche se attendevo quel programma notturno – non me ne perdevo una puntata! – non lo facevo con la stessa euforia con cui sfogliavo freneticamente un giornaletto di Ilona Staller, per dire. Oppure guardavo desideroso a quei film che rappresentarono il termine inferiore dell'eterno yo-yo del cinema italiano, con le tette di Edwige Fenech che facevano capolino ovunque, in particolare sotto la doccia mentre il Pierino di turno la spiava da un qualche pertugio nascosto. Insomma, Rosa Fumetto non mi eccitava. Mi piaceva ma non mi eccitava.

Ma forse a questo punto è il caso di fare un piccolo passo indietro e provare a mettere a fuoco cosa, almeno per un maschio adulto, si intenda con il termine di eccitazione erotica. A parte l'evidente condizione fisica che viene associata, su cui non è il caso di soffermarci, l'eccitazione erotica è una dimensione cognitiva rarefatta e incerta, che possiamo ricapitolare nella nozione linguistica di eventuale. Un dettaglio, un fatto, un'atmosfera lasciano presagire che quella situazione possa eventualmente trasformarsi in altro da ciò che è; essendo però l'altro già presente nella forma di un'anticipazione simbolica. L'erotismo, insomma, nega il presente a favore del possibile. Ma soprattutto il possibile coincide con una possibilità inequivocabilmente sessuale, che ha bisogno di essere differita per poter suscitare l'eccitazione.

Naturalmente questi meccanismi, a quattordici anni, non li avevo ancora definiti concettualmente. E però già capivo che se volevo eccitarmi non dovevo seguire gli spogliarelli di Rosa Fumetto - Tinì Cansino, Annamaria Rizzoli, Carmen Russo, Nadia Cassini, queste andavano benone - ma non Rosa Fumetto. Che era realmente un'altra cosa. Ho dovuto aspettare quasi dieci anni ancora per avvicinarmi al mistero di Rosa Fumetto, un altro tempo e un altro luogo. Ora siamo a Pavia, fine anni ottanta, facoltà di filosofia. Al termine di una lezione del corso di estetica accosto il mio professore che, con i libri sottobraccio e le Clarks strascicate ai piedi, si sta avviando pigramente sotto il colonnato del chiostro cinquecentesco, la nebbia morbida che si insinua come l'acqua nel pastis:

- Scusi professore, ma c'è qualcosa che a me non torna in quello che lei ci sta insegnando...
- Dimmi ragazzo, cos'è che non ti quadra?
- Beh, vede professore, fin che lo leggo sui libri è ok, ma se poi guardo una donna capisco che non funziona così, è più complicato.
- Una donna?! Che vuoi dire, cosa c’entra una donna con la filosofia estetica... Puoi spiegarti meglio per favore.
- Una donna, sì. Ma in particolare un’attrice, una ballerina. Se la ricorda, professore, Rosa Fumetto?

A quel punto inizio a raccontargli un poco imbarazzato la mia teoria, che in fondo può essere riassunta in una sentenza epigrammatica:

il culo delle donne è platonico, mentre le tette sono omeriche
.

Vedo che il mio professore aggrotta le ciglia, si ferma e mi fa cenno di continuare. Io la prendo alla lontana e con un gesto vagamente teatrale, simile a un saluto, indico con la mano lo spazio alle mie spalle. Quindi attacco. Nel periodo storico che precede il quarto secolo avanti Cristo, grosso modo, l'uomo greco guardava a valori universali come bellezza, giustizia e verità solo nei termini di varietà espressiva, metamorfosi vitale. Una cosa, insomma, una qualsiasi cosa, era tanto più bella quanto più era in grado di manifestarsi attraverso il mutamento. E questo perché il mutamento – la possibilità di trasformarsi in qualcos'altro – è la caratteristica primaria di tutto ciò che è vivo. La bellezza, mancando altro riferimento se non quello dei sensi, coincideva dunque con la vita. Non stupisce il fatto che di quasi tutti miti sono presenti differenti versioni: perché è così che i miti ma anche gli uomini vivono, nell'infinita varianza delle forme. Tanto che anche la bellezza non poteva sottrarsi a tale destino di mobilità, di continua infedeltà a se stessa. Ma eravamo appunto ancora ai tempi del vecchio Omero.

Poi, un giorno, arrivò un tale Aristocle da Atene, più tardi chiamato Platone dal suo maestro di ginnastica per via delle spalle particolarmente ampie. Questo tale dalle spalle ampie si mise a raccontare una storiella in cui, da qualche parte, in un angolo segreto dell'universo (l'Iperuranio), erano presenti i modelli originari e perfetti di tutte le cose, che in seguito noi sperimentiamo attraverso i sensi. Gli archetipi soprasensibili, si diceva nella lingua sontuosa di quel racconto, specie di formine metafisiche da cui tutte le cose hanno avuto origine, nella deviazione rispetto alla normatività astratta del modello. Non che fossero in molti quelli che diedero credito alle sue parole – era appunto e all'inizio solo una storia, narrazione –, che potremmo paragonare, come portata concettualmente eversiva, a uno che ora andasse in giro a raccontare che Alan Sorrenti è il messia e Figli delle stelle il suo vangelo. Però, dagli e dagli, questa diversa e inaudita concezione iniziò a guadagnare credito, tanto che nei secoli successivi grazie anche alla teologia cristiana che la fece propria, si iniziò ad accostare la bellezza proprio a quei tratti di stabilità e immutabile coerenza descritti da Platone. Mentre il mondo omerico dell'infinita e vitale metamorfosi cominciò a deteriorarsi, a perdere consensi.  La mia idea è che però non si dissolse mai definitivamente: piuttosto fece tana, rimanendo come un tracciato carsico dentro il pensiero e l'estetica dell'Occidente.

Prendiamo ad esempio una donna, continuo così infervorato nel mio discorso. Prendiamo quella particolare e determinata donna reale che è Rosa Fumetto. Quando gli uomini parlano di lei la prima cosa a cui si riferiscono è il suo culo. Un culo magnifico, vero professore? Ma cos’è che ci autorizza ad affermare questa qualità, che ci appare come scontata: magnificenza ma anche perfezione, splendore, incanto, o tutte le varie iperboli della bellezza? Questo più raramente ce lo chiediamo. Beh, io credo che il motivo sia un'idea estetica vagheggiata ed elaborata nei secoli dalla nostra tradizione, nel caso specifico finendo quasi col coincidere con il dato concreto, ponendosi esso stesso come modello di riferimento di ogni successiva bellezza. E stiamo sempre parlando della bellezza di un culo, professore. Con ciò facendo nostra l'idea platonica che stabilisce, nel sopramondo degli archetipi, una sorta di archivio formale che alla voce culo ha catalogato proprio il culo di Rosa Fumetto. E mi piace immaginare l'archivista delle idee originarie che, da bravo e zelante burocrate, tutte le mattine spolvera il culo sodo e statuario di una spogliarellista, per mantenerne intatta la maestà esemplare.

Ma perché, domando ancora al titolare della cattedra di filosofia estetica di Pavia, a cui ormai mi rivolgo come a un compagno di rugby sotto la doccia, ci manca poco che non gli dia una pacca sulle spalle, perché non diciamo lo stesso delle tette di Rosa Fumetto, o di qualsiasi altro paio di tette con cui abbiamo confidenza? Io penso che non lo diciamo - che non possiamo proprio dirlo – perché quando guardiamo a un seno femminile lo facciamo con uno sguardo che è invece rimasto omerico. Come se una parte di quegli antichi uomini che si meravigliavano di tutto (e la filosofia nasce proprio dalla meraviglia, ce l'ha insegnato lei professore), si meravigliavano davanti alla saetta o al volo del falco o ai guizzi della lepre, si meravigliavano al frangersi dell'onda in tante minuscole goccioline, come se parte di questa meraviglia fosse ancora presente in noi. Al punto da farci apprezzare la mobile vitalità di tutte le cose, le differenze sensibili che in quella cornice oculare reputiamo come belle. Ragione per cui agli uomini le tette piacciono sempre, piacciono tutte, piacciono comunque. Sì, proprio come le mamme che son tutte belle, son tutte belle anche le tette del mondo. E questo perché le mamme e le tette sono omeriche, non platoniche.

Magari potremo poi fare delle preferenze, d'accordo, associando la forma di un seno a una memoria biografica, una donna che abbiamo desiderato particolarmente e che ora ci manca. Allo stesso modo per cui ci affezioniamo a nostra madre e non a quella di un altro. Ma manca una sintesi immaginale, una dialettica culturale tra la molteplicità vissuta dell’esperienza. Ossia il comune denominatore – il modello – che tragga dalla varietà sensibile l’idea platonica di un seno perfetto. Al punto che viene il sospetto che esista qualcosa come uno strabismo congenito che accompagna l'intero corso dello sguardo occidentale: come Alessandro possediamo un occhio azzurro e uno scuro, che utilizziamo alternativamente. Ed è dunque con una diversa visuale che assegniamo gli attributi estetici alle cose. Perlopiù usiamo l'occhio platonico, l'occhio dominante, che ci fa dire che una cosa è bella quanto più si avvicina al modello astratto che abbiamo interiorizzato, per stratificazioni culturali. Ma sopravvive anche un residuo ottico ereditato da Omero, che vede le bellezza nella vita, nella metamorfosi, nella variazione. Un occhio che si ridesta dal suo sonno quando guardiamo a un seno femminile, la cui perfezione sta proprio nell'infinita e morbida riluttanza a ogni gerarchia formale.

Pausa. Mi guarda. Pausa. Lo guardo. E' finita professore... Fine della doccia assieme, accidenti. Lui riprende la sua aria compunta, aggiusta il plico dei libri sottobraccio, e come se niente fosse rimette in moto le sue Clarks, con cui pattina lentamente sopra ai lastroni di pietra dal taglio irregolare. Ma prima di sparire nella nebbia pavese si gira nuovamente verso di me. E mi dice:

- Giovanotto, ma perché non ci fai la tesi su questa cosa qui?

Ecco, lo capite ora perché mi sono così sorpreso, e pure un po' commosso, quando ho trovato i messaggi di Rosa Fumetto nella mia casella di Facebook? Io mi ci stavo laureando, su Rosa Fumetto. Stavo per dibattere una tesi in cui avrei parlato lungamente del suo culo come intangibile e assoluto modello di tutta la sensibilità estetica dell'Occidentale; da Platone in poi, almeno. Ma soprattutto io avevo fatto di lei il riferimento filosofico principale della mia breve carriera di ricercatore. Rosa Fumetto che mi scrive su Facebook è come Parmenide che telefona a Severino, non so se mi spiego…

Ma purtroppo non avevo considerato che la vita è molto più omerica di quando non si creda, e così per faccende mie, esitazioni, minimi scarti del caso e degli affetti, ho finito con l'uscire dall'orbita universitaria e anche da quella sinuosa del culo di Rosa Fumetto, smarrendomi nella felice varianza dei seni che in questi decenni hanno avuto la compiacenza di accogliermi. Insomma, non mi sono più laureato. E di Rosa Fumetto stavo quasi per scordarmi.

Ma eccola nuovamente qui, poche parole messe in fila, il registro degli eventi di Facebook le data intorno alle cinque del pomeriggio, l’ora del tè. A tratti sembra che scrivendo voglia apparire intelligente, arguta, come nelle brevi apparizioni video su Teledurruti. Anche lì si vede che vuol far bella figura, mostrarsi all’altezza della geniale irriverenza di Fulvio Abbate. Poi però riprende fortunatamente il sopravvento una sorta di timidezza estroversa, che le conferisce quell’aria così visibilmente antierotica di cui dicevo, persino disarmata e infantile, candida e indifesa. Definitivamente amabile.

Ma proviamo a ricapitolare. Rosa Fumetto era clamorosamente più bella e più affascinante delle molte attici e soubrette che si contendevano la scena tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta. Eppure, io trovo, non ha mai raggiunto il successo che meritava, che in qualche modo addirittura le spettava. Io stesso se desideravo eccitarmi – e a quattordici anni lo desideravo di continuo – preferivo rivolgermi verso il contenuto di altri slip. Il culo di Rosa Fumetto era troppo serafico e manifesto, ecco. Troppo compiutamente realizzato.

Viceversa è proprio nella lieve asimmetria, nello scarto temporale, che come già abbiamo visto si insinua la movenza base del gesto erotico. Essere sempre a un passo dall’oggetto desiderato che si ritrae dentro una piega dell’offrirsi. Questo giochino ancestrale, e nonostante fosse la regina dello striptease, invece a Rosa Fumetto non è mai riuscito completamente, una carta che sguscia fuori nel momento sbagliato dal polsino dell’illusionista. Forse come effetto di una presenza – presente per intero e per davvero – che si avverte in ogni cosa che lei dice o che fa. E dunque mai dilazionata nella promessa sessuale, in una vertigine ulteriore, al punto che la perfezione formale del suo culo potremmo anche vederla come correlativo oggettivo della flagrante epifania del suo temperamento, che sembra non contemplare il sotterfugio amoroso. Come se con quel culo lì non fosse possibile mentire...

Rosa Fumetto non è erotica ma a ben vedere nemmeno pornografica. E questo, ancora, non tanto o non solo per ragioni "tecniche" – che io sappia non si è mai mostrata in sequenze dove compia azioni sessuali esplicite – ma per un aspetto che potremmo nuovamente riferire alla teoria estetica. La pornografia, come l’erotismo, ha infatti bisogno di uno scarto continuo rispetto al suo canovaccio astratto, che pure possiede come alfabeto della ripetizione compulsiva. Scarto che non può però essere temporale come nell’erotismo, dal momento che la pornografia vive della coincidenza tra gesto e intenzione, tra segno e proprio referto oggettivo, e che si traduce allora in uno scarto unicamente formale, in quel godimento della differenza che abbiamo già incontrato. La visione di una scopata diventa tanto più eccitante quanto più è verosimile, plausibile, perfino “corrotta” rispetto a un modello di rarefatta idealità. E dunque ancora una volta dominio di una sensibilità estetica di derivazione omerica, la quale trova il suo compimento nel molteplice che conferisce l’attributo di realtà. E’ vero insomma ciò che è imperfetto, vario, mobile, precario, irrisolto. O detta in una parola: deviato.

Un culo con una punta di cellulite, ma un accenno soltanto, un “attimino”, diviene così molto più pornografico e allettante dell’idea platonica e irraggiungibile di culo. E a maggior ragione se tu sei la portatrice fisica e sana di quel modello di assoluta perfezione, sarai poco credibile come femmina da portarsi a letto. Ma rimane a questo punto da chiarire cosa ci facessi io, quattordicenne arrapato e con i compiti da terminare, ancora sveglio di fronte alle esibizioni notturne di Rosa Fumetto…?

In effetti è da quando ho trovato i suoi messaggi su Facebook che me lo sto chiedendo. E alla fine sono approdato a una risposta provvisoria. Trent’anni fa io non mi trovavo davanti allo sfrigolare notturno del tubo catodico per ragioni legate al sesso, né al desiderio erotico che zampillava a getto continuo dai miei ormoni, ma perché il corpo sessuato di Rosa Fumetto diventava una specie di trampolino verso un’esperienza compiuta e domestica della forma, che in qualche modo mi faceva stare bene, mi faceva stare a posto. Sì, io ero ancora sveglio in un pigiamino Calida blu con il collo a barchetta azzurro, alla stessa maniera dei risvolti elastici dei polsini, gli occhi lucidi e spalancati, il batticuore e gli esercizi di matematica con le parentesi graffe ancora aperte, per ragioni che potremmo definire “geometriche”.

Una roba un po’ da scemi, direte voi. Ok, può essere. Quando sull’altro canale avrei potuto vedermi un video dei Duran Duran o la replica adrenalinica di una puntata di Starsky & Hutch. Eppure anche la mia minima vicenda personale ha forse un nome dentro la lunga tradizione che ci precede, e se tutto va bene ci succederà. Si chiama estetica del sublime. E ancora una volta parte dalla storiella di un uomo dalle spalle tanto larghe da caricarsi più due millenni di civiltà, dalla convinzione che bello è ciò che è stabile, certo e definito. Ma in questo caso – tip tap, tip tap – la sua intuizione ridiscende tutti i gradini della scala che porta all’Iperuranio delle idee astratte, per incarnarsi nel sottoscala dei confusi traffici quotidiani. Il sublime sta infatti sotto (sub) la porta che separa il limite (limes) dell’esperienza sensibile, e in una maniera indefinita e misteriosa consente il dilagare della bellezza anche tra noi, che siamo miseramente esclusi dal mondo intangibile delle idee. Potremmo vedere il sublime come il luogo dove finalmente stai bene dove stai. O meglio, alla maniere di Nietzsche, il luogo e il momento in cui diventi ciò che sei.

Sembra appena una sfumatura ma, a ben vedere, questa ricollocazione della metafisica platonica segna il passaggio dalla dimensione teologica a quell’artistica. Se infatti Dio, gli dei o gli archetipi per definizione si nascondono, il sublime è una categoria che appartiene all'esperienza, qualcosa a cui noi possiamo avere accesso: ma come possibilità, non certo come necessità stabilita. E cioè con il semplice gesto volontario di prestare ascolto, attenzione alle cose belle. Osservato da questo punto di vista il sublime non è nemmeno una categoria esclusiva dell’estetica occidentale, ma propria, ad esempio, anche di percorsi teorici e soprattutto pratici estranei alla nostra tradizione, come il Buddhismo zen. Non è un caso se vengono chiamate “vie”, già che quel che mirano a realizzare è una perfetta fusione dinamica tra presenza vissuta e compiutezza ideale, tra vita e forma.

Mentre a cosa portano l’erotismo e la pornografia? L’erotismo differisce sempre il presente nel desiderio di un dopo, quando la pornografia invece lo imbratta in un tutto qui che è davvero “tutto qui”. Una frenesia sessuale che non rimanda alla forma di ciò che ci è proprio ma nemmeno di quel che ci è altro, e cioè a una trascendenza incarnata dei nostri limiti. E questo non perché manchi intimamente bellezza in un fiotto di sperma che coli da due labbra socchiuse, ma perché la bellezza sta nello sguardo analogico che potrebbe collegare lo sperma all’insieme vissuto e vitale del mondo: la neve, il latte, le meduse, il dentifricio, le stelle filanti, il sapone liquido di Marsiglia, le pistole ad acqua dei bambini, il Vinavil, il gelato Carpigiani che spiove dalle macchinette, la barba lunga e morbida di Babbo Natale all'uscita della Rinascente di Milano. O anche la schiuma del motoscafo che trainava Lacan mentre faceva lo sci d’acqua, con i sui bei capelli folti e candidi al vento, il sorriso stampato di chi ha finalmente compreso cos'è la jouissance, così come nella formidabile fotografia verbale che ci ha consegnato Cesare Garboli.

La bellezza è allora forma realizzata ma anche mobilità dei collegamenti, Platone ma anche Omero: è questo che ci ricorda il culo sublime di una danzatrice del Crazy Horse, prima ancora della teoria estetica. Nell’erotismo e nella pornografia non c’è però niente di tutto questo, solo stanca ripetizione dell'identico, smottamento dell'attimo in cui la bellezza si offre, senza concedere dilazioni. Mentre in Rosa Fumetto che mi scrive come una cartolina che ci mette trent’anni ad arrivare, c’è tanta di quella bellezza da ingozzarsi. Troppa bellezza, forse, perché il piccolo mondo del cinema potesse accorgersi di lei. Ma io devo invece ringraziare anche Rosa Fumetto se sono potuto diventare ciò che sono. Grazie Rosa, grazie davvero.

lunedì 14 marzo 2011

Io mi vergogno


Ascoltando in sottofondo un programma televisivo di Giletti, ripensavo a una remota puntata del Maurizio Costanzo Show. Bracardi con il frac giallo, la marcetta allegra che accompagna la passerella attorno al golfo mistico, il gioco delle parti cinico e implacabile del conduttore. Tra gli ospiti era presente un ormai vecchio Raf Vallone, il cui ruolo programmato avrebbe dovuto essere quello di saggio e bonario osservatore delle miserie del mondo; ma con l'ottimismo della volontà proprio dei giusti e di chi ha seminato bene. Certo così di ottenere una risposta da conficcare tra il cioccolato e le nocciole dei Baci Perugina, Maurizio Costanzo chiese a Raf Vallone quale bilancio potesse trarre come padre di due figli ormai adulti, ed entrambi avviati a un'incerta carriera nello spettacolo. Ma lui, bum, altro che Baci Perugina! Dinamite purissima, piuttosto, che scagliò tra il pubblico seduto compostamente sulle seggioline del Parioli, quando semplicemente rispose:

- Io mi vergogno dei miei figli.

E attenzione, avrebbero potuto cavarsela con una frase del tipo: "Beh, mi sarei aspettato qualcosina di più"; oppure "Sono sensibili, intelligenti ma non si impegnano a sufficienza"; o infine sviare con una battuta sui bei tempi in cui giocava a pallone nel grande Torino, e dopo una rapida doccia si precipitava ai corsi universitari tenuti da gente come Luigi Einaudi o Leone Ginzburg. Invece disse proprio e solo così: "Io mi vergogno".

All'oscenità del silenzio televisivo che seguì a quell'affermazione terribile, Bracardi, preso anche lui in contropiede, non seppe replicare con nessun refrain musicale, la liquida benevolenza delle note che affiancano lo scorrere incerto della vita. Poi Costanzo cercò di rimediare rendendo ancora più imbarazzante la situazione, mentre il regista staccava dal primo piano che inchiodava l'eco della frase appena pronunciata al meraviglioso sguardo di chi non conosce la parola sipario. Gli occhi scuri ancora illuminati dal fervido acume di sempre, una fitto arabesco di rughe sul volto largo e squadrato, le labbra serrate come chi rientri al banco dopo aver ricevuto l'eucarestia.

L'inquadratura prese così a divagare tra il pubblico attraverso la camera a mano, dove incontrò, seduta in prima fila, la moglie anch'essa anziana di Raf Vallone, che era appena scoppiata in lacrime all’incandescente dichiarazione del marito. Adesso la chiameremmo tivù del dolore, quella che ascolto in sottofondo e che accompagna il pisolino domenicale di mia madre, ma allora si trattava di un'altra cosa. Una cosa preziosa e pulita, a ripensarci. Perché il tema non era l'esibizione compiaciuta e sciatta della sofferenza umana, ma, al contrario, la dignità che sopravanza il dolore, lo sconfigge nell'araldica quasi rinascimentale di quel viso: il ritratto di un uomo che nella vita ha davvero cercato di dare tutto se stesso, spendendosi in ciò che faceva - calciatore, giornalista, scrittore, attore, critico cinematografico, una laurea in lettere e una in giurisprudenza - con uguale generosità e passione, sempre accompagnate da intelligenza e cultura. Ma ora, per chi gli succede nella vita, prova solo vergogna.

L'imbarazzo palpabile di quel momento testimoniava inoltre dell’atavico tabù italiano per la vergogna; in particolare la vergogna per i figli, per la propria sacra famiglia. Non che in Italia si abbia un maggiore pudore, ma è la nozione stessa di vergogna, di onta estetica e morale a venir meno. La virtù non corrisponde infatti con quel che si dice o si fa, come negli altri paesi europei riformati, ma con quel che si è, una sorta di essenza tribale che precede ogni successivo gesto civile. E sarà forse per questa coincidenza tra merito e sangue che, proprio e specialmente in Italia, ogni scarrafone è bell’ a mamm’ soja. Una sensibilità che io conosco fin troppo bene, appartenendo a una generazione per cui l'orgoglio paterno ha toccato vertici inimmaginabili. Ma cosa sono diventati i nostri figli per suscitare tutto questo orgoglio sanguigno, che si accompagna alla più totale assenza di vergogna?

I nostri figli sono la capriola nel recinto di fronte alla Nikon del nonno, ecco. Oppure il ruttino dopo la poppata, il saggio di ginnastica artistica a cui non possiamo mancare, le lezioni di tennis con la Fred Perry con il collo alzato. Più tardi gli happy hour e le canne e il lavoro che manca e gli infiniti corsi di formazione. Tanto che la vera domanda diventa forse quella che riguarda le ragioni per cui i nostri figli dovrebbero essere orgogliosi di noi, che gli abbiamo consegnato il testimone di questo paese. Noi che sappiamo ancora rollare le canne, ok, e li ritroviamo agli happy hour e gli diamo il cinque quando ci dicono "Ciao vecchio". Il mattino dopo, con quella punta di acidità allo stomaco che ti lascia sempre il Margarita, ci contendiamo le stesse Fred Perry impilate nell'armadio da una moglie-madre compiacente, con cui poi lanciarsi in una bella corsetta al parco, il golden retriver al fianco che scintilla nella sua pelliccia dorata.

Parlo al plurale, sì, anche se non ho figli e ho fumato l’ultima canna ventisette anni fa. Tutte situazioni che effettivamente sperimento sempre più di rado sulla mia pelle; come per altro non ho mai giocato nel grande Torino o abbracciato Silvana Mangano in pantaloncini corti e gambotte a mollo nella risaia vercellese, nel capolavoro di De Santis. Però io sono un italiano – è il mio sangue a esserlo - e appartengo a questo presente nazionale come voi che mi state leggendo, e che intendete la meravigliosa lingua che abbiamo avuto in prestito, non certo in dono. Abbiamo nella vene centocinquanta anni di sangue unitario ma io faccio fatica ad appendere una bandierina tricolore all'orlo della giacca, a essere orgoglioso.

Provo al contrario un’infinita vergogna che desidero anch’io affermare, come Raf Vallone e le sue labbra chiuse a stritolare un'eucarestia pungente e velenosa. E me ne frego – anzi ne sono felice – se non sempre sperimento ciò che dico. Già che è falsa l'idea che si debba avere esperienza diretta delle cose per sapere, è falsa e ipocrita. Io lo so, semplicemente. Lo so come Pasolini che sapeva i nomi e cognomi di chi aveva compiuto le stragi, per immaginazione poetica. Così che a Orson Wells, in una celebre sequenza de La ricotta, faceva pronunciare questa inappellabile sentenza a proposito dei nostri figli, fratelli, genitori:

"Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa."

Immaginazione poetica, dunque. La stessa immaginazione che mi fa vergognare dei figli che non ho avuto; dei miei coetanei che incontro scodinzolanti agli happy hour; di mio padre quando non offre il passo a chi esce da un parcheggio; di mia madre quando si mette tasca le bustine di zucchero; dei parenti tutti le rare volte in cui ci troviamo e fingiamo di essere una famiglia felice; dei miei colleghi scrittori e giornalisti, che per un pollice alzato su facebook rivenderebbero le bustine di zucchero a anche la madre; di chi usa espressioni come "trendwatching", "chicchissimo" e "lusso nonchalante"; dei politici che mi rappresentano e io invece voglio essere pura e immediata presenza; dei tifosi italiani quando si fermano in un Autogrill, dove arraffano tutto tranne lo zucchero; dei primari del San Raffaele che ti chiedono quattrocento euro per una visita; di chi mi fracassa le palle con gli impressionisti di cui possiede intere monografie incelofanate; delle donne che invece di baciarti ti parlano dell'ultimo Maitreya e dell'apertura del quarto chakra; di quelli che ti fumano in faccia perché tanto l'automobile è la loro; di chi non fuma e fa sport e ti parla di sport e legge solo la pagina dello sport; dei maestri che non mi hanno ammaestrato e degli amici che ho perduto, per reciproca distrazione:

stavano lì, accidenti, dove li ho messi... stavano lì vicino agli occhiali e all'ultimo libro di Camilleri, ma ora non ci stanno più.

Ma soprattutto io mi vergogno di me e del padre che non sono; degli animali che si usmano il culo prima di azzannarsi a morte; dell'onda che sommerge il barcone e carezza la modella distesa nell'idromassaggio; del tempo che fa avvizzire la rosa mentre sussurra le sue sconce promesse a un minuscolo seme. Sì, io mi vergogno, mi vergogno di continuo, mi vergogno della vergogna che non prova l'universo intero.

ps - consigli per gli acquisti.

domenica 13 marzo 2011

Il potere "osceno" dei capoclasse, una risposta


(Per l'estensione che ha finito con l'assumere - nello spazio dei commenti proprio non ci stava, nemmeno a liofilizzarlo come l'aranciata - ho deciso di pubblicare come post indipendente la risposta che ho cercato di dare a Luisa. Riporto dunque la sua breve nota in apertura (segue in origine uno scambio più lungo, che può essere letto qui per intero), a cui faccio seguire le mie riflessioni. Che in effetti si discostano da quanto scritto fino ad ora, e forse anche da ciò che Luisa mi chiedeva, o meglio che dichiarava come suo smarrito e idiosincratico umore, andando ad accostare il "fenomeno Facebook" da una prospettiva diversa e alternativa.)

Messaggio di Luisa dalla pagina dei commenti del mio blog:

"Oddio Guido, lo so benissimo che si può sopravvivere anche senza Facebook... ma non era questo il punto. Mi sto solo rammaricando (e anche un po' invidiando forse?) il fatto di non capire, di non condividere l'entusiasmo di molti miei simili per il nuovo mezzo. Forse perché vorrei tornare bambina e godere pienamente dell'illusione che il mondo sia magico e facile, un'emanazione della mia psiche... Però ganza la tua mamma che ti dava l'olio 31!! ;)"

Luisa

Luisa, certo che non è questo il punto; o almeno non era il punto dei miei recenti interventi, in cui cercavo di penetrare lo strano paradosso delle nuove tecnologie comunicative. Qualcosa come una moneta con due facce, in cui da un lato (pars costruens) viene massicciamente rilanciata la pratica della scrittura, e ciò anche tra persone che da anni compilavano a malapena una schedina e ora li vedi al semaforo che rispondono freneticamente a un sms, mentre le macchine in coda gli strombazzano impazienti. Esiste però anche l'altro lato della moneta (pars destruens), in cui si inizia a intravedere come questo rigurgito grafologico, in una forma però ibrida con le cadenze e la velocità impressiva del parlato, abbia finito col fare implodere le ragioni stesse per cui la scrittura ha caratterizzato l'evo storico precedente; la cosiddetta "grafosfera" di cui parlava il filosofo francese Regis Debray. E cioè la possibilità, attraverso segni stabili ed estrinseci e duraturi, di dare una forma strutturata e certa alla caotica mobilità del pensiero.
In Facebook assistiamo così a un dialogo tra muti e sordi - e davvero ti consiglio di andare a sfogliarti i commenti al post di Giulio Mozzi in cui si parla del mio primo testo (si trovano qui), quale esempio di ciò che cerco di descrivere. O meglio, direi, assistiamo all'ossimoro di un "monologo dialogato", con il sospetto che il vero interlocutore sia lo specchio della regina di Biancaneve, a cui di continuo domandare chi sia il più bello, intelligente, ganzo del reame. Eppure anche dentro la diffusa autoreferenzialità di Facebook, come ho provato invece a insinuare nel mio successivo intervento, si vanno progressivamente affermando dinamiche comunicative la cui struttura è indirizzata e gerarchica, con capi e capetti che buttano lì il becchime in un gesto largo e magnanimo, accompagnato solo da uno svelto pio pio.
La pseudo-discussione dei Facebooker si sviluppa dunque in un secondo momento, a seguito di uno stimolo che proviene quasi sempre dall'esterno; o meglio che viene recepito come esterno, come "altro", anche se in effetti viene presentato dentro gli stessi gironi orizzontali del discorrere. Si tratta insomma di qualcosa come un'esca verbale, che fa da premessa al rilancio di una frenetica e inconcludente giostra delle opinioni; ma questo solo perché la conclusione non rientra come obiettivo dialettico in questo genere di attività, è avulsa dalle regole del suo gioco direbbe Wittgenstein. Se l'immagine può immediatamente risultare triste o antipatica - questa è in fin dei conti la ragione perché io me ne sono scappato via - a ben vedere trovo però che ci siano anche buone ragioni per rallegrarsi.
Malgrado la rapidità impressiva di Facebook non sia probabilmente emendabile, per ragioni tecniche costitutive al mezzo, il fatto che ci sia gente come Mozzi che palleggia tra “dentro” e “fuori”, tra mondo e pollaio e tra lingua scritta e cadenze del parlato, investito in questo ruolo dai galloni di un'autorevolezza conquistata all'esterno della pratica che alimenta e di cui si fa garante, tutto ciò mostra anche un possibile punto di fuga verso modalità comunicative di tipo tradizionale, e cioè asimmetriche e normative. Cosa che potrebbe apparire come esisto antidemocratico dello slancio utopico verso l'orizzontalità delle opinioni, almeno da parte degli ideologi di Facebook, ma al contrario io trovo rappresenti una funzione imprescindibile della comunicazione, e che perciò non saprei definire diversamente se non civile. Provo a spiegarmi meglio.
La presenza di questi popolari "dispensatori graduati" all'interno di mobili comunità linguistiche - che su Facebook non si sia tutti uguali è un dato talmente evidente per cui non è nemmeno il caso di soffermarsi - ha la funzione di contenere lo slancio libertario delle opinioni dentro un ordine estrinseco, fondato appunto sull'autorità carismatica dei tutori dello spazio comunicativo. Ed è un'autorità solo raramente guadagnata sul campo virtuale e più spesso derivata da ciò che essi fanno e dicono "fuori"; si tratta con frequenza di personaggi appartenenti alla sfera dello spettacolo (considero ovviamente sport e politica come spettacolo), ma non di rado anche di intellettuali e scrittori come Giulio Mozzi, che vengono qui come spettacolarizzati e resi simili a icone pop. Ma in fondo una civiltà, qualsiasi essa sia, è proprio questa cosa qui. Un sistema gerarchico in cui i saperi vengono disciplinati secondo logiche che in buona parte attengono al potere, all'autorità personale prima ancora che istituzionale, come la filosofia e la psicologia moderne hanno ampiamente documentato, con pagine decisive quali ad esempio quelle prodotte da Foucault e da Lacan, fino ad arrivare alle moderne analisi di Slavoj Žižek.
Il potere non risulta dunque solo un poter fare, ma anche un poter essere, un poter rappresentare, inteso come una sorta di nucleo pre-formale e pre-legale che agisce nei meccanismi di attribuzione collettiva del significato. Al posto di potere, se preferiamo, possiamo anche utilizzare espressioni come codice o Grande Altro, sempre proveniente dal tortuoso alfabeto lacaniano, che vanno comunque a definire una presenza normativa occulta, sorta di legge oscena nella vita delle comunità. Già che è proprio la sua esclusione dall'evidenza pubblica a garantire l'efficienza di questo codice implicito, che consente lo stesso slancio associativo (qualcosa come un galateo o regola dei giochi) e la generazione del senso comune dall'incontro di pretesti mai effettivamente dibattuti; potremmo chiamarli dei "tabù semantici". O detta in altre e più semplici parole: una comunicazione totalmente democratica e orizzontale, quale l'utopia di Facebook vorrebbe, anzi sbandiera come fatto compiuto, sarebbe anche una comunicazione che finisce col negare se stessa, raggiungendo il grado zero dell'afasia.
Per quanto anche a me lasci un po' perplesso il comportamento di certi capoclasse, che su Facebook buttando lì il sasso e subito nascondono la mano, lasciando sfogare i propri accoliti in discussioni senza costrutto, regola, disciplina e spesso anche nessun oggetto reale, mi viene da considerarlo come una sorta di male necessario, il sacrificio per ciò che un tempo la teologia chiamava bene superiore. Una dinamica ancora una volta visibile nella circostanza che mi vede protagonista, quando sono intervenuto tra i commenti del post di Giulio Mozzi in cui si dibatteva animatamente del mio testo, cercando quindi di chiarire (come immaginavo utile) le mie intenzioni. Bene, nessuno ha badato alla mia riposta, o meglio solo una persona si è filata le mie parole, buttandomi lì uno stiracchiato pollicione. Tutti gli altri, essendosi già sfogati sulla superficie dello specchio, erano già protesi verso un nuovo osso da spolpare, piovuto dalla mano generosa del loro referente di turno.
Una vicenda che io trovo tecnicamente esemplare, come a dire: il principio di realtà (l'autore, il testo, le sue intenzioni: cioè io) diviene totalmente irrilevante rispetto all'onnipotenza narcisistica dell'interprete (i Facebooker che usano la mie parole in modo a volte anche intelligente, ma non dialettico tra di loro e con me: ognuno insomma se la suona e se la canta da solo) oltre che all'autorità del veicolo (Giulio Mozzi, che in forma laconica veicola l'informazione nuda cruda, quindi si ritira con aristocratico diniego), mentre velocità e novità dello stimolo coincidono con l'importanza progressiva che viene socialmente a occupare. E però sia l'onnipotenza interpretativa sia la libertà di parola sono solo apparenti, già che è sempre un burattinaio a insinuare l'oggetto (lo stimolo) del dibattere nell'arena delle opinioni. E' insomma ancora una volta il veicolo l'elemento davvero decisivo, l'etichetta a fare bello l'abito, tanto che il gesto esterno di offrire la notizia finisce col configurarsi come l'unico significato realmente condiviso. "The medium si the message", scriveva Marshall McLuhan. Ma anche colui che media il medium si fa così messaggio, lex implicita della narrazione.
L'elemento forse davvero rilevante sta allora nell'obiettiva costatazione che fenomeni diversi, ma uniti dal denominatore tecnologico e dalla ricalibrazione di lingua scritta e parlata, combinati all'immediatezza visiva, si stanno manifestando in un'epoca in cui le agenzie tradizionali su cui si fondava l'autorità - lo Stato, la Chiesa, la cultura alta e accademica - vanno perdendo di credito e riconoscimento. La mia tesi è dunque quella che proprio su Facebook, o comunque in generale sul web, si stia consumando il decisivo cambio di consegne alle interno delle strutture simboliche del potere. Con alcuni intellettuali che stanno assumendo i panni severi dell'autorità militare o quelli ammiccanti e carismatici dello spettacolare - la diva che discende piano le scale luccicanti della ribalta, il ventaglio e le morbide piume di uno struzzo ad accarezzarne il lungo collo disteso - non solo o non sempre per il narcisismo dei suoi interpreti, ma proprio perché è quel che gli viene richiesto dalle moltitudini confuse. E tutto ciò solo per poter continuare in quella cosa che Leopardi chiamava semplicemente "con-versazione". Ossia protendersi, con altri, nel medesimo verso che sappiamo tutti fin troppo bene qual è, ed è forse perciò che abbiamo la continua esigenza di parlare: per scordarcelo, per vivere come se la vita fosse sempre.
Ebbene Luisa, per quanto le retoriche di Facebook ti possano sembrare becere o perfino disgustose - come sai anche io le ho vissute con estremo disagio, almeno fin che ci sono stato invischiato - non sono probabilmente altro che il riflesso dell'eterno meccanismo gerarchico su cui si fondano e declinano le civiltà. Ma al netto di istituzioni, che prima o poi arriveranno a contendersi la scena, per avvalorare e congelare in legge esplicita la torta dei poteri che sta qui solo lievitando. Noi evidentemente apparteniamo a una civiltà morente, vedila così... Al biscotto che si frantuma nelle tasche di un bambino.

A gift, o dell'amore e del ferro


In un negozio, una vecchia ferramenta
brulicante delle più svariate forme
dei metalli – bulloni, chiodi, lucchetti,
pinze, viti, vitine, rondelle,
chiavi: del 12 o 13 o 7...
– in questo negozio,
ieri, un omino con sottili baffi
rossi li ha avvolti nel foglio strappato
da un giornale smunto; però ancora
nitida la foto di Alessio II,
Patriarca di Mosca e di tutte le Russie:
barba lunga, espressione severa e grave.
Così, poi, a casa, ho aperto quel minimo
dono per noi: due piccoli cuori
di ferro, due portachiavi, una sciocchezza;
sai quelle cose “cuore tuo cuore mio...”
Cose come citazioni da un film
dell’infanzia, con tigri e bucanieri
e musica infine, quando i buoni (sempre)
hanno ragione e rimane da spartirsi
la vita nella sua festa; che è poi,
nient’altro, che la vita che resta – viva!

Ma Alessio II, Patriarca di Mosca
e di tutte le Russie, diceva
la didascalia, non permetterà che il Papa
baci il sacro suolo della Patria Russa!


(ps - ho scritto questa poesia nel 2001, o giù di lì)

giovedì 10 marzo 2011

Che c'azzecca Giulio Mozzi con il chiar di luna e l'aquilotto Armani e l'Odissea e il tesoro della Banca d'Italia e l'incerta fioritura dei gerani?


Un altro piccolo segno, un sintomo meglio. Riguarda il post precedente, in cui mi sono occupato diffusamente delle ragioni per cui mi sono appena cancellato da Facebook. Non sono però ragioni personali - o perlomeno non solo personali - ed esorbitano la mia stessa biografia illuminando alcuni caratteri generali della nuove tecnologie della comunicazione, in particolare quelle attraverso cui la scrittura ha acquisito nuovo impeto e diffusione.
Facebook rappresenta forse la sintesi più efficace ed estrema di tale processo di "ri-grafizzazione", potremmo chiamarlo così, della sfera pubblica dei rapporti che intratteniamo. Qualcosa come una rinnovata diffusione di grafemi scambiati tra amici, conoscenti ma anche tra occasionali compagni di scrittura, un po' come nelle strisce dei Peanuts avviene tra Charlie Brown e il suo "pencil pal"; un amico di penna che abita in un luogo distante e con cui non vi è dunque alcuna possibile frequentazione. Si scrivono così solo delle lunghe lettere a mano, in cui Charlie Brown, con parole semplici e belle, sa decantare tutto il suo allibito e incantato sguardo sul mondo, certo di essere compreso e ricambiato per quella sensazione di intensa specularità che procura lettura, prima ancora della scrittura. Ma la stessa cosa possiamo affermare anche di quel che avviene sui social network? No, le comunicazioni su Facebook non sono affatto lunghe e tanto meno belle, anche quando a scrivere sono persone che lo fanno di professione e soprattutto lo sanno fare bene. Ma solo quando escono da lì.
Questa era in ogni caso materia del mio intervento precedente. Il segno, il nuovo sintomo quotidiano, riguarda invece la smisurata ricezione di quel testo. Alle 10 e 30 del mattino il contatore del mio blog segnava già 353 visite - nei giorni di grazia ne raggiungo a malapena 150, a fine giornata. Andando dunque a scorrere tra i commenti - anche quelli sono inaspettatamente numerosi - mi accorgo che la ragione è da attribuire a un rilancio del mio post proprio all'interno di Facebook. Se ho capito bene deve essere stato lo scrittore Giulio Mozzi, a cui io accennavo nel mio intervento, a segnalarlo nella propria bacheca. E sempre da quanto posso solo intuire, anche lì si deve essere aperto qualcosa come un dibattito, di cui purtroppo mi sfuggono i contenuti. Una cosa è comunque certa e curiosa: la prima volta in cui ritraggo i miei gerani dal davanzale, è anche la prima volta in cui quei gerani fioriscono, sbocciano e le api ne portano i pollini lontano. O se vogliamo mettere una zavorra minerale alle metafore, farle volare un po' più base: l'aver sottratto i miei testi allo sguardo dei miei conoscenti su Facebook, e forse proprio in virtù di tale gesto di negazione, un po' come avviene con l'oro rinchiuso nei forzieri delle banche centrali, ne ha contestualmente rilanciato la percezione del valore.
Se viceversa tu offri una cosa, qualsiasi cosa non richiesta, l'importanza ne viene sminuita. Questo effimero successo in termini di lettori, proprio nel momento in cui la mia parola si fa più discreta, meno esposta, non è allora nemmeno così bizzarro come in un primo tempo avevo avvertito. In particolare se considero come le parole del testo ripreso da Giulio Mozzi, in effetti, non sono più solo le mie parole, ma qualcos'altro in conseguenza del suo imprimatur pubblico, sebbene avvenuto in una forma indiretta che ricorda i versi di quella canzone: "Guarda che luna, guarda che mare..." Che non vuol dire, appunto, guarda che bella luna, guarda che bel mare. Ma semplicemente: guarda!
Eppure anche una segnalazione defilata dal giudizio, partecipa, suo malgrado, dell'estensione carismatica della persona da cui proviene l'indicazione; tanto che forse non era così sciocco il cinese che guardava il dito, quando il saggio indicava la luna. Il processo cognitivo che si è attivato con la segnalazione di Mozzi nella sua bacheca, è dunque simile a quello a cui sono sottoposti un paio di jeans cuciti da una tredicenne - immaginiamola indiana questa volta, così da far incetta di tutti i luoghi comuni in circolazione - a cui il settantenne Giorgio Armani aggiunga un posticcio aquilotto stilizzato, che fa volare il prezzo di quei pantaloni dentro le affollate boutique del centro.
Certo, queste considerazioni potrebbero suggerirmi un moto di tristezza: in fondo in tempi recenti io ho scritto cose anche più importanti dell'intervento su cui si è appuntato l'indice forse inquisitorio di Giulio Mozzi - pantaloni più belli e comodi, ma senza alcun aquilotto che gli mettesse le ali -, cose che sono però passate nella più completa indifferenza tra i miei conoscenti su Facebook. Ma sarebbe solo uno sguardo piccolo piccolo e sottilmente rancoroso, ispirato forse da un altro luogo comune, non del tutto dissennato, che vorrebbe che io cambiassi semplicemente "amici". Il nocciolo della faccenda, o meglio il nido delle aquile, sta invece altrove, e per definizione sempre più in altro. Ma proviamo ugualmente a raggiungerlo.
Attraverso la dinamica occasionale che ho appena cercato di descrivere per immagini, Facebook si mostra come un medium apparentemente orizzontale, ma, a ben vedere, risente di filtri gerarchici impliciti che ne direzionano il traffico anche in un senso che potremmo definire verticale. All'interno delle gerarchie di gusto e valore di Facebook, Giulio Mozzi rappresenta uno che conta - un aquilotto davvero, uno che in quanto scrittore deve vederci più lontano -, e il cui pensiero viene stimato come rilevante e autorevole, perlomeno da una minima comunità che a lui e altre personalità pubbliche della cultura si riferisce. Chiamiamola provvisoriamente un'oligarchia dei volatili superiori, che in Facebook, come in tutti i gruppi spontanei, si manifesta già dalle prime battute quale effetto della psicologia collettiva. Per tale ragione l'offerta comunicativa che giunge dal suo davanzale ottiene maggiore ascolto e considerazione, uno spiraglio di sole che si guadagna spazio nell'ombra mormorante e sgomitante dei molti.
A questo punto del ragionamento veniamo però fermati da un'obiezione, che ci suggerisce di riconsiderare l'elemento gerarchico su basi unicamente quantitative, e cioè nuovamente orizzontali. In altre parole Giulio Mozzi ha molti "amici" registrati: è questa la ragione della diffusa ricezione dei testi da lui presentati, non c'era bisogno di inseguire spiegazioni occulte e simboliche. Chi al contrario ha solo pochi contatti, quattro gattacci spelacchiati, per forza risulterà penalizzato nei termini numerici di visite e forse di letture (le due cose in effetti non coincidono).
Ma come buona parte delle soluzioni semplici a problemi complessi, questa è anche un'obiezione sbagliata. In passato ho infatti avuto modo di incocciare in veri e propri collezionisti di relazioni virtuali, gente che ha più di un migliaio di "amici" su Facebook. La natura questa volta sì davvero orizzontale di tali contatti, data dalla loro assenza di agganci a una qualsiasi categoria storica o personale di valore, non viene però riverticalizzata dal mero elemento quantitativo, nemmeno quando venga dispiegata l'artiglieria attraverso uno spregiudicato utilizzo dei tag. Così quando questi professionisti della quantità pubblicano qualcosa sulla loro bacheca - e lo fanno fin troppo spesso - cade ugualmente nell'irrilevanza; magari qualche pollicione alzato qua e la, ok, come elemosina reciproca tra poveri diavoli a corto di riconoscimento.
Il caso del mio testo involato dalla bacheca di Mozzi, diviene allora sintomatico di qualcosa di più profondo ed essenziale. E cioè, a mio avviso, dell'emergere di una sorta di nostalgia verticale per un principio selettivo - o se vogliamo di un'aristocrazia dello spirito, di un sistema culturale - dentro l'utopia democratica e orizzontale di Facebook. La gente legge quello che Mozzi gli suggerisce (in questo caso me) perché si fida di lui, semplicemente. Ma, attenzione, la gente non si fida di Mozzi per quel che Mozzi scrive dentro Facebook, al contrario per ciò che egli scrive e pubblica fuori. Quella su Facebook non è infatti propriamente una scrittura, come mi sono sforzato di dimostrare nel mio intervento. E siccome Mozzi, come tutti gli altri scrittori che ho citato, è una persona intelligente, l'ha capito benissimo e si è adeguato con duttilità e prontezza al mezzo. Che da lui viene utilizzato come navetta dal fuori al dentro e dal dentro di nuovo al fuori, in una specie di tessitura che ricorda il gesto di Penelope: da una parte i nodi storici del significare vengono ribaditi attraverso il suo lavoro editoriale e letterario, ma dall'altra disfatti nella rapida e disinvolta prosa che regna su Facebook, quale alfabeto per molti versi necessario. O se vogliamo tornare al paragone omerico, ancora una volta, come Penelope, Mozzi condivide le stanze della nuova reggia verbale con i Feaci non per amore dei Feaci, ma nell'attesa del ritorno di Ulisse.
Il problema è che chi non possiede un "fuori" altrettanto strutturato di quello di Giulio Mozzi, o un Ulisse che ha fatto voto di ritornare per salvare le tue chiappe pallide di regina, rischia davvero di vedersi sopraffatto da questa nuova lingua occasionale e sformata, effetto della più infelice crasi tra scrivere e parlare ("scraparlare", io l'ho chiamato). Ma anche in tale babele di segni "scraparlanti", mediamente dissennati e unicamente impressivi, o che appena abbozzano una seria riflessione subito sopraffatta da nuovi stimoli di superficie, mi accorgo ora e proprio sulla pelle dei miei testi che nuovi mattoncini di senso vengono sfornati, e piano piano impilati. Non è ancora una grande torre, d'accordo. E probabilmente è meglio così. Tante piccole torrette, piuttosto, come quelle che si scodellano in spiaggia con la sabbia umida e il secchiello. Oppure nuovamente aquilotti che stentano ad alzarsi in volo, sbattendo le ali per prendere confidenza con i venti e le leggi della portanza. Un agitarsi apparentemente scomposto, caotico, che comunque rimanda all'esigenza di un nuovo sistema gerarchico, attraverso cui smaltire la ridondanza dei segni che le nuove tecnologie producono a getto continuo. I quali segni, ci ricordano i semiologi e i filosofi del linguaggio, hanno sempre bisogno di una mediazione esterna che ne conferisca e preservi il valore, di un fuori che si protenda all'interno, ossia di una dimensione "oscena" che proprio grazie a tale estraneità al contesto assuma una funzione ordinatrice e totemica. E' insomma l'assenza di Ulisse che legittima e garantisce l'autorità di Telemaco.
Giulio Mozzi e i suoi colleghi scrittori stanno dunque assumendo questa importante funzione civile: se non ancora o non sempre di sovrani, quella di vigili, di ausiliari del traffico dentro la caotica circolazione di Facebook. Certo, quando sono dentro lì anche loro si esprimono in quella neo-lingua in cui parlato e scrittura si fanno sempre più indistinguibili, offrendo di entrambi il loro lato peggiore. Ma comunque anche attraverso questa compiacenza svilita alle nuove forme del comunicare, gli scrittori ci ricordano che c'è un fuori, che non tutto si esaurisce in quel chiacchiericcio. E che oltre il robusto portale di Facebook esistono metri e misure del valore a cui essi alludono e con ciò determinano.
Chi se ne importa, poi, se i nostri "amici" di Facebook avranno ancora bisogno dell'indice di Giulio Mozzi per venire a conoscenza delle parole che scriviamo, che sono sempre state lì belle e pronte sul loro davanzale. E chi se ne importa anche di Facebook e di chi saprà tendere l'arco di Ulisse e in fin dei conti anche dell'ottimo Giulio Mozzi. Il quale Mozzi, con il suo ditino puntato e probabilmente ben oltre le sue intenzioni, ci ha ricordato di un mucchio di cose: aquilotti Armani, marine languorose, gerani infiammati, tesori occulti, odissee domestiche, telai che tessono e disfano la trama del loro narrare. Ma soprattutto ci ha ricordato che oltre i confini del pozzo ci sta una luna e oltre la luna, se strizziamo un poco gli occhi, è possibile intravedere anche le stelle più timide e lontane. E allora cosa aspettiamo, per tornarle a rimirare?!

lunedì 7 marzo 2011

Congedo di un facebooker cerimonioso, o sul perché su Facebook anche gli scrittori "scraparlano"


Oggi mi sono cancellato da Facebook. Dopo quanto avevo scritto nei giorni scorsi sull'argomento, mi è parsa una scelta perfino obbligata. Oltre che una salutare boccata di ossigeno in un tempo della mia vita saturo di polveri sottili, e ancor più di parole tossiche. Ma ci tengo ad aggiungere che stavolta non c'è davvero nulla di personale, quanto, direi, pensandoci, di strutturale.

Provo a spiegarmi meglio. Negli ultimi anni molti intellettuali si sono affannati a rivedere le tesi catastrofiste che vedevano la lingua scritta ormai completamente soppiantata da media a forte impatto visuale, come il cinema e la televisione. Il filosofo francese Régis Debray aveva addirittura profetizzato l'avvento di una sorta di messianesimo visivo, che ha battezzato "videosfera". Intendendo uno spazio in cui la comunicazione testuale, nella sua forma meccanizzata conseguente all'invenzione di Gutenberg, a sua volta caratterizzante un evo storico da lui chiamato "grafosfera", sarebbe stata revocata a favore del ritorno a un'esperienza solo apparentemente sensibile delle cose, e cioè appunto attraverso la replicazione visibile delle forme. Insomma, il vecchio gioco combinatori dei Sumeri sembrava ormai messo definitivamente fuori gioco; era solo questione di tempo.

Ma, ecco, con internet e i telefonini e le mail - all'improvviso! - è successo qualcosa: si è ripreso a scrivere, a comunicare attraverso segni grafici. Facebook appare dunque come l'inveramento di tutto ciò, il gabbiano che ritorna alla nave ormai perduta tra le onde dell'impressione visiva, ma invece di un pescetto porta nel becco una penna stilo che ancora gocciola inchiostro... Con tutti gli intellettuali che si affannano a urlare: terra, TERRA! E in un certo senso è vero, il profilo di una costa verbale si intravede, si scrive, eccome che si scrive: su Facebook ogni gorgoglio viscerale è occasione per una nota di testo.

L'unica domanda prima di liquidare definitivamente la faccenda, a questo punto diventa: è davvero scrittura questa cosa qui, è la terra a cui eravamo abituati? Vecchia India con un suoi elefanti panciuti e neghittosi, i fachiri e gli incantatori di serpenti, che sgusciano fuori dalla cesta di vimini al suono di una nenia stordente e si innalzano come i punti esclamativi di una frase risaputa, lo stupore dell'ovvio, accompagnati dal crepitio delle reflex giapponesi. O non sarà invece che, senza accorgercene, siamo capitati in America, dove conviene stare attenti alle frecce avvelenate degli Apache... Vediamo.

Storicamente la scrittura ha rappresentato il passaggio dalla caotica mobilità della lingua orale a forme più strutturate, pensate. In questo transito molto si è guadagnato - in precisione, rigore logico e solidità dell'impianto argomentativo e drammaturgico - ma qualcosa è andato irrimediabilmente perduto, come già aveva intuito Socrate e successivamente Platone, che cercò in qualche modo di mediare. Ma ormai, perfino allora, la rotta verso l'America era già tracciata, non si poteva tornare al sogno indiano di Colombo. Platone è dunque stato il Vespucci che ha cercato di introdurci per gradi a un nuovo mondo: quello dei testi scritti, della successiva letteratura.

Ma nel trasferire le caravelle beccheggianti della storia dentro il continente di stabili grafemi, si allontanavano, appunto, anche le coste del vecchio mondo omerico, la vitalità di una lingua che è data dalla sua sonorità e dalla reazione immediata dell'interlocutore, la cui interferenza è l'elemento dialettico alla base delle primitive forme di ragionamento. La domanda giusta da farci non è dunque se adesso scriviamo con più frequenza del nostro passato prossimo - e la risposta è ovviamente sì, almeno tecnicamente - ma se si possa ancora chiamare scrittura l'esperienza che ricaviamo dalla compilazione di testi attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, o se diversamente si profili all'orizzonte un nuovo continente...

La mia idea è che questo rigurgito grafologico non sia propriamente scrittura, ma qualcosa come un effetto provvisorio nella digestione che le moderne tecnologie stanno facendo delle forme storiche del comunicare, il ruttino del bimbo prima della prossima poppata. Non è vero, insomma, che tutti quanti abbiamo ripreso a scrivere con maggiore impeto e foga di quanto non facessimo negli anni scorsi, ma piuttosto il contrario: abbiamo iniziato ad applicare alla scrittura le cadenze e l'impressività del parlato, senza però essere in grado - per ovvie ragioni - di ricalcare anche il ritmo e la gioiosità sonora di una lingua, restituendo così una partitura senza orchestra e una sintassi senza vita.

Tutto ciò è particolarmente evidente proprio su Facebook: basta farsi "amico" qualche scrittore famoso e poi leggerne le comunicazioni confidenziali, i post che rilasciano con generosa abbondanza. Io l'ho fatto, credendo che su Facebook gli scrittori pubblicassero testi o notizie inedite, scampoli del loro lavoro altrimenti indisponibili. E' sufficiente fare come all'asilo e cercare nello sconfinato registro del più famoso social network il nome di un celebre scrittore, quindi dirgli: "Ehi bambino, vuoi diventare mio amico?" E il celebre scrittore ti concede il dono prezioso della sua "amicizia", non devi nemmeno offrirgli in cambio una caramella mou o la coda guizzante di una lucertola. Tanto che la mia prima impressione è stata proprio questa: bambini dell'asilo, siamo tornati tutti a essere bambini dell'asilo.

E questa volta i nomi voglio farli: Aldo Nove; Giuseppe Genna; Tommaso Pincio; Franz Krauspenhaar; Isabella Santacroce; Giulio Mozzi; Loredana Lipperini; Fulvio Abbate; Massimiliano Parente e altri ancora. Asilo. Forse solo l'ottimo Beppe Sebaste, anche quando scrive su Facebook, scrive per davvero, si ostina a conferire forma e struttura e perfino galateo a quel che dice, con un puntiglio che ricorda più le scuole elementari, forse perfino le medie. Beppe Sebaste, insomma, come me ancora confonde i registri e le forme che la modernità impone alle nostre vite. Non capisce, si indigna e si sorprende. Segue una remota e anacronistica rotta indiana. Gli altri pubblicano perlopiù brevi note autoriferite, banalità seducenti o sentenziose, ammiccamenti verbali senza alcun costrutto. Ironia e battutine e darsi di gomito tra amiconi. Letteralmente: bambini dell'asilo. Ma bambini anche un po' toccati, qualcuno...

Poi però vai a rileggerti i libri e ti accorgi che bambini scemi non lo sono mica sempre: semplicemente si rinscemiscono, si rimbambiscono quando iniziano a scrivere su Facebook. In particolare quando flirtano con gli ammiratori che li blandiscono nei commenti ai loro post. Tanto che la scemenza infantile, o meglio l'impressione di scemenza, ti viene il sospetto che derivi dalla sgradevole percezione di veder spalmata e fissata in testo una normale conversazione tra un uomo e una donna. Che si vorrebbe magari portare a letto, perché no? Come se osservassimo il rituale di seduzione dall'oblò di una navicella spaziale che si è smarrita. La cagnetta Laika non è più sola ma ha finalmente trovato un compagno, anzi molti compagni di avventura. Su Facebook.

Se però prestiamo attenzione, ci rendiamo conto che osservare dall'esterno come non richiesti eppure impliciti voyeur, fa parte delle regole del gioco, direi addirittura che è la cifra delle nuove forme di comunicazione, le quali pongono anche il soggetto che le agisce in qualche modo sempre a lato. E ciò che alla fine osservi è allora l'elemento di sotterfugio verbale del corteggiamento, o semplicemente di una svagata causerie, trasferito nell'impassibile rigor mortis di un segno grafico che genera imbarazzo. La ragione è probabilmente da riferire all'assenza del pietoso velo di una riflessione testuale, e cioè di una strategia retorica, e cioè di una scrittura in senso proprio, così da condurre il gesto linguistico ad esiti di assoluta irresponsabilità formale.

Se di questa sciatteria sintattica peccano gli scrittori più affermati, possiamo immaginare come scrivono gli altri, ossia tutti noi... Noi che quando accediamo a Facebook, oppure digitando un sms, rispondiamo velocemente alla mail di uno scocciatore in effetti non stiamo più scrivendo, cercando le parole più adatte o efficaci dentro una strategia comunicativa meditata e responsabile (ossia sempre in debito di una risposta dovuta), ma tutt'al più parlando attraverso grafemi muti e occasionali. Un esercizio in cui contrariamente a quando cercava di fare Platone, che si sforzava di prendere il meglio sia dalla parola parlata che da quella fissata nella forma scritta, combiniamo il peggio di entrambe. Né Colombo né Vespucci, ma una palude in cui ci muoviamo a braccio.

O se vogliamo dirla con un gioco di parole, oggi mi sono cancellato da Facebook perché, dentro lì e giù fino ai più remoti neuroni del cervello, le persone non scrivono, non parlano ma nemmeno straparlano: piuttosto "scraparlano". E anche io, tra le pieghe di Facebook, avevo iniziato a "scraparlare", stavo diventando un bambino che confonde la coda delle lucertole con il riassunto di un coccodrillo, l'India con l'America ma soprattutto l'amicizia con il voyeurismo. Ossia stavo iniziando a combinare, come giusto, come richiesto dalle regole tacite del mezzo, scrittura e parola nella più infelice delle crasi. Tanto che questa unione del peggio con il peggio, viene il sospetto che sia la cifra definitiva del nostro tempo...

giovedì 3 marzo 2011

L'ottimsimo di Nietzsche, di Marco Baldino


(Ricevo e volentieri pubblico l'intervento che segue, in replica al post su Nietzsche dei giorni scorsi. E' scritto dal mio amico filosofo Marco Baldino e contiene una mia risposta in calce. Mi limito dunque qui a un ringraziamento di cuore: per l'attenzione e il contributo. Ma anche e soprattutto per la serietà con cui ha accostato la mia eccentrica cavalcata dentro il pensiero del grande filosofo tedesco. Che, riconosco, più che essere ispirata ai severi criteri della filologia, molto deve ai liberi guizzi della metonimia letteraria. Sperando dunque di avere ancora Marco ospite in questo spazio. gh)


Non direi onta “sentimentale” (in alternativa a “morale”), ma onta “ontologica” (chiedo scusa per la sgradevole allitterazione. Anche l’apparente comunanza di radice è in verità priva di rilievo), nel senso che ciò che va risparmiato è l’onta di vedersi diminuiti nel valore della vita, di vedersi diminuito il valore della vita, il quale, per Nietzsche, come sappiamo, è il supremo valore.
L’onta è “ontologica” perché ad essere intaccato non è l’uomo, ma l’Essere stesso, ossia la Vita o, in senso più generale, la Forza e, spingendoci ancora oltre sul piano delle metafore, ciò che della forza è la propulsione, la scaturigine, l’energia (concetto che non poteva sfuggire a Nietzsche). L’onta è per Nietzsche l’insulto alla vita, e la vita non subisce altro insulto che la diminuzione della sua potenza creatrice. Tutti i tentativi di limitare la vita, di diminuirla, sono insulti all’essere. La morale è, in Nietzsche, il concetto più ampio di ciò che diminuisce il valore della vita, il cristianesimo la manifestazione storica più eclatante.
L’uomo come tale, l’uomo umano, l’uomo dell’umanismo, l’uomo in quanto sviluppa cultura, in quanto coltiva lo spirito e l’educazione, l’uomo che ordisce un’esistenza pubblica, che coltiva le forme della pietà, persino l’uomo che si abbandona alla compassione nel senso di Schopenhauer (e di Foscolo) è, per Nietzsche, nient’altro che sterco. La pietà per le forme morte, deboli, impotenti della vita, la pietà per la deiezione del divenire, per il rimasuglio sconcio del grande flusso, per la merda, per la sozzura, per la scoria, per il cascame senza valore che risulta dal movimento assoluto dell’essere, è insulto all’essere, vero e proprio “male” metafisico.
Nietzsche giunge in effetti assai presto a configurare l’essere come divenire, come l’eterno fluire che trasforma ogni cosa in un’altra; gli fu sufficiente leggere i presocratici. Vi ritornerà, però, facendo un ampio giro attraverso il problema del valore (punto che non accolgo). L’argomento di Nietzsche in favore dell’essere come vita è che la vita è valore. Il flusso, l’enérgheia, l’universale essere all’opera del divenire è, per Nietzsche, il massimamente desiderabile. Lo voglio (Amor fati) perché è ciò che massimamente vale o, che è lo stesso, perché è ciò che massimamente è. Il volere è volere la vita e, quindi, il suo continuo approfondirsi, il suo continuo espandersi e ingigantirsi; volere è volere la potenza (della vita), che è potenza creatrice (di forme). Questo è la volontà di potenza di cui parla Nietzsche: volere il divenire e, quindi, non volere se stessi, l’uomo, la propria identità quale soggetto della responsabilità pubblica e privata, soggetto morale e metafisico - come se l’uomo avesse un’essenza stabile, qualcosa di prendibile; come se l’uomo fosse quel riferimento assoluto della storia che diceva Hegel: il luogo dell’autocoscienza e dell’autorealizzazione dello spirito assoluto.
Sicché non è un’onta inebetire, onta è vedere nell’inebetimento qualcosa che è ancora da amare, qualcosa da compassionare, qualcosa che valga ancora il nostro volere. Onta sarebbe desiderare che la vita, nella sua forma massimamente impotente, rimanesse presso di noi, con un’inversione che mette al posto del valore (la vita) il disvalore (la morte, l’ebetismo, la malattia, la decadenza …), al posto dell’essere (= valore) il non-essere (= disvalore = nichilismo), al posto di tutto ciò che è buono (la forza e la potenza della vita) tutto ciò che è cattivo (il marcio, il decomposto, l’informe, l’insulso della vita …).
Allora direi che il filmato è una sfida postuma, la sfida a liberarsi e a deridere quel simulacro sopravvissuto al suo grande pensiero. La vergogna appartiene a chi si lascia irretire dalla ragnatela della pietà. Ed è anche un segno, il segno che si è raggiunto il limite e che tocca ritrarsene.
Ecco quindi la mia interpretazione: se la pietà è l’insulto metafisico all’essere in quanto valore, la vergogna è il segno che è giunto il momento di abbandonare l’indebolito al suo destino e rivolgersi nuovamente alla potenza, ossia alla vita.
Nietzsche era un riprovevole ottimista. La vergogna doveva avere quindi un senso del tutto speciale per lui.

Marco Baldino


Caro Marco,
ammesso che il tuo testo - non è ovvio, in effetti - contenga una qualche forma di "responsabilità" nei confronti di quel che in precedenza io avevo scritto, mi sentirei di riassumerlo a questo modo: Nietzsche, col gesto biograficamente inaugurale di abbracciare un cavallo malmenato dal conducente di una carrozza, non invera il suo pensiero, ma anzi e radicalmente lo smentisce. Questo passaggio interpretativo mi sembra dunque assai delicato e significativo. Perché sia tu sia io, implicitamente, ammettiamo a questo modo un valore testuale della biografia, che entra in rapporto (dialettico in me, mentre in te oppositivo) con il lato manifesto del pensiero. L'unica differenza tra il tuo approccio ed il mio è che tu, con precisione e puntiglio filologico, ti appelli poi nuovamente all'autorità veritativa dei testi pregressi. Sulla cui scorta concludi che, da quel
folle gesto in poi, Nietzsche va considerato "un' altra cosa". Bene Marco, da narratore e da non-filosofo quale io sono, trovo diversamente che "quell'altra cosa" da cui tu avvalori un necessario congedo della riflessione filosofica - pur non negandone il valore espressivo, il fatto che sia una "cosa mormorante" - vada invece a caricarsi di un significato decisivo: sia cioè un evento semantico da continuare a interrogare, e il cui senso implicito finisce coll'irradiarsi anche sulla fase precedente (come avviene nei processi dialettici, appunto). Così mentre tu guardi a quel "fatto" attraverso la griglia di un pensiero antitetico - il Nietzsche uomo diventa a questo modo la negazione del super-uomo nietzschiano, imponendo una cesura biografica allo sviluppo del pensiero - io prendo sul serio proprio la nozione di divenire da te più volte e legittimamente richiamata, istituendo un rapporto di continuità espressiva con l'opera esplicita del filosofo. Ma l'obiezione, che certo non mi sfugge, sarebbe: tu stai mescolando le carte in tavola, giocando a basket con i piedi e a calcio con le mani! Infatti in tale prospettiva personale non stiamo più parlando dentro i confini normativi dell'ermeneutica filosofica, ma, tutt'al più, in quelli della critica d'arte. Dove gli strumenti interpretativi diventano di conseguenza molto più mobili e discrezionali, soggetti ad estri immaginativi e improvvisi scarti analogici, che il rigore filosofico non consente. Ebbene Marco, io la penso proprio a questo modo. Ossia trovo che l'ultimo Nietzsche - in particole quello che ci tocca direttamente attraverso quella forma di presente postumo che è la video-grafia - rappresenti qualcosa come un ready-made artistico. Senza dunque eccepire in nulla rispetto alla tua corretta interpretazione filosofica della fase, pubblica, che precede il famigerato abbraccio tra specie animali diverse ma ugualmente sconfitte, ho provato ad esorbitarla nell'interpretazione artistica. Che vede la filosofia di Nietzsche "divenire" dentro la propria tragica esperienza di uomo malandato e intellettualmente e fisicamente in-potente. Fino a che, con grande libertà interpretativa ma senza sconfinare nell'arbitrio - i nessi analogici sono dimostrabili e credo anche dimostrati - quell' "altra cosa" dal suo pensiero ufficiale che appena traspare dalla biografia si mostri, in ultimo, e dialetticamente, come "la cosa in sé".

guido hauser