Nei giorni scorsi ho scritto un intervento in cui
parlavo del conflitto israelo-palestinese. Immaginavo delle critiche, e
puntuali sono arrivate. Non tante, di lavoro non faccio l'influencer e per
hobby non passo il tempo sui social. La misura del contenzioso si riduce al battibeccare per un rigore non concesso in una partitella tra
scapoli e ammogliati. E anche questo me l'aspettavo.
Dunque tutto nella norma, tranne l'indice
sanzionatorio – questo mi ha un po’ sorpreso – da cui muovevano le critiche. Può
essere riassunto dal classico argomento fattuale, in cui l’esistente trova giustificazione per una sua presunta e intima natura a perseverare invariato; salvo voler cancellare dall'orizzonte ottico la parte sgradita della manifestazione, nella circostanza l’elementare diritto del popolo
palestinese: vivere. Israele sta combattendo una guerra difensiva, dice il disincantato commentatore, e le guerre sono fatte così. Basta con l'ingenuità degli idealisti dall'indole candida e sognante, diciamo pure un po' fessa.
Sull'ultimo attributo, nel mio caso, potrei anche convenire, ma sul resto… Mah. E a dirla tutta ho sempre pensato, con Omero prima ancora che con Francesco De Gregori, che la guerra è "bella", è bella anche se fa male, riflettendosi nel mare color del vino che riluce dopo sanguinose battaglie tra le triremi.
Questa però non è una guerra, e infatti fa schifo: sia se osservata dal
versante terroristico di Hamas – di cui è doveroso ricordare la violenza
particolarmente efferata su civili, donne, bambini decapitati per il solo fatto
di essere ebrei, in una ricapitolazione aggiornata e mostruosa della Shoà –,
sia da quello della risposta scomposta di Israele. Il regime di apartheid
imposto alla striscia di Gaza, unito alla progressiva colonizzazione della
Cisgiordania, ha rappresentato la premessa; di certo non giustifica ciò che è
seguito, ma la potremmo guardare come all'accumulo di benzina vicino a un
fiammifero acceso.
Una distinzione di lana caprina, per chi mi
critica. E invece no. Perché una guerra possa fregiarsi di questo nome deve
come minimo possedere una tattica di breve periodo, obiettivi strategici entro
una frazione temporale più ampia, quindi un disegno politico sul lungo termine;
altrimenti si tratta di ritorsione, che è una forma eufemistica per dire altro. Ma sarà più chiaro con un esempio.
Vuoi mettere fuori gioco l'aviazione nemica, che
altrimenti potrebbe colpirti? Bene, cioè mica tanto bene, ma è appunto la
guerra, e a la guerre comme à la guerre. Ecco allora che ti alzi in volo
per primo, bombardi anticipatamente i suoi aeroporti, ritorni e ti bevi un succo
di pompelmo con i commilitoni che ti danno pacche sulle spalle e dicono bravo! È stato fatto in questi giorni da Israele ad Aleppo e Damasco,
era già avvenuto nella guerra dei sei giorni. Azioni militari a tutti gli
effetti, con vittime che vengono chiamate "collaterali" – una
versione ripulita e asettica della formula di Machiavelli per cui il fine
giustifica i mezzi.
Oppure lo sbarco in Normandia, anche quella fu
guerra, e che guerra! Mezzo mondo si era dato convegno su un fazzoletto di sabbia poco più grande di un campo da beach volley, erano presenti perfino dei nativi americani appartenenti alla tribù dei Comanche (sì, quelli che John Wayne insegue a cavallo) e scozzesi in gonnellino che suonano la cornamusa. Attraverso il sacrificio eroico di migliaia di giovani soldati, quel giorno, il D-Day, l'Europa ha creato le condizioni per liberarsi dalla vertigine nera del nazifascismo, si spera una volta per tutte. Poi arrivarono dal fronte di nord ovest altri giovani dai lineamenti slavi, e anche a loro va reso merito, merito di guerra giustamente si dice, valore militare, come la croce che simbolicamente lo sta a rappresentare appuntata sulla divisa.
Ma ci fu anche il bombardamento di Dresda, di cui non possiamo dire
altrettanto. Non si trattava infatti di un passaggio, particolarmente cruento
ma necessario, della seconda guerra mondiale, ma di quel qualcos'altro che il termine ritorsione introduce e allo stesso tempo cela. Proviamo allora a vederci più chiaro.
Il 13 febbraio del '45 la RAF riversò sulla città
tedesca 1478 tonnellate di bombe esplosive e 1182 tonnellate di bombe incendiarie.
Nella giornata successiva fu il turno dei B-17 americani: 1250 tra bombe
esplosive e incendiarie. Quindi i bombardieri della USA Air Force tornarono il 2 marzo
con un nuovo carico di 1000 tonnellate, e il 17 aprile le bombe esplosive furono 1554
tonnellate e 164 quelle incendiarie. Il computo delle vittime è controverso,
atteniamoci dunque al dato riportato da uno scrittore lì presente: per Kurt
Vonnegut i morti furono 135.000, su una città che contava circa 600.000
abitanti.
In tutta questa carneficina qual era l'obiettivo degli Alleati, a parte la tattica di creare quella che fu chiamata
una tempesta di fuoco, con le travi dei tetti e altre macerie sollevate
fino a 8000 metri di quota? Nessuna strategia, nessun disegno politico in filigrana. Fu semplicemente la
compensazione, moltiplicata di scala, richiesta da Churchill per i
bombardamenti subiti da Londra all'inizio del conflitto. Una vendetta, insomma.
L'analogia con quanto sta accadendo in queste ore
a Gaza balza agli occhi, a mostrare l'assenza di un finalismo procedurale
sostituito da arcaiche passioni distruttive, pancia in luogo di testa, nessuna
guerra ma pura e semplice vendetta. Ma se non esiste una vendetta giusta
dovrebbe se non altro essere proporzionata, che è quanto suggerisce lo
psicoanalista e studioso delle religioni Massimo Diana, di cui nell'intervento
precedente ricordavo l'interpretazione alla legge del taglione, ripresa nella
Bibbia ebraica dal codice di Hammurabi. Riporto l'intero passo nella traduzione della
CEI:
"Quando alcuni uomini rissano e urtano una
donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà
un'ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole
pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai
vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per
piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido."
(Esodo XXI, 22-25)
Del lungo elenco retributivo, ciò che viene comunemente ricordata è la porzione riferita a occhio per occhio dente per dente. Si
tratta certamente di una concessione alla rabbia, e cioè al sentimento più
umano, che però contiene un limite, dobbiamo prendere le parole alla lettera,
non sono una metafora. Un dente, colpevolmente sottratto alla bocca, contro un
dente cavato al responsabile del gesto, un occhio contro un occhio. Ma poi ci
si ferma lì, non vale – va contro il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe –
prendersi anche l'altro occhio, e spesso non basta ancora. Quando non arginata,
la vendetta reclama gli occhi anche dei fratelli, dei cugini, più occhi sono e
meglio è. Ci vorrebbe una libellula che da sola ne possiede 28.000.
Le cinquecento vittime dell'ospedale palestinese, che venga o meno confermata la responsabilità israeliana nel bombardamento,
confermeranno allora anche il sospetto da cui siamo partiti: questa non è una guerra ma una
vendetta, nella quale manca la
proporzionalità biblica tra danno e compenso, limitandone il numero alla sua
equivalenza. E poco importa se, verosimilmente, sia stato un errore balistico da parte di uno dei due contendenti; quando si spara nel mucchio il peggio deve essere messo in conto, la collateralità ha bisogno di un fine per giustificare il proprio mezzo.
In alte parole e tralasciando l'intrico di torti e ragioni, spesso paradossali, che ci rende difficile pronunciare una parola ultima di verità sulla genesi storica del conflitto, ciò che fa difetto sia ad Hamas sia a Israele è una strategia militare. È un fatto che, nella circostanza, l'aggredito possiede il diritto e perfino il dovere di difendere il proprio popolo, il più vile degli attacchi è stato subito. La forma della reazione rischia però di convertire per l'ennesima volta una ragione in un torto; il solito vecchio gioco – al massacro – che si verifica quando due vendette non confinate dalla
legge del taglione si incrociano, andando a innescare una faida. Con il
particolare che le faide, per definizione, tendono a non finire mai.