sabato 28 ottobre 2023

La morte e le parole, cronistoria di un pensiero infame

 

Quando, nel giugno del 2018, l'allora Ministro degli Interni Matteo Salvini negò alla nave Aquarius il permesso di sbarcare il suo affollato carico di migranti – orribile formula mercantile per indicare donne, uomini e bambini in condizioni di salute spesso precarie – allo scrittore Edoardo Albinati sfuggì un commento poco felice:

"Sapete" disse, "sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius."

Ho una considerazione e un rispetto assoluti per Albinati, e mi turbò molto la frase. Qualche mese dopo ci ritornò con un pamphlet; non credo lo fece per giustificarsi e piuttosto per indagare il luogo psichico da cui erano scaturite le sue parole, in uno scavo genealogico che egli definì con l'aggettivo infame: Cronistoria di un pensiero infame, Baldini + Castoldi, 2018.

Ripensavo all'episodio leggendo uno di quei fatti di cronaca riportati di sfuggita dai giornali, ma che per la loro natura quasi di splatter – potrebbe trovarsi in una pellicola di Guy Ritchie o di Tarantino – ottengono un qualche risalto dal web. Roma. Via Frattina. Intorno a mezzogiorno, dal terzo piano di un bel palazzo signorile, precipita un cucciolo di Rottweiler, colpendo una donna incinta che stava passeggiando con il marito. La foto a corredo ritrae il cadavere dell'animale ricoperto da un velo di carta dorata, simile all'involucro delle uova di Pasqua. La donna, di ventotto anni, si trova ora in ospedale a rischio di vita.

Il pensiero infame sarebbe dunque questo: quattrocento bambini morti al giorno nella sola Striscia di Gaza, una guerra in Ucraina di cui nessuno parla quasi più; senza mettere in conto il variegato carico di dolore ordinario, il triage al Pronto soccorso, la donna in coma e con lei il feto pulsante di vita potenziale. Ebbene, in tutto ciò la mia commozione a chi è andata? Domanda retorica: al cane, naturalmente.

Roland Barthes direbbe che si tratta del punctum, da intendersi come il dettaglio in cui un'immagine ci rivela il suo significato più autentico; per un altro osservatore sarebbe probabilmente diverso. Ma potremmo anche vederlo (non sto cercando nemmeno io di giustificarmi) come un tratto narrativo nel funzionamento della mia mente che prende il nome di sineddoche, dove la parte è in luogo del tutto.

La narrazione, focalizzata su quella parte, consisterà allora nella vitalità evocata dal giovane animale; pare stesse inseguendo un gatto, l'antico gioco oppositivo tra cani e gatti; il felino arruffa il pelo, poi sfugge riparando sui tetti per il tramite della finestra aperta, e il cane ne replica il balzo finendo però di sotto. Un tonfo, come quello di chi ha deciso di farsi angelo con un ultimo volo verso terra, un flebile guaito quasi di sorpresa, mentre il marito della donna chiama AIUTO! Siamo in grado di visualizzare la scena, sembra animarsi grazie alla penna di un bravo scrittore.

Non sono certo che la stessa emozione valga anche per le altre persone, ma è verosimile: siamo una specie che per risuonare con la vita – sia nella gioia sia nel dolore, secondo la formula pronunciata dal parroco durante i matrimoni – ha bisogno di una qualche forma di drammaturgia. Quattrocento bambini sono un dato statistico, un cucciolo di animale è invece un personaggio all'interno di una storia. E ciò mi tocca dove sono più vulnerabile.

martedì 24 ottobre 2023

Mario e Giocasta, o sulla virtualizzazione del conflitto di classe

Mi piacciono gli interventi sui social dove le persone assegnano un nome ai figli che non hanno, sceneggiando il film delle loro vite potenziali. Capita di farlo anche a me, per quanto, di norma, non ne condivida la rêverie.

Ho appena letto un post su Facebook dove il nome prescelto era Giocasta, o in alternativa Genevieve, Geraldine, Giuditta... Chi l'ha scritto, una giovane donna che pubblica spesso dei selfie intenta in esercizi ginnici in palestra (sono premiati da una salva di like maschili), era ancora un po' indecisa. Comunque iniziava con la G.

La immaginava prendere un aereo per Berlino, un giorno qui e l'altro là; in fondo a cosa servono i figli se non a portare a compimento i propri sogni, limitati dal suo lavoro di assistente alla poltrona. Due ore di volo scarse, si possono impiegare per leggere Ovidio, darsi lo smalto alle unghie, scrivere un post sulle figlie immaginarie; nel caso diventerebbe la nipote dell'autrice del primo post. La famiglia si allarga.

Ma per mostrare il fiocco rosa bisogna attendere l'atterraggio al Flughafen Brandenburg Willy Brandt; già al check-out si respira quell'aria internazionale che in Italia solo Milano finge di avere. E infatti è un surrogato, un succedaneo, come le uova di lompo per il caviale. Via via, si deve volare via!

Pochi giorni dopo si riparte allora per Londra, Barcellona, Istanbul, New York. Ecco la piccola Giocasta, ormai cresciuta e naturalmente bellissima, spiccare tra gli imbucati di un vernissage al Greenwich Village. In mano tiene una coppa Martini contenente l'omonimo cocktail; al posto del gin ha però richiesto la vodka, e niente olivetta. "I hate olives", aggiunge.

A un certo punto qualcuno le domanda: "What job do you do?", come fa Nanni Moretti in una celebre sequenza di Ecce Bombo

"Mi interesso di molte cose" risponde la ragazza nel film, stanno entrambi seduti su un prato. "Cinema, teatro, fotografia, musica, leggo..."

"Sì, ma concretamente" la incalza Moretti.

"Beh, faccio cose, vedo gente..."

"E l'affitto?"

"Vivo con mio fratello."

"E i soldi per le sigarette, money for cigarettes?"

L'uomo del vernissage, un tizio tarchiato con la montatura degli occhiali camouflage e una giacca di pelle troppo stretta, indica il pacchetto di Lucky Strike che la ragazza tiene nell'altra mano. "Who paid for those?"

Giocasta sorride, come sono materialisti gli americani. Quasi quasi domani prendo un altro aereo e volo a Rio, pensa, oppure a Buenos Aires. Tango o bossa nova? Ha tutta la notte per pensarci, intanto posa su un tavolino di vetro il Vodkatiny, sfila dal pacchetto una sigaretta e se la infila in slow motion tra le labbra carnose.

Ma che succede?! La fiamma dell'accendino si propaga alla pellicola dell'immaginazione, non riesco a vedere più niente.

Mi fermo dunque qui, la risposta di Giocasta ora soffia nel vento, blowing in the wind, ognuno scelga le parole che più gli risuonano; basta pronunciarle con l'accento di Heather Parsi, sostituendole a cicale cicale.

Quanto alla figlia che neppure io ho mai avuto, vediamo... potrebbe chiamarsi Maria, lo stesso nome di entrambe le mie nonne. E nel caso fosse un maschietto, con la sola sostituzione dell'ultima vocale diventerebbe Mario, come il Mario della canzone di Jannacci. Posso vederlo mentre attende il suo turno a un concorso pubblico per bidelli: duemilaottocentosettantuno pretendenti per tre posti alle scuole medie Pietro Vanni di Viterbo.

Speriamo bene, Mario...

(PS - Questo testo potrebbe essere anche ispirato a persone e fatti realmente accaduti, come si dice. Ma non parla di persone e fatti realmente accaduti. È semplicemente un racconto, per quanto verosimile. Il suo riferimento è all'irrealtà, sempre più diffusa, attraverso cui gli individui si riflettono sullo schermo dei social, ottenendo l'immagine di ritorno che loro stessi vi hanno proiettato. I nuovi ricchi coincidono così con il sogno dei poveri, i quali distillano un'idea astratta e platonica di ricchezza. Fino a credervi. Le scorie del sogno collettivo sono rappresentate dai Mari e dalle Marie in carne e ossa, in trepidante attesa dell'esito dei loro concorsi pubblici.)

La pietra e la goccia

La frase di Giorgia Meloni sulla goccia che non incide sulla pietra, la quale resta pietra mentre l'acqua della goccia scivola via, non rappresenta un semplice svarione, ma un formidabile segno politico su cui riflettere.

Uno dei tratti qualificanti la destra al governo si dice, infatti, essere l'ignoranza, e non conoscere il proverbio latino gutta cavat lapidem ne è certamente conferma. Eppure ci sono pietre di diversa composizione geologica, non sono esperto in materia ma suppongo effetti diversi se la pioggia cade su una lastra di marmo oppure su una roccia calcarea.

L'ignoranza o, più precisamente, una certa misura di oblio, diventa così la condizione per immaginare sviluppi diversi. Nel passato questa immaginazione rivolta al futuro è stata appannaggio della sinistra, mentre la destra manteneva salda l'ipoteca del passato. Meloni ci racconta però una storia diversa, e gli italiani la premiano con il consenso.

Mentre Elly Schlein pronuncia parole che appaiono stantie, vuote perché impolverate dalla consuetudine - frasi fatte e strafatte, insomma -, Giorgia fa sognare invertendo fantasiosamente il rapporto millenario tra le cose.

E chissà che non abbia ragione lei, che esistano futuri ancora impensati in cui la pietra ha la meglio sulla goccia, e le famiglie Mulino Bianco si convertono in donne single che non portano la figlia all'Esselunga, ma al forum di Davos.

sabato 21 ottobre 2023

È stato solo un sogno, o sulle domande che spaccano il cuore

Questa mattina avevo il richiamo della vaccinazione anti Covid. Ore 10.00, presentarsi alla 9.50 con codice di prenotazione UNLXNSBIFRMRMYC, stava scritto sull’SMS di conferma. Si ricorda di portare un documento identificativo in corso di validità e la tessera sanitaria.

Vado a dormire tardi dopo due puntate di Twin Peaks, la prima stagione. Nonostante la pasticca di Rivotril ho il sonno un po’ agitato. Sogno. Al mattino i ricordi sono confusi, ma potrei giurare che una mia compagna di scuola faceva parte del sogno; siamo stati nella stessa classe sia alle elementari che alle medie, sempre nella sezione effe. Sì chiama Silvia. Da quanto tempo non la vedo? Saranno quindici anni, forse venti...

Probabile. Ma se voglio ritrovare un'immagine nitida devo risalire al Carnevale del 1975, quarta elementare. Io mi ero presentato a scuola vestito da direttore del circo – avevo fatto un po’ di fatica a recuperare la tuba, la giubba rossa con i bottoni dorati apparteneva a mia nonna – mentre Silvia da damina del Settecento.

La gonna conteneva un’anima di metallo, se provava a sedersi faceva leva sulla sedia e si sollevava la parte anteriore, mostrando a tutti le mutande. Corrado Lapsus veniva mandato ogni tanto in avanscoperta per sollevare il grembiule scuro alle bambine, e farci vedere il candore delle mutande. Ma così era troppo facile.

Alla fine, dopo alcuni tentativi, Silvia decise di rimanere in piedi. Noi con i gomiti appoggiati sui banchi di formica verdina a sbranare chiacchiere e tortelli; lei al centro della classe come un monumento, un’installazione artistica, un capolavoro. Bella è sempre stata bella, per quanto, a volte, il tempo somigli ai fanatici religiosi. Gente barbuta che abbatte le statue di un dio disallineato al presente. Mi piacerebbe rivederla.

Quando è il mio turno (numero 24 chiamano a voce alta e non più con il microfono, ormai a vaccinarsi siamo rimasti in quattro gatti), entro nel box e trovo l’infermiera di spalle; sta aspirando con la siringa un intruglio che già immagino scorrere minaccioso nel mio sangue. Si gira e mi chiede: “Spalla destra o sinistra?”

“Sinistra direi, ma tu…?”

“Si, sono io. Con queste cose sulla bocca", e indica la mascherina, "non ti avevo riconosciuto subito nemmeno io. Come stai, Guido?”

“Bene, sì, insomma… E tu, abiti sempre a Sondrio, ti sei sposata, hai figli?”

Non presto attenzione alle risposte, mentre parla – sono proprio un cialtrone – sto pensando se dirglielo o meno, e nel caso come.

“Silvia lo sai che questa notte ti ho sognata” la interrompo in una sola rapidissima emissione di fiato, si ingolfa in quella cosa che tengo anch'io sopra la bocca. Replico allora il suo gesto di indicare la mascherina, fingendo di giustificare così la mia goffaggine. Sembra l'inizio di una canzone di Luca Carboni.

“Davvero?!”, risponde lei con un tono di sorpresa che appare accentuato e artificioso, quasi a nascondere una notizia che già conosceva. 

“Sì, ma non preoccuparti: non facevamo cose strane… Eravamo vestiti. Non ti si vedevano le mutande, come quella volta a Carnevale.”

Speravo di farla sorridere ma resta seria, concentrata sulla siringa, non si ricorda dell’episodio. Provo a raccontarglielo ma mi anticipa: “Fa lo stesso, andava bene uguale."

Finalmente sorride, e dopo avermi invitato, sempre a gesti, ad abbassare la spallina della maglia di caldo cotone, continua: "Quello che facevamo facevamo. Tanto si trattava di un sogno, solamente un sogno, no?”

Annuisco.

Mi infila l’ago nella spalla senza preavviso, poi preme lo stantuffo con una delicatezza che sembra contraddire l'impeto iniziale, i ballerini nel tango fanno qualcosa di simile. Non sento nulla. Preferisco quando le iniezioni fanno male, mi sembra che per stare bene si debba soffrire un po', non tanto, solo un po’. Al termine mette un cerottino come quelli che ricoprivano le ginocchia dei bambini degli anni Settanta. “Posso andare?” dico io.

“Sì, sì.”

“Allora ciao, Silvia.”

”Ciao Guido.”

“…”

“Aspetta” mi dice quando sono già arrivato alla tenda del box, “nel sogno eravamo come adesso, sì, insomma, vecchi… o come una volta?”  

giovedì 19 ottobre 2023

L’oscena richiesta

“Nella vita ho scritto qualsiasi cosa, tranne delazioni.” Lo affermava Cechov con legittimo orgoglio; non per i capolavori scritti, ma per le mancate delazioni.

Ma lo direbbe ancora, adesso?

In una sua reviviscenza nel tempo presente immagino la seguente versione:

Nella vita ho scritto qualsiasi cosa. Ho scritto letterine a Babbo Natale, in cui chiedevo in dono un monopattino elettrico e la Playstation 5; ho scritto, stando attento a non smarginare, negli appositi spazi dei bollettini MAAV; ho scritto alla rubrica della posta del cuore, sperando che 
Natalia Aspesi mi spiegasse la ragione per la quale io, un grande scrittore, ero stato scaricato per una videoartista punk di Berlino; cartoline da Sanremo, anche quelle ho scritto (qui tutto bene, c'è il sole, ieri sera sono stato a un festival musicale, la gente del posto non parla d'altro. Le canzoni erano davvero brutte); ho scritto messaggi a sconosciute conosciute su internet e recensioni a prodotti acquistati su Amazon – a una friggitrice ad aria ho dato cinque stelle, ma forse ne meritava quattro; ho scritto in un luogo dove la gente si insultava senza però superare i 280 caratteri; ho scritto scritto scritto, davvero qualsiasi cosa. Tranne richieste a mettere mi piace alla mia pagina Facebook.

mercoledì 18 ottobre 2023

Guerra e vendetta, facciamo un po' di chiarezza

Nei giorni scorsi ho scritto un intervento in cui parlavo del conflitto israelo-palestinese. Immaginavo delle critiche, e puntuali sono arrivate. Non tante, di lavoro non faccio l'influencer e per hobby non passo il tempo sui social. La misura del contenzioso si riduce al battibeccare per un rigore non concesso in una partitella tra scapoli e ammogliati. E anche questo me l'aspettavo.

Dunque tutto nella norma, tranne l'indice sanzionatorio – questo mi ha un po’ sorpreso – da cui muovevano le critiche. Può essere riassunto dal classico argomento fattuale, in cui l’esistente trova giustificazione per una sua presunta e intima natura a perseverare invariato; salvo voler cancellare dall'orizzonte ottico la parte sgradita della manifestazione, nella circostanza l’elementare diritto del popolo palestinese: vivere. Israele sta combattendo una guerra difensiva, dice il disincantato commentatore, e le guerre sono fatte così. Basta con l'ingenuità degli idealisti dall'indole candida e sognante, diciamo pure un po' fessa.

Sull'ultimo attributo, nel mio caso, potrei anche convenire, ma sul resto… Mah. E a dirla tutta ho sempre pensato, con Omero prima ancora che con Francesco De Gregori, che la guerra è "bella", è bella anche se fa male, riflettendosi nel mare color del vino che riluce dopo sanguinose battaglie tra le triremi. 

Questa però non è una guerra, e infatti fa schifo: sia se osservata dal versante terroristico di Hamas – di cui è doveroso ricordare la violenza particolarmente efferata su civili, donne, bambini decapitati per il solo fatto di essere ebrei, in una ricapitolazione aggiornata e mostruosa della Shoà –, sia da quello della risposta scomposta di Israele. Il regime di apartheid imposto alla striscia di Gaza, unito alla progressiva colonizzazione della Cisgiordania, ha rappresentato la premessa; di certo non giustifica ciò che è seguito, ma la potremmo guardare come all'accumulo di benzina vicino a un fiammifero acceso.

Una distinzione di lana caprina, per chi mi critica. E invece no. Perché una guerra possa fregiarsi di questo nome deve come minimo possedere una tattica di breve periodo, obiettivi strategici entro una frazione temporale più ampia, quindi un disegno politico sul lungo termine; altrimenti si tratta di ritorsione, che è una forma eufemistica per dire altro. Ma sarà più chiaro con un esempio.

Vuoi mettere fuori gioco l'aviazione nemica, che altrimenti potrebbe colpirti? Bene, cioè mica tanto bene, ma è appunto la guerra, e a la guerre comme à la guerre. Ecco allora che ti alzi in volo per primo, bombardi anticipatamente i suoi aeroporti, ritorni e ti bevi un succo di pompelmo con i commilitoni che ti danno pacche sulle spalle e dicono bravo! È stato fatto in questi giorni da Israele ad Aleppo e Damasco, era già avvenuto nella guerra dei sei giorni. Azioni militari a tutti gli effetti, con vittime che vengono chiamate "collaterali" – una versione ripulita e asettica della formula di Machiavelli per cui il fine giustifica i mezzi.

Oppure lo sbarco in Normandia, anche quella fu guerra, e che guerra! Mezzo mondo si era dato convegno su un fazzoletto di sabbia poco più grande di un campo da beach volley, erano presenti perfino dei nativi americani appartenenti alla tribù dei Comanche (sì, quelli che John Wayne insegue a cavallo) e scozzesi in gonnellino che suonano la cornamusa. Attraverso il sacrificio eroico di migliaia di giovani soldati, quel giorno, il D-Day, l'Europa ha creato le condizioni per liberarsi dalla vertigine nera del nazifascismo, si spera una volta per tutte. Poi arrivarono dal fronte di nord ovest altri giovani dai lineamenti slavi, e anche a loro va reso merito, merito di guerra giustamente si dice, valore militare, come la croce che simbolicamente lo sta a rappresentare appuntata sulla divisa.

Ma ci fu anche il bombardamento di Dresda, di cui non possiamo dire altrettanto. Non si trattava infatti di un passaggio, particolarmente cruento ma necessario, della seconda guerra mondiale, ma di quel qualcos'altro che il termine ritorsione introduce e allo stesso tempo cela. Proviamo allora a vederci più chiaro.

Il 13 febbraio del '45 la RAF riversò sulla città tedesca 1478 tonnellate di bombe esplosive e 1182 tonnellate di bombe incendiarie. Nella giornata successiva fu il turno dei B-17 americani: 1250 tra bombe esplosive e incendiarie. Quindi i bombardieri della USA Air Force tornarono il 2 marzo con un nuovo carico di 1000 tonnellate, e il 17 aprile le bombe esplosive furono 1554 tonnellate e 164 quelle incendiarie. Il computo delle vittime è controverso, atteniamoci dunque al dato riportato da uno scrittore lì presente: per Kurt Vonnegut i morti furono 135.000, su una città che contava circa 600.000 abitanti.

In tutta questa carneficina qual era l'obiettivo degli Alleati, a parte la tattica di creare quella che fu chiamata una tempesta di fuoco, con le travi dei tetti e altre macerie sollevate fino a 8000 metri di quota? Nessuna strategia, nessun disegno politico in filigrana. Fu semplicemente la compensazione, moltiplicata di scala, richiesta da Churchill per i bombardamenti subiti da Londra all'inizio del conflitto. Una vendetta, insomma.

L'analogia con quanto sta accadendo in queste ore a Gaza balza agli occhi, a mostrare l'assenza di un finalismo procedurale sostituito da arcaiche passioni distruttive, pancia in luogo di testa, nessuna guerra ma pura e semplice vendetta. Ma se non esiste una vendetta giusta dovrebbe se non altro essere proporzionata, che è quanto suggerisce lo psicoanalista e studioso delle religioni Massimo Diana, di cui nell'intervento precedente ricordavo l'interpretazione alla legge del taglione, ripresa nella Bibbia ebraica dal codice di Hammurabi. Riporto l'intero passo nella traduzione della CEI:

"Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un'ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido." (Esodo XXI, 22-25)

Del lungo elenco retributivo, ciò che viene comunemente ricordata è la porzione riferita a occhio per occhio dente per dente. Si tratta certamente di una concessione alla rabbia, e cioè al sentimento più umano, che però contiene un limite, dobbiamo prendere le parole alla lettera, non sono una metafora. Un dente, colpevolmente sottratto alla bocca, contro un dente cavato al responsabile del gesto, un occhio contro un occhio. Ma poi ci si ferma lì, non vale – va contro il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe – prendersi anche l'altro occhio, e spesso non basta ancora. Quando non arginata, la vendetta reclama gli occhi anche dei fratelli, dei cugini, più occhi sono e meglio è. Ci vorrebbe una libellula che da sola ne possiede 28.000.

Le cinquecento vittime dell'ospedale palestinese, che venga o meno confermata la responsabilità israeliana nel bombardamento, confermeranno allora anche il sospetto da cui siamo partiti: questa non è una guerra ma una vendetta, nella quale manca la proporzionalità biblica tra danno e compenso, limitandone il numero alla sua equivalenza. E poco importa se, verosimilmente, sia stato un errore balistico da parte di uno dei due contendenti; quando si spara nel mucchio il peggio deve essere messo in conto, la collateralità ha bisogno di un fine per giustificare il proprio mezzo.

In alte parole e tralasciando l'intrico di torti e ragioni, spesso paradossali, che ci rende difficile pronunciare una parola ultima di verità sulla genesi storica del conflitto, ciò che fa difetto sia ad Hamas sia a Israele è una strategia militare. È un fatto che, nella circostanza, l'aggredito possiede il diritto e perfino il dovere di difendere il proprio popolo, il più vile degli attacchi è stato subito. La forma della reazione rischia però di convertire per l'ennesima volta una ragione in un torto; il solito vecchio gioco – al massacro  che si verifica quando due vendette non confinate dalla legge del taglione si incrociano, andando a innescare una faida. Con il particolare che le faide, per definizione, tendono a non finire mai.

domenica 15 ottobre 2023

Occhio per occhio dente per dente

Massimo Diana, psicoanalista junghiano dagli ampi e approfonditi studi anche in campo religioso, sostiene che la legge del taglione è in realtà molto meno cruenta di come appare, e addirittura possiede un'importante funzione civile condensata nel motto occhio per occhio dente per dente.

C'è un'attualità inquietante in questa temibile formula, la sua prima apparizione la ritroviamo nel Codice di Hammurabi e quindi nella Bibbia ebraica, capitolo XXI di Esodo. Ma perché, nella sua proporzionalità bestiale, andrebbe rivalutata, utilizzandola come meditazione laica in questa domenica di guerra, anzi di guerre? (Non scordiamoci di quella in Ucraina, e dei molti focolai africani).

Secondo Massimo Diana, la radice psichica della specie a cui, con poco orgoglio, apparteniamo non è cambiata molto nei secoli; il cervello limbico sintetizza emozioni simili a quelle provate dagli eroi omerici che si contendevano una donna davanti alle alte mura di Troia, dietro alle lucenti corazze il cuore indurito nello sforzo di prevalere, sopraffare il nemico. Perciò, per ogni dente caduto in battaglia, non ci si accontentava del molare di chi aveva procurato il danno: come minimo tutti i suoi denti, trentadue, e due occhi se ne avevi perso uno dovendolo ricoprire al modo di Olivier Levasseu, pirata che lanciò la moda della fettuccina nera tra i bambini a Carnevale, e di Moshe Dayan, il generale al comando delle forze israeliane durante la guerra dei sei giorni e poi in quella del Kippur.

Alla matematica incrementale dell'odio la legge del taglione prova a mettere un limite: va bene, prenditi pure ciò che ti spetta, oltre ai grappoli succosi della vigna e i bei caprioli nei boschi, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe deve avere creato anche il sentimento tormentoso della vendetta, a cui è lecito (non obbligatorio) corrispondere. Ma che il dente sia uno, se un dente è stato cavato; fatto salvo i poveri dentisti che già allora erano esonerati dal computo. E in fondo anche Cristo invita a porgere l'altra guancia, non l'altro occhio.

Ma il guerriero acheo che ancora fa tana dentro di noi non si accontenta, la sua rabbia, la sua passione liberata da ogni altra legge reclama centinaia di occhi, migliaia di denti. Una storia che tristemente si ripete: per ogni tedesco morto dieci italiani, a qualcuno stanno fischiando le orecchie? Storia ma anche cronaca, basta sintonizzarsi su un telegiornale a caso e ascoltare le reazioni agli attentati contro il popolo del Libro: vittima certamente, nessuno sconto ai responsabili di un'azione tanto vile e sciagurataà la guerre comme à la guerre. Perciò ha diritto alla sua vendetta proporzionale, che, eufemisticamente, ci ostiniamo a chiamare giustizia.

I denti con cui i terroristi di Hamas azzannano un panino raffermo dopo la mattanza, gli occhi spalancati come finestre sui gerani rossi del sangue dei propri crimini, contemplati con il compiacimento della vecchina che li annaffia ogni giorno, a renderli doppiamente colpevoli, quegli occhi e quei denti appartengono a Israele, sarebbe ipocrita prima ancora che ingenuo negarlo. Ma non uno di più, occhio per occhio dente per dente. Mentre nella striscia di Gaza siamo già a oltre duemila morti, perlopiù civili: donne, vecchi, bambini. Che, in occhi, fanno quattromila, sessantaquattromila denti. Per buona parte innocenti.

Come possedevano occhi e denti innocenti i bambini israeliani decapitati nei kibbutz, o i ragazzi falciati durante le danze al rave party nel deserto. Solo che quella che, altrettanto eufemisticamente, viene chiamata ritorsione, ha già raddoppiato il numero del suo tragico compenso in vite umane, e verosimilmente non si arresterà fino a quando il moltiplicatore di potenza non raggiungerà quei rapporti altamente squilibrati paventati dalla Bibbia, a cui la legge del taglione prova a dire basta, stop, fermi tutti – finiamola qui!

Se ne ricava che, oltre a essere criminale, la scomposta azione militare di Israele è anche blasfema.

giovedì 12 ottobre 2023

Letteratura e piadina romagnola, o sul dilagare del midcult

"La letteratura è il luogo in cui viene detto ciò che di solito la gente non dice: perché è inopportuno, o spaventoso, perché rischierebbe di esser giudicata. La letteratura dà voce all’illecito, all’inconcepibile – o non è."

Leggo le parole del virgolettato sul supplemento di uno dei maggiori quotidiani nazionali. Le ha scritte, quale incipit del suo intervento, Rosella Postorino, indicata per favorita all'ultima edizione del Premio Strega, poi perso per un soffio. Accidenti, penso proseguendo nella lettura, questa è una che non le manda a dire: chiama pane il pane e vino il vino!

Eppure, quasi per capriccio, mi viene l'idea di collaudare il suo pensiero; un buon modo consiste nel sostituire l'oggetto, per poi vedere, seguendo l'esempio di Jannacci, di nascosto l'effetto che fa. Invece della letteratura potrebbe diventare, che so... la piadina romagnola. Vediamo come diventerebbe a questo modo la frase.

La piadina romagnola è il luogo in cui viene detto ciò che di solito la gente non dice: perché è inopportuno, o spaventoso, perché rischierebbe di esser giudicata. La piadina romagnola dà voce all’illecito, all’inconcepibile – o non è.

Ha senso la nuova versione?

A me pare proprio di sì. La gente infatti di norma non dice, perché non conosce, l'esatta proporzione di farina 00, strutto, acqua tiepida, sale fino e bicarbonato per produrre l'impasto della piadina. E tace anche sull'inconcepibile (fosse per me, sarebbe anche illecito) degli allevamenti dove i maiali vengono tenuti in minuscole gabbie; per non dire della barbarie con cui i contadini li appendono, ancora vivi, a un gancio; quindi gli tagliano la giugulare lasciandoli dissanguare strillando – io da bambino li ho uditi, ed erano proprio strilli e non grugniti. Infine eccolo: il prosciutto di Parma, con cui farcire la piadina romagnola.

Oppure l'oggetto potrebbe diventare la stenografia. Chi ne parla più di stenografia? Nominandola si rischierebbe di essere giudicati quantomeno eccentrici; di certo inopportuni a un party mondano, od ospiti a un talk show televisivo. In tal caso l'illecito coinciderebbe con la fuoriuscita da quel regime discorsivo che Heidegger sintetizza nell'espressione "si dice".

Tra tutte le possibili versioni della frase da cui siamo partiti  non c'è che l'imbarazzo della scelta , la più strampalata mi sembra così proprio l'originale. Non c'è infatti giorno in cui uno scrittore, specie italiano, non si sporga su uno spazio collettivo per spiegare cosa la letteratura è e soprattutto non è, restituendo una definizione perlopiù veritiera: è vero, la letteratura, molto spesso, riversa sulla pagina ciò che di norma viene spazzato sotto al tappeto.

Problema risolto dunque, con una formula operativa, una ricetta, come per la piadina, a cui basta attenersi? 

Purtroppo no. La letteratura è un piatto che va reinventato ogni volta, essendo questo e quello, regola ed eccezione. Si ricava ad esempio che Tre uomini in barca, capolavoro di arguzia e umorismo scritto nel 1889 da Jerome K. Jerome, per l'autrice del testo pubblicato, ripeto, sul supplemento di uno tra i più importanti quotidiani nazionali (lo stesso su cui Pasolini firmava i suoi corsivi negli anni Settanta), per lei non sarebbe letteratura, in quanto non viene data voce all'illecito e all'inconcepibile. Oppure, per la medesima ragione, vanno espunti dal perimetro della "vera" arte narrativa tutti quei romanzi che da una grigia quotidianità sanno trarre un'epica sommessa, come Stoner di John Williams.

Intendiamoci, è una tentazione che prima o poi viene a tutti, è venuta pure a me: infilzare con uno spillone un concetto su cui l'umanità si dibatte da anni; stilando elenchi, precetti, liste di proscrizione. Da cui ciò che infine lumeggia, più che la sagoma del bambolotto voodoo, il suo esatto perimetro che si vuole colpire e definitivamente affondare, è quella dell'intelligenza di chi scrive, o perlomeno la sua caricatura nella forma del midcult – secondo Dwight Macdonald, che ne coniò il termine, corrisponde all'emulazione semplificata di un modello alto.

Un esempio di midcult? Basta leggere come procede il testo citato:

"Gli scrittori scendono all’inferno al posto degli altri esseri umani, e trovano una forma per raccontarlo. C’è la sopravvivenza in gioco, a ogni libro, e se a qualcuno pare enfatico è perché di letteratura sa poco."

Ora, per piacere, scrittrici e scrittori, scrivete libri (possibilmente buoni) e scrivete anche sui supplementi dei quotidiani, almeno se vi pagano – si deve pur campare. Ma nel secondo caso: scrivete di piadina romagnola, stenografia, aquiloni, effetto del global warming sugli igloo del popolo inuit. Scrivete di quello che vi pare. Non però di letteratura e di inferni, sopravvivenza in gioco e altre simili sciocchezze, stigmatizzando in via anticipata il dissenso quale forma di ignoranza (chi non è d’accordo con me di letteratura sa poco).

Di letteratura lasciate piuttosto scrivere ai critici, ne sono rimasti pochi in circolazione – anche perché tutto lo spazio scrivibile viene offerto agli scrittori, come i cuochi si sono presi sia i fornelli sia il giudizio sulle pietanze – ma rimane il loro lavoro e non il  vostro, la vostra tazza di tè. Afferrandola con mani troppo sicure rischiate di sbrodolarvi addosso la preziosa bevanda, muovendo al riso il lettore. Che non è esattamente quella discesa agli inferi per la sopravvivenza che Postorino offre quale eucarestia: prendete e leggetemi tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.


lunedì 9 ottobre 2023

Lo stemma

Le immagini del rave israeliano interrotto dai terroristi di Hamas, aquile piombate dall'alto su un gregge inerme di agnelli, stanno a questa generazione come il crollo delle Torri Gemelle sta alla generazione precedente: il segno icastico di un tempo storico che riassume senza bisogno di parole, il suo semplice mostrarsi le supera in eloquenza.

Anche lo scontro tra polizia e manifestanti, avvenuto il primo marzo del 1968 a Valle Giulia, trovò sintesi per figure. Tra i tanti scatti fotografici che lo ritraggono, quello di un giovane (ma già enorme) Giuliano Ferrara mentre fugge dalle cariche degli altrettanto giovani poliziotti della Celere, che in buona parte provenivano da un Meridione ancora arcaico e sottosviluppato.

Proprio su tale aspetto sociologico – borghesi contro sottoproletari – si focalizzò Pier Paolo Pasolini scrivendone sulle colonne del Corriere della Sera; non fu il consueto editoriale di affilata analisi, ma una poesia giustamente passata alla Storia. In uno dei versi iniziali possiamo leggere: "Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. /Siete paurosi, incerti, disperati / (benissimo) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori e sicuri..."

Ho così provato a ricercare su YouTube il video che riprende la mattanza al rave party; l'idea era di confrontare le due scene, verificare se esistessero delle analogie. La sequenza si riduce a un paio di minuti: è giorno, è mattino, qualche intruglio di vodka e caffeina sorregge le gambe che non smettono di ballare dalla sera avanti; la musica realizza alla perfezione il suo scopo di induttore estatico, scuote il corpo e depensa la mente. Benvenuto Dioniso!

Chi filma si accorge di qualcosa di strano, piccoli puntini in un cielo pallido, che siano UFO... avrà pensato osservando i deltaplani a cui stanno avvinghiati i tagliagole, e su di essi indugia. Quindi uno stacco a cui segue il fuggi fuggi generale, le grida e gli spari. Facciamo appena a tempo a intravedere una ragazza correre davanti all'obiettivo.

Eppure, in tutti i servizi è la sua immagine che viene riprodotta, congelandone la falcata come nel fotofinish di una gara di atletica. Le gambe sono lunghe e snelle, sgusciano da shorts color panna sormontati da un corpetto di pelle nero che lascia il ventre scoperto, un indumento dalla forma imprecisata svolazza sulle spalle; forse è un foulard rosso, come quello che ricopre l'uomo anziano con la barba sulla Zattera della Medusa; o forse, semplicemente, si tratta di un giubbino corto, alla moda.

La stessa scena di Valle Giulia, sì. Uguale uguale. I figli del popolo che inseguono i figli di papà, se non fosse una tragedia lo diremmo un gioco, guardie e ladri. Ma dov'è la prepotenza ricattatoria, l'occhio cattivo di cui parla Pasolini? In quelli, leggermente bistrati, della ragazza, si intravede solo paura, sorpresa, istinto di sopravvivenza.

È la forza dei simboli: scardinano i nessi logici, mandano in cortocircuito la pigrizia del si dice, si fa, si manifesta in corteo per una parte giusta per definizione; poco importa che ci si annodi al collo la kefiah o si sventoli una bandierina con l'effige della stella a sei punte. È vero, le politiche del governo israeliano sono state negli ultimi decenni violente e prevaricatrici. È vero, la sofferenza prolungata produce gesti ottusi e controproducenti, nel caso attuale crimini. È vero, l'Iran (o altri burattinai nell'ombra) hanno colpevolmente soffiato su questa brace, fino a farla divampare.

Ma nella ragazza senza nome del filmato, la ragazza bionda (i capelli sono raccolti in uno chignon che la rende più simile a un'étoile che a una baccante), tutto ciò equivale alla temperatura di Potenza nei bollettini radiofonici degli anni Settanta, per definizione non pervenuta. Mentre ciò che perviene è il grado zero dell'umano, in cui si passa da un'alba chiassosa e spensierata tra le dune del deserto, alba perfino kitsch, se è lecito accostare con delicatezza l'aggettivo a una vita senza altro intento che viversi, si trapassa all'oscurità senza transitare da enti di ragione.

Ed è in questa transizione irragionevole della luce che la ragazza si offre quale stemma tragico del nostro tempo.