venerdì 23 settembre 2011

Omnia munda mundis, o sull’equivoco della purezza


Tutto è puri per i puri, scrive Paolo di Tarso nella lettera a Tito. Ma cos’è la purezza?

Probabilmente, già in epoca precristiana, con questo termine ci si riferiva all’assenza di filtri intellettuali, emotivi, insomma di una complessa grammatica interiore che faccia da discrimine, e quindi anche da scudo, tra il soggetto e ciò con cui entra in relazione. Il puro ha per così dire un’esperienza immediata delle cose, che al suo meglio produce empatia e dedizione, spirito di comunità. Ma è proprio in conseguenza di un’attitudine fiduciosa ed esposta al mondo che il puro è anche più facilmente influenzabile dall’esterno.

La purezza, da un punto di vista linguistico, corrisponde infatti a pulizia e a “nettezza” del carattere. Eppure è proprio in questo tratto appartenente all’orizzonte semantico dell’igiene che si scorge il potenziale limite del termine: solo chi è pulito può realmente e definitivamente sporcarsi, solo chi è netto può diventare lordo. Gli altri, tutt’al più, sono impolverati e grigi.

In un grigiore diffuso, un’esposizione prolungata al lerciume non ha così l'effetto di uno stigma battesimale, ma tutt'al più induce a lavarsi le mani molte volte, per poi sporcarsi fatalmente di nuovo. O almeno, questa è la reazione che provoca l'ambiente sui lambiccati ed i pensosi, i quali hanno sviluppato una confidenza critica con la sporcizia. Che essi sono però in grado di riconoscere ed eventualmente emendare, anche solo temporaneamente e parzialmente.

E’ dunque e principalmente un’anima pura, un cuore candido, ad essere contaminato e infettato da un ambiente sociale tendente alla lordura. Che il puro non è diversamente in grado di riconoscere e contrastare proprio perché affetto da purezza, da disposizione fiduciosa verso l'altro o, più spesso, verso una comunità di persone di cui si fida per abitudine o istinto, al punto da scavallare il perimetro sospettoso tracciato dalla ragione. E con tutta evidenza, questa è la condizione del tempo attuale.

Conviene allora diffidare delle persone pure, donne e uomini che si descrivono come solari e senza sovrastrutture di pensiero, in un diffuso disprezzo di chi si ostina in forme di anacronismo critico verso l’esistente, che loro chiamano senza distinzione intellettuali. Mentre i puri, con la loro programmatica rinuncia a un’autonomia emotiva, prima ancora che cognitiva, sono la manodopera ideale di ogni élite politica subdolamente totalitaria, che con una mano raccoglie una buccia di banana e con l’altra distribuisce scorie tossiche in lunga processione di container.

E poi come erano pure, empatiche, certe amorevoli missive dal fronte dei militari delle SS. Quando si preoccupavano della carie dentale dei figli – biondi e puri come lo erano loro –, prima di abbandonarsi a minuziose descrizioni delle torture inferte ai prigionieri.

Certo, in un tempo e in una società più decenti di questa, correndo incontro alla vita con fiducia i puri non si macchiavano, e al contrario risplendevano come fiaccole nella notte. Ma è proprio per tale disposizione indiscriminata ad accogliere la vita che, oggi, e per primi, i puri sono stati inghiottiti dalla stessa notte che vorrebbero illuminare. Si chiama legge dello specchio e ci mostra come il pelo del leopardo sappia adattarsi alla savana, e l’uomo ai peggiori orrori di natura.

Credo sia proprio questa l'intuizione più acuta dell'ultimo Pasolini, quando abiurò dalla Trilogia della vita. Ma il suo pensiero era già contenuto in nuce nel breve cortometraggio La sequenza del fiore di carta. In quelle immagini concentrate assistiamo a una spensierata passeggiata di Ninetto Davoli, il più puro tra i puri, per le vie di una indefinita città moderna, accompagnato da una colonna sonora costituita dalle drammatiche notizie radiofoniche del presente. Ma chi se importa, chi se frega di quei lutti e di qui conflitti, sembra dirci il volto sorridente e candido di Ninetto, che saltella con un enorme fiore di carta rosso stretto nel pugno. Lui non ha colpa, è vero. Lui è puro.

Ma ugualmente, si abbatte infine una saetta sulla sua testa riccioluta, scagliata da quel deus ex machina che è il regista. Il film si chiude con Ninetto riverso al suolo privo di vita, con la mano ora dischiusa accanto allo stelo del suo enorme fiore rosso, evidente metafora di purezza interiore. E ciò ad ammonirci che in un mondo violento e malato, siamo, seppure in forme e gradi differenti, tutti complici e responsabili. O meglio ancora, siamo “colpevoli” di quell’antica colpa teologica chiamata omissione.

Ma nonostante il film fosse ispirato a un enigmatico episodio dei Vangeli, forse è il caso di retrocedere ulteriormente nel reperire eventuali riferimenti religiosi nella pellicola. In cui Pasolini, dopo un’evidente sintonia estetico-morale proprio con il cristianesimo di eredità paolina, sembra qui riaccordarsi con la tradizione tragica. La colpa e il peccato di Ninetto non corrispondono infatti a un’intenzione a compiere il male, e da una punto di vista cattolico sarebbe dunque già assolto. Eppure, per Pasolini, questa in-coscienza e non-intenzionalità rappresentano un’aggravante.

La colpa è dunque quella pagana dei padri, che ricade osmoticamente sui figli. Ma soprattutto sono le colpe dei figli senza colpa, che in un’epoca in cui occorre fare invece barriera, assumersi responsabilità, contestualizzare e quindi resistere alle forme diffuse e dominanti di immondizia politica e culturale, si sono arresi al mondo per un eccesso di purezza, di candore. Ed è per questo che anche io, con Pasolini, affermo che i puri sono miei nemici. E che la complessità è un atteggiamento molto più conforme a questo mondo impuro.

mercoledì 14 settembre 2011

Asprealina, o sul perché la realtà è reale ma non necessariamente vera


Leggendo l'affettuoso e lambiccato tira e mola verbale tra Gianni Vattimo Maurizio Ferraris sullo statuto filosofico del reale – esiste la realtà oppure è tutto, come voleva Nietzsche, interpretazione? – mi è venuta in mente una cosa magari anche un po’ scema. L’Aspirina.

L’Aspirina, sì.

Uno l’acquista, apre la confezione, legge le indicazioni su quel foglietto che chissà perché chiamano bugiardino (io un’idea ce l’avrei, ma lasciamo andare…), dove viene spiegato che l’Aspirina serve ad alleviare i sintomi del raffreddore, oppure per i dolori muscolari, come antipiretico e insomma funziona un po’ per questo un po’ quello. Funziona.

Poi, però, il nostro acquirente legge ancora più avanti e spesso anche più in piccolo, e decide di lasciar perdere e bersi un bel bicchierone di latte caldo con il miele. Siamo infatti arrivati alle precauzioni.

Ma che cosa sono, concretamente, le precauzioni?

A ben vedere le precauzioni non si preoccupano realmente di te, ma del signor Bayer che primo a battezzato quel semplice e geniale intruglio a base di acido acetilsalicilico. E infatti il tempo verbale con cui vengono coniugate le precauzioni, o più comunemente dette avvertenze, è il condizionale, a suggerire che ciò che qui compare non va certo preso alla lettera.

Effetti indesiderati: secchezza delle fauci; cefalea; disturbi dell'accomodazione: tachicardia; ulcera gastrica; narcolessia; emipistosi; trombolemmia; sfiatofonia... E potremmo continuare all'infinito, o almeno fino a supercapsula prematurata con scappellamento a destra come se fosse antani.

Chiamiamolo allora e semplicemente "il coccolone", come facevano i nostri nonni.

Già che lo sapevano anche i nostri nonni che non è vero – ma, attenzione, non è nemmeno falso – che se dopo un paio di starnuti prendi un'Aspirina poi ti viene il coccolone. Anzi, normalmente è vero il contrario. E cioè che l’Aspirina allevia i sintomi del raffreddore, i dolori muscolari e tutte quelle cose che ci stavano scritte prima, quando i caratteri erano più grandi, impavidi e sentenziosi.

La "verità" di un farmaco (il suo quid ontologico, direbbe un filosofo) sta dunque tutto in quella parolina: normalmente. Normalmente l’Aspirina ti fa bene, ma, insomma, vedi un po' tu: noi ti diciamo pure che eccezionalmente può farti male, e così ci pariamo il culo.

O detta altrimenti, l'effetto di una sostanza chimica sulla varietà biologica umana, non ha né può avere una fondazione stabile ed incontrovertibile, come ad esempio può assicurare un esperimento di meccanica replicabile nel tempo, nella diversità dei luoghi ma alle medesime condizioni. Per quanto venga chiamata scientifica, quella farmacologica non è quindi una verità certa, assicurata dall'esperienza o dal suo riflesso nella teoria.

Eppure, la maggior parte di noi sembra non farsi troppi problemi epistemologici, e ai primi sintomi di raffreddore discioglie in un bicchier d'acqua una pastiglia sfrigolante d'Aspirina. E ciò non perché l'umanità sia regredita allo stadio del pensiero magico, ma perché è ragionevolmente prevedibile che i propri sintomi ne abbiano sollievo, e che non ti venga il coccolone.

Per la chimica farmacologica la verità nasce dunque dal confronto tra un numero significativo di eventi casuali, che tendono a riproporsi seguendo un certo schema di probabilità, sul quale poi la statistica stabilisce dove mettere l’asticella: oltre una certa misura un effetto può essere ritenuto vero, sotto quella soglia invece possiamo tranquillamente valutarlo come falso, o tutt’al più come gentile elargizione di quell’altro e misterioso laboratorio chimico chiamato effetto Placebo.

Bene, a me non sembra tanto complicato. L’Aspirina in fondo funziona, da un punto di vista probabilistico è da ritenersi senza dubbio "vera", anche se io preferisco il termine reale. La realtà cade infatti sotto il dominio semantico dell'esperienza, mediata e compromessa a partire dei suoi presupposti fisico-quantistici, da quasi un secolo formalizzati nel principio di indeterminazione di Heisenberg, con il proprio osservatore. Ma già Kant e la tradizione filosofica continentale avevano intuito qualcosa di "costruito", o meglio ancora di umanamente partecipato, nella forma assunta dalla realtà attraverso i sensi che l'esperiscono.

Mentre la Verità, anche quando risistemata con l'abito arlecchinesco della statistica o della nuova fisica relazionale, risente ancora dell'imprimatur logico della certezza sillogistica e dell'eredità dello scetticismo filosofico, che come abbiamo visto sfuggono a quella roulette truccata costituita da ogni singolo e concreto evento. Ma in fondo è come ribadire, platonicamente, che quelle che scorgiamo nella caverna non sono le Idee, piuttosto la loro ombra impigliata in infinite e umane influenze.

Quindi, filosoficamente, ma anche nell'incognita variabilità dei casi: o la va o la spacca... E' sempre così, prima di ingollare un farmaco. Non c'è niente di vero.

Non è vero che un farmaco ti fa guarire, ma non è vero neppure che ti fa venire il coccolone. Si tratta sempre e solo di verosimiglianze. Ma è grazie anche alla verosimiglianza dell'Aspirina se la vita media è aumentata un po’ da tutte le parti, o almeno dove viene usata al posto dello sterco d’asina mescolato alle code di lucertola. Poi, però, ogni tanto, qualcuno si prende un'Aspirina così come un bambino prende distrattamente una lucertola per la coda, e insieme all’Aspirina gli viene il coccolone.

La chiamano sfiga, ma in effetti è l’altra faccia, o meglio l’ultima, quella piccina, di quel diadema unico ma infinitamente sfaccettato che è la Verità, e che ogni tanto riesce a scavarsi un varco e a raggiungere le sue più numerose consorelle, che hanno libero corso dentro la polimorfica e frantumata realtà della caverna. E ciò forse proprio perché c'è qualcosa come un accordo sul valore da assegnare a ogni singola ombra, cioè ancora sulla verità, questa volta però scritta con l'iniziale minuscola. Che è per l'appunto l'opzione filosofica postmoderna, qui sostenuta da Gianni Vattimo:

La verità umana è una interpretazione tra la tante, ma diversamente dalle altre è funzionale alla stabilizzazione delle strutture (simboliche, giuridiche, religiose ed economiche) del Potere.

L'interpretazione postmoderna però trascura, a mio giudizio, il fatto che per quanto non ci siano verità più vere di altre - dunque nemmeno la postmoderna -, esistono quelle verità verosimili a cui già abbiamo accennato, e cioè più frequenti o dove l'accordo umano è maggiormente solido e tenace. E questo non necessariamente per motivazioni connesse al dominio e alla volontà di potenza, ma per qualche "callosità" nell'oscillazione ideale dell'ombra, chiamiamola così, in quei punti più resistente agli assalti di una psiche onirica e desiderante.

Ed è allora proprio su quei punti di resistenza che guadagna spazio la ragione. La quale, sulla scorta di un minimo appiglio di realtà, può divenire concertante, ossia realmente e compiutamente democratica.

Del funzionamento dell'Aspirina bisogna infatti prenderne semplicemente atto, non c'è nulla da concertare. Ma il suo modello probabilistico - Ferraris lo chiama "realismo modesto", che è un po' come la sorpresa nell'uovo di Pasqua: qualcosa c'è, ma non sai esattamente cosa... - il suo modello può fornire la base proprio alla concertazione politica, prima ancora che filosofica, non so se mi spiego.

Ad esempio uno si alza una mattina e afferma: "Vi offro un milione di posti di lavoro". Così che gli altri, dopo essersi presi un'Aspirina per alleviare i sintomi delle risate, sono nelle condizioni di rispondergli: " Ok, spiegami quante probabilità hai di farlo, e in che modo e al prezzo di quanti coccoloni." Ma soprattutto, dopo aver rotto l'uovo la mattina di Pasqua, sono in grado di intimargli: "Questa non è la sorpresa che ci avevi promesso, dove è il milione di posti di lavoro che doveva starci dentro? Adesso o ci cambi l'uovo o te ne vai!"

Come si può vedere, non sempre il realismo (specie quello modesto) è funzionale alle logiche conservative del Potere.

Ricapitolando. Per il signor Bayer e per i suoi fortunati eredi, la loro candida e miracolosa pasticchetta non è concettualmente superiore allo sterco d'asina mescolato con code di lucertola. Ma funziona. E' il principio della techné, spesso aborrito proprio da certa filosofia novecentesca, che però avrebbe qui occasione per riappropriarsene in un senso democratico e costruttivo. Infatti, se è più probabile che prendendo l'Aspirina ti passi il raffreddore, sarà allora anche più probabile che una proposta politica argomentata con gli stessi criteri di persuasività pragmatica, abbia successo sull'ingannevole millanteria.

La concertazione democratica nasce infatti da un confronto tra interpretazioni alternative, spesso è una danza di ombre, questo è risaputo. Ma ciò che distingue il confronto dallo scontro è proprio quell'elemento discriminate che sta alla base del giudizio, e che leva all'ombra non la sua natura fantasmatica - desiderio e paura, in sintesi - ma di impermeabilità paradossale. Fissandola quindi a una sorta di coerenza formale: queste sono la tua forma e le tue parole, e adesso ne verifichiamo le corrispondenze, gli effetti, se non assoluti almeno più comuni. E dunque, superando qualche imbarazzo filologico, possiamo senz'altro e perfino con orgoglio chiamare tale fissazione realtà.

Sì, un po' più di realtà sarebbe forse l'unico antidoto a questo diffuso reificarsi dei sogni, degli altri, in incubi nostri.

Ammesso che ci si ricordi che un'ombra resta un'ombra, e che una cosa reale non è perciò stesso vera, né tanto meno "più vera" di una così improbabile da non essersi ancora verificata. E allora, se proprio Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris hanno deciso di dare un nome filosofico a questa cosa qui, io gli propongo di chiamarla ontologia farmacologica. O più semplicemente e comunemente: Asprealina.

martedì 13 settembre 2011

"Vertigine pop", o sul disprezzo cinefilo


"Vertigine pop: Tsui Hark gira un wuxia storico con derive fantasy, che si sviluppa secondo una detection classica, da whodunit dei tempi che furono, percorso da dialoghi screwball, venato di melò, infarcito, sino alla nausea, di CGI..."

Queste sono le prime tre righe di una recensione al film Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma, scritte da Giulio Sangiorgio per gli Spietati. Sia Sangiorgio sia gli Spietati, un ottimo sito web di approfondimento cinematografico, va tutta la mia stima. Eppure, per quanto io possa presupporre un'intenzionalità mimetica della recensione con il suo oggetto, alla quarta riga ho interrotto la lettura, e mi sono fatto una semplice domanda: perché le persone che scrivono di cinema, anche quelle brave, intelligenti, perché devono farlo con un esoterico linguaggio da casta sapienziale, o da supponenti medici della mutua – wuxia; fantasy; detection; whodunit; melò, screwball; CGI... –, come chi cammini per strada con un termometro ficcato nel buco del culo?

giovedì 8 settembre 2011

Diventa bella!, o sul disprezzo estetico verso le mie coetanee


Il problema delle donne è che, fino a trent’anni, to’ fai anche trentacinque, trentasette, fino a quell’età non lo sai ancora se sono belle oppure fighe. Quando sono brutte lo vedi subito che son brutte, ma l’urgenza vitale ed erotica della gioventù chiamiamola “fighezza”, dai, non facciamo gli schizzinosi ha questa naturale attitudine a travestirsi da bellezza.

E così, oggi, apro il sito on-line di Repubblica, e ci trovo un videoclip di un gruppo musicale dal nome che è tutto un programma - The Vaccines, giuro, si chiamano proprio così! Tra loro anche la modella e stilista britannica Kate Moss, che conclude il filmato con l’accenno di un breve strip.

La ricordiamo tutti, vero, Kate Moss?

Secondo alcuni era l’aspirapolvere più bello del mondo. Ad esempio quando, insieme al fidanzato Pete Doherty, riusciva ogni volta a farsi beccare dai Paparazzi: sembravano bambini chinati a giocare sulla spiaggia, a dar forma alla pista in cui far correre le biglie con il volto stampato dei ciclisti. Solo che le piste, al posto che di sabbia, erano lunghe e candide di cocaina, e dei ciclisti era rimasta ormai solo l'orma metallica delle cyclette, su cui le donne di mezza età sgambettano e sudano per rassodare il culo. Inserisco il suo nome su Wikipedia, e scopro che Kate Moss è nata il 16 gennaio 1974. Tra quattro mesi compirà trentotto anni.

L’età è dunque quella, il tempo in cui si scopre se sei bella o eri semplicemente figa, indipendentemente da quanta cyclette tu possa fare. Ma nel suo caso, la totale assenza di bellezza è addirittura lampante: una racchia, un cesso, si è trasformata in una streghetta tutte moine e ancheggiamenti, che sembra essere appena stata sputata fuori dal tostapane della storia. E non ha ancora compiuto trentotto anni, dico, trentotto…

Come è spietata la natura, davvero. E come sono tristi certe donne, troppe donne, le quali non hanno ancora inteso la differenza tra essere belle ed avere una fica. Brigitte Bardot, mettiamo. A vent’anni Brigitte Bardot era totalmente e definitivamente e irrimediabilmente figa. Era cioè tutta compresa in ciò che il privilegio del caso le aveva offerto: un corpo acerbo e perfetto, all'origine dei capricci che quello stesso corpo le concedeva in abbondanza, come un animaletto viziato. Era insomma il riflesso del suo possesso.

Poi, a quaranta e cinquant’anni, Brigitte Bardot ha saputo inventarsi una bellezza che prima non possedeva, trascendendo l'identificazione con il puro dato biologico. Invece di continuare a fare la figa a Saint-Tropez , scavallato quel discrimine temporale ha cominciato ad imboccare i cagnolini abbandonati, o a far casino contro l’orrenda macelleria delle foche da pelliccia. Tutto ciò nel più completo disinteresse alle rughe che fiorivano di giorno in giorno sul suo viso, e per le subentrate imperfezioni di quel corpo che tanto bene l’aveva servita in gioventù.

Certo, ora possiamo anche farci dell’ironia, ridere di queste sue agnizioni tardive e vagamente naif. Ma la consapevolezza animalista rimane uno dei traguardi più alti dello spirito umano, in cui si mostra la facoltà che davvero potrebbe qualificarci: un’empatia che travalica non solo gli angusti confini del nostro corpo, ma della specie intera, quel rissoso macro clan che è l’Homo sapiens sapiens. E che per definizione se ne fotte di tutti gli altri animali, i quali come lui vivono, respirano e sbranano su questa terra. Ma anche soffrono.

Purtroppo io ritrovo invece un sacco di donne che, a quaranta o cinquant’anni suonati, si comportano come Brigitte Bardot quando ne aveva venti, e se ne stava con le chiappe al sole ad aspettare che Gigi Rizzi tornasse dallo sci d'acqua. Donne che pensano che a quell'età si possa ancora essere fighe, o meglio avere nel proprio sfiorito e minuscolo possedimento la sineddoche di tutto quel che non sono, così perdendo ogni possibile residuo di bellezza. Il triste spogliarello di Kate Moss con i Vaccines diventa allora l’emblema di questo nuovo e nutrito comparto umano: fiche disseccate, possiamo chiamarle così.

Forse un tempo siete state anche fighe, d’accordo, la fica vi germogliava nel vento e nel sole e negli spruzzi di un motoscafo, ma adesso avete mancato l’unica vera e fondamentale occasione che la vita ci offre: diventare belli, diventare qualcosa d'altro e più complesso di un effimero frutto di natura, perciò tendente a marcire in una breve stagione. Perché la bellezza, come l’identità, non è uno stato, una condizione esteriore affrancata dai gesti e dai pensieri, ma qualcosa che va guadagnata con sforzo e intenzione. Scriveva Friedrich Wilhelm Nietzsche: “Diventa ciò che sei!”

Ma diventa anche bella, aggiungiamo noi. Purtroppo, per farlo, per diventare la bellezza che ancora non si “è”, non è sufficiente trascorrere le giornate in palestra o dall’estetista, per avere nuovamente indietro ciò che si ha perduto. Piuttosto si deve schiudere qualcosa che non sono i bottoni di una camicetta by Kate Moss design, ma molto più sotto. E senza quella cosa lì, senza quel bottoncino interno e misterioso, su cui tocca lavorare con l’impavida sfacciataggine di Brigitte Bardot da vecchia, Brigitte Bardot da bella, siete solo delle povere e avvizzite carampane sulla cyclette.

mercoledì 7 settembre 2011

Il disprezzo, o sulla sopravvivenza in tempi oltraggiosi


Nei giorni scorsi, in questo spazio, ho pubblicato un post ulceroso e idiosincratico, nel quale terminavo rilanciando una delle figure più umanimamente biasimate: il disprezzo. Il discorso, volutamente, si limitava a un impeto emotivo confezionato nella trama di una esplicazione allusiva, che sarà certamente risultata indigesta a qualcuno. Un discorso "anti-patico", per così dire, e cioè tutto sbilanciato sul versante del patos, a danno della ragione. Provo dunque a precisare un poco meglio la mia idea.

Con disprezzo io intendo esprimere un atteggiamento di totale e definitiva contrapposizione (anti, appunto), che non culmina però in un congedo umano e sociale, proprio ad esempio dell’indifferenza. Attraverso il disprezzo c'è insomma ancora un certo margine di relazione, anche se non nella forma della dialettica sintetica ma della disputa frontale. E se ciò che si fronteggia sono ancora concetti ed idee (sul mondo, sulla vita), il terreno del conflitto si sposta da una razionalità dispiegata e puntuale dove abbiamo già fatto le nostre scelte a una emotività terrosa, un baricentro viscerale e reattivamente ferino.

Si usa dire che le cose vanno capite, prima che possano essere giudicate e infine condannate. Niente di più falso. Io sostengo infatti che il nostro tempo sconta un eccesso di comprensione intellettuale. Ma, a differenza di Marx, non penso che dopo essere stato compreso il mondo ora debba essere cambiato. Credo al contrario nei grandi cicli cosmici, e questo è con tutta evidenza un ciclo in cui l'onda deve ancora compiere la sua risacca. L'unica uscita è dunque quella laterale, sorta di 'arrocco scacchistico che ci porta alla rivalutazione anarchica della condanna dura e pura, senza speranza di emendare il guasto. Nel caso del tribunale psichico, ciò coincide quindi con la massima sanzione del disprezzo.

Sospetto dunque che sia proprio l'indifferenza, unita a una fredda comprensione razionale l'atteggiamento di chi si disponga a capire senza coinvolgimento emozionale, e ad assolvere nel nome della relatività delle opinioni e delle circostanze , quel che sta avviando il nostro Paese a una deriva tribale. Ma probabilmente l'analisi potrebbe essere estesa all'intera tarda modernità, che non ci vede ancora coinvolti in una guerra a tutto campo tra clan rivali (basta aspettare...), e assistiamo piuttosto un’esplosione centrifuga di schegge senza più alcun incastro. Il presente è questo puzzle di cui esistono solo i frammenti e la cornice, ma al netto del soggetto.

In quel passato prossimo che sono gli anni cinquanta, gli italiani, parlo ancora della Nazione che più conosco e massimamente patisco, sapevano invece ancora "disprezzarsi" l'uno con l'altro. Erano un paese reduce da una vera e sanguinosa guerra civile, dove si tirava da una parte o dall'altra la coperta troppo corta delle istituzioni, e di una visione generale e politica delle cose. Ma era forse proprio questa intima anti-patia civile, a renderlo il Paese vivo e forte che i nostri genitori hanno conosciuto.

Adesso, al contrario, in questo brodino conciliante ed ecumenico, è sempre più difficile recuperare qualcosa come un sentimento di comunità, non dico di identità ma perlomeno di relazione. Una relazione che, appunto, come anticipato, si dà ormai solo nella figura del disprezzo. Oltre che nella compassione umana fuori da ogni concetto e ideologia, come i contadini ucraini quando ci buttavano un cavolo o una patata lessa, prezioso tesoro per agli alpini italiani in scomposta ritirata.

Compassione e disprezzo, davvero non riesco più a vedere altro. Spazi per una complessa mediazione intellettuale non ce ne stanno più.
E allora o gli italiani recuperano il concetto alto e nobile di Nemico concetto che attiene alla dimensione spirituale pagana –, oppure riescono a rintracciare le proprie famigerate radici cristiane, che portano a realizzare nell'altro quel capolavoro di astrattezza antinaturale che è l'Altro evangelicamente inteso, umanandosi non più nel particolare ma nell'universalità di un'idea interamente esperita, più che concepita dall'intelletto. Atteggiamento che allontana però irrimediabilmente dalla cautela illuminista e laica. E ciò perché la temperatura della ragione è troppo tiepida e discriminatoria, e qui c'è bisogno di forti temperature per realizzare nuovamente la fusione.

Ma se il nostro è un Paese dove, più che in altri, ha saputo attecchire nel passato una certa disposizione compassionevole, se non proprio samaritana, siamo maldestri quando cerchiamo di crearci l'immagine fantasmatica di un nemico esterno. E questa è davvero la nostra più grande virtù. Per ravvivare l'energia polemica che rinsalda il senso di comunità (tutto viene da Polemos, sentenziava Eraclito), abbiamo dunque bisogno di recuperare la contesa locale tra i campanili, modernamente applicata alle nuove antropologie urbane.

Per questo io ho deciso che i miei nemici, che disprezzo con tutto il cuore, sono ad esempio i possessori di piccole idee, dei piccoli libri di Melissa Hill, e di piccole parole con contrappuntare vite piccine piccine ma non umili, come i pubblicitari che votano in massa il Pd. Ed è dunque anche contro i pubblicitari che io reclamo la smisuratezza, rivoglio la fantasia, quella vera, non la creatività.

In questo disprezzo e in questo livore io mi riscopro quindi e finalmente italiano, come nella compassione che è però una virtù troppo intima, troppo privata perché io riesca a scriverne mescolandola al becchime del web. E poi, comunque, la compassione è un sentimento tra uomo e uomo, mentre la grandezza e la forza del disprezzo stanno proprio nella sua urgenza categoriale: disprezzare tutti quelli con la Fred Perry con il colletto alzato, ad esempio, o tutti gli psicologi e per non dire le psicologhe, che vi assicuro sono ancora peggio. E ciò sapendo che l'andare a spanne è certamente rozzo e impreciso, quando la realtà sociale e civile è proprio questa rozza imprecisione: un fucile che spara a pallini e che produce una raggiera di significati, anche se spesso in provvisoria e vitale contraddizione.

Perciò, scrivevo, il disprezzo è la vera disposizione civile all'altezza del nostro tempo. Perché è democratico, orizzontale e sottilmente paradossale, come un film di Quentin Tarantino. Un sentimento davvero alla portata di tutti. Oltre che l'ultima chance per sentirci parte di qualcosa, ma soprattutto di qualcuno.

martedì 6 settembre 2011

Melissa Hill, o sul perché non mi rispecchio nei miei simili (anzi, nelle mie "similesse")


Eppure continuano a esserci persone che, potendo, è permesso, è lecito ed è perfino incoraggiato, potendo entrare in una libreria e chiedere l'ultimo libro che so di William Vollmann, o di Gianni Celati o di Patrick Modiano o di Vargas Llosa, ci sono delle persone, le ho viste io, che invece entrano in una libreria e chiedono l'ultimo libro che so di quello là con un drago in copertina, o di quell'altro, lo chiamano "il nuovo clamoroso caso editoriale dalla Svezia", o infine, per non sbagliare, facciamo il solito Camilleri, facciamo Umberto Eco o facciamo una certa Melissa Hill, che scopro adesso c'è questa Melissa Hill e scrive dei libri, pare li venda pure.

E così anche se non entri in libreria e dici buon giorno vorrei Melissa Hill, è il libraio stesso – buon giorno a lei – che ti accoglie prego, venga, non sa cosa leggere: le consiglio l'ultimo Camilleri (grande scrittore, per carità: ma dove è la curiosità, la fantasia?) o guardi qui appena sfornato un Umberto Eco croccante di giornata. Già letto, non c'è problema: che ne dice di un bel drago direttamente per lei dalla Svezia, o non mi dica che non conosce Melissa Hill? E non è vero che si deve diffidare delle persone che non leggono, perché le persone che non leggono, il più delle volte, è semplicemente che hanno altro da fare o da pensare, mica si svegliano alla mattina e dicono oggi NON leggo Le affinità elettive di Goethe, oppure NON leggo il Don Chisciotte di Cervantes, tiè, beccati questa.

Hanno i cazzi loro, intendo, e le mani occupate nelle faccende di tutti i giorni: vuoi dargli torto? Ma se hai il tempo e la voglia di leggere, dico, e poi ti rimpinzi di Melissa Hill... secondo me c'è da farsi delle domande: non su Melissa Hill, ma su uno che legge Melissa Hill invece di Richard Powers, di Milan Kundera, di Alice Munro o ancora meglio di farsi i sacrosanti cazzi propri, impastare le mani dentro alle faccende di tutti i giorni.

Che poi, in genere, non si tratta di uno, ma di una. Sono infatti le donne a leggere di preferenza i libri di Melissa Hill, anzi leggono in generale. Per questo, quando sento quei discorsi sulle donne che sarebbero superiori perché le donne leggono e gli uomini no, a me viene da pensare che le donne – un mucchio di donne almeno, le ho viste sempre io – le donne a furia di specchiarsi nelle parole di Melissa Hill, va a finire che le donne si convincono che quelle parole lì sono le loro, non quelle di Melissa Hilll; che ci sta pure il caso che scriva bene, non è questo il punto.

Il punto, infatti, è ancora lo specchio. E le parole. C'era un famoso psicanalista che, più o meno, semplifico, diceva che noi siamo il riflesso verbale del nostro mondo, e che quello specchio si chiama inconscio. Tanto che l'inconscio delle donne che leggono Melissa Hill, assume, piano piano, la sintassi e le cadenza della scrittura di Melissa Hill. Un po' come succede a Emma Bovary, che è la protagonista di un altro famoso romanzo, per quanto non l'ha scritto Melissa Hill e in copertina non ci sta alcun drago, manca il Killer seriale di bambini e arriva dalla Francia invece che dalla Svezia. Ah, è stato scritto nel 1856 da Gustave Flaubert.

C'è dunque questa Emma che legge dei libri, e poi si mette in testa che la sua vita è come quella dei libri che ha letto: vuole fare cose da libri, una vita da libri o meglio ancora è la sua anima, che poi è lo stesso dell'inconscio ma nell'Ottocento la chiamavano anima, tutto qui, si convince che la sua anima ha la faccia dei suoi libri. Solo che questo libro qui, e anche quelli che leggeva la moglie di Carlo Bovary, uno che invece non leggeva e infatti si limitava a farsi i cazzi propri e badare alle sue faccende, questo e gli altri sono libri scritti appunto in quell'epoca, e cioè un secolo dove fare una vita da libri voleva dire avere grandi ideali e passioni, portoni brumosi in cui appartarsi a fornicare.

Ma anche qui, fornicare, è un po' lo stesso di scopare, naturalmente. Solo che nell'Ottocento sembrava più elegante chiamarlo fornicare, gente che al posto delle felpe Adidas indossava il panciotto, e anche i pantaloni non si portavano con il cavallo basso e l'elastico del tanga che fa capolino nella piega del sedere, e come alternativa alle canne ci si stordiva con l'assenzio. Insomma, nella forma è cambiato tanto, nella sostanza pochino: libri e anima erano già la stessa cosa, ben prima che quel famoso psicanalista lo scrivesse dentro ad altri libri, che hanno contribuito a dare nuovo smalto alla nostra vecchia anima.

E se ancora tutto questo non bastava – non bastava alla tua anima –, se non era sufficiente leggere libri e poi comportarti alla stessa maniera dei personaggi, a quel tempo, per quanto in extremis, potevi sempre ritrovare qualcosa come un principio di realtà. Accorgendoti, ad esempio, di quanto fosse fasulla la tua vita, di quanto spettacolo ci fosse dentro, di quanto Altro e di quanto poco Tu. E alla fine non rimaneva allora che levarti dalla rappresentazione con un estremo gesto d'emulazione teatrale, scolandoti un'intera boccetta di veleno per i ratti.

Ma fare una vita da libri di Melissa Hill, io mi chiedo, che vita è una vita da Melissa Hill, e in che modo ci si può svegliare? E me lo chiedo "tecnicamente", non da sborone intellettuale. E cioè che anima viene fuori dalle pagine di Melissa Hill, che anima è quella che assume il corpo e l'espressione dalle donne che incrocio in libreria – sempre eleganti, cortesi, niente da dire –, che anima è l'anima che parcheggia una carrozzina all'ingresso e poi traguarda orgogliosa il suo contenuto soavemente addormentato? Ma sopratutto cosa me ne faccio, da cittadino italiano, di tutte queste anime in cui non mi riconosco, parlano la lingua di libri che sono letteralmente altri libri: un'anima divisa in due, in dieci, in mille idiomi incomunicanti, ecco cosa è diventato questo paese...

Un attimo dopo squilla il cellulare: è il marito: ciao amore: il marito che vuole sincerarsi che abbiano acquistato un paio d'etti di prosciutto cotto – che ti credevi, che era l'amante? Quello succedeva un secolo e mezzo fa, non la carrozzina ma la carrozza, i portoni brumosi in cui scopare, cioè, pardon, fornicare, scrutati solamente dal sottile taglio della luna, e dai ratti che hanno scampato il veleno per un soffio.

E così, poco più tardi, queste donne escono soddisfatte e sorridenti dalla libreria, con il prosciutto cotto in una mano e dentro l'altra l'ultimo successo di Melissa Hill. Si avviano quindi senza tanti cazzi per la testa, seguendo, sul marciapiede, tutte le virgole e i punti che Melissa ha disposto al posto giusto, al posto loro. E anche io me ne esco subito dopo, con infiniti dubbi di punteggiatura: abbandonare il sentimento del proprio Paese, mi dico, non significherà forse smarrire una visione narrativa d'insieme, essere incapaci di realizzarne l'idea in parole?

Ciò che rimane di un'esperienza civile che giudico ormai definitivamente fallita, ricapitolando, io lo ricavo dunque dalle manifestazioni linguistiche diffuse, che hanno nei libri e nello spettacolo i propri modelli di riferimento, minimi mattoni con cui si costruiscono piccole o grandi anime. Il fatto che non ci siano solo alcuni libri, come nei regimi totalitari, ma molti libri tra cui quelli di Melissa Hill, è naturalmente un vantaggio, intendiamoci: un segno certo di liberà. E anche gli spettacoli sono differenziati, specie dopo l'affermarsi di Internet. Ma questo"eccesso" di libertà narrativa mi sembra che abbia contribuito alla frammentazione del tessuto sociale, e cioè ancora del linguaggio con cui un Popolo si parla e riconosce, insomma la sua koiné, senza la quale un Paese non può più dirsi tale. Tanto che una libreria mi sembra allora la metafora più perfetta della morte civile che i più sensibili, o forse i più fragili di noi, sperimentano già da qualche anno.

Ma che cosa ci rimane, allora?

Rimane il disprezzo, per parte mia. Sì, io affermo – e lo scrivo pure – che disprezzare i propri simili (e LE proprie simili, soprattutto), sia l'unico sentimento civile adeguato a questo tempo, e cioè uno dei pochi atteggiamenti in cui ancora si dia il principio dolente di una relazione, prima del definitivo concedo in anomia distruttiva. Disprezzare, sì. Io vi disprezzo, non vi odio ma vi disprezzo, con i vostri libretti da due soldi, il vostro prosciutto tagliato fine, il vostro linguaggio dopato di inglese e smagrito di significato, di realtà e infine di identità.

Eppure il vuoto, il niente e il nulla, sono le fragili fondamenta sopra cui viene edificata la menzogna del soggetto. Diventare qualcosa serve dunque per comprendere – ma solamente alla fine, al termine della costruzione della propria torre – che siamo al fondo rimasti quel niente, un gorgoglio afasico prima di ogni altra parola. Diventare qualcosa per restituire quella cosa da nulla al Nulla, ecco. Farsi per disfarsi. Ma se questo tempo babelico, attraverso la confusione funesta dei suoi linguaggi, che prelude al crollo, potrebbe favorire proprio tale consapevolezza, nell'esperienza quotidiana è sempre più raro assistere alla più estrema e terribile delle agnizioni, quella della signora Bovary: ma allora è tutto finto, ho vissuto la vita di qualcun altro...

Resta per fortuna la nobile figura del disprezzo, e un unico problemino ancora da risolvere: la carrozzina, chi se la prende, adesso che lei se ne è andata con il prosciutto e l'ultimo best seller di Melissa Hill, chi se la prende la carrozzina con il pupo?

sabato 3 settembre 2011

Potatoes


Stavo facendo un esercizio di inglese, da eseguire per un corso on-line a cui mi sono appena iscritto. Wich goals did you reach until now in your whole life ? E venivano elencati una serie di tipici traguardi della vita: laurearsi; vincere una competizione sportiva; sposarsi; avere figli; andare ad abitare da soli; ottenere un lavoro desiderato; compiere qualcosa di importante o memorabile, fosse anche solo una scarpinata in montagna, o una nuova lingua appresa. Per quanto riguarda la lingua, che io fossi ancora lì, a quarantacinque anni suonati, ad armeggiare goffamente col present perfect e i maledetti phrasal verbs, la dice lunga sullo stato della mia arte: upper intermediate, hanno definito il mio livello dopo un breve test. Ma anche per quel che riguarda gli altri traguardi ipotetici, elencati sotto forma di casella da barrare, anche lì, buio completo: tra i molti indicati a mo’ di esempio, non c’era ancora un singolo “goal” che io avessi realizzato… E adesso come lo completo, lambiccavo tra me e me, il mio compito di inglese? Senza barrare alcuna casella non potevo infatti passare all’esercizio successivo. Mi sono dunque inventato la conquista dalla cima più alta del mondo: I climbed the Everest. Then – massì, esageriamo –, cause I was already there wearing mountaineering boots and with a big mattock, but most of all because there was nothing interesting to watch on tv, I decided to climb also the K2. Stremato a quel punto dallo sforzo di immaginazione alpina, ho spento il computer e interrotto la lezione. Dopo pochi minuti mi telefona un’amica dalla Val d'Aosta, chiedendomi, entusiasta, se sono mai stato nel posto in cui si lei si trova. No, I’ve nerver been there, le rispondo. Però sono stato sull'Everest e sul K2. Ah, and I've been on the top of Cerro Torre too! But this was in another time: you know, even in Argentina they have an awful television. Scusa, come mai parli inglese?, ribatte lei. Parli un inglese maccheronico e dici tutte 'ste cazzate. Allora io le spiego l'intera faccenda: i goals che non ho realizzato, i figli assenti, i lavori e i soldi e le occasioni e gli amori persi… Insomma, mi accorgo, parlandole, di essere in tutto e per tutto un fallito. Yes, I’m a drop out, and I’m not sure I still wish to keep on living… Ma prima che io termini la mia frase sconsolata e teatrale, mi interrompe la mia amica: Senti, se non ti spiace, queste cose me le racconti un’altra volta: ora devo andare a raccogliere le patate con i miei amici. Sai, qui in Val d’Aosta ci stanno delle patate bellissime. E orribili programmi in televisione.

(Ps – Credo che staremo ancora un bel po’ di tempo senza sentirci: la cartolina che vi ho appena inviato ha un'indicazione di provenienza, dove ci sta scritto, semplicemente, depressione. Mi interessa insomma molto di più occuparmi ora della mia vita e dei miei "goals" e della mia depressione, che non mandare cartoline a degli sconosciuti da luoghi in cui non sono mai stato, o dove se c'ero dormivo e soprattutto sognavo. Vi auguro dunque buone cose, and a lot of potatoes to fill up your television set.)