lunedì 31 agosto 2015

Domande, o sulle stagioni della vita



 

Le stagioni della vita. Filosofia, psicologia, antropologia. Anche e soprattutto la letteratura. Sono numerose le discipline che si sono fatte carico di questo enigma, e sterminati i tentativi di cogliere l’essere umano nel tempo. Proverò a dare anche il mio umilissimo contributo. Per come la vedo io, le stagioni della vita dell’uomo, anzi meglio del maschio, sono quattro. Riassumibili in altrettante domande:

        1) Quando, all’entrata della scuola, incontri un tuo compagno di classe. Dopo una pacca scherzosa sul giubbotto, ti confida che sta uscendo con una nuova ragazza. E tu gli domandi: Chi è?

        2) Quando, alla macchinetta del caffè,  incontri un tuo collega di lavoro. Basta una strizzatina d’occhio e lo capisci, è un vostro codice. Segno che sta uscendo con una nuova conquista. E tu gli domandi: Com’è?

        3) Quando, in coda allo sportello della banca, incontri un tuo socio dell’esclusivo circolo Vattelapesca. Mentre ti stringe la mano con vigore si china furtivo verso di te, poi te lo chiedo con un filo di voce. Vuole che tu lo copra con la moglie la sera in cui esce con la nuova segretaria. E tu gli domandi: Quanti anni ha?

        4) Quando, aspettando il turno per l’esame della prostata, incontri un tuo vecchio rivale in amore. Parlate dei bei tempi passati, di quella stronza che ha fatto soffrire entrambi. Ma chi se ne importa, nemmeno la ricordo più, conclude lui con una scrollata di spalle. Ora mi vedo con una donna dell’est, se vuoi te la presento. E tu gli domandi: Quanto prende?


domenica 23 agosto 2015

Una partita di tennis



Una partita di tennis? Sì, sembra essere proprio una partita di tennis. Un doppio, per la precisione. Due coppie di giocatori – i pantaloncini corti e attillati sopra le cosce muscolose e scattanti, le polo bianche e senza scritte come negli anni cinquanta – due giovani coppie maschili si contrappongono agli estremi opposti del campo. Che però ha una particolarità: non è in piano. E non di un soffio, appena appena. Questo campo da tennis è incredibilmente ripido, l'angolo di pendenza di almeno trenta gradi, forse qualcuno di più. Ma non è giusto, così la coppia a monte gode di un evidente vantaggio! Forse a compensazione dell’handicap, deve essere certamente per tale motivo, il campo non è diviso da una sola rete posizionata alla metà esatta del lato più lungo, ma scopriamo con una certa sorpesa la presenza di una seconda rete. E dunque un campo da tennis, terra rossa o erba non è ancora chiaro, un campo da tennis costruito su un pendio scosceso, con due reti disposte parallelamente in prossimità della linea ideale del centro, a circa un metro e mezzo di distanza l’una dell’altra. La prima rete, quella a valle, è collocata a un’altezza maggiore dell’altra di circa trenta centimetri, più alta anche considerando la sfasatura causata dalla pendenza. In effetti non sono certo che ciò si rifletta in un guadagno significativo per la coppia sottostante: bisognerebbe fare degli studi sulle traiettorie arcuate delle palline, l'incidenza maliziosa della gravità, conoscendo le equazioni matematiche della balistica, a elaborare modelli verificabili e certi. Ma così a occhio sembra che la compensazione abbia un senso. E però quale senso... cosa significa questo strano gioco… sarà forse una metafora? Già, deve trattarsi di una metafora, che non risolve i nostri interrogativi. Una metafora di cosa, intanto? E chi è il soggetto della rappresentazione, cosa ci vuole comunicare, quali oscuri enigmi, simboli, allusioni cifrate si celano sotto agli astrusi congegni geometrici che chiamiamo gioco? Ma soprattutto: come è finita la partita? Domande. A cui purtroppo non so rispondere, mi dispiace. Solo il tempo di smorzare il cicalino incalzante della sveglia, stropicciarmi un poco gli occhi, gli arti anchilosati da stirare accompagnando il gesto con un lungo placido sbadiglio. Quindi appuntare il nuovo sogno sul taccuino.

venerdì 14 agosto 2015

Non gioco più, me ne vado, ovvero piccolo compendio morale per tempi orizzontali (e un poco scemi)



Da qualche manciata di anni sta precipitando in ogni campo il senso della gerarchia. Sociale, culturale, estetica, perfino gastronomica. Ed è così che a chiunque può venire in mente di aprire un bel ristorantino in collina: non perché sappia cucinare, macché, e giusto perché ha seguito La prova del cuoco su Rai 1. Per certi versi mi sta anche bene, intendiamoci. Intanto perché senza regole gerarchiche si ha l'impressione (ma è appunto solo un'impressione...) di essere molto più liberi. E poi gerarchia è sinonimo di autorità, e dall’autorità all’autoritarismo il passo è breve. Breve ma non necessario. Ma andiamo per gradi.

Nel mondo questo fenomeno ha preso il nome di postmoderno, secondo la celebre definizione che nel 1979 diede Jean-François Lyotard in un suo celebre testo. Per il grande filosofo francese l’evo postmoderno coincide con la fine delle tre grandi narrazioni – illuminismo, idealismo, marxismo – che si sono susseguite in staffetta marcando le stazioni cronologiche della modernità. Prima l'Occidentale fu monopolizzato per molti secoli dalla narrazione cattolica, frutto della sintesi tra cultura greco-romana e visione messianica appresa dal giudaismo. Quindi più niente, puff, dagli anni ottanta del Novecento il paesaggio storico è come se si fosse fatto piano, privo di una vetta che ne delimiti l’orizzonte culturale.

“Mi capirete tra cinquant’anni” aveva scritto Nietzsche nel 1887, poco dopo aver profetizzato l'avvento del “più inquietante degli ospiti”. Di anni ne sono invece trascorsi quasi centocinquanta, ma il nichilismo, l'atteso ospite nietzschiano, era un palloncino che nel frattempo si stava gonfiando e prendendo forma piano piano, pompato dal gas dei numerosi affanni dei moderni. E ritroviamo così oggi la trasvalutazione prevista di tutti i valori, la caduta di ogni ordine religioso, etico, intellettuale e di conseguenza, come esito di tale mutazione nella sovrastruttura ideale dunque una rivincita di Hegel su Marx – anche di ogni normatività sociale che faccia da argine al soggettivismo più estremo, aprendo il campo tanto alla blatera quando al proliferare creativo e vitale dei punti di vista personali. Un fenomeno che, sempre in filosofia, è stato chiamato ermeneutica, a sigillare linguisticamente il libero gioco delle interpretazioni.

Ma c’è appunto qualcosa che non torna, almeno per me. Me ne sono accorto quando ha fatto il suo esordio nel 1982, quindi tre anni dopo l'uscita de La Condition postmoderne di Lyotard e riprendendone in pieno lo spirito, una trasmissione televisiva. Il Maurizio Costanzo Show. Me ne sono accorto senza concepirlo intellettualmente, intendo. Probabilmente allo stesso modo di quell’autentico segugio mediatico di Costanzo che, suppongo senza conoscere la filosofia francese, già aveva intuito l'equivalenza metaforica tra il presente e un palco senza più alcuna regola: non più un tempo lineare e tripartito, come nella scrittura scenica classica, ma nemmeno una prossemica, che sono le prime leggi non scritte del teatro. E allora tutti assieme appassionatamente, tutti sullo stesso piano e nello stesso mentre, allo stesso livello, con il conduttore romano che si trascinava pesantemente da un divanetto all’altro, appollaiandosi come un corvo alle spalle dei numerosi e spesso eccentrici ospiti. Questa orizzontalità drammaturgica, di certo prevista dallo stesso Costanzo, ha finito col condurre a una orizzontalità anche nel valore assunto dalle diverse opinioni, di seguito imitata da quasi tutti i talk show successivi e riassumibile nello schema: A = B = C.

Potevamo così trovare l’accademico che per tutta la vita ha studiato e approfondito un campo circoscritto e documentato del sapere affiancato –  di lato, sempre tutto avviene nella nostra epoca di lato –  da Alba Parietti o Melchiorre Gerbino o Sonia Cassiani o Jennifer e Joe Schittino, che al termine del suo discorso avevano l'occasione di affermare serafici: “Non sono d’accordo”. E attenzione, non non sono d’accordo per questo motivo o per quest’altro, ma semplicemente non sono d’accordo. Punto. Bracardi in frak rosa che intona al piano il refrain del programma, applausi, passerella, il resto è vita… E ciò perché davvero sul palco del Parioli l’opinione del primo babbeo valeva il pensiero dello studioso preparato e competente: orizzontalità, mancanza di gerarchia di senso, vanità di ogni preteso realismo conoscitivo. In altre parole, sempre e ancora postmoderno.

Era dunque l’assunzione, definitiva e su larga scala nello Strapaese, degli argomenti filosofici dell’ermeneutica: non esiste sapere ma solo interpretazioni equipollenti, fondate su premesse unicamente storico-biografiche. Al limite possiamo ravvisare una pseudo-verità formale, e cioè un potere, verificabile nei dati d’ascolto, nel calamitare l’attenzione del pubblico. Non stupisce che il fenomeno mediatico di Vittorio Sgarbi sia nato nella stessa trasmissione, facendo continuo riferimento a questa sorta di tautologia espressiva: forma e contenuto coincidono sostenuti da una vis espositiva sempre più rabbiosa, per quanto arguta e seducente. Ed è l’inveramento tardivo di un'altra celebre ma molto più antica corrente filosofica. La Sofistica.

Sarà dunque utile ricordare quale fu la principale obiezione di Socrate ai sofisti. Prima ancora di Platone, che affermò l’esistenza di una verità esterna e soprasensibile, l’iperuranico mondo delle idee, ritroviamo infatti la fiducia di Socrate in una verità ben diversa. Non già data e definita esternamente, quale è piuttosto la realtà, tangibile e disponibile all'interrogazione dei sensi, bensì intima per quanto dotata di una qualche incorruttibile universalità, che è proprio ciò che manca ai sofisti. Possiamo in effetti chiamarla verità solo in quanto non contraddice l’ordine razionale del discorso, ma anzi ad esso consegue mostrandosi per mezzo di un processo non agonistico e collaborativo, sul modello della pratica con cui la levatrice conduce le fasi parto: la maieutica, e non a caso il grande ateniese così battezza anche il processo conoscitivo. Ogni affermazione umana deve dunque essere cavata e ricondotta a tale scaturigine interna, attraverso un percorso che è sia intuitivo (il “daimon”) sia razionale e dialogico. Ed è proprio la fede socratica nelle disinteressate profondità dell’umano a farmi pensare alla disposizione postmoderna, in cui tutto avviene al contrario in superficie e secondo tracciati orizzontali, come a una qualche forma inganno. Ma sarà più utile intenderci con un esempio.

Se Messi gioca a calcio con un bambino di 10 anni, Messi può fingere di essere al livello del bambino. Egli è cioè in grado di semplificare i suoi dribbling, allentare la corsa, simulare distrazione e farsi di tanto in tanto portare via il pallone. Avendo la facoltà di abbassare le proprie straordinarie doti calcistiche a quelle del bambino, Messi si trova dunque nella medesima condizione di Socrate: la condizione di chi sa fare qualcosa che esorbita la competenza comune, sapendola però solo dopo averla compiuta e grazie al confronto con gli altri. Socrate scopre infatti di "non sapere" conversando con chi meno di lui ancora sa, mentre Messi incontra il suo talento giocando, praticando in una squadra e contro un'altra squadra, non pensandolo autonomamente e per astrazione. Ma anche il bambino, sfidando Messi, ha l’occasione di crescere e apprendere qualcosa di sé, verificando la misura dei propri limiti e intravedendo i talenti ancora potenziali. Soprattutto, il bambino potrà riflettersi nello specchio di Messi quando quest'ultimo esegua un colpo da vero Messi, non quando bonariamente continui a compiacere le velleità del cucciolo (essere allo stesso livello del campione).

L’obiezione postmoderna sarà allora da ricercare proprio nel rapporto asimmetrico tra gli attori della relazione, di qualsiasi tipo essa sia, e nel conseguente pensiero che da qui si sviluppa. In questo ci è nuovamente d'aiuto la lingua di Socrate, nella cui sottigliezza erano contenuti due termini, alternativi ma non sinonimi, per esprimere il pensiero giudicante. Il primo è doxa, proprio come la popolare agenzia dei sondaggi, che infatti con tale scelta vuol richiamare il pensiero comune: una sorta giudizio orizzontale e non verificato sulle cose, mappato e circoscritto attraverso le numerose inchieste statistiche. Stiamo insomma parlando dell'opinione, che è poi il significato del termine. Ma l'altra parola del vocabolario greco, già a partire dalla sua formazione lessicale, ci richiama a un punto di vista come sollevato di grado, un luogo di osservazione più alto, che sta sopra. Ed epistème, da cui epistemologia, la dottrina che si occupa del sapere scientifico, significa appunto ciò che su (epi-) sta (histemi). Esisteva dunque per i nostri prozii greci un pensiero accessibile a tutti tramite lo sguardo diretto e orizzontale sul mondo. Ma esisteva anche un altro pensiero, più limitato e non opinabile come è appunto l'opinione, che si fa sapere in quanto vede le cose come dall'alto, vede più lontano e soprattutto vede ciò che sta sotto, senza ad esso conformarsi.

Ecco, nel nostro tempo è venuta meno tale disposizione a riconoscere dei pensieri più alti dei nostri, dei pensieri che sanno. Tutto ricade allora nel dominio dell'opinione, della doxa, che si fa metro di giudizio universale.


Eppure, se noi guardiamo a noi stessi e agli altri con molta onestà e partecipazione, a volte poteremmo accorgerci, anche in una semplice conversazione, di aver già percorso un determinato svincolo del pensiero, un’esperienza, maturandone una qualche forma di competenza oppure la percezione di una lacuna, una mancanza che ancora ci avvince e che nell'altro trova sviluppo. Sono allora mani da tendere o mani da reclamare, a seconda delle situazioni. E non facciamo i furbi: quando sei Messi lo sai di essere Messi, lo vedi che gli altri giocano alla moviola, mentre tu, con la palla al piede, fai quello che ti pare.

Il guaio – perché ovviamente c’è un guaio, altrimenti non saremmo nel tempo del nichilismo post-tutto – è che quando invece non sei Messi, quando sei una mezza sega da prima categoria, da eccellenza o se ti va di culo da serie D, è più difficile riconoscere e stimare le abilità e competenze di chi ti sta "sopra", allo stesso modo del bambino che crede di essere riuscito a soffiare la palla al grande giocatore. Ma tocca ricordare che esistono molti ambiti e infinite attitudini, non sempre direttamente comparabili. Ludwig Wittgenstein, dopo aver drasticamente riveduto la sua precedente convinzione sul pensiero logico come unico metro di misura del mondo, li chiamò giochi linguistici. Come a dire che se a basket prendi la palla a calci, anche se ti chiami Messi, sei fuori strada.

Morale, perché questa volta voglio davvero chiudere con una morale, ossia con un pensiero pratico e praticabile, non astratto. Un pensiero in cui per definizione ci deve allora essere un Io e un Tu, meglio ancora un noi, noi due, io e te che forse per caso mi stai leggendo e che in qualche modo non devi esserti annoiato del tutto, se sei arrivato fino a qui. Certo, il rischio sta in un poco di pedanteria, qualche rullo di tamburo di troppo e fanfare invece del solito pop leggero. Che dici, ci proviamo?

E dunque, quando ti accorgi di essere il bambino al cospetto di Messi, fotografa dal basso ogni suo gesto, esercita l’attenzione vigile, pratica l’emulazione creativa, cerca di rubargli tutti i segreti e i colpi che riesci a intuire. Ma senza offenderti se, all’improvviso e con un guizzo, ti fa tunnel e scappa via verso la porta in cui insacca con apparente facilità. In fondo – ricordatelo sempre! – lui rimane Messi e tu un bambino curioso, almeno fino a quando cresci e lui diventa una vecchio che ripete sempre le stesse cose, come ho iniziato a fare io in questo testo. Si chiama rapporto pedagogico: una parola che fa spesso venir voglia di ribaltare le cattedre, prima ancora di averle costruite. Non funziona, per inciso.

Ma ci saranno altri momenti in cui, magari in un campetto di periferia, non al Camp Nou di Barcellona, ti troverai a essere finalmente Messi o a vestire il lungo e candido chitone di Socrate, mentre dall’altra parte dell’agorà ci sta Alba Parietti o un altro ospite professionista dei talk show. Uno che per statuto deve sempre dire “non sono d’accordo”, qualunque cosa tu abbia suggerito, fatto o semplicemente pensato lui non è d’accordo, e non lo sarà mai per quanti sforzi tu faccia per chiarirti. C'è gente che pensa che questo atteggiamento idiosincratico – li riconosci dal fatto che dicono sempre Io Io Io –  sia il solido basamento del monumento alla propria identità. Ecco, quello è il momento di prendere il pallone sottobraccio e sussurrare non gioco più, è tardi, mi aspettano a casa per pranzo. Inventati pure una scusa. Perché la postura orizzontale e postmoderna può diventare la più tenace e ottusa delle gabbie: due teste che sbattono l'una contro l'altra, non due pensieri che si incontrano per definirsi e precisarsi a vicenda.

Ed eccolo l’inghippo, il trucco che soffoca il coniglio invece di farlo sgusciare arzillo dal cilindro, e chi se ne frega se era la verità o solamente un'altra illusione, che però ci tiene in vita. E sono ancora i contemporanei di Socrate a venirci in soccorso con la loro magnifica lingua. Bastava a quel tempo una parolina piccola piccola, quasi un soffio: hybris. Un termine talmente remoto e desueto che temo di averne scordato il significato esatto. Ma, più o meno, vuol dire che c’è chi gioca bene, c’è chi gioca male e c’è chi gioca così così. Poi c’è chi gioca solo per allungare la gamba e sgambettare chi è più bravo di lui. E in questo caso, il postmoderno si chiarisce come la licenza di espressione concessa a tutti ma proprio tutti gli scemi. O se preferisci e parafrasando Shiller: “Neanche gli Dei possono nulla contro i macellai che si credono terzini”.