mercoledì 27 giugno 2012

La sindrome del disc jockey, o sulle nostre vite in conto terzi


La sindrome del disc jockey, ecco, finalmente ne ho acciuffato il nome. Era da un po’ di tempo che ci giravo attorno. Ad esempio, provo a spiegarmi, te lo chiedi quando incontri un amico che vuol convincerti a vedere quel film struggente, usa proprio questo aggettivo: struggente; o ti supplica di leggere il libro appena uscito dell’esordiente morto di aids il giorno del debutto, di fronte al buffet grondante tramezzini; o ancora, e questa volta è un imperativo, devi, devi assolutamente ascoltare un cd composto con il battito d’ali e gli ultrasuoni dei pipistrelli, e giuro che ci stanno davvero dei dischi così, una mia cara amica ne ha inciso uno, se vi interessa vi giro i riferimenti, che lei magari è contenta. In ogni caso, tutte esperienze imperdibili – non ho ragioni per dubitare – che lui, il tuo amico, non quella dei pipistrelli, è felice di consegnarti come si consegna la mappa di un tesoro, nemmeno la fatica di decifrarla: basta scartare il suo dono e il gioco è fatto, vieni immediatamente assunto nel club.

La sindrome del disc jockey si riproduce però anche in forme indirette, anzi si fa ancora più virale, contagiosa, quando entri su un social network: Facebook, tanto per dirne uno. E se la prima cosa che vedi quando scendi dal traghetto è quello che vomita i maccheroni appoggiato a una bitta incrostata di salsedine, in Facebook, la prima cosa che ci trovi, è un’acuta citazione di Guido Ceronetti o di Roland Barthes o di Pessoa o di Rilke o di Hannah Arendt o di Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti… Insomma, una citazione.

Se però siete di quelli che preferisco le immagini al fumetto, ci stanno anche quelle: riproduzioni di quadri celebri, antiche miniature ottomane,  più diffuse ancora le fotografie, che possono essere ironiche oppure “artistiche” –  chissà perché le tette delle donne, quando riprodotte in bianco e nero, vengono chiamate artistiche, mentre a colori diventano erotiche, in taluni casi perfino pornografiche... Dilaganti, infine, i link che rimandano a brani musicali, perlopiù attinti dall’infinito catalogo di YouTube. Così se gli ambiti espressivi pure sono variegati – testi, suoni, immagini, video, performance multimediali etc. – la loro compressione dentro il medesimo contenitore ne tradisce un’unica matrice. Collocabile, appunto, nella mano svelta del disc jockey.

Ma chi è, esattamente, un disc jockey?

Cerchiamo di capire facendo un po’ di storia; o, se non altro, rileggiamo lo smilzo foglietto contenente le istruzioni, dove stava scritto tutto già da sempre. Il disc jockey, in primo luogo e come noto, è la persona che mette la musica alla radio e nei locali, mentre la gente intorno balla oppure fa i cazzi propri oppure le due cose insieme, impugnando un gin tonic; se non vi piace il gin, e l'acqua tonica, volendo anche senza, questo non è tanto importante; al limite lo diventerebbe se stessimo parlando del barman, qui però non stiamo parlando del barman e dunque lasciamo perdere il gin tonic, e torniamo a lui. Il disc jockey.

La sua progressiva affermazione si accompagna alla speculare diffusione – anzi ne discende – dello strumento inizialmente utilizzato: il disco in vinile, introdotto negli Stati Uniti nel 1948 e conosciuto anche come microsolco o long play; per quanto ne esista anche una versione ridotta a 45 giri, più adatta ai mangiadischi in voga a partire dai tardi anni cinquanta, che è esattamente l’epoca in cui viene assunta nel pantheon collettivo la figura del disc jockey.

Semplificando al massimo, il disc jockey è uno che non sta dentro le cose, nel loro cuore pulsante. La sua postazione dietro la consolle lo protegge infatti dal trambusto della sala, e così se parte un trenino danzante, con  i ballerini un poco alticci che afferrano per le spalle chi immediatamente li precede, lui osserva con un sorriso vagamente sornione, sempre e per sempre al margine della pista. Eppure, il non fare del disc jockey produce comunque azione, dinamica sociale, già che senza un brano lento tanto dolce tanto sentimentale, quella coppia – lui basso, tarchiato e muscoloso, ma con una vezzosa catenina di corallo; lei bionda e minuta, ai piedi dei voluminosi Dr Martens con la punta di metallo – quella coppia ora non starebbe ballando stretta stretta, prima di scambiarsi un bacio timido e interlocutorio sul divanetto amaranto, nascosti dal separé di canne intrecciate.

Il disc jockey è qualcuno che non facendo fa, ecco. O meglio ancora, riluttando ad agire in nome proprio ma sempre e comunque per contro terzi, con voce e suoni e gesti messi al suo servizio da altri, più che incidere sull’essenza delle cose ne riconfigura lo sfondo, la campitura. La prerogativa del disc jockey, potremmo addirittura azzardare, è quella messa in luce dalla grande arte concettuale novecentesca, che da Duchamp in poi ha intuito come l'ambiente, la circostanza, lo spettro pubblico nella ricezione siano parte integrante dell’opera, costituendo un elemento decisivo nella formazione del giudizio, modulato seguendo il flusso delle luci stroboscopiche, i fondali di cartapesta della scena. Il contesto, detto in una battuta, è funzione del testo. E per quanto tutto ciò appaia modernissimo, possiede un nome antico quanto la storia del pensiero. Si chiama interpretazione.

Bene, la sindrome del disc jockey che vediamo dilagare sotto i nostri occhi ogni qualvolta ci affacciamo al mondo, e in particolare su quel sottomondo che è il web, consiste dunque nell’atteggiamento di una comunità umana che ha scelto l’interpretazione piuttosto che l’esperienza, lo sguardo piuttosto che l’azione, il pensiero degli altri piuttosto che il pensare. E tutto ciò, in effetti, corrisponde incredibilmente alla nostra fotografia!

E allora ci conviene guardarla bene, quella foto, percorrerla con le pupille tra un disco e l'altro per l'estate, tra una citazione su Facebook e un imperdibile evento, articolo, poesia, spettacolo o scoreggina da prescrivere agli amici degli amici fino al sesto grado, aspettando che qualcuno alzi il pollicione per approvare. Oppure che qualcun altro – un barbaro, un Gremlin, un cinese con le palle quel giorno più girate del solito – decida di trasformare la discoteca in cui ci siamo rifugiati in un enorme centro commerciale. Dove non ci sarà più bisogno di un disc jockey che suggerisca la musica dal proprio angolo riparato, ma solo tracce random che girano e rigirano all’infinito.

lunedì 25 giugno 2012

Barbara De Rossi, o su come è difficile chiamare le cose con il loro nome


Barbara De Rossi nasce a Roma il 9 agosto 1960. Tra una manciata di giorni, condividendo il genetliaco con l'imperatore Marco Aurelio, ma anche con  Filippo Inzaghi, detto Pippo, compirà dunque cinquantadue anni. Nei romanzi russi del secolo scorso, quando si parla di una donna, mettiamo, di trentatré o trentaquattro anni, si usano espressioni del tipo: "Malgrado l'inesorabile avanzare degli anni, qualcosa, ancora, in lei, manteneva traccia della giovinezza perduta". Per i romanzieri russi la giovinezza si perde poco prima dei trent'anni, tocca farsene una ragione.

Ma torniamo a Barbara De Rossi. In tempi recenti, scopro da una svelta ricerca attraverso Google, si è sposata con il ballerino e coreografo serbo Branko Tesanovic, classe 1970, da cui ha avuto anche una figlia, dopo un precedente matrimonio con il nipote dell'architetto Busiri Vici. Quindi si è separata anche da Tesanovic – "per incompatibilità di carattere e incomprensioni", dichiara la stessa De Rossi in un comunicato stampa –, fidanzandosi con Anthony Manfredonia, fotomodello, cantante ma soprattutto poeta, con tanto di prefazione del neuroconduttore Gabriele La Porta.

Ho provato a ricercare su internet anche una delle sue poesie ma, pare, l'unico modo per leggerle è acquistare l'ultima raccolta di versi, dal suggestivo titolo Il digiuno degli amanti; in vendita "nelle migliori librerie", viene precisato nel sito web dell'autore. Dimenticavo, Anthony Manfredonia ha ventun’anni meno di Barbara De Rossi, e mentre sto scrivendo le loro immagini teneramente abbracciati all'ombra di una grande quercia – le braccia tatuate di lui stringono lei che gli carezza la peluria rada del viso – nei paginoni centrali di Chi e Novella 2000 sono già state sfrondate (ora si legge di una sua relazione con la showgirl di colore Sylvie Lubamba, ma sospetto che stiamo andando fuori tema...).

In ogni caso, sono certo che quelli che in questo momento stanno leggendo, ma proprio tutti, perfino chi ha mollato alla terza riga, magari arrivando da un motore di ricerca nella speranza di trovare delle foto discinte della bella attrice romana (o di Sylvie Lubamba), avranno già realizzato un'opinione personale, che non dovrebbe discostarsi molto da questa laconica sintesi: toy boy.

A Barbara De Rossi, diciamolo, piacciono e continuano a piacere i ragazzini, vivendo con disagio la clessidra del tempo e il malizioso galateo degli uomini, che ormai la rubrica alla spietata voce: “babbiona allupata”. Beh, io sto scrivendo proprio per sottrarmi all'incombere di uno stupido pregiudizio. Perché, ad esempio, non percepiamo nulla di stonato nelle intercettazioni telefoniche dell'ex Presidente del consiglio italiano, in cui lo ritroviamo impegnato in licenziose conversazioni con donne di cinquant'anni più giovani di lui, mentre ci tocca, anzi, ci irrita, il confronto con una donna che con tutta evidenza si sottrae al rapporto con i propri coetanei, rivolgendo le sue attenzioni a quella scaturigine palpitante che si chiama gioventù?

Credo di avere una risposta. Ciò che ci indispone – a me più di tutti – è la frizione tra il più che legittimo desiderio della carne, presente nelle donne quanto negli uomini, con le parole con cui quel desiderio viene raccontato, a sé prima che agli altri. Io, ad esempio, che sono un maschio adulto ed eterosessuale, quasi coetaneo della De Rossi, non disdegnerei affatto una ragazzetta di venticinque anni, magari un poco scemina e con due tette così. Non ho difficoltà ad ammetterlo. Ma mi piacerebbe solo e limitatamente agli attributi appena indicati: i rintocchi acerbi nell'orologio di un corpo semi addormentato, ancora tiepido sotto le lenzuola, e però senza l'assillo della comparsa di un uccelletto impiccione, che a ogni ora ti svegli con il suo cucù. Mentre sarei del tutto indifferente a un presunto medagliere "culturale", che vivrei anzi come zavorra al planare spensierato di una sorta di nostalgia ribalda, ben rincucciata negli ormoni.

Ecco, a me sembra invece che molte donne, per ragioni storiche più che comprensibili (la morale cattolica, ad esempio), ancora non siano in grado di ultimare la falcata che le porterebbe a coincidere con l'urgenza erotica che le pungola. Perciò, hanno bisogno di ammantare il nudo desiderio dentro improbabili confezioni da passeggio: di ratificarlo, per così dire, in schemi sociali condivisi e collaudati. Schemi, codici, o con maggior precisione stereotipi, che fanno perlopiù riferimento ai degradati cliché della narrazione spettacolare (il bel poeta tenebroso, il ballerino insinuante).

Per dire, se vuoi scoparti uno che ha ventun'anni meno di te, Barbara, dai, guardiamoci in faccia, perché devi pigliarti un poeta dal nome american-maccaroneggiante, o un ballerino slavo? Che poi lo sai pure tu: che poesie vuoi che scriva uno con un nome così, Anthony Manfredonia, uno che ti molla con le bomboniere in mano per  andare a fare lo sci d'acqua con Sylvie Lubamba?

Eppure, anche Barbara De Rossi, donna bella e intelligente e simpatica, ma sempre donna, non ragazza, pare non essere in grado di riconoscersi spavaldamente nella femmina che è in nuce. No, anche lei deve imbastire delle improbabili storie con cantanti, poeti, ballerini post adolescenti, addomesticando il proprio rovello erotico dentro i cascami di una paludata rispettabilità sociale.

Bene, è esattamente questo velo residuo che io trovo patetico e irritante, e non lo spudorato affacciarsi del desiderio da un corpo che si accorge di essere sulla soglia del declino, non ancora logoro ma già acciaccato, sfiorito (ricordate i romanzi russi...), e così cerca di emendarsi dentro l'acqua battesimale di una carne più giovane e scattante. In Silvio Berlusconi questa ipocrisia culturale è del tutto assente, e anzi pecca in senso contrario: riducendo ogni donna con cui entra in relazione alla sola dimensione sessuale, l'uni-verso carnale. Comprime, potremmo dire metaforizzando ancora, una stratificata armonia dentro la lagnosissima monodia del tombeur de femmes, in quell'esausto karaoke in cui se la suona e canta da solo (al limite, con l'accompagnamento di Apicella).

Berlusconi, in altre parole, nega alle proprie interlocutrici ogni dimensione storica e biografica, coniugando la dimensione del femminile – una lingua complessa e variegata, assai più difficile d'apprendere di quelle quattro frasette in francese con cui ama sciacquarsi la bocca – nella sola grammatica erotica, da compulsare nel dizionario di un corpo sessuato. Manca la sintassi, insomma, il racconto. Mentre Barbara de Rossi, in una specularità ugualmente difettosa, cerca di storicizzare i maschi che anela, in quanto maschi, adeguandoli a figurazioni narrativamente stracotte, in cui possa finalmente riconoscere e accettare il proprio desiderio. Ma in tal modo è il desiderio a essere sgrammaticato, una variazione lineare senza struttura, gravità, e perciò la lettura ci indispone e ci annoia.

Per quanto possa valere la mia opinione, io dunque auspico un mondo in cui Barbara De Rossi, che abbiamo chiamato in causa con funzione retorica di antonomasia, ma verso cui va tutto il nostro rispetto e la nostra simpatia, possa finalmente portarsi a letto anche un giovane idraulico che si chiama Mario, Gaetano, Giacomino, e non Anthony o Branko. E soprattutto in cui non debba rilasciare comunicati stampa per ogni sacrosanta scopatina.

Ma anche un mondo dove l'alfabeto maschile non si risolva nel codice binario del desiderio: provarci o non provarci con la femmina che ci si para davanti. Le circostanze della cronaca sentimentale, che abbiamo qui esposto con bonaria ironia, diventano allora una preziosa occasione. Quella per chiedere anche a noi, uomini, prima ancora che maschi che si girano al passaggio delle femmine giovani e belle lungo i marciapiedi, come nelle fotografie in bianco e nero degli anni cinquanta, chiederci se stiamo limitandoci alla copertina o sfogliando anche le pagine interne, in cui la vita scrive giorno dopo giorno sul corpo delle nostre compagne. Già che in caso contrario, se non impariamo a leggere tra le pieghe, tra le rughe, diventa solo un vecchio e inservibile libro. Da sostituire con uno appena uscito, magari di imperdibili poesie by Anthony Manfredonia...

domenica 24 giugno 2012

In salvo, o sull'amore eterosessuale tra maschi

Valter Chiari assieme a Tatti Sanguineti. A giudicare dal loro aspetto fisico, più che da elementi ambientali limitati a un distributore di benzina sullo sfondo, la fotografia potrebbe risalire alla metà degli anni ottanta, in una stagione temperata: forse ottobre, alla fine, o una Pasqua precoce di marzo. Quel tempo in cui le camicie si sbottonano sotto l'ombra tiepida dei maglioni, restituendo un'immagine simmetrica dei due, sottolineata dal bianco e nero della stampa, come fratelli abbigliati dalla stessa mano svelta di madre. Il primo, più alto e ancora prestante, sebbene ingrigito e già segnato da un'esistenza appesa a un trapezio pencolante, senza rete di protezione, cinge con il braccio sinistro l'altro, deponendogli un bacio fanciullesco sullo zigomo. Il sentimento che si accompagna al gesto è evidente: affetto. La reazione di Tatti Sanguineti, sempre deducibile dall'espressione del volto, la bocca dischiusa in un sorriso bello per spirito e materia - i denti sono bianchissimi e composti, ricordando degli scolaretti in posa per lo scatto di fine corso, da esporre in bacheca tra gli annali - è altrettanto manifesta. Contentezza, è contento e non lo nasconde. Oltre che grato per lo slancio affettuoso nei suoi confronti, piuttosto che onorato del riconoscimento di un personaggio pubblico e di successo. Una gratitudine e un felicità improvvise, azzardo, che richiamano all’idea intangibile di assoluzione. E però non quella azzurrina e rarefatta delle confessioni religiose, ma laica e incatramata come l’utero d’asfalto e petrolio che li contiene, l'odore penetrante e festoso degli idrocarburi. Ci sembra che entrambi, in quel momento, forse per sempre, siano al riparo da un'oscura minaccia esterna. Sì, in salvo. Ma forse è all'opera l'eterno senno del poi, che in ogni fotografia scorge il divaricarsi del compasso tra il prima e il dopo. Quando il dopo, l'adesso, il dio mio come siamo diventati, rappresenta una versione degradata dell'attimo. E allora torniamoci, a quell'attimo, che io non saprei chiamare in altro modo che amicizia, tenerezza, forse amore perfino. E non c'è niente che mi commuove più dell’amore tra maschi adulti, eterosessuali e arruffati dalla vita.

venerdì 22 giugno 2012

Parole e musica, o sulla lettura come riconoscimento


Un’amica, nei giorni scorsi, faceva a questo blog il più bello forse tra i complimenti. Molte tra le cose che scrivi, mi diceva, è come se le avessi pensate da sempre anche io, ma mi mancavano le parole per dirle. Un pensiero non così inconsueto, senza nulla togliere alla mia amica, che con termini solo un poco più rarefatti viene espresso nei versi di una famosa canzone di Francesco De Gregori:

Alcuni hanno una musica nella testa, ma non gli piacciono le parole,
tutta la vita una musica in testa, in cerca d'autore…


Le canzoni, al loro meglio e secondo Francesco De Gregori, servono dunque a offrire una lingua a sostegno della musica che abbiamo in testa, ma più spesso anche il contrario: musica insufflata dentro i segni inerti di ogni codice di comunicazione, che prendono vita come Pandora. E così anche la poesia, la prosa, perfino la saggistica, oltre a proporre contenuti innovativi e forme inaudite, si offrono come un provvidenziale appiglio per l'intonazione di una misteriosa melodia, che si aggira nella nostra testa o in altre porzioni del corpo.

Il piacere della lettura, detta diversamente, nasce sempre da una qualche forma di riconoscimento. In cui a una premessa parziale (intellettuale, emotiva) si accorda l'universalità di un sentimento o di un concetto.

Provando allora a precisare l’intuizione della mia amica, a me verrebbe da dire che le parole da lei incontrate in questo blog –  parole che le pare di aver conosciuto e pensato da sempre – , in effetti erano state solamente provate, o meglio ancora sentite. Sì, proprio come si sente e si prova una musica, per definizione priva di significati verbali.

Quindi, è solo dopo aver seguito i pensieri nella loro articolazione sintattica, accompagnato i giri di frase, i punti, le virgole, che la mia amica ha riconosciuto tutto ciò come proprio. Leggere un testo è semplicemente questo: sovrapposizione tra una forma esterna, acquisita, e l'interno scorrere degli stati d'animo, producendo identità.

Un po' come avviene con il soldino ingoiato dal juke-box, che fa calare il disco e partire le note. A quel punto uno può dire: Ecco, senti, la nostra canzone!

Ed è così per il tramite di una nuova canzone che riusciamo a superare questa prima e provvisoria proposta, avvicinandoci a una visione più generale. Non una teoria, un modello, ma qualcosa che si avvicini a un mazzo di fiori, in cui far confluire e annodare il molteplice, che però tale rimane. Canta Lucio Battisti in Don Giovanni, dall’album omonimo:

Sono Don Giovanni
rivesto quello che vuoi
son l'attaccapanni…


Le parole sono di Pasquale Panella, enigmatico e beffardo poeta, uno dei maggiori nel nostro Paese. La grandezza della poesia – e dunque della canzone – consiste infatti nell’accostare termini apparentemente incongrui, a questo modo sviluppando una vertiginosa potenza di fuoco nel significare. E di Don Giovanni, il sublime seduttore, mai avremmo pensato che potesse avere qualcosa in comune con un attaccapanni, il più umile degli oggetti.

Eppure, senza un attaccapanni, al netto di un sostegno ben piantato, anche il più lussuoso degli abiti casca al suolo, trasformandosi in uno zerbino. Il rapporto tra pensiero ed emozione, tra musica e parole e infine tra lettore e testo, potremmo così vederlo come quello tra un abito e il suo attaccapanni. L’emozione è ciò che avvolge e sovrasta, ma senza la gruccia che la informa non riesce a farsi presente, tangibile, manifesta.

Somiglia alla parabola dell'airone, a cui non sono sufficienti le magnifiche ali dispiegate ma ha bisogno di lunghe e secche zampette, per far incontrare il cielo con la terra. Ciò che chiamiamo esperienza è esattamente la figura storica e concreta di quell'incontro: emozione + espressione, suono + significato.

Avere per tutta la vita una musica in testa, in cerca d’autore, significa quindi essere incapaci di mediare la nostra emozione dentro le forme mobili della vita, mancando l’appiglio certo di un linguaggio che faccia da tramite, traducendo la sensazione in esperienza. Ma ugualmente, il linguaggio non è ancora niente, è solo un misero attaccapanni, se non sa integrarsi con la bellezza che solo l’emozione riesce a consegnargli.

Per questo, ci suggerisce Pasquale Panella, Don Giovanni è il simbolo di tutti i seduttori. Perché è struttura senza emozione, forma che ha bisogno di vestirsi e rivestirsi ogni volta con un sentimento esterno, una trepidazione passeggera, ma che si affloscia appena smessi i panni della recita. Essendone egli definitamente privo.

giovedì 21 giugno 2012

Testimone

Mignano Montelungo, Caserta. Due carabinieri si sparano durante una lite in caserma. Questo il primo titolo. Più tardi, si scopre che uno, il comandante, colpisce il suo vice e quindi rivolge l'arma a sé. Omicidio\suicidio, come nelle coppie di amanti. Tianjin, nord-est della Cina. Prendono avvio i lavori per una città interamente ecologica, fondata sul riciclo e costruita su una discarica. La coincidenza delle notizie sul giornale di oggi possiede una radianza sottile. Ma non illumina l'esterno, no, che appare più buio che mai. Piuttosto, ricorda quei cartoni animati in cui il Gatto Silvestro ingoia un candelotto di dinamite, e per un attimo si mostra il tortuoso percorso delle viscere. Ombre cinesi, se preferite. Radiografie del presente. Che ci ritraggono impegnati ad azzannare uno specchio opaco, mentre quelli, gli Altri, hanno smesso di attendere il cadavere del nemico lungo il fiume. Ora, con l’acqua ripulita del Chang Jiang ci fanno il tè verde, o sbuffano il vapore per cuocere i ravioli con i gamberetti. Ciò che resta - ed è ancora molto - sciama lentamente verso le turbine: elettrificazione delle campagne al netto dei soviet, ecco l’idea aggiornata di comunismo  – "in salsa Hunan", chiosa lo stesso giornale (una volta si diceva all'amatriciana, espressione che voleva essere spiritosa, ammiccante, per dire l'approssimazione italica nel fare). Di quel tempo, rimangono le nostre salme ancora tiepide – una grande pila che sfoggia mostrine luccicanti, il sorriso d’ordinanza – su cui stanno già edificando il Nuovo Mondo. Buona fortuna, è davvero arrivato il momento di passare il testimone.

Un coglione è un coglione è un coglione è un coglione, o sull'intelligenza emotiva

In nessuna epoca storica un coglione ha mai saputo di essere coglione. Questo è per definizione negato dalla logica formale, già che un coglione – termine popolare che rappresenta il massimo grado di inconsapevolezza – se ne avesse coscienza non sarebbe più coglione, e dunque non potrebbe sapersi tale. Ma in nessuna epoca storica, con eccezione della presente, un coglione ha mai fatto coincidere la propria condizione con la virtù, spregiando ogni altra forma di sapere che non sia la sua stessa coglioneria. Un esempio? Se Mastro Coglione avesse incontrato per strada Dante Alighieri o Guido Cavalcanti, nella Firenze guelfa del terzo secolo, non avrebbe cercato di mostrarsi superiore in campo poetico, retorico o filosofico. Tutt’al più, gli avrebbe scroccato qualche verso, per abbordare Madama Coglioncella. Aprite invece una pagina a caso di Twitter o Facebook, e troverete milioni di operosissimi coglioni. Uomini e donne che, ignari di tutto e di tutti, hanno una risposta e una teoria e un giudizio per ciascuna cosa, fondati per lo più sul biasimo e la pigrizia intellettuale. Un intero deserto cognitivo che si riprende le foreste del dubbio e del pensiero. Con gli psicologi, notoriamente i più coglioni del caravanserraglio globale, che plaudono e innaffiano di acqua benedetta la sabbia ondulata delle dune. Poi si girano e lisciandosi i baffi verso un cammello che sputa, la battezzano con il nome di intelligenza emotiva.


martedì 19 giugno 2012

La bestia, così


Come Hansel con una calza bianca in testa, 
la bestia, così, come e senza un perché,
mentre il mondo mette in scena la sua festa,
come Gretel col sigaro di papà.

mercoledì 13 giugno 2012

Solamente un gioco, o sull’irreversibile declino della psicanalisi

 
Parlavo, nei giorni scorsi, con una giovane psicanalista a indirizzo freudiano. Chi conosce il mio pensiero sa che provo qualche diffidenza verso la categoria, per quanto mi sforzi di comprendere, quindi di avvicinarmi a un discorso clinico che continuo a trovare attuale e fecondo, in taluni casi persino eversivo. Non assicuro in ogni caso la piena neutralità – ammesso che questa possa mai esistere – in ciò che proverò ad indagare nelle prossime righe. Anche perché la realtà, come nell’esperienza di una persona particolarmente gelosa, possiede questa tendenza a generare scarti, residui di narrazione. Che in via del tutto arbitraria ricomponiamo per leggere poi come segni, tracce del passaggio di un medesimo animale. E naturalmente non a conferma del vero ma dei sospetti conficcati nel nostro sguardo.

Snocciolato questo precauzionale bugiardino, veniamo alla conversazione con la mia conoscente psicanalista. Si parlava della comunicazione mediata dalle nuove tecnologie, in particolare internet e i social forum, tra cui quei siti dove è possibile entrare in contatto e chattare con degli sconosciuti. La mia tesi, per nulla originale e in buona parte derivata da rimasticazioni scolastiche, è che non esiste, letteralmente, alcun mezzo di comunicazione. Piuttosto, abbiamo ogni volta a che fare con la comunicazione stessa, che nasce da un insieme spurio di compromessi, non sempre controllati e controllabili, tra la sua prassi concreta e l’intenzione dei suoi attori.

Detta con filosofica prosopopea, la comunicazione è contemporaneamente in sé e fuori da sé. O provando ad abbassare il concetto dentro una metafora pop: la comunicazione è sia l’indiano navajo che invia un messaggio di fumo da uno sperone di roccia arsa, sia il vento, il temporale e l’avvoltoio che si mescolano allo stessa nuvoletta di fumo bianco, modificandola a vari livelli. In seguito, sorvolando canyon e serafici cactus, raggiungerà lo sguardo vagamente ebete di Tex Willer, che a sua volta risponderà per vaporosi accenni.

E’ dunque proprio la comunicazione attraverso internet – dove il “fumo” è molto più invadente e opaco che altrove, poiché gli interlocutori manifestano un grado di presenza e di storicità biografica, se così posso dire, ridotta ai minimi termini – a risultare maggiormente impastata con le proprie modalità espressive. Se volete, potete continuare a chiamare internet un mezzo. Comunque ci siamo capiti: è quella cosa lì, internet, che non è buona né cattiva ma neppure neutra, come postula la prima legge di Kranzberg. Per tale ragione, proprio su internet avremo il massimo grado di interferenza significativa dovuta al "mezzo", al punto da azzardarci a rispolverare l’antica e felice intuizione di McLuhan: “the medium is the message”.  

La mia interlocutrice era perplessa e scuoteva la testa. Ma no, ma no, internet è uno strumento come tutti gli altri, ribatteva al pedante ragionamento con cui cercavo di avvolgerla. Ciò che fa la differenza sono i contenuti che noi siamo in grado di offrire, e la piena umanità che vi trasferiamo. Però, nonostante la premessa vagamente ottimistica, anche lei ammetteva che le relazioni telematiche possiedono con maggior frequenza un elemento vagamente patologico, dai lei attribuito a un’altrettanto diffusa patologia sociale. Siamo tutti un po’ peggiori di una volta, detto in soldoni.

Peggiori, sì, è verosimile… Ammesso che si trovi un accordo significativo sulla nozione opposta di migliore: un concetto comparativo che ci trova appesi alla coda guizzante di un’epoca morente, mentre il corpo della lucertola sta già disteso sotto a un sole che non scorgiamo ancora. In ogni caso non ti pare, sono intervenuto io assaporando una ghiotta occasione argomentativa, che questo “peggioramento”, questa patologia di relazione che riscontri nella tua attività, anziché una premessa possa essere interpretata come conseguenza dello strumento più diffusamente utilizzato per comunicare (il mezzo è il messaggio, again)?

Se però le cose stanno a questo modo – il mezzo che si mette in mezzo, assumendo se stesso come sorta di presente assoluto tra il prima e il poi –, chi è che dirige la tecnica informatica che fa da tramite nei nostri rapporti? Non sarà che la tecnica, priva per definizione di intenzioni estrinseche e strategiche, proprio per ciò finisce col svuotare di significato anche le nostre relazioni, come ci ha insegnato il buon vecchio Heidegger con i suoi ottimi pensieri e la sua pessima prassi…

Mmmm, la psicanalista scuoteva nuovamente la testa perplessa. Ed è in quel preciso momento che mi è venuto in mente un esempio concreto e sperimentato sulla mia pelle. Ma non lo sai, le dico, non sai che ci sono persone che chattano contemporaneamente con tre o quattro interlocutori? Io ne ho conosciute, ti giuro!

Mettiamo tua nonna, la incalzo. Secondo te, per tua nonna sarebbe stato normale parlare con tre o quattro persone nello stesso tempo? E non mi sto riferendo a un colloquio di gruppo, ma a tre o quattro scambi che, distintamente, si sovrappongono e intersecano di continuo senza mai produrre un dia-logo, ossia un Tu e un Io che si integrano e fronteggiano dialetticamente. Ma ciò che si realizza non coincide nemmeno con la nozione di con-versazione, dove il verso condiviso è quello del pronome Noi, con cui la contrapposizione verbale, non senza qualche attrito e scossone, si ricompone in sintesi comunitaria.

Ed è qui che, bum, avviene il botto. Con lei che mi risponde: Cosa c’entra, anche a me capita di chattare contemporaneamente con più persone, e con questo? E’ semplicemente un gioco.

Bene, avrete capito che anche il nostro scambio di opinioni, con quest’ultima uscita, si stava avviando verso il fischio finale. Un gioco che è un gioco possiede un principio, uno svolgimento e una conclusione. Che nella fattispecie corrisponde con la consapevolezza dell’esaurimento di ogni slancio e reciproca curiosità. Certe frasi, una volta pronunciate, segnano un punto di non ritorno. Come in quei telefilm dove il criminale pensa di averla fatta franca e sta lì a ridere e scherzare con il tenente Colombo. Poi però, in genere prima di andare via e girandosi lentamente, questi gli fa una domandina noncurante, e il criminale capisce che tra lui e l’altro ci sarà sempre un abisso, che si chiama Legge. Ecco, dopo l’affermazione della psicanalista io ho compreso che se fossimo stati bambini che giocano a guardie e ladri, beh, dopo quelle parole non avremmo mai più potuto darci di gomito dentro la stessa squadra.

Eppure questa sua dichiarazione schietta e per ciò, almeno entro certi limiti, ammirevole, non arrestava per nulla i miei pensieri al riguardo, ma in qualche modo li rilanciava. Premesso che ho sempre creduto che solo un mostro decerebrato potesse trascorre il tempo chattando con una molteplicità di interlocutori, scoprire che è anche il normale passatempo di una donna che stimo e rispetto – dimenticavo: oltre a essere psicanalista possiede due lauree, una in filosofia e una in psicologia – non limitava affatto il flusso dei miei pensieri dentro argini vagamente stereotipati, ma li faceva tracimare dentro la laguna del dubbio. Uno spazio informe in cui, seppur a malincuore, tocca sporcarsi le mani con qualcosa di più generale e incalzante, che è esattamente ciò di cui mi preme ora scrivere.

E dunque cosa intendeva dire la giovane psicanalista mentre pronunciava, chissà quanto volutamente, la parola gioco? Gioco è un termine particolarmente sdrucciolevole, che può caricarsi di significati diversi e perfino opposti. Con gioco, ad esempio, noi possiamo riferirci a un sistema di regole codificate e certe, che serve a contenere, come appunto nel gioco del calcio, gli impeti agonistici entro un sistema formale di rapporti. Dal punto di vista sportivo il gioco non si costituisce allora quale spazio di massima libertà espressiva, che si oppone ai solidi margini della realtà. Piuttosto, e per converso, rimanda a un’ipertrofia di tali ostacoli contingenti. Il gioco è insomma qualcosa di molto serio, perché seriamente noi assumiamo delle norme discrezionali – non prendere la palla con le mani, ad esempio, a meno che tu sia il portiere –, con ciò estendendo i vincoli del reale al dominio del fantastico.

Ma un gioco può rappresentare anche la condizione opposta, in cui la realtà viene come alleggerita nello scherzo – maddai, non prendertela, si dice: era solo un gioco. Con gioco si viene dunque a significare anche un’attività o un gesto privi di conseguenze, di effetti dentro la catena meccanica degli accadimenti reali. Per dirla ancora con metafora: è come una partita di tennis senza pallina, messa mirabilmente in scena da Antonioni nella scena finale di Blow-Up. Per tale ragione io tenderei a prendere molto sul serio anche la dichiarazione della nostra psicanalista: “E’ solo un gioco”, già. Ma a che gioco stiamo giocando?

Con la sua affermazione, pronunciata dal pulpito implicito del suo ruolo sociale (non dimentichiamoci mai che stiamo parlando di una psicanalista), la mia interlocutrice fa proprio un sentire diffuso del presente, e gli conferisce una sorta di fondamento epistemologico. La sua professione trova infatti collocazione all’interno di un rapporto significativo e dialettico tra esseri umani adulti e consapevoli. L’idea, obliterata dal suo status, è dunque che le relazioni tra persone, e in specie quelle mediate dai nuovi mezzi di comunicazione, non possiedono più alcun vincolo di realtà, nessuna reciprocità vincolante. A me sembra che sia questo il gioco a cui siamo convocati.

Il gioco della chat multipla, proviamo allora a metterlo sotto la lente linguistica dei saperi dell'inconscio. Un gioco in cui uno può iniziare o interrompere in qualsiasi momento, saltabeccare tra questo e quello, andare via. Magari dimenticandosi di salutare gli altri giocatori, senza che ciò preveda alcuna sanzione sociale. E’ così, semplicemente, è così e non diversamente perché a questo modo si imbastisce il nuovo tessuto sfrangiato dei rapporti: senza un Tu, senza un Io e senza neppure un Noi.

Quel che si profila è solo il fantasma immaginale degli interlocutori, che quando non è fondato sul semplice svacco (ingannare i minuti nella più totale atarassia, nel dubbio che dall'altra parte possa esserci anche solo un computer o un criceto ammaestrato), fa perno sulla figura eterna del desiderio, perlopiù svincolato anch’esso da un principio di realtà. Il desiderio modernamente esperito – ossia ancora una volta intercettato, mediato e diversamente configurato dai nuovi media – finisce così con il coincidere con le figure ricorrenti nella narrazione spettacolare. Con la consueta acutezza enigmatica, Jacques Lacan ha riassunto tale scivolamento nel termine Grand Autre. Ma se non sono più io, se non siamo più noi a parlare, ciò che a questo punto si manifesta è solo un flusso indistinto di parole. Un altro, appunto. Se non già un trans, un oltre, una novità antropologica così grande che sta ancora cercando le parole per dirsi.

La prima conseguenza di tale smottamento all’opera nelle nostre conversazioni su internet, è la caduta, come già abbiamo visto, di ogni prescritto galateo verbale. Ma se una risposta non è più dovuta per sensibilità o semplice forma al nostro interlocutore, ciò che otteniamo è un atteggiamento per nulla moderno e anzi antichissimo: si chiama irresponsabilità.

Irresponsabile, chi e quando si diventa ir-responsabili? Semplice, quando si smette di sentirci in debito di una risposta verso l’altro. E ciò perché l’altro, non quello grande di Lacan ma quello piccolo, quotidiano, fondato sul riconoscimento delle specificità, i sentimenti e in ultimo anche i diritti di chi si oppone al nostro soliloquio, non si è ancora costituito nell’universo cognitivo dei parlanti. Ciò che fa difetto è insomma quella struttura che lo stesso sapere psicanalitico ha chiamato Super Io, mentre filosofia e religione hanno variamente coniugato con i termini ethos, moralità pubblica, rispetto e amore verso il prossimo. E’ dunque questo l’orizzonte ulteriore che ci attende: il ritorno a un prima in cui il soggetto umano non si è era ancora costituito civilmente, e nessuna morale faceva da legante storico tra le persone?

Ho il sospetto che anche le nostre domande siano ormai andate troppo oltre, trascendendo quello che è stato forse solo uno sfortunato inciampo nell’argomentare della nostra psicanalista. Non è allora da mettere in contro alle sue intenzioni – sua responsabilità –  il progressivo dileguarsi di strutture biografiche certe, che facciano da argine alla deriva dei continenti della significazione. Eppure, rimane il sospetto che l’evidente declino del potere clinico delle psicanalisi derivi anche da questo: il venir meno della fiducia degli analisti nelle premesse “morali” della loro attività. Fondata sulla presenza di due soggettività identificate e in relazione, dove i due termini sono evidentemente condizioni reciproche di sussistenza. Senza identità non esiste infatti nemmeno relazione, e però anche senza una relazione pienamente vissuta vengono meno le condizioni attraverso cui è possibile distinguersi dall’altro, e dunque identità.

Ma se perfino gli psicanalisti passano il tempo a chattare, contemporaneamente, con tre o quattro sconosciuti che tali rimangono, e cioè privi di identità e di storia e di relazione, come possiamo sperare che la psicanalisi si offra ancora come terapia dell’anima? Anima che forse non nasce, come ha intuito un grande poeta, ma si costituisce nel riconoscimento reciproco tra le persone: "Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo" (John Keats). Al limite, la psicanalisi potrà essere allora un gioco tra altri giochi. Qualcosa che sta fuori dal mondo. O se preferite, uno scherzo.

domenica 10 giugno 2012

Io e Giorgio, un incontro

E poi magari la ritrovi all’Esselunga, mentre chino sul banco frigorifero stai cercando di capire dalla busta – è scritto piccolo piccolo  – se nel prosciutto Rovagnatti sono presenti tracce di lattosio. "Sei ancora allergico ai latticini?", ti chiede lei da dietro. E tu, girandoti di scatto e prima ancora di averla vista – quella voce impastata di gesso e matita rossa la riconosceresti tra un milione, anche quando grida al megafono Nessuno tocchi le foche monache! – tu le rispondi: "Quanto tempo, non pensavo di trovarti in un supermarket, ma non mangiavi solo biologico? Comunque ti trovo bene, davvero: sei bellissima!" Tu le rispondi con una frase confezionata dall'abitudine e che però risulta intaccata dal germe dell’imbarazzo, come quando il botulino fa tana dentro il domopack sgualcito. "Sei ancora allergico ai latticini?", ripete lei con la stessa implacabile cadenza. "Ma no, allergico, lo sai: sono semplicemente intollerante..." Intanto estrae dal frigorifero una grossa fetta imbustata di Cheddar, e dopo averla infilata nel carrello ti sussurra: "Io e Giorgio adoooriamo i formaggi inglesi". "Ah, sì, certo, i formaggi inglesi. Ma chi è Giorgio?" "Scusa, dimenticavo, non puoi sapere. Io e Giorgio ci siamo conosciuti a un seminario sul secondo Wittgenstein. Sai quello dei giochi linguistici e del Big Typescript, dopo che abiurò dal Tractatus Logico-Philosophicus. Anche io e Giorgio siamo convinti che la prospettiva della logica formale sia parziale e vada integrata con…" No, il lattosio no! E' indicato proprio alla fine, dopo i polifosfati e il glutammato. Te ne accorgi  ma non fai una piega, come Rambo quando si cuce da solo la ferita, mentre lei sta ancora parlando di Wittgenstein (il secondo Wittgenstein, attenzione!) e naturalmente di Giorgio. Così riponi sconsolato la busta di prosciutto Rovagnatti sullo scaffale. Poi, rivolto verso la cascata fulva dei suoi capelli, racchiusi da un fermaglio etnico che fa da sipario alla nuca scoperta e abbronzata: "Wittgenstein, il secondo Wittgenstein, condivido". Tanto lo sai che ha conosciuto Giorgio dove ha conosciuto anche te, su quel sito in cui tu dichiaravi di amare la musica di Leonard Cohen e lei ti ha scritto per dirti che Leonard Cohen è il suo cantante preferito, che combinazione, anzi, che sincronicità!, ma quante cose condividiamo, conosci Wittgenstein?; con un post scriptum in cui ti chiedeva di mandarle un paio di tue fotografie, possibilmente recenti. "Ti piace ancora Leonard Cohen?", dice allora lei oppure tu, non è tanto importante, perché se tu rispondi sì lei dirà di no, io e Giorgio adesso ascoltiamo solamente musica barocca, specie la scuola veneziana, e se invece sei tu a prendere le distanze lei alzerà la posta, aggiungendo che la voce di Giorgio somiglia tanto alla timbrica cavernosa di Leonard Cohen, uguale uguale, davvero, dovresti sentire. E così, scovando finalmente un prosciutto senza lattosio al doppio del prezzo degli altri, non puoi esimerti da una domanda, che continua a frullare nella testa di milioni di uomini. Ma perché, un uomo, quando trova una nuova compagna fa di tutto per occultare o comunque minimizzare la cosa, mentre una donna, al contrario, oppone al mondo intero quella felice e transitoria condizione? Io non credo che sia solo per il gusto sottile della rivalsa: avresti potuto avere questo bendidio e adesso guardati, tu e il tuo stramaledetto prosciutto senza lattosio. No, non è solo questo. E’ che le donne, come suggeriva Aldo Busi, somigliano a immense montagne candide. Ognuna con proprie pendici, boschi, ruscelli, che mal sopportano di legarsi in catena, o nella borbottante promiscuità di una dorsale. Eppure, nonostante questa fiera riluttanza a fare branco, a darsi di gomito, hanno bisogno della picozza di un alpinista, da conficcare sulla sommità. Asta posticcia di bandiera su cui far sventolare un drappo colorato, a parziale risarcimento della fatica per raggiungere la vetta. Sì, proprio come il cartellino rosso nel bagno: occupato!

sabato 2 giugno 2012

Consigli di boicottaggio

Da qualche giorno ho notato che alcune parole contenute in questo blog risultano linkate. E' sufficiente sfiorare i termini in questione con il puntatore del mouse - il termine carne nel post precedente, ad esempio - perché si aprano dei pop up pubblicitari che invitano a qualche sorta di gioco informatico: per poter "vincere il nuovo iPad", o almeno così viene sbandierato. Non so se la cosa avvenga su tutti i computer e con tutti browser - ad esempio, a me succede solamente con Google Chrome - e mi sembra perfino pleonastico aggiungere che io sono del tutto estraneo a tali invadenti intrusioni pubblicitarie. Considero però un buon costume difensivo dallo spamming ciò che gli psicologi chiamano modernamente formazione reattiva, ma il cui meccanismo già era stato intuito e descritto da Friedrich Nietzsche, che con la consueta enfasi nominale l'aveva battezzato "malattia delle catene". In soldoni: fare il contrario di quello che ci viene detto. Per questa ragione io invito i lettori di Fontana con soldino a NON acquistare quel sopravvalutato accrocchio informatico intinto nell'acqua benedetta da Steve Jobs, né a partecipare ad alcun gioco con cui cercano di spennarci qualche nocciolina. Ok, Nietzsche avrebbe biasimato anche il mio suggerimento - secondo il grande filosofo l'opposizione rappresenta una forma di vincolo, già che non ci consente di emanciparci psicologicamente dall'oggetto che ha suscitato la nostra re-azione negativa. E dunque il nostro gesto di rivolta, fosse solo cognitiva, possiede un intimo valore controfattuale, di natura per l'appunto "incatenante". Trasformare i consigli per gli acquisti in consigli di boicottaggio, beh, andrà allora considerato come un leggero raffreddore da catenelle, diciamo così, ma mi sembra l'unico spiraglio che hanno lasciato alla nostra gabbietta. E allora cacciamoci il becco e cominciamo a grattare!