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lunedì 1 settembre 2025

Professionalità (mi ricordo 48)

Mi ricordo che compresi quasi subito la prima regola, come in tutte le attività si trattava di specializzarsi. Da qui la premessa per crearsi una professionalità. La mia specialità, che faceva di me un chierichetto altamente professionale, era porgere le ampolle con l’acqua e il vino al momento della consacrazione eucaristica. Le mani dovevano essere ferme e sicure, se qualcosa finiva in terra lo show era bello che rovinato, non si poteva girare una seconda scena come a cinema, o era buona la prima o don Remigio ti guardava storto, con tutto quello che ne seguiva... Era successo a un ragazzino con gli occhi cisposi a cui scendeva sempre il moccio dal naso. Aveva inciampato nello scendere i gradini del presbiterio per tendere la tovaglietta al momento della comunione dei fedeli, e da quella volta non si era più visto. All’oratorio, comunque, veniva ancora, non era stato fatto uccidere e poi disciolto nell’acido.

Per fortuna don Remigio non si era mai lagnato della mia professionalità – e ci mancherebbe pure, per giorni avevo fatto le prove a casa con le bottigliette dell'olio e dell'aceto –, e il talare nero sopra a cui indossavo la cotta bianca mi stavano una cicca! Peccato che mia nonna non fosse mai venuta a vedermi nella chiesa grande, tutti la chiamavano così, di fatto si trattava della Collegiata dedicata ai Santi Gervasio e Protasio. A lei risultava più comodo andare in un’orrenda chiesetta modernista a Montagna Piano, più vicina alla fattoria dove abitava con il nonno. Sono certo che la nonna Maria sarebbe stata orgogliosa di me: il nipote chierichetto vale più di otto vasi di gerani al balcone, perfino più di una mucca bruna alpina che produce trentacinque litri di latte.

Ciononostante occupavo la base dell'organigramma ecclesiastico, mi venivano concesse solamente funzioni minori. Un chierichetto poteva dirsi realizzato nel servire la messa della domenica mattina alle undici. Una circostanza in cui le panche erano occupate in ogni fila, anche le seggioline poste a ridosso delle cappelle con le scene dei santi, pieni gli stalli del coro dietro l’abside, tutto esaurito nello spettacolo con più repliche al mondo, e un sacco di persone in piedi. Si trattava perlopiù di maschi adulti accalcati vicino all’acquasantiera in marmo, così da potere uscire di tanto in tanto a fumarsi un MS, mentre le mogli si inginocchiavano per meglio gustare il corpo di Cristo.

A me il corpo di Cristo non sembrava questa gran prelibatezza, preferivo i bignè di Ortelli. Qualcuno li acquistava prima dei canti iniziali, varcavano il portale con in mano il cabaret avvolto da una carta marrone; in tal modo, al termine, non rischiavano di trovare la vetrinetta sprovvista del dolce che aveva fatto la fortuna della pasticceria. La proprietaria assomigliava in modo incredibile a Moira Orfei, credo lei lo sapesse e facesse di tutto per alimentare la cosa – trucco marcato, specialmente a lato degli occhi, capelli neri raccolti in una crocchia centrale – anticipando il fenomeno dei cosplay.

In chiesa la gente poi non sapeva dove mettere le paste, le posavano sulle ginocchia mentre tenevano le mani giunte; una sovrapposizione tra sacro e profano che era bella da vedere: l'incenso fuoriesce dal turibolo e la crema pasticcera preme sulle pareti sottili della pasta choux. La costrizione avrebbe avuto termine solamente a fine pranzo, quando si scartava l'involucro e ci si sedeva sul divano a guardare il Gran Premio di Formula 1. Le palpebre calavano piano piano con in bocca il sapore di bignè.

Intanto, la mia carriera languiva. Ok, venivo convocato anche per i funerali, ma non mi piaceva l’atmosfera: tutti avevano la faccia lunga e zero complimenti per me, possibile che nessuno si accorgesse della professionalità con cui porgevo le ampolle? La ragione non mi sfuggiva, quello era il gran giorno per chi giaceva dentro la bara posta al centro della navata centrale, era lui, o lei, a essere protagonista. Razionale, ma comunque ingiusto. Alla fine ciò che si offriva agli occhi umidi era solo un parallelepipedo di legno di rovere o noce, per il direttore di una banca si scelse un ebano scuro di grande effetto, ma perlopiù si trattava di larice, abete e pino; le vecchie vedove mettevano da parte i soldi della pensione per l'acquisto definitivo, così da non gravare sul bilancio dei figli. E tra un morto e una messa serale, sempre e solo messe serali, dall'armadio la mamma aveva tirato fuori gli abiti primaverili.

Venni convocato da don Remigio per la benedizione pasquale degli appartamenti, e lì mi parve di avere finalmente svoltato. Quando suonavo il campanello, la croce issata come il pilota che aveva vinto il Gran Premio faceva con la coppa, le persone ci accoglievano con un sorriso, e prima di andare mi allungavano una caramella Rossana, un cioccolatino Lindt, una qualsiasi cosa accompagnata da una carezza sul collo. Arrivati all’appartamento di un professore, non ricordo la sua specializzazione, sulla targhetta stava scritto solo professor Tal dei Tali, si aprì uno spiraglio tra porta e infisso. Non mi interessa sibilò una voce da dentro, sono ateo. E sbang, richiuse bruscamente, lasciando sul pianerottolo un vago sentore di cane bagnato. Poveri Testimoni di Geova, pensai.

Nel mio caso fu un episodio isolato, anche la benedizione degli appartamenti intendo. Restavo un chierichetto di seconda categoria, la scalata ai vertici vaticani si era arenata – cosa c’era che non andava in me? Eppure ero professionale anche negli orari, mi presentavo sempre con un’ora di anticipo, nel timore che altri aspiranti chierichetti venissero per farmi le scarpe. Una volta introdotto in sacrestia mi rivestivo con cura, è inutile che spieghi l’odore che aveva la sacrestia della chiesa grande, tutte le sacrestie hanno quell’odore lì, la gente giustamente lo chiama odore di sacrestia.

Credo di non averci più messo piede dopo avere trovato un giornaletto in un prato, ero con Federico e stavamo percorrendo una scorciatoia nel tornare da scuola. Grattando le pagine appiccicaticce e terrose, comparve l’immagine di quattro uomini e una donna grassottella; lo si vedeva bene che era grassottella perché era svestita, ci fissava con due occhietti simpatici e furbi. Uno degli uomini aveva un drago tatuato sul petto e avevano appena fatto una specie di pipì bianca dentro la bocca della donna grassottella. Federico mi aveva rivelato che non si trattava di pipì: si chiama sburra, come il burro ma con la esse di Silvan davanti. Suo cugino, due soli anni più di noi, già sburrava alla grande.

Uno dei quattro, non quello con il drago che sputava fuoco, portava le basette lunghe e anche il coso pareva un candelabro, almeno se confrontato ai lumini che tenevamo io Federico. Particolare che avrebbe dovuto aiutarlo a essere più preciso, come avviene con i fucili rispetto alle pistole. Invece aveva sbagliato mira, il liquido vischioso era finito sui capelli biondi, mossi, da cui colava sul volto paffuto; ma secondo me i capelli erano tinti, e lei si era messa i bigodini per meglio figurare. Anche per farsi sburrare in bocca è necessaria professionalità, e l’uomo che aveva mancato la mira ne aveva mostrata pochina. Se fossi stato l’editore del giornaletto col cavolo che lo richiamavo per un nuovo servizio, avevo imparato la lezione di don Remigio. Lo mandavo a colare altrove la cera del suo lungo candelabro.

Quanto alla mie competenze professionali, mi furono utili in seguito per versare il vino a tavola, ci penso io dico ancora adesso se viene stappa una bottiglia, quando uno sa fare bene qualcosa è giusto che la faccia, ma non ho più rimesso piede in sacrestia. Con Federico avevamo trovato il giornaletto più interessante, molto più interessante. Ci immaginavamo che se centravi la bocca il fotografo ti diceva bravo, mentre a noi non diceva bravo nessuno, tutto quell'impegno per imparare una professione nel campo dello spettacolo, e nemmeno la nonna veniva ad applaudirti.

Ho dimenticato di dire che anche Federico faceva il chierichetto, non ricordo quale fosse la specializzazione, ma potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua professionalità. Due minimi professionisti a cui non è mai stata data l’occasione di esibirsi alla messa della domenica mattina, secondo me c’era sotto un giro di raccomandazioni, per non dire di peggio. Magari avremmo proseguito nella carriera, ci saremmo iscritti in seminario, diventati preti, cardinali, persino papi… Perché mettere dei limiti allo Spirito Santo?

domenica 24 agosto 2025

Il reale e il possibile (mi ricordo 47)

Mi ricordo l'ingresso di Fabio dalla porta a vetri del Bar Sole, dopo avere parcheggiato l'Oscar College accanto all'aiuola sul Lungo Mallero Diaz. Indossava come al solito scarpe da pallacanestro con una stella rossa sul lato, superò il videogioco dove Shultz stava sbranando dei fantasmini, e fu a quel punto che Fabio lo disse, rivolgendosi a tutti e a nessuno: Buttategli giù una colata di cemento, una bella colata di cemento ripeté, valutando forse che l’aggettivo bella avrebbe dato maggior vigore alla frase. Ma nemmeno così aveva funzionato, dai tavoloni in legno di abete dove stavamo bevendo birra alla spina le espressioni erano perplesse, più che di vera riprovazione. Fece allora un passo indietro: L’ha detto mio fratello. Particolare che cambiava naturalmente le cose. Se l’ha detto il fratello di Fabio che ha già ventitré anni, si vede che a ventitré anni e cioè da grandi ma non ancora adulti, in quell’interregno tra l’infanzia e il cartellino da timbrare da cui recalcitrava solo Rocky Balboa, si vede che si può scherzare come facevamo su ogni altro argomento, è ciò che gli anglosassoni chiamano black humor. Intanto, Richard Sanderson smise all'improvviso di colare melassa sonora, e alla sua Reality, dalla radio accesa nel locale, subentrarono gli aggiornamenti da Vermicino. Era la prima volta che si sentiva nominare quella frazione romana, la toponomastica non invitava ad approfondire. Ma il caso o l’imperizia di qualche muratore avevano voluto che, proprio lì, Alfredo Rampi detto Alfredino fosse scivolato in un pozzo artesiano. Un uomo molto piccolo e magro, un contorsionista soprannominato Uomo Ragno, si era offerto di calarsi all'interno dell'angusto cunicolo, nel tentativo disperato di acciuffare la mano del bimbo di sei anni e riportarlo in superficie, dove i cameramen delle televisioni pubbliche e private lo attendevano per lo scoop. Ma assieme a loro l’attendeva l’Italia intera, non si parlava d’altro: chi non era al lavoro osservava le immagini che provenivano dal televisore con apprensione, a nessuno sarebbe venuto in mente di riderci sopra. Facevano eccezione una decina di quindicenni stravaccati in un bar sondriese a sorseggiare Stella Artois, una decina di coglioni e anche un coglione un poco più grande, dall'alto del suo prestigio anagrafico aveva dato la stura a risolini prima timidi e poi gongolanti e scomposti – in fin dei conti è grazie al fratello di Fabio che avevo scoperto Michel di Claudio Lolli, non poteva essere ammattito da un giorno all'altro –, mentre Fabio continuava a ripetere una colata di cemento, buttategli giù una bella colata di cemento, pago di avere ottenuto il suo scopo. Non era nemmeno cinismo, probabilmente desiderava solo scaricare a terra la tensione accumulata alla maniera dei parafulmini, la realtà era un castello di Lego costruito dalle mani tremolanti dei vecchi, così chiamavamo i nostri genitori, il mio vecchio, la tua vecchia, bastava smontarlo per ricomporre i mattoncini in forma caricaturale e buffa, non si può essere oltraggiosi verso ciò a cui non si crede fino in fondo. Ed è forse questo il senso ultimo di ogni adolescenza: opporre il possibile al reale, nella convinzione che possiedano la medesima natura liquida, onde quantistiche non ancora collassate che si infrangono contro il lungomare di giorni lunghissimi e lieti. Poco importa se l'alternativa abbia carattere sarcastico o romantico o eroico, i fatti sono un'opzione drammaturgica tra le altre, vincolante solo per chi vi abbocca. Due giorni dopo la radio del Bar Sole comunicò che, purtroppo, un avverbio sul quale indugiò con patos vagamente teatrale il giornalista, Alfredino era morto. E il mondo che era un blocco morbido di Das da plasmare e riplasmare a piacimento, si solidificò in un istante.

martedì 19 agosto 2025

Vite parallele (mi ricordo 46)

 


Mi ricordo di Sinead O'Connor, avevamo la stessa età. Coscritti si dice, così vengono salutati i ragazzi che vanno in guerra, scarpe grosse e un paio di tavolette di cioccolato nello zaino, l'M14 come nuovo giocattolo da farsi bastare fino al Natale successivo. Noi però siamo figli di un armistizio, sembrava non avere mai termine e l'abbiamo chiamato pace; il Vietnam era troppo lontano per prenderlo sul serio, e allora lo si prendeva per fiction nelle pellicole con i Viet Cong che, quando parlavano, sembravano in preda a una crisi isterica, non si capiva un cazzo malgrado i sottotitoli. In assenza di un nemico, i coscritti scrivono il proprio anno di nascita sui contrafforti in cemento delle strade di montagna: W quelli dell'annata tal dei tali, classe di ferro; avviene soprattutto nei paesi, in città si è smesso di festeggiare la comune gettatezza nel tempo; Heidegger, almeno, la vedeva a questo modo: per lui l'esistenza era simile a una partita a flipper, dove gli esseri umani hanno il ruolo della pallinaSinead O'Connor e io siamo stati gettati tra i bumper nel 1966, l'anno in cui Simon and Garfunkel pubblicano l'album Sounds of Silence. Le note della canzone omonima – "hello darkness, my old friend /I've come to talk with you again..." – fanno da colonna sonora alla scena della piscina nel Laureato. Al centro galleggia un materassino marrone, Dustin Hoffman ci sta disteso sopra, fissa il cielo con degli occhiali scuri che ne imbronciano l'espressione, la pelle del corpo è abbronzata e lustra per via della crema solare. Quando finalmente si immerge lo spettatore dovrebbe pensare a una sorta di catarsi, ma io ho sempre pensato a dove fossero finiti gli occhiali, immaginandoli andare lentamente a fondo e posarsi sulle piastrelle azzurrine. Nel montaggio la sequenza viene alternata con gli amplessi assieme a una donna, Mrs. Robinson, che allora si diceva matura e ora MILF; se ho ben capito, significa Mother I'd Like to Fuck. A quanti anni si diventa donne mature? E quand'è che la maturità, il solstizio d'estate, in seguito le giornate cominciano ad accorciarsi e le cose si trasformano in altre cose, simili ma un po' sbrecciate, quand'è che tutto ciò è divenuto oggetto di spregio, fotti la vecchia e poi condividi il filmato con il gruppo di amici su WhatsApp? Sinead O'Connor festeggiava il compleanno l'8 dicembre, quale migliore luogo di un pub irlandese, all'uscita la condensa del fiato galleggia davanti alla bocca; da bambini era un efficace surrogato alle sigarette, nei mesi più freddi si poteva mimare Humphrey BogartIo sono nato il 19 aprile, il mese più crudele. Osservando con attenzione le immagini spicca l'atteggiamento di quel ragazzo con i baffi e la zazzera: fissa l'obiettivo con sfida, si intuisce un rivale da intimidire o un'amante da sedurre, che poi è lo stesso. Vita. Ma ancora potenziale, involtolata, un'ombra su un materassino che la separa dal liquido tiepido a cui vorrebbe ritornare, proprio come Dustin Hoffman. Passando di fronte allo specchio del bagno ricerco la strafottenza di quei giorni, ma ritrovo solamente l'ombra, diluita come il pittore maldestro diluisce l'impasto della tempera con troppa acqua: prima difettava ma adesso ce n'è troppa, allaga. Sinead O'Connor è invece già da subito impregnata dall'ombra. Lo sguardo, altrove, restituisce la sensazione di uno scoiattolino, dentro occhi enormi e bellissimi fa spazio alle infinite sfumature del bosco; la mano sotto il mento è un nido, il braccio fa da tronco. In lei non c'è traccia del compiacimento a cui il successo avrebbe potuto indurla, ciò che vediamo e non vediamo, per suo tramite, è puro accadere. Ma cos’è che accade? Una parola inquietante se ne raschiamo la superfice festosa, insinua il concetto di caduta. Con la differenza che non si precipita nelle tenebre, ma si viene colpiti e affondati dalla luce; una luce troppo forte, abbaglia, fino a vanificare le forme che avrebbe dovuto rischiarare; i mistici gli danno nomi diversi, Carmelo Bene usa l'espressione depensamento. Si depensava bene negli anni Ottanta, posso dire solamente questo, in ciò così diversi dall'attuale finto pensare, scrivere, almanaccare sui social. Ma torniamo alle fotografie. Sorridi, no, non sorrido, faccio il bel tenebroso, non è difficile risalire a quel che mi passava allora per la testa. E in quel perfetto oggetto di design che è il cranio ovale di Sinead? Non si capisce, non si è mai capito. La successiva adesione all'Islam, l'immagine del Papa stracciata, il figlio suicida e la ricerca di un nuovo fidanzato su internet; tutte tessere dello stesso enigma. Eppure, nel momento in cui il suo volto si imprime sui cristalli di alogenuro d'argento, sembrava un'esistenza limpida, non diversa dall'equazione semplificata per riassumere il mondo, tanto poi suonava la campanella e il bidello cancellava lo scarabocchio dalla lavagna. Lei era quella che si rasa i capelli a zero. Punto. Così si fa prima a disegnarla sul diario. Nel frattempo le candeline sulla torta erano salite a ventitré, due torte per la precisione, una a Sondrio e una a Dublino, tante quante le battaglie combattute dai coscritti nella loro guerra di marzapane. Sulle sue candeline ci soffiava direttamente Eolo, le folle ai concerti strillavano BRAVA, ancora, bis, e l'aria che si accompagna all'emissione della voce spegneva una fiamma che non si sarebbe più riaccesa. Non so se qualcuno abbia mai detto bravo a me; di certo non mio padre, men che meno i professori dell'Istituto Tecnico Commerciale De Simoni; io avrei voluto iscrivermi al liceo scientifico, ma giusto perché ci andavano i miei amici. Poco importa. Ciò che davvero mi importava era depensare a bordo della Vespa PX 125 bianca, impennavo leggermente quando compariva la luce verde al semaforo, nella vetrina di Caramatti la stagione autunno inverno della linea Stone Island, il sabato sera si andava in una discoteca chiamata Tempio e giovedì alla Moia, a settembre puntuale l'esame di riparazione in matematica. Andavo anche in palestra e da un parrucchiere che si chiamava Equipe 2000, ancora undici anni e ci saremmo finalmente arrivati: il fatidico anno della svolta di secolo, di più, di millennio! Era infatti il 1989, erano gli anni Ottanta, erano... Ma questo l'ho già detto, come tutti i vecchi tendo a ripetermi.

venerdì 15 agosto 2025

Fantasmi (mi ricordo 45)

Mi ricordo l'insinuarsi delle nuvole fin dentro i porticati del collegio di Celana, accadeva di frequente nei giorni di maltempo, uno avrebbe potuto confonderle con nebbia o con fantasmi che si erano smarriti. Dopo un'abbondante colazione io andavo incontro ai fantasmi e raggiungevo i bagni nel cortile esterno, dove mi rinchiudevo e poi accendevo una Marlboro.

Non lo facevo per nascondermi, avevo il permesso di fumare sottoscritto dai genitori. Erano sette minuti di raccoglimento a occhi chiusi, sette minuti, tanto dura una Marlboro, con le gambe divaricate ai due lati dell'abisso della turca. Mi servivano per iniziare la giornata che si sarebbe conclusa con un film, a selezionarlo era Don Gino attento a evitare scene scabrose, peggio che mai l'intercalare di Tomas Milian nei panni dell'ispettore Giraldi. Sette minuti. Come la chiavetta sulla schiena per caricare il soldatino. 

Naturalmente è una metafora, ma davvero avevo l'impressione che ogni volta che si ravvivava la brace della sigaretta e i miei polmoni assorbivano nicotina, io accumulassi energia potenziale elastica, da convertire in cinetica nel corso delle ore successive. Mi doveva servire fino a quando ci saremmo avviati ai dormitori, dopo la consueta preghiera collettiva, in un tempo in cui era collettivo ogni altro momento tranne le funzioni corporali, e scandito da un minuzioso cronoprogramma dettato dai preti. Il giorno dopo si ripartiva con un altro giro di chiavetta, quella mattina le lezioni iniziavano con l’ora di inglese.

Il professore risaliva la strada innevata a bordo di una Lancia Fulvia color amaranto, già allora veniva considerato un modello superato, altre vetture si contendevano le vetrine dei concessionari in quell’inverno del 1983, pochi giorni prima Tiziana Rivale aveva vinto il Festival di Sanremo con Sarà quel che sarà. Era un bell'uomo con i baffi, il professore, poteva avere una quarantina d'anni, e folti e arruffati capelli castani, l’espressione arguta ma sempre un poco triste. Ho scordato il nome e anche il cognome, succede. Chiamiamolo Alfonso. Mi sono fatto l’idea che con una faccia così doveva chiamarsi Alfonso, o comunque uno di quei nomi un po’ anacronistici, come la sua Lancia Fulvia berlina. 

Entrato in classe si capì subito che era un giorno diverso dagli altri, gli occhi di Alfonso erano più tristi del solito. "Oggi non facciamo lezione" disse senza tanti giri di parole. "Per favore non chiedetemi la ragione. Ma bisogna pur impiegare i nostri sessanta minuti, e così ho portato questo." Estrasse dalla cartella di pelle consunta un registratore portatile, l’audiocassetta era già inserita, schiacciò un tasto e cominciarono a uscire le note, la qualità audio era disastrosa. "È la Petite Suite di Debussy" disse dopo una decina di secondi di sorpresa.

"Un compositore inglese? Fa parte del programma?"

A parlare era stato Tomasoni, d'altronde aveva prima alzato la mano, era il capoclasse e si sentiva in dovere di indagare. Alfonso sembrò per un attimo ritrovare il barlume di un sorriso. "No Tomasoni, non fa parte del programma. Con l'inglese non c'entra niente, nemmeno con i motivi per cui i vostri genitori vi hanno mandati qui per studiare la ragioneria: chi in futuro accoglierà i clienti allo sportello di una banca, chi gestirà l'impresa di famiglia. Non sempre si possono fare cose utili a uno scopo" aggiunse, "e Debussy non serve a niente. A NIENTE" ripeté come se questo termine gli si fosse incastrato tra i denti. "Ma ascoltatelo lo stesso."

Non so quantificare il tempo trascorso, lui alla cattedra con le mani immerse nella selva dei capelli, il suo dolore pareva diventato immenso, noi in silenzio con i gomiti sui banchi in legno massello. A parte Tomasoni, gli altri avevano intuito che si stava manifestando un altro tipo di fantasma, gli archi erano subentrati al prevalere iniziale dei fiati, che comunque continuavano a dettare la linea melodica. Poi il merlo di Don Gino gracchiò un suono prolungato dallo studio in fondo al corridoio, ma sembrò venire incorporato nella composizione. In quel momento tutto si teneva in un'unica cornice sconfinata.

Non che fosse il nostro genere preferito, ma forse perché inattesa, la situazione prima ancora della musica, ci stava parlando uno per uno, non alla seconda B. L'inutile aveva fatto irruzione in forma organizzata e transitiva e finalmente ammissibile. Inutile allo stesso modo del mio rituale di chiudermi al cesso per fumare, inutile il dolore di Alfonso, inutili le nuvole che si insinuavano dentro i porticati di Celana, il collegio dove quasi cent'anni prima aveva studiato Giuseppe Roncalli, più noto con l'affettuosa formula di Papa buono. Inutile tutto quanto.

"A cosa serve la bellezza?" chiese infine Alfonso prima che suonasse la campanella che introduceva all'ora successiva, Tomasoni aveva già preparato sul banco il libro mastro dove segnare i profitti e le perdite. A caricare la chiavetta sulla schiena, ecco a cosa serve, non è vero che non serve a niente!

Ma le risposte giuste arrivano sempre in ritardo, quando l'interlocutore è già montato sulla sua Lancia Fulvia, ridisceso i tornanti che portano ai capannoni e alle fabbrichette, le betoniere arancioni trapuntano la provincia lombarda più laboriosa, qui non si sta con le mani in mano ti ripetono, e diventato a sua volta un fantasma.

Sono passati quarantadue anni da allora. È curioso: ricordo ancora il cognome di Tomasoni, non quello del professore. Eppure non mi è rimasto il suo zelo fattivo, ma le note di Debussy. Si mescolano all'odore di piscio in quell'eterno mancare il bersaglio dei maschi, tracce di merda nel bagno dove ci facevamo anche le seghe, le canne rollate con un movimento del polso analogo alle partite a bigliardino, tutto l'illecito passava da lì. La vita insomma che pensavamo fosse fuori dalle alte mura per non lasciare sfuggire i convittori, a differenza delle ragazze che venivano solo per le lezioni mattutine, poi ci lasciavano a contemplare il culo basculante mentre tornavano dalle famiglie a Brivio, Calolzio Corte, Pontida, Cisano e Caprino Bergamasco, dopo cena si accendevano i televisori sintonizzati su PortobelloDrive In sarebbe arrivato il 4 ottobre dello stesso anno.

E invece la vita era già tutta presente e arroventata, la punta della mia Marlboro ne era una replica in scala diminuita, con tutte le altre sigarette condivideva l'unico limite di consumarsi troppo in fretta. Ma quella è una figura del dopo. Per capire l'adesso che avvolge l'esistenza anche quando non si vede, quando sembra tutto perduto, le mani tra i capelli e venticinque zucconi che ti guardano come se fossi un marziano, bastava pigiare il tasto di un registratore dal suono obiettivamente disastroso.

Torte, libri e seggiovie (mi ricordo 44)

Mi ricordo del primo libro che acquistai, l’aggettivo primo era presente già a partire dal titolo, La prima fetta di torta, a firmarlo se non forse a scriverlo fu Sandro Mazzola, detto Sandrino. Recita il sottotitolo: i problemi, le speranze, le delusioni di un ragazzo con voglia di pallone.

Fino a quel momento avevo letto solamente libri che mi passavano i genitori, di solito si trattava dei romanzi di Mino Milani ambientati nel West; per convincermi a una pratica verso cui non mostravo alcun interesse precoce, anzi e a dirla tutta scantonavo, facevano leva sulla mia passione per i fumetti di Tex Willer. Ma avevo anche già letto Il vecchio e il mare di Hemingway. Lo cominciai, tra uno starnuto e l'altro, una mattina in cui non ero andato a scuola, per terminarlo prima che cominciasse Zorro in tivù. La scelta fu dettata dal fatto che era il volume con meno pagine, almeno tra quelli presenti nella libreria di papà. Poi venne il desiderio di un libro tutto mio, e dal momento che Mazzola era il calciatore che aveva fatto tana nel mio cuore (quando ero più piccolo mi era stata regalata una bambola che ne riproduceva le fattezze, ora la si trova su eBay a prezzi stratosferici) la sua autobiografia mi sembrò la scelta naturale.

Era un uomo affabile, di solito le persone affabili sono un po' rotondette, mentre lui era secco secco ma dalle gambe lunghe e potenti, con cui riusciva a liberarsi dalle marcature a uomo dell'epoca, terzini alla Burgnich che ti seguono fin dentro agli spogliatoi. Inoltre era molto bella anche la copertina, raffigurava un prato verde con alle spalle una porta da calcio, al suo interno undici uomini pronti per iniziare la partita. Ciascuno indossava la blusa di un diverso club, ma erano accomunati dallo sfoggiare i baffetti di Sandro Mazzola. In primo piano, sempre dipinto, un pallone di cuoio con la cucitura esterna, da cui fuoriuscivano i lacci per rinsaldare gli spicchi. Un vero spauracchio nei colpi di testa.

Da parte tenevo un po’ di soldi frutto delle mancette di Natale e compleanno, e così mi avviai verso la libreria Alesso; più che altro era una cartoleria, ma qualcosa comunque si trovava. Chiesi del libro. Sì, certo, l'abbiamo. È edito da Rizzoli: vuole l'incarto da regalo? No grazie, è per me. Tornai a casa e cominciai a leggere sul divano in tessuto grigio del soggiorno.

Temo di avere scordato il contenuto, ho solo qualche reminiscenza. Ad esempio la tragica morte del padre nell’incidente aereo di Superga, al dolore personale si unì un ammonimento filosofico: la grandezza, quella del grande Torino spazzato via in una maldestra manovra di volo, come la bellezza è transitoria; e poi l'esame di maturità sostenuto nel giorno del suo esordio in Juventus Inter, era il 10 giugno 1961, diventò ragioniere poche ore prima di segnare il suo primo gol in serie A; il rapporto con il più giovane fratello Ferruccio, che non riuscì mai a ottenere gli stessi risultati sportivi. Non è solo un fatto di impegno, il talento è asimmetrico e distribuito senza ragione apparente. Tutti motivi della grande tradizione letteraria, mi viene in mente Il soccombente di Thomas Bernhard, al modo di un frattale potevo ritrovarli in un libro alla mia portata, quella di un braccio più avvezzo allo scaffale delle patatine.

Potrei aggiungere che da quel giorno divenni un lettore accanito, ma non sarebbe vero: continuavo a preferire le biciclette da cross, i fucili a elastico, gli occhi marroni dei cani e quelli azzurri delle ragazze tedesche; le riconoscevi in campeggio dalle tre bande cucite sulla maglietta Adidas, e dalle cosce snelle arrostite dal sole.

C’è chi sostiene che la letteratura rappresenti un doppio della vita. Io penso che sia più modestamente una sua regione un po’ discosta, ci vuole determinazione e pazienza per raggiungerla, ma anche il coraggio di Charles Marlow in Cuore di tenebra. Al termine si potrebbe scoprire una diversa geografia dell'umano. Ha il vantaggio, non trascurabile, che ci si entra uno per volta o al massimo in due, come su certe seggiovie; l'altro è l'autore, o per essere più precisi la voce narrante. E mentre sfogli le pagine si mette in moto la seggiovia, risale le pendici di un monte che può essere più o meno alto, lo vediamo animarsi dei personaggi della narrazione. Non tutti i giorni abbiamo le forze per raggiungere l’Himalaya, si può anche andare in libreria e, invece di Delitto e castigo, chiedere l'autobiografia di Sandro Mazzola. Che è poi quello che ho fatto io.

Per un po’ è stato bello stare in sua compagnia: mi diceva guarda lì, guarda là, guarda me. Ma dopo un centinaio di pagine mi venne voglia di scendere – interrompere la lettura è uno dei fondamentali diritti del lettore, scrive Pennac – e lo salutai per lasciarlo proseguire da solo. Adesso mi piace ancora leggere, ma non ne ho fatto un'ossessione. Non comprendo chi vede nella letteratura una Gerusalemme Celeste, pubblicando sui social la copertina dei libri appena letti. È solo carta rilegata penso.

Però devo ringraziare Mazzola e tutte le fette di torta che sono seguite, mi hanno insegnato a scorgere il lato incerto delle cose, il fatto che una torta è una torta ma anche qualcos'altro, una seggiovia è una seggiovia ma pure una via senza più alcun seggiolino, una possibilità a cui non avevamo ancora pensato, o che conoscevamo senza possederne le parole. C'è spazio perfino per l'ovvio, ed è qui che incontriamo la differenza altimetrica: il cattivo scrittore rimane a fondovalle, mentre quelli che poi chiamiamo classici si arrampicano fino a ribaltare le premesse.

Una volta che si sia appresa la lezione – il mondo è liquido – la si può applicare a tutto il resto. Io la misi subito in atto, trovando il mare a lambire il condominio sondriese dove abitavo negli anni Settanta, il cortile era diventato un golfo da navigare in compagnia di altri piccoli marinai. Allora le pensavamo acque limpide, se non altro ci erano risparmiate le immagini dei cormorani con le piume imbrattate di petrolio.

martedì 12 agosto 2025

Sacra famiglia (mi ricordo 43)

 


Mi ricordo di Erminia, un’amica della nonna. È uno dei primi ricordi – avrò avuto quattro anni, forse meno –, la sensazione del mio corpo minuscolo tra i loro corpi giganteschi, umidi dopo essersi lavate per somme porzioni nel catino; e sì che nel bagno era presente la vasca, da riservare però ai giorni festivi. Si distinguevano dagli altri perché, oltre a lavarsi nella vasca, il nonno si radeva e metteva l'Acqua Velva, la nonna indossava il foulard e le scarpe con un accenno di tacco. Al termine dei preparativi io e lei andavano in una chiesetta dalla spigolosa architettura modernista (il nonno si era specializzato in funerali, varcava il portale della chiesa solamente se moriva qualcuno), dove, in ampio anticipo sull'happy hour, veniva offerto un dischetto di farina sfoglia mescolata ad acqua, niente sale, zucchero o spezie, quindi cotta per bene e posata sulla lingua, che nel frattempo veniva sporta come nelle linguacce dal lunotto posteriore dell'auto di papà, da alternare ai saluti riservati a chi aveva una faccia simpatica. Solamente il prete poteva toccare i dischetti con le mani, avevano la dimensione dei gettoni dell'autoscontro, agli altri non era concesso; pare che la farina fosse solo un travestimento, in realtà era anche quello un corpo: il prete non poteva toccare il corpo degli uomini e, soprattutto, delle donne, ma nel caso del corpo di Cristo si faceva un'eccezione. Mi sembra un compromesso ragionevole. Problema che io non avevo: venivo toccato, vestito, tirato a lucido alla maniera del Cicciobello di mia cugina, specie quando mi sporgevo nel trogolo per parlare con il maiale o mi arrampicavo sul fienile, e prima di dormire posato proprio nel mezzo del lettone in noce, mia nonna da una parte ed Erminia dall'altra. Sentivo le mani callose che mi rimboccavano le coperte, il tepore di pance tornite dalla polenta più che dagli addominali, a ogni minimo movimento era il frusciare dei sottanoni bianchi, da cui di tanto in tanto sfiatavano delle puzzette, non so se fosse la nonna oppure Erminia. O forse si trattava dell'odore che solo i bambini riconoscono, lo chiamano vecchiaia; immagino che se un bambino mi annusasse oggi avvertirebbe lo stesso odore. Poi l'esperienza si è ripetuta, e non posso dire con certezza a quale sera si riferisca il ricordo; probabilmente a tutte quante assemblate in un unico prodotto psichico, in fondo la memoria somiglia al montaggio nel cinema. Erminia passava a trovare la nonna non troppo spesso, le facevano male i piedi e ciò nonostante si rifiutava di prendere la corriera; ma neppure si trattava di un evento eccezionale, diciamo una via di mezzo. Il nonno le cedeva volentieri il suo posto nel letto, dove io venivo incorporato mentre i miei genitori potevano tornare alla vita che mi precede: si cenava comunque a casa per risparmiare sul modesto stipendio da maestri elementari, seguiva un film che è quanto passava il convento – escludendo la sala della parrocchia dove la programmazione era dedicata ai ragazzi (più che altro cartoni animati e film con Franco e Ciccio), rimaneva il Cinema Teatro Pedretti. Allo spegnersi dei grandi lampadari Art Déco il buio era davvero pesto, per trovare una poltroncina libera, a quel punto, bisognava essere accompagnati dalla maschera, aveva il ruolo di Caronte in un mondo di ombre. Ma l'eterna lotta tra luce e tenebra vedeva una rimonta della luce a partire dal foro della cabina di proiezione, piccola piccola all'inizio, ma dopo essersi fatta largo e cioè letteralmente slargata nella fitta nebbia di MS e Marlboro, si schiantava contro il telone per diventare Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospettoPiccolo grande uomoIl giardino dei Finzi Contini, tutti usciti nel 1970 come la Fiat 128. Poi, mamma e papà, di nuovo a casa per una scopatina. Intanto, mentre il nonno già ronfava nella cameretta e io mi sforzavo per non fare lo stesso, Erminia e la nonna parlavano, parlavano, non la smettevano più anche una volta spenta l'abat-jour. Ciò che non mi tornava era il senso delle frasi sempre uguali, seguivano ai pettegolezzi che, dopo un gesto compiuto da entrambe in sincronia, a collegare con la mano destra la fronte, il petto e le spalle in rigorosa sequenza, riprendevano. Retrospettivamente, scommetterei che ci fosse di nuovo lo zampino della religione... Ma per quel che ne sapevo avrebbero potuto essere invocazioni a qualche divinità precolombiana, Hun-Hunahpu ad esempio: mia nonna, Erminia, Hun-Hunahpu e io – perché no? Nel tempo in cui tutto era ancora possibile la nozione di assurdo non esiste. Erminia arrivava a passi lenti, ne riconoscevo la sagoma scura e leggermente ricurva già all’inizio della strada sterrata che portava a Busteggia. Lo stradino la pettinava una volta la settimana con un rastrello di metallo dalla dentatura fine, un lavoro che mi appariva più che altro un hobby; la vera attività, avrei giurato, era fumare il sigaro. Già ad accenderlo, un sigaro del tipo toscano, ci voleva dedizione e pazienza e fiammiferi di legno, ma dopo un paio di boccate lo stradino lo spegneva e infilava nella tasca del gilet, per ripescarlo, assestati pochi colpi di rastrello, avvicinare la fiamma alla punta annerita e così via. La nonna dava da mangiare ai conigli e chiudeva le galline nel pollaio, il nonno terminava di mungere le mucche, io non sapevo ancora leggere e così non avevo neppure quella rottura di coglioni, solo guardarmi in giro, guardare ogni cosa incomprensibile e ogni cosa era incomprensibile e giusta, senza bisogno di sfidarla con la fionda del concetto. Infine una scodella colma di riso e latte che anticipava quel calore, quelle puzzette, quei Pater Noster. Se penso a un’immagine che riassuma l'espressione Sacra Famiglia, che poi non è nient'altro che una famiglia allargata, è questa qui.

lunedì 11 agosto 2025

Sublimazioni (mi ricordo 42)

Mi ricordo che a Sondrio, intorno alla metà degli anni Settanta, i cuccioli di un boom ormai in disarmo si diedero in massa al pattinaggio; le ruote erano ancora affiancate come nel pianale delle automobili, non in linea al modo dei pattini attuali. Il merito andava a un uomo di nome Vannuccini. Aveva fondato l’associazione sportiva ASPAR (Associazione Sondriese Pattinaggio A Rotelle) con sede al Bar Linda, una ex prostituta che con i soldi dei camionisti si era rifatta una vita: invece del suo corpo smerciava ora Biancosarti e ghiaccioli rossi rossi, l'immagine degli astronauti impressa sulla busta. Gli allenamenti si tenevano nella nuova pista in conglomerato bituminoso del Centro Sportivo, proprio sotto casa mia. Sulle panchine di fronte all'ovale, oltre le transenne tubolari che lo circoscrivevano, le figlie degli immigrati meridionali di via Maffei osservavano i giovani atleti, avevano portato un piccolo registratore con cui ascoltavano Ma Baker dei Boney M. Iscrivermi all’ASPAR fu un atto quasi dovuto.

Di Vannuccini non si sapeva molto; di certo non era originario di queste parti, sulla guida del telefono il suo cognome risultava essere l’unico in provincia. Anche l’età era indefinita, per quanto a me paresse vecchio, ma avevo otto anni e un ventenne era già un uomo maturo. Poi però cominciò ad apparirmi un po’ meno vecchio, il riporto con cui celava la calvizie era diventato un’acconciatura come un’altra. Vannuccini ha detto questo, esordivo quando rientravo a casa dopo avere arrancato per due ore sui miei pattini Valsport – la cosa più difficile da imparare fu il passo incrociato da eseguire in curva –, Vannuccini ha detto quest’altro… Al punto che i miei genitori cominciarono a chiamarmi Vannuccinetto, me lo ripetevano per burla ogni volta che celebravo il mio mentore. Quanto mi facevano incazzare!

Uno psicanalista non ci avrebbe messo molto a capire che Vannuccini era diventato un surrogato eroico della figura paterna, e come in tutte le forme di innamoramento (non ricambiato) solo il tempo avrebbe fatto sedimentare la polverina magica, lasciando spazio ai nuovi travestimenti di Zeus e Afrodite. D'altronde lo dice pure la canzone: la stagione dell'amore viene e va. Ma prima deve raggiungere un climax.

L’occasione si presentò al termine di una gara. I miei risultati agonistici non erano certo memorabili, ma quella volta, eravamo in trasferta a Livigno, mi trovavo al primo posto. Uno o due passi spinta dietro mi tallonava un certo Mirco, l’anno precedente aveva guadagnato il titolo di campione italiano di categoria, le sue gambe parevano due prosciutti di cinghiale. Vai vai… che poi quando voglio ti passo, avrà pensato Mirco, lasciamolo divertire ancora un po’. Ma non ci fu bisogno perché feci tutto da solo: mi scomposi quando vidi sull'asfalto una vipera già morta, e ruzzolai a terra per lo spavento. Dai, riparti! mi gridava Vannuccini sbracciandosi dal traguardo, ma a me faceva male il polso sinistro.

Al ritorno non stavo come al solito sul pullmino, ero seduto sul sedile posteriore della Simca di Vannuccini; un privilegio, di norma, riservato a Mirco e pochi altri. Forse fu una compensazione per la brutta caduta, ora il polso si era gonfiato e cominciava a pulsare. A un certo punto il nostro presidente, preparatore atletico, allenatore, conducente, Vannucini faceva davvero tutto all'interno della sua ASPAR, a un certo punto accostò, scese e senza fornire spiegazioni cominciò a pisciare. Da dentro lo osservavamo concentrati, teneva le mani posate sui fianchi alla maniera di Mussolini nei discorsi dal balcone di Palazzo Venezia, immaginavamo il sollievo dipinto sul suo volto, ricambiato dai trifogli al bordo della strada che conduce al passo della Forcola. Ma soprattutto ne immaginavamo il cazzo, a giudicare dal poderoso getto di piscio doveva essere enorme, un idrante che irrora il mondo donandogli la sua benedizione.

Al termine Vannuccini si diede una bella scrollata, e dopo avere richiuso la cerniera dei pantaloni salì in macchina e ripartimmo verso Sondrio. Il giorno successivo il medico mi disse che era meglio fare delle lastre al polso, dalle quali risultò che l’ulna era integra ma il radio incrinato. Due giorni di ospedale e quaranta di gesso, su cui i miei compagni di classe depositarono la firma con un pennarello chiamato Super Pirat; qualche scemo che aggiunge delle porcherie si trova sempre, ma la seconda punta del Super Pirat consentiva di cancellare. Di notte attenuavo il prurito con un lungo ferro da maglia.

Quando il gesso fu rimosso con un forbicione simile a quello con cui viene sventrato il pollo allo spiedo, il giorno stesso mi iscrissi alla Sondrio Sportiva di pallacanestro. La voglia di pattinare era scomparsa così come era venuta. Certo, in quei quaranta giorni Vannuccini avrebbe potuto telefonarmi a casa  una cavolo di telefonata per sapere come stavo, cosa gli costava? Se il telefono fosse stato occupato dalla moglie poteva sempre chiamare dal Bar Linda. Ma si sa che gli innamorati sono fatti così: un po’ permalosi. E gli amati distratti.

sabato 9 agosto 2025

Smemoriale d'amore (mi ricordo 41)

Mi ricordo la prima volta che scopammo solo perché era la prima volta che scopavo, tu mi chiedesti all'improvviso: Cos'è questo?

Avevo dimenticato dentro al letto uno dei due grossi tomi del Devoto Oli.

Ci urtammo contro nel rotolare avvinghiati, incastrati come fanno i cani e i cristiani – il cuore batte forte, sudore, l'estate al suo culmine. Lo schizzo di sperma arrivò rapido e intenso, con l'impazienza degli esordi. Uno scarabocchio vischioso simile allo sbavo della penna stilografica. La tua pancia era la paginaCon un dito sistemasti la calligrafia, per poi infilarlo in bocca.

Sa di tappo, concludesti mimando l'espressione austera dei sommelier. Come mai dormi con il dizionario?

Non ti risposi. Chissà che parola avevo ricercato prima di abbordarti al bar della discoteca di un albergo – noi ci andavamo solo perché li soggiornavano le ginnaste , poteva essere apotropaico o ipallage o catafratto... Una di queste parole difficili che trascrivevo su un quadernetto viola.

In seguito dimenticasti tu qualche cosa nel mio letto. Una catenella d'argento, la tenevi legata alla caviglia sinistra. Mi suonasti al citofono dopo l'allenamento, non mi aspettavo di risentire la tua voce, hai mica trovato una catenella? Ma si sa come vanno certe cose... e diventò la seconda volta che scopavo.

Devo ricordarmi di prendere un dizionario.

Me lo dicesti, distrattamente, la terza volta, tra una Muratti Ambassador e l'altra. Io fumavo Chesterfield ma più che altro perché mi piaceva il pacchetto. Forse volevi stabilire un'alleanza provvisoria, un ponte di barche. Basta una piena del fiume per spazzarlo via.

Non potrei vivere senza dizionario, te lo confidai per telefono dopo più di sei mesi che non toccavo sigarette. Mi piaceva usare parole difficili, per descrivere la tua carnagione usavo l'aggettivo eburnea, oppure lattescente, nivea, sfoggiavo le parole del quadernetto viola parlando coi miei amici. Ma questo non te lo dissi.

Nemmeno che mi stavo innamorando di te.

Avevo smesso di fumare quando eri tornata ad Arezzo da un marito che c'era e non c'era, non ho mai capito bene ma meglio non indagare. Venisti ancora due o tre fine settimana e per le vacanze di Pasqua. Piovve tutto il tempo occupato a scopare, l'abbiamo fatto tantissime volte, ormai ho perso il conto. Se lo chiedevo a te rispondevi non ricordo.

Lontani ci spedivamo lettere, fotografie. In una Polaroid stavi in Svizzera, potevi avere quattordici anni, massimo quindici, i lunghi capelli neri strozzati dalla coda di cavallo. Con lo stesso dito che aveva toccato il mio seme sfioravi una rosa rossa – la tinta ora è un po' sbiadita – dentro a un giardino ugualmente sbiadito. 

Non avevo mai contemplato la possibilità che in Svizzera esistessero dei giardini, tantomeno rose rosse. 

Poi arrivò la piena del fiume, in fondo era prevedibile. Ti tagliasti i capelli da sola, alla Valentina di Crepax aggiungesti con tono vezzoso, mentre io lasciai crescere i baffi, mi facevano somigliare ad Alan Sorrenti. Smisi anche di scopare, con la mia nuova fidanzata lo chiamavamo fare all'amore. 

Oggi ho cercato il significato del termine ipallage che mi ero di nuovo scordato. Adesso si fa in fretta, al posto del Devoto Oli c'è l'intelligenza artificiale. Potrebbe dirmi, perfino, dove si trova la tua tomba, il Cimitero Urbano di Arezzo è grande. Ma dovrei fare come Pollicino per ritrovare la via del ritorno.

Avevamo una memoria disastrosa, e tu capelli bellissimi.

venerdì 8 agosto 2025

Un uomo buono (mi ricordo 40)

Mi ricordo di un R5 blu acquistata di seconda mano. Aveva solo un difetto, che mi ripromettevo sempre di sistemare: la portiera anteriore, lato passeggero, si apriva solamente dall’esterno. Quando viaggiavo con qualcuno a ogni sosta dovevo scendere, fare un mezzo giro dell’auto, quindi aprire per poter consentire l’uscita a chi mi accompagnava. Nemmeno troppo sforzo, e così continuavo a rimandare.

Una notte stavo tornando da Milano con un amico, eravamo partiti dopo avere assistito al concerto dei Calibro 35. Poco prima di Monza, nel piazzale di un distributore Esso deserto, intravediamo una ragazza di colore. Il volto è solo parzialmente illuminato dall'insegna al neon con i colori della Francia, mentre la schiena, rivestita da un giaccone fucsia, riflette le luci della pensilina che ricopre le pompe per il rifornimento. Il colpo d'occhio d'insieme ricorda la fotografia di un film di Nicolas Winding Refn. Non c’è bisogno di chiedersi cosa stia facendo lì, entriamo in argomento e il mio amico mi confida di non essere mai stato con una prostituta. A me non sembra vero di poter interpretare uno dei miei ruoli preferiti: quello di Lucignolo.

– Devi assolutamente provare!  gli dico. Ma no… ma sì… ma sono fidanzato… ma dai... E alla fine cede, devo dire senza nemmeno troppo sforzo di persuasione. Ci accordiamo a questo modo. Io l’avrei aspettato al distributore, mentre lui e la ragazza, con la mia auto, potevano andare in un luogo più appartato.

Scendo. Faccio il solito mezzo giro. Apro la portiera al mio amico che mi subentra alla guida. Vedo l’R5 ripartire da dietro, ma gli stop rossi si accendono dopo pochi metri. Al lato destro la giovane è rimasta immobile come la preda di una specie indifesa, che si mimetizza con l'ambiente. Il finestrino si abbassa, lei finalmente si china con un movimento di cui riconosco l'automatismo, i gesti ripetuti migliaia di volte possiedono una loro meccanica bellezza. Stanno pattuendo la cifra che non sento, ma comunque inferiore a una pizza e una birra; le slave e le rumene chiedono un poco di più. Dall'interno della vettura mi arriva solamente il suono di Notte in Bovisa, fa parte del CD che abbiamo acquistato al banchetto dopo il concerto.

L'inverno è agli sgoccioli ma la ragazza non indossa le calze, avrà freddo penso, la pelle nera delle gambe possiede un aspetto innaturale, quasi plastificato per un eccesso di tonicità. Probabilmente è nigeriana, questo tratto della statale 36 è monopolio delle nigeriane, anche se non ha una muscolatura accentuata come la maggioranza delle persone che provengono dall'Africa centrale, è snella e le sue natiche non sono prominenti – si chiama steatopigia ho scoperto facendo le parole crociate. Sembrerebbe piuttosto senegalese, o somala. Da dove provenga è comunque molto bella.

I due si allontanano in direzione di un vialetto alberato, si tratta quasi certamente di platani un po' avvizziti per lo smog. Io cerco di non rimanere troppo in vista, non vorrei essere fermato da una volante della Polizia, o indurre qualcuno a pensare che mi stia prostituendo. In regime di libero mercato sessuale la mia concorrenza sarebbe comunque poco fruttifera.

C’è un distributore automatico di merendine e bevande. Inserisco le monete e seleziono una lattina di chinotto, avrei preferito una Ceres ma non vendono alcolici, pazienza, prendo anche una crostata con marmellata di ciliegie. La situazione sarebbe perfetta per fumarsi una sigaretta. Peccato che abbia smesso da poco, e poi nei distributori di benzina è vietato, potrebbe prendere fuoco. Immagino l’incendio, le fiamme che salgono al cielo, si estendono ai platani del vialetto, invadono Monza vorticando furiose… Devo pure ingannare il tempo pensando a qualcosa.

Ma hanno vita breve i miei pensieri incendiari, non sono passati nemmeno quindici minuti e vedo comparire i fanali dell’R5. Non che ci avrei messo più tempo, in questo genere di cose si tende a essere spicci, mai come qui vale la massima il tempo è denaro.

– Allora, dai, racconta , dico al mio amico quando mi raggiunge. Ho già rimesso la divisa da Lucignolo. Ma lui appare frastornato, sulle prime non vuole parlare. Poi però me lo confessa: – Mi sento una merda.

– Una merda, e perché mai?

Mentre attendo la sua risposta, che non arriva subito, mi scorrono davanti agli occhi gli articoli sul Manifesto di Luciana Castellina e Rossana Rossanda, i cortei delle femministe che uniscono indice e pollice delle due mani a mimare la fica, l'utero è mio e lo gestisco io gridano, la tratta degli schiavi e soprattutto delle schiave, la favola della Piccola fiammiferaia, convenendo che in effetti sì, siamo proprio delle merde. Devo assolutamente smettere di andare con le prostitute. Ma lui interrompe il mio autodafé, e finalmente vuota il sacco.

– Sai la faccenda della portiera.

– Sì, certo, la portiera. Domani chiamo il meccanico e...

– No, aspetta. Fammi finire.

– Ok.

– Quando ho completato tutta la trafila, sì, insomma, dovevo pur farla uscire, lei ha sgranato gli occhi. Poi è scoppiata a piangere.

– A piangere?!

– Tu sei un uomo buono, mi ha detto. In quattro anni che faccio questo lavoro nessuno era mai stato così gentile. Solo tu sei sceso dall’auto per aprirmi la portiera, mi hai fatto sentire una principessa. Tu sei un uomo buono.


domenica 3 agosto 2025

Corpi a perdere (mi ricordo 39)

 

Mi ricordo di una famosa attrice brillante ai funerali del marito altrettanto brillante e famoso, ne furono trasmessi degli stralci in quasi tutti i programmi televisivi, specie quelli di fascia pomeridiana che sottoscrivono contratti pubblicitari in forza di emozioni intense sottolineate dagli applausi del pubblico in studio. La cerimonia si tenne nella chiesa di Dio Padre a Milano 2, dove la coppia risiedeva, il 17 maggio del 2010, quando la donna non aveva ancora compiuto settantanove anni. Ma la sua età appariva indefinita; non è vero che le afflizioni invecchino, oltre una certa misura astraggono. Seduta su una sedia a rotelle con dei grandi occhiali da vista e l'occhio sinistro ricoperto da una garza (forse l’esito di un intervento chirurgico), dava l’impressione di essere finalmente riuscita a trascendere i numerosi accidenti che, nell'ultimo periodo, ne avevano minato la salute: il dolore aveva compiuto un salto di scala, immettendola a una dimensione metafisica del patire.

Non ho mai più incontrato una disperazione altrettanto compiuta, nelle coppie senza figli chi sopravvive precipita nel lutto senza il paracadute di una discendenza, tratti somatici o nella voce che gli ricordino la persona venuta a mancare. Ma qui lei non soffriva soltanto, si era fatta spazio concavo per ospitare quel figlio mai arrivato in quarantotto anni di matrimonio, a cui aveva dato la sagoma di Sofferenza; nei tempi antichi pare fosse esperienza diffusa: la psiche umana, nella resa alle passioni, diventa il teatro per l’ingresso in scena di un dio. Il funerale di Raimondo Vianello, di lui naturalmente stiamo parlando, più ancora di quello di Lady Diana o di John Fitzgerald Kennedy, si è così rivelato una tardiva manifestazione del mito, e Sandra Mondaini l’emblema incarnato della perdita. Ma c’è anche un aspetto personale. Da quel giorno ho cominciato a guardare alla vita degli altri con occhi diversi, come se fossero azioni di borsa e ne detenessi una minima quota, da monitorare sui grafici. Nelle fasi toro rimango indifferente ai guadagni, però quando i titoli precipitano sento che la direzione mi tocca, di più, mi riguarda. Provo a confrontare la memoria con le immagini registrate, su YouTube si trova tutto.

Quasi subito si impone il volto tramortito della vedova, mostra la confusione della bambina con il costume a pois che vaga per i bagni 123 di Rivazzurra, i genitori vengono ricercati con l'altoparlante; lo strazio è nei gesti e nelle poche parole in risposta alle condoglianze, il resto sono lacrime. Per un personaggio pubblico il nome di battesimo (Totò, Annarè, Albertone) è la certifica di essere entrati nel cuore degli spettatori. Sandra, tutti anche qui la chiamano Sandra  Sandra e basta. Da dietro si avvicina il nipote e le carezza dolcemente le guance inumidite, poi gli subentra Silvio Berlusconi, la sua personalità lo porta a volere essere lo sposo a un matrimonio e il morto a un funerale, ma sembra autentico il bacio che le deposita sulla fronte. Dapprima non lo si vede ma si riconosce la voce: è Pippo Baudo. Salito sul presbiterio invita i presenti – che idea cretina! – a intonare in coro il nome del collega scomparso: Raimondo, Raimondo, Raimondo… nemmeno si trovassero a un addio al celibato femminile, e si spronasse il muscoloso spogliarellista a calarsi gli slip.

Dettagli che avevo scordato, in fondo non aggiungono molto a ciò che ricordavo, ed è rimasto intatto e sopito negli anni; i traumi funzionano allo stesso modo suggerisce la psicologia. In quel volto al culmine del dolore era già tutto presente, perfino il passato e il futuro, a fare da specchio a ogni successivo magone. Il più frequente è la percezione di essere vivo dentro a un corpo corruttibile, un corpo che si affeziona alla corruzione di altri corpi. Ciascuno a perdere e dunque, più che amare, il mio rimpianto prende via preventiva.

venerdì 1 agosto 2025

Un corpo e un'anima


Mi ricordo che Roma faceva da discrimine spaziale, oltre era veramente Sud e, al Sud, quando in autostrada si superava un altro veicolo targato Sondrio, o più spesso si veniva superati – nonostante l’auto di papà fosse una 128 nella versione Rally, la roulotte al seguito ne limitava la velocità di marcia –, il primo dei due conducenti ad accorgersi della coincidenza cominciava a suonare il clacson, e anche io e mamma eravamo pervasi da una contagiosa eccitazione, ci sporgevamo dal finestrino, CIAO, CIAO! gridavamo accompagnando i saluti con movimenti ampi delle braccia, lo stesso facevano i nostri conterranei valtellinesi in un sentimento primordiale di appartenenza mai più provato in seguito, mentre le colline arse delle Murge, trapuntate dalle rotoballe di fieno, scorrevano in una lontananza sfocata dall'arsura, negli Autogrill Pavesi le caciotte pendevano dal soffitto come candidi pipistrelli, alla cassa i fumetti di Lando erano appannaggio dei camionisti, ci si doveva accontentare di quelli di Nonna Abelarda e un bicchiere d'acqua con lo sciroppo di tamarindo, intanto l'auto targata Sondrio era già un puntino scuro all'orizzonte, prima di scomparire una radiolina a transistor appesa allo specchietto retrovisore diffondeva la voce di Wess e Dori Ghezzi, e non ci lasceremo mai cantavano sovrapponendosi nel refrain, anche stasera noi siamo più che mai, un corpo e un'anima, un corpo e un’anima, un corpo e un’anima…

mercoledì 30 luglio 2025

Granoturco (mi ricordo 38)


Mi ricordo che quando l'estate raggiungeva il suo culmine si andava nel granoturco per giocare a nascondino. La nonna non voleva – si rovina il fogliame diceva, ma più che altro temeva che le fronde affilate ci graffiassero gli occhi – mentre il nonno rideva e lasciava fare. Un gioco insensato a ben vedere: bastava allontanarsi di qualche passo dal campo e, dal movimento delle cime, era possibile individuare la posizione dell'altro. Anche perché eravamo solamente in due, io e Stefano, il figlio dei vicini di fattoria. Ma il numero per noi non rappresentava un problema, ci lanciavamo a capofitto tra i fusti e, a quel punto, non era più chiaro chi fosse il cacciatore e chi la preda, vagavamo in un labirinto verde con l'eccitazione e il timore di essere scoperti. Quando accadeva, al sussulto iniziale accompagnato dalle grida ECCOTI VISTO TANA!, sopravveniva un po' di delusione, e in fila indiana prendevamo la direzione del sole, unico riferimento nella fitta omogeneità del ventre vegetale che altrimenti ci avrebbe digerito; l'unica variabile cromatica era costituita dagli stimmi delle pannocchie, infilati in tasca sarebbero serviti per farci baffi e pizzetto da Buffalo Bill. Va aggiunto che Stefano arrivava solo a pomeriggio inoltrato, si presentava a bordo di una Graziella piena di adesivi all'ora in cui il nonno afferrava i secchielli di latta per andare a mungere le mucche, e così il sole ci indicava il ponente dove si trovava il letamaio, poi veniva una roggia e quindi il prato già falciato un paio di volte, dove ci accucciavamo a pensare quale avrebbe potuto essere il nuovo sfogo di energie, stare seduti ci era già venuto a noia. Di solito si trattava della ricerca dei giornaletti porno abbandonati nella boschina, altrimenti detta camporella, a poche centinaia di metri di distanza. In fondo una nuova quest: corpi che si incorporano, ma inanimati, spalmati sulla carta impastata da pioggia, terra e umori organici sconosciuti, e corpi vivi – i nostri – che non sanno cosa fare uno dell'altro. È chiaro che mancava una donna. Una bambina meglio, poi ragazza, signorina, mamma e così via. Questa è la vita ti dicono, ma lo realizzi solamente in seguito. All'inizio lo capisci soltanto. Quando al sapere si accompagna il sentire, è perché è già stato mietuto il granoturco, e il gioco perde un po' di interesse. Così si aspetta in silenzio la sera per coricarsi, mentre con polpastrelli duri e avvizziti la nonna carezza le sfere ambra del rosario.

domenica 27 luglio 2025

Waiting for the Miracle (mi ricordo 37)

Mi ricordo di un pappagallo a cui si doveva fare pronunciare la parola Portobello. Chi ci fosse riuscito avrebbe vinto un mucchio di soldi, c'era da scommetterci, lo assicurava un presentatore televisivo dall'aspetto un po' dimesso, ma che trasmetteva fiducia. Non si capisce perché ci misero tanto tempo per credergli, si trattava di una brutta storia – sul fatto che Portobello, così si chiamava il pappagallo, potesse dire il suo nome come un cristiano, sì; sul fatto che il presentatore non spacciasse cocaina, no... Mah.

Era infatti la prima eventualità a essere incredibile, da non credere proprio e cambiare canale sul nuovo televisore Grundig, finalmente a colori. Aspettarsi da un pappagallo e nemmeno di specie cinerina, la più loquace, che a comando articolasse un termine di quattro sillabe con la tremenda accoppiata di erre con ti, come mirto, carte, Bertè, nel senso di Loredana con le sue minigonne mozzafiato. Tutto ciò nel tempo di un minuto e sotto i riflettori di uno studio televisivo e, se ancora non bastasse, incalzati da uno sconosciuto: ma dai... qualsiasi ornitologo avrebbe potuto spiegare che si trattava di velleità.

Eppure, dopo cinque anni di tentativi miseramente falliti ci riuscì l'attrice Paola Borboni, era il 1 gennaio del 1982. Non ci avevo mai creduto fino in fondo nemmeno quando facevo il chierichetto – tutti quegli effetti speciali di Gesù, Lazzaro che si alza dalla tomba alla maniera del peggiore film splatter – ma con Portobello che a Portobello dice Portobello, non esistevano più dubbi: i miracoli esistono.

Da qui l'abitudine di guardare il cielo al risveglio, a cui sussurro Portobello. Finora non mi ha ancora risposto, ma sono convinto che, prima o poi, udirò una voce profonda, da anziano con all'attivo un po' troppe Nazionali senza filtro. La voce ci mette un po' a precisarsi, è il confuso balbettio del paziente che sta uscendo dall'anestesia; ma in seguito comincia ad articolare: Po... po... porbelo. Ho capito bene?! Questa volta lo scandisce chiaro e forte: Por-to-bel-lo, e poi ancora dopo una pausa, Portobello, Portobello, Portobello... a quel punto ci avrà preso gusto e sarà difficile fermarla, come avvenne con Paola Borboni. E io e la voce saremo una bellissima unica cosa.

(Dopo avere letto il testo, si consiglia l'ascolto di questa canzone.)

giovedì 24 luglio 2025

Oplà (mi ricordo 36)

 


Mi ricordo che bisognava risalire una scaletta ripidissima, e prima di imboccare una seconda scala più ampia e meno scoscesa e con i gradini ricoperti da moquette, a un livello intermedio, dunque, tra il ventre del traghetto dove avevamo lasciato la 125 Rally di papà – Avanti, avanti ancora un po’… ferma! strillava un uomo con una balena azzurra stampata sulla t-shirt – e il salone passeggeri con le poltroncine amaranto e un piccolo bar (quando il mare era mosso però restava chiuso), a quel punto si apriva un vano della dimensione di due cabine del telefono, con all’interno una panca di legno e sbarre di metallo a sigillarne lo spazio. Lì venivano fatti sedere i detenuti diretti a Porto Azzurro.

Io e mia cugina Alessandra, durante la navigazione da Piombino a Portoferraio, fingevamo di andare in bagno per scendere a guardare quei volti temuti, fuori dalla gabbia sostavano due carabinieri sempre in piedi. Ma subito scappavamo spaventati, come se avessimo visto il diavolo. Non ci era del tutto chiara la differenza tra un carcere normale e un penitenziario, ma avevamo inteso che c'entrava in qualche modo la morte: quegli uomini avevano certamente intrallazzato con la morte (sparando, strozzando, accoltellando), e ciò bastava per trasformare il nostro viaggio con in valigia le biglie da far rotolare sulla spiaggia, ogni biglia di plastica conteneva la foto di un famoso ciclista, tutti volevano Gimondi ma Eddy Merckx era nettamente più forte, lo trasformava in un film del terrore.

Quando si iniziavano a intravedere le rocce di Capo Vita e l’Isola dei Topi, il traghetto rallentava fino a fermarsi – Dove sono i freni delle barche? chiedevo allo zio, che non mi ricordo cosa rispondesse – e un’altra imbarcazione ma più piccola, molto più piccola, era simile ai barconi dei pescatori, accostava. Da una porticina laterale i carcerati venivano fatti montare su quella, ad attenderli nuove guardie con una divisa grigia che sembrava da postino.

Incollati alle battagliole del ponte di coperta osservavamo frementi l’operazione, di solito i carcerati erano al massimo due. I carabinieri li tenevano per mano come faceva il nonno Pinin quando ci portava alle giostre, mentre con l’altra mano si protendevano verso i postini, prima uno e poi il complice, pensavamo, di qualche malefatta. Eppure quel
 gesto possedeva un'intimità che strideva con tutte le cose brutte che la tivù diceva sui banditi: più che diavoli, sembravano ora dei poveri diavoli.

Ma a un certo punto, oplà, con un saltello ecco il primo detenuto superare il pericoloso corridoio aperto tra le due imbarcazioni, e così il carabiniere che gli teneva la mano lo lasciava andare, facendo sospettare che la separazione gli dispiacesse almeno un po'. Quando anche il secondo aveva completato il trasbordo, i pistoni del motore diesel aumentavano il loro ritmo, e il barcone si avviava borbottando in direzione della fortezza di Porto Azzurro. Il traghetto aspettava che fosse a sufficiente distanza, poi ripartivamo anche noi.

Non ne ho mai riparlato con Alessandra, ma vorrei chiederle se anche lei ogni tanto ci ripensa. A me è venuto un dubbio. E se ciò che spiavamo con morbosa apprensione c'entrasse davvero qualcosa con la morte, una morte senza diavoli e carabinieri e postini... Semplicemente, morire è lasciare un’imbarcazione grande per salire su una piccola, tanto piccola da apparire invisibile nel vasto mare, lasciare una mano e afferrare una mano che ci attende amichevole, per condurci a una nuova prigione. Ma poi non farà lo scherzetto di ritrarla, facendoci cascare nell’acqua gelida?