giovedì 9 agosto 2012

La regina è nuda, o sulle tette come fattore politico


Le tette. Una volta – diciamo fino agli anni settanta – ci stavano le donne con le tette. Poi, naturalmente, c'erano anche le donne senza tette, le donne che scrivevano, pensavano, indossavano i pantaloni di vigogna e si accendevano una Muratti Ambassador con un Dupont dalla fiamma alta, sempre troppo alta. Una lunga tirata...  Per poi spararti il fumo dritto in faccia, tra i capelli radi, una nuvoletta ovattata e densa su cui viravano i loro occhi già perduti altrove, con l'aria di chi contenda più per abitudine che vocazione. E tutto ciò, senza il minimo accenno di una convessità mammaria.

Ok, sto semplificando, ben prima degli anni settanta esistevano donne intelligenti e colte, ma con ampi e morbidi seni. E però nella loro immagine esposta – pensiamo a Susan Sontag, Ingeborg Bachmann o in Italia a una Camilla Cederna – il seno veniva come ricompreso in un algido aplomb, e il corpo sacrificato alla ragione. Gli anni settanta hanno segnato un punto di svolta anche in questo: la femminilità smette di biforcarsi sul discrimine degli elementi estrinseci, non da ultimo con valore transitivo di segno, dunque erotico, rendendo compatibili un magnifico cervello con un corpo di uguale magnificenza, per ottenere il quale (si pensava) era sufficiente qualche tagliando dal parrucchiere e gli esercizi aerobici di Jane Fonda.

Il corpo, ecco il punto, la carne e soprattutto il piacere, nella sua forma maiuscola del godimento fisico e sessuale. Che tornano finalmente a risuonare all’unisono col pensiero – e questa fu davvero una liberazione – come l'adhān squillante del muezzin dal minareto, ma senza più il velo di un contegno vagamente claustrale, pubblicamente occhiuto. E fin qui, tutto bene. Ma siamo certi che tale processo di brusca legittimazione corporea, alla lunga, e cioè al tempo attuale ma già a partire dal decennio successivo, gli anni ottanta, si sia tradotto in un guadagno civile; un guadagno per le donne stesse, intendo?

La mia impressione, che ricavo dall'immagine dei profili femminili sul web, o dall'imbarazzante omogeneità con cui le donne vengono rappresentate in televisione, è che l’affrancamento da un regime bigotto della doppia morale (o sei femmina o sei donna, detta in soldoni), più che a una visione finalmente manifesta e schietta del femminile – la sua verità sommersa – , per metonimia abbia condotto a una manifestazione spettacolarizzata della femminilità. E cioè, ancora, sorretta dai codici di una socialità fortemente indirizzata, tutto all'opposto dell'utopia libertaria e gioiosa. Certo, gli assist non arrivano più dalle gerarchie vaticane per la lunga mano dorotea, che misurava le scollature a Canzonissima, ma dalle sovrastrutture dello show business e del consumo, che non contemplano nemmeno più la logica binaria della scelta: o di qua o di là, col corpo o col pensiero.

Ma torniamo alle tette, per capirci. Il sospetto è che passi proprio per il giro seno, come nelle giurie bifolche dei concorsi di bellezza nell'Italietta della ricostruzione, lo stigma simbolico che legittima la presenza sulla scena del mondo, compreso il valore e l'autorità di quel che viene espresso in parole. E non mi sto riferendo dunque solo a una presenza seduttiva, all'archetipo di Venere o, stessa aria di famiglia, di Elena che osserva annoiata la battaglia dagli alti spalti di Troia, ma anche ad Atena, Diana cacciatrice e perfino Cassandra, che ora hanno bisogno di abbassare le spalline per essere credute in quel che dicono, il corpo come verifica della “profezia”.

In altre parole sono proprio le tette, il lustro e gioviale offrirsi della carne, o se preferite e più in generale la bellezza dell'involucro, a sostenere le categorie astratte del pensiero, almeno da quando gli universali ideologici si sono frantumati e mescolati ai cocci del muro di Berlino. E dunque io, o meglio lei può dire questo, o quest'altro, non tanto per la robustezza dell'argomentare o la compassione del cuore, ma per le tette che ti butta in faccia come tautologie acquisite al discorso. Se tu non possiedi delle tette altrettanto sature di un significato preverbale, una speculare radianza fisica, meglio se te ne stai zitto, va’.

Ma dagli e dagli con le tette, anche negli uomini ha finito col prevalere una forma simile di legittimazione: io penso, parlo, dispongo perché ho "una minchia tanta"; orpello fisico che può naturalmente declinarsi anche nei suoi vari sostituti simbolici, quali l'automobile sportiva, il successo professione, i titoli e il vario e sberluccicante medagliere. Tutte forme di realizzazione che partono e ritornano al corpo, un poter fare del corpo sulle cose, simile al principio fisico della leva. Che coincide con i totem culturali già individuati da Freud, mica siamo andati tanto lontano. Ma senza più alcun tabù.

Il risultato di questo processo che, non senza scossoni, incongruenze, dalla rimozione fisica degli anni cinquanta ha portato all'attuale trionfo del corpo come ethos, valore di scambio e unità di misura del significare, lo vediamo allora non tanto nello sport, nelle Olimpiadi londinesi di questi giorni, che sono comunque epifenomeni di tutto ciò. No, per quanto possa apparire paradossale, lo vediamo con maggior acutezza nel dibattito politico. Ad esempio con un Berlusconi –  sempre adorabilmente candido in quel che fa, forse perché aderente al suo tempo, allo Zeitgeist, come nessun altro mai – Berlusconi che può finalmente affermare: "Rosi Bindi? Più Bella che intelligente."

E lo afferma a un pubblico contraddittorio di idee, bada bene, lo afferma a Porta a Porta, non al Bar Sport con due bodyguard e un parcheggiatore con l’hobby del mandolino. Ma proprio per questo il suo è un giudizio politico di cui far tesoro, malgrado la sfumatura sia stata intesa da pochissimi, e lui al solito criticato (non senza qualche buona ragione, tocca riconoscere). Eppure era davvero l'esclamazione del bimbo che vede, quindi dice, che il re è nudo, per non parlare della regina!

Da ciò si ricava non solo la sostanza politica del berlusconismo – l’esaltazione giovanile del corpo, tipica delle destre populiste e carismatiche –, ma anche quella della sinistra cosiddetta di governo. Che è poi l'attitudine di una vecchia zitella, pure un po’ racchia e inacidita, che rimpianga i bei tempi andati e la zazzera degli spasimanti di una folta chioma che fu (non sto ovviamente parlando di Rosi Bindi, ma del "rosibindismo", se così posso dire). Ma il male non è allora in quel che si dice, e piuttosto in chi lo dice, nella sua retorica supponente. Specie quando le donne, anche a sinistra, soprattutto a sinistra, pensano se stesse attraverso le medesime categorie esteriori, e Concita De Gregorio può sdilinquire nell'esaltazione dei corpi ginnici degli atleti olimpici, come una novella Leni Riefenstahl che si perda nelle movenze mistiche della carne acerba e scattante.

Ed è così, per restare al cinema, che quando nel vasto mare incroceremo un vascello realmente alieno e intimamente pirata, l'unica bandierina che sapremmo estrarre per farci riconoscere prima della buriana finale, non accamperà la silhouette austera e drammatica della croce, o il sontuoso fregio del Partenone, ma sarà una minuscola sottoveste color rosa shocking, come in quel film di Blake Edwards con uno strepitoso Cary Grant. E sarà già tanto, se quelli non ci rideranno in faccia.

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