venerdì 28 febbraio 2020

Del Monte contro Chiquita



E’ di ieri la notizia che un'equipe israeliana ha sviluppato un vaccino per ciò di cui tutti sappiamo, e non ripeterò per scaramanzia. Altri laboratori stanno lavorando in tutto il mondo a uguali progetti – Australia, Canada, Francia, Stati Uniti, Italia, Russia e naturalmente Cina, per citare solo quelli più menzionati. La novità è che gli israeliani ne ipotizzano la diffusione, non i test, proprio l’assunzione sub linguale da parte di chiunque lo vorrà in un tempo record di tre mesi, mentre per gli altri vaccini si parlava di un annetto.
A giudicare dal nome del team leader, dottor Katz, ho pensato subito che si trattasse di una barzelletta, ma pare vi siano conferme da parte delle autorità governative, che per voce del ministro della Scienza e Tecnologia Ofir Akunis si complimentano per gli straordinari risultati ottenuti.
Dopo un respiro di sollievo – se non altro, la prima notizia positiva da giorni – ho però pensato alla reazione che questo comunicato avrà sui leoni da tastiera; come resistere alla ghiotta occasione per affermare: era già tutto pronto, gli ebrei, prima, hanno creato e diffuso il virus, e ora buttano sul mercato il vaccino per fare un mucchio di quattrini, già che quello solo sanno fare: כסף כסף כסף (soldi soldi soldi)!
Una riedizione, insomma, del vecchio e sbugiardatissimo complotto dei Savi di Sion, la cui vorticosa circolazione di parole sul web ha però restituito vigore. Mi è venuta così un’idea. Sono inutili le proposte che mirano a espungere le fake news dal dibattito pubblico, inutili e sottilmente antidemocratiche: un cretino ha pur sempre diritto di opinione, almeno quando lo faccia in un contesto non istituzionale. E i social network con tutta evidenza non lo sono.
Ci si potrebbe però difendere da questa spazzatura in un modo semplicissimo, con un bollino simile a quello delle banane. Non è complicato. Quando sul web si incoccia in un cretino che, come a lui connaturato, diffonde notizie a sua immagine e somiglianza – notizie false e cretine, dunque – basta notificarlo a una sorta di comunità di probiviri della razionalità e del buon senso, i quali in tempi brevi ne verificano i contenuti.
Prima arriverebbe un cartellino rosso, come nel gioco del calcio, e alla seconda cretinata ti becchi il bollino blu, che non ti espelle ma segnala agli altri giocatori con chi hanno a che fare: occhio, che quello spara cazzate!
Per sapere se il nostro interlocutore è uno spacciatore di banane e non di pensieri, basterebbe consultare un pubblico database; purtroppo la cosa ricorda una lista di proscrizione, se non che il tutto è chiaramente ironico e non è prevista alcuna sanzione o censura. E’ solo un indice di attendibilità, tutto qui. Un buffo rating che potrebbe variare nel tempo, se uno smette di diffondere bananate.
Non mi sfugge inoltre che questo lavoro di selezione e cernita sarebbe del tutto discrezionale, per non dire arbitrario, e si dà il caso che in qualche occasione un Chiquita potrebbe avere anche ragione. Pazienza, gli chiederemo scusa, e come dice il proverbio talvolta c’è da imparare anche dalle menti semplici, se non proprio dai cretini.
Non sarebbe infine malaccio se anche i Chiquita facessero lo stesso con quelli che considerano gli untori, i rettiliani, gli sciatori chimici e gli spacciatori di veleni, che però loro chiamano vaccini. Loro e cioè noi. Potrebbero, ad esempio, affibbiarci un bel bollino rosso con sopra scritto Del Monte: ananassi contro banane, ecco. Entrambi con uguale diritto di circolazione sul web, Guelfi contro Ghibellini.
Non una vera e propria guerra intendiamoci, piuttosto la presa di coscienza di una linea di demarcazione che da qualche anno già divide le coscienze, una linea visibile da tracciare sopra all’invisibile faglia che ci separa.
Il vantaggio di questa segnaletica riguarderebbe non solo la cornice del pensiero (l’epistemologia direbbero i Del Monte, facendo infuriare i Chiquita che gli ribatterebbero aò parla come maggni!), ma anche lo sfondo antropologico che sta dietro alle parole, il loro “gioco linguistico”. E che il mondo umano sia fratturato è la triste costante del nostro tempo.
Ma non è detto che, a questo modo, di tanto in tanto un Chiquita non cambi schieramento, come pure viceversa. Addirittura potrebbero crearsi amori e tresche tra le diverse barricate, Montecchi che, al tenue lucore della prima luna, scalano la terrazza dei Capuleti per mendicare un solo minuscolo bacetto. Io sarei il primo a innamorarmi di una bella danzatrice con il gonnellino fatto di bucce di banana, come Joséphine Baker quando compariva sul proscenio delle Folies Bergère.

mercoledì 26 febbraio 2020

Kafka

Per molti di noi, i più ipocondriaci almeno, mi ci metto anch’io, la condizione attuale potrebbe tradursi in un prezioso esercizio di empatia. Abbiamo infatti l’occasione di sperimentare quel che prova l’imputato a un processo in cui è prevista – non scontata e neppure probabile, ma comunque possibile –, la pena di morte. L’unica differenza è che nel nostro caso la corte è invisibile, e non sappiamo così quando alzarci al suo ingresso per mostrare che siamo ossequiosi e inermi e docili: tanto più piccoli noi, tanto più potente e imperscrutabile Lei nel suo non negoziabile volere. Insomma, altro che Amuchina, ipoclorito di sodio a disinfettare questi giorni sempre più strani, qui sento odore di Kafka…

martedì 25 febbraio 2020

Agnizioni


Pochi minuti fa, mio padre, neofita un po’ impacciato ma assai attivo su Facebook, mi manda questa foto, a sua volta appena condivisa da un suo contatto che l'ha pescata chissà dove. Insomma, ha fatto un bel giro prima di ritornarmi dopo cinquant’anni, già che una delle persone immortalate sono io.
Un’immagine che mai avevo visto prima e neppure ricordo la circostanza vissuta; ero troppo giovane, forse quattro anni, massimo cinque. Inoltre mio padre non ha aggiunto alcun commento, e dunque avrei potuto accostarmi come a un quadro appena dipinto o a una mattonella di un bagno pubblico, del tutto ignaro.
E invece no, il riconoscimento di me stesso bambino è stato istantaneo – c’è un unico pischello, gli altri sono cronometristi in grisaglia Facis o Marzotto, il contesto fa pensare a una gara di motociclette. Quello seduto a sinistra è il babbo, l'espressione compiaciuta di chi ha la Legge dalla propria parte, la legge dei numeri fino ai decimali più remoti, il pollice teso e sul pulsante che separa i vincitori dai perdenti. E io sono il figlio del sovrano del tempo - che orgoglio!

Un po' in disparte e con aria curiosa, ci sono però anche due magnifici teddy boy; se le fotografie avessero la colonna sonora scommetterei sul quartetto di Liverpool; quindi, di spalle, un motociclista altrettanto datato nella foggia del casco, per quanto tra i centauri ci sia ora il riflusso dello stile vintage, che fa pendant con le lunghe barbe hipster.
Ma torniamo a quella strana funzione della mente che, in pochi decimi di secondo (si vede che nelle mie vene scorre sangue di cronometrista), mi ha portato a identificare una creatura quanto più lontana dal me attuale, ed esclamare il più abusato dei pronomi: io!
Un'affermazione certa, più sicura di una cassaforte, e ciò malgrado quel topino con i denti sporgenti e la frangetta tagliata dalla mamma, a guardar meglio ci accorgiamo che si tappa le orecchie per attutire il baccano delle moto da enduro e fissa il fotografo con raggrinzita diffidenza (o forse è solo il fastidio per il sole negli occhi), quell'io-lui ha nel frattempo compiuto un infinito ricambio di cellule, i capelli si sono prima imbiancati e poi diradati, e ho il sospetto che anche il pistolino non sia più arzillo come prima, quando il ritrovamento di una copia fradicia di Caballero era una vera e propria festa, da condividere con gli amici.
Magari l’ho presa un po’ alla larga, ma era l’unico modo per ricordare, innanzitutto a me stesso, che quando muore un anziano, ma anche ben più anziano di me, via, che in fin dei conti ho l’età di Jovanotti e tre anni meno di Brad Pitt e soprattutto molta voglia di vivere, in quei casi prima di dire "beh, aveva ormai i suoi annetti", oppure "in fondo era malato" e altri simili frasi di cordoglio, si dovrebbe sempre pensare che è morta anche una mente la quale di fronte alla foto di un bambino, fosse pure l'istantanea appesa all'intima bacheca del ricordo, incontrava ogni volta uno specchio, e su quello specchio indelebile la parola io. Ed era ogni volta un incontro reale, per nulla affettivo, illusorio, già che c’è una continuità obiettiva, per quanto misteriosa, tra quel corpo freddo e rugoso e il bambino che un giorno è stato.
O per dirla con le parole di Elias Canetti: "la morte di un vecchio è più tragica di quella di un bambino, perché muore più memoria."

(Ps - Ovviamente penso anche agli idioti che si rallegrano del fatto che per un virus – dai che riesco a non dirne il nome – stiano morendo quasi solo vecchi e malati. No, stanno morendo anche i bambini che furono, e da qualche parte sono ancora.)

lunedì 24 febbraio 2020

La vita è adesso

Dallo zapping furioso di mia madre tra un telegiornale e l'altro, gli aggiornamenti a ciclo continuo, Mentana, Giletti, Gruber e Panella e quell'altra bionda che si chiama come un mago, oltre all'ubiqua Ilaria Capua con il suo bel sorriso italiano, l'acconciatura dei capelli ormai definitivamente americana, io da questo sovrapporsi apocalittico di voci ho capito solo una cosa. Siamo vivi adesso. Tra meno di un anno certamente troveranno un vaccino, una cura all'invisibile stronzetto, anzi meglio due cure, tutte le cure a tutti i mali, e anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno. Ma il guaio, o la struggente bellezza, a seconda dei punti di vista, è che siamo vivi adesso, allo stesso modo di una mosca che da qualche parte sta cocciando con il vetro (tum tum tum) per uscire oppure entrare, in fondo per lei non fa troppa differenza. E così nell'adesso in cui cammino non c'è salvezza ma nemmeno perdizione, solo questa buca di talpa in cui il cane che mi accompagna sta rovistando, mentre la "mia" vita, o forse la vita a cui tutti apparteniamo come mosche, mi spalma in faccia un bel sole tiepido, quasi primaverile.

Ps - Colonna sonora suggerita: Claudio Baglioni, La vita è adesso.

venerdì 21 febbraio 2020

E' arrivata la bufera, è arrivato il temporale...


Il coronavirus è arrivato in Italia. Il coronavirus è arrivato. E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli par… cantava Renato Rascel nel 1939, alzando la gambetta di lato.
Ma è lecito scherzarci su?
Nei giorni scorsi il filosofo sloveno Slavoj Žižek, per molto meno, è stato quasi linciato dalla stampa liberale. La sua provocazione è che il coronavirus rappresenta una pausa preziosa del sistema economico mondiale, o meglio un inciampo degli ingranaggi di quella macchina, sempre in funzione, che con gergo marxiano lui chiama capitalismo; pausa e inciampo di cui dovremmo tutti profittare.
Proviamo a ragionarci sopra, partendo ovviamente dal rispetto dovuto a chi soffre per questa moderna piaga, e della paura che inizia a sollecitare quei muscoletti che si nascono all’interno dell’ano, almeno il mio è sempre più stretto.
Ma fatto ciò, dobbiamo riconoscere che, come ogni esperienza umana, il coronavirus è tante cose insieme, e il risvolto filosofico suggerito da Žižek non era forse fuori luogo. Non c'è infatti alcun dubbio che l'albero della cuccagna finanziaria con le su ramificazioni internazionali, le radici nel terreno concimato dal privilegio, stia patendo la condizione presente, e anche quelli che Diego Fusaro a ogni occasione e con l’occhietto azzurro che cerca la camera chiama turbocapitalisti, siano messi in grave difficoltà dall’invisibile avversario.
Eppure la ricerca scientifica non è mai stata attiva come adesso, ed è ragionevole pensare che, in tempi ragionevolmente brevi, forse e come dicono un anno, saranno disponibili delle terapie e dei vaccini per contrastare l’epidemia. Tutto questo apparentemente c’entra poco con la crisi del capitalismo – saranno, al contrario, profitti enormi per le multinazionali del farmaco –, ma io mi sento di rimarcare comunque l’avverbio apparentemente, che bene si intona con questi giorni di carnevale.
Bisogna però fare un piccolo passo indietro, e tirare in ballo un altro gigante del pensiero filosofico scomparso di recente. Mi riferisco a Emanuele Severino, per il quale l’identità tra capitalismo e tecnica è, parole sue, “situazionale”; quando a guardar bene i due soggetti perseguono finalità diverse.
Il capitalismo mira per definizione all’arricchimento privato, e dunque si giova di una disponibilità per così dire mediana delle risorse, indispensabile alla creazione del plus valore nei processi di trasformazione e di scambio.
Pensiamo all’aria. E’ troppo diffusa, c’è troppa aria, almeno al momento, per poter essere venduta. Ma sul versante opposto, anche qualcosa di cui la disponibilità sia troppo bassa non può assumere lo statuto di merce – non a caso di alcune opere d’arte si dice che il valore è inestimabile, non esiste un valore di mercato per la Cappella Sistina. E’ un unico. E dove si manifesta l’unicità scompare il mercato.
Al contrario, si possono vendere aringhe, lampadine, bignè, magliette di Cristiano Ronaldo e vibratori alla fragola: si può vendere tutto ciò che non è a immediata portata di mano, ma nemmeno irraggiungibile.
Diversamente la tecnica – è sempre Severino a suggerirlo, ma seguendo una lunga tradizione filosofica che ha in Heidegger la voce più autorevole – la tecnica coincide con il gesto originario di coordinare mezzi in vista di un fine. Ma non è lo stesso del mercato, che assembla pezzi di plastica e poi vende la Barbie?
Sì e no. Perché il mercato trae beneficio dall’apparato tecno-scientifico solo in una situazione circoscritta nel tempo (da qui il minaccioso aggettivo situazionale), nella quale quest'ultimo si concede a soddisfare ogni capriccio operativo che gli venga richiesto, come nel caso della celebre bambola. Ma a guardare con maggiore scrupolo, quel gesto inaugurato dall'homo faber e sfruttato oggi per far quattrini, in verità mira alla replica indefinita di sé stesso, al punto che così possiamo riassumerne la natura: potenza, potenza del processo di manipolazione di ciò che in filosofia vengono detti essenti, e noi più umilmente chiameremo le cose, il mondo.
E’ allora qui, seguendo sempre Severino, che tecnica e capitale configgono: la prima tende naturalmente alla dimensione dell’illimitato (quello appunto della potenza, il potere di plasmare la materia per realizzare nuovi fini, fini senza fine come in un'altra canzone di Gino Paoli), mentre il capitalismo è nemico dell’indefinito, ha bisogno di quella già anticipata condizione intermedia e dunque limitata delle risorse, attraverso cui imbastire i suoi piccoli o grandi affari. O detta diversamente: tutto l'oro del mondo diventa un minerale come un altro, se non hai nessuno con cui scambiarlo.
L’abbiamo presa un po’ alla larga, ok, ma ora arriviamo al punto. Se la tecnica medica, come credo e tutti auspicano, riuscirà a debellare il coronavirus, è verosimile intuire un cambio di passo, un’inversione di gerarchia tra tecnica e capitale, più che come vuole Žižek una pausa all’interno della struttura capitalistica. La tecnica, una volta sconfitto il nemico pubblico numero uno, potrà infatti smarcarsi da questo ruolo ancillare, e rivendicare con voce finalmente trionfale, prometeica, quel primato sul bios a cui aspira da sempre.
Siamo così testimoni, oltre che di una colossale sfiga, anche di una contrapposizione decisiva, in cui la tecnica non solo sta sfidando lo stramaledetto virus COVID 2019 che non vediamo l’ora di levarci dalla palle, ma anche l’ordine economico e sociale così come l’abbiamo fino a ora conosciuto.
Possiamo ricavare la conclusione di essere alle soglie del post umano, o di ciò che Severino chiamava lo smascheramento della follia dell’Occidente? Non lo so, e purtroppo, come un grande profeta biblico, l’unico che avrebbe potuto rivelarcelo se ne è andato prima dell’avverarsi della propria profezia. Quanto a noi, noi speriamo che ce la cavo…

domenica 16 febbraio 2020

Historia est magistra vitae? Non sempre...


Si dice che conoscere la storia serva a evitare gli errori del passato. Non c'è motivo di dubitarne. Ma non bisogna prendere l’esortazione pedagogica alla lettera. Penso ad esempio all'attributo di fascista sempre più comunemente indirizzato a Matteo Salvini, oppure a Gerogia Meloni che in effetti proviene da quella sartoria ideologica, per quanto l'orbace littorio sia più volte stato lavato in candeggina. Rievocare la funesta pagina storica del ventennio, in chi ne richiama di continuo la memoria come insulto, dovrebbe in ogni caso servire a esorcizzare le derive del presente.
Eppure se guardiamo alle differenze oltre che alle analogie, ci accorgiamo che quando Mussolini, ma anche Hitler, salirono al potere trascinati da un diffuso ed eccitato consenso (nella marcia su Roma non ci furono elezioni, ma nel '24 Mussolini raccolse il 64,9% dei voti, e Hitler il 43,9% nel '33), i due autocrati più che incarnare un sentimento genuinamente popolare lo plasmarono a propria immagine e somiglianza, informando l’immaginario delle rispettive nazioni a partire da un generico malcontento. 
E’ così anche adesso?
Proviamo a collaudarne l'ipotesi a partire dallo stesso Salvini. Sì, proprio quel Salvini che citofona agli immigrati dandogli degli spacciatori e accosta il rosario alle labbra a ogni pubblica occasione: più che fascista a me sembra un bulletto da bar tabacchi di periferia, con flipper residuato e bigliardo e il cicchetto di JB che ancora viene chiamato uischettino. Davvero qualcuno crede che una figura più pittoresca che truce possa indurre gli effetti mitopoietici di dittatori dalla robusta mascella, inducendo pigri geometri del catasto a lanciarsi nel cerchio di fuoco?
Un simile ragionamento possiamo replicare con Giorgia Meloni, che promuove con passione una retorica famigliare da manifesto Acli degli anni cinquanta, ma ha un figlio e convive non sposata o, come si diceva con biasimo in quello stesso periodo e ambiente clericale, more uxorio, con un compagnato oscurato dalla sua ombra gagliarda, facendo dunque lui quel passo indietro che Amadeus suggerisce alle donne tutte.
Contraddizioni?
Sì e no. Infatti se pure entrambi assumano posizioni politiche che vagamente (e sottolineo l’avverbio vagamente) ricordano l’orgoglio nazionalista e le chiusure xenofobe del fascismo, quello vero, oltre ai valori della tradizione più oscuramente cattolica o meglio codina, ho l’impressione che non lo siano realmente, fascisti né baciapile, ma sia appunto la postura strategica di chi apra le braccia e accolga il rigurgito neofascista e bigotto che negli ultimi anni è maturato in una componente significativa, forse perfino maggioritaria del popolo italiano.
L’esperienza suggerisce così che i due termini  leader politico e popolo  si siano nel frattempo scambiati di posto. Prima viene il popolo, e come suo confuso riflesso il politico. O detta in forma metaforica: il politico, da burattinaio, è nel frattempo divenuto mimo, foto di classe con corna al più secchione, quando non caricatura di quel che viene chiamato con orgoglio il basso, la gggente. E Movimento 5 Stelle e Sardine vanno nella stessa direzione emulativa, anche se con diverso segno politico. Gramsci direbbe che manca la mediazione intellettuale.
L'analogia con il passato ci porta allora fuori pista. Qui più che libri di storia, servono buoni specchi.

domenica 9 febbraio 2020

Il corpo e l’anima, o sugli ultimi mille anni di storia musicale spiegati con una zuffa


I fatti sono noti. Marco Castoldi, in arte Morgan, addenta una non meglio precisata parte del corpo di Cristian Bugatti in arte Bugo, il quale risponde con uno sputo prima (o dopo, ma in fondo chi se ne importa) di salire sul palco dell’Ariston, dove Morgan, che è sempre Marco Castoldi, stravolge il testo della canzone in concorso, inducendo il compagno a lasciare la scena e così causando la squalifica del duo dal settantesimo Festival di Sanremo.
Per i più è stato il momento più basso di una manifestazione che già volava rasoterra, ma questa è un'altra storia. Quella di cui voglio parlare si limita alla zuffa tra i cantanti, dove il corpo, deiezioni comprese, la fa da protagonista, ma in un senso che per una volta ho trovato non banale e altamente metaforico, quasi luminoso in una serata piena d’ombre.
Cos’è infatti che distingue le canzoni di Sanremo dalla musica cosiddetta colta?
La risposta sta nuovamente nel corpo, a partire dagli ancheggiamenti di Elvis e della sua versione italiana, Adriano Celentano, oppure le provocazioni fisiche di Madonna, i travestimenti di Bowie (qui ripresi da Achille Lauro), le automutilazioni pubbliche di Sid Vicious e Iggy Pop, fino ad arrivare a GG Allin che fa la cacca sul palco e Jim Morrison pipì sul pubblico, mentre i Rolling Stones ingaggiano gli Helles Angels per il servizio d’ordine di un concerto, i quali non trovano luogo migliore in cui infilare un coltello del corpo di un fan del gruppo inglese, così ricordando anche il nesso mitico tra corpo e sacrificio.
Bene, senza entrare in dispute sulle differenze qualitative tra i generi, riuscite a immaginare Johann Sebastian Bach, in arte Johann Sebastian Bach, che morde Georg Friedrich Händel in arte Georg Friedrich Händel, che gli risponde con uno sputo?
Se come me non ci riuscite, è perché quell’immagine ipotetica appartiene a un prima da cui ci siamo definitivamente congedati, lasciando il posto a un’enorme bolla sonora a cui è stato dato il nome di pop; ma altro non è che l’estensione allegorica del corpo, quando la musica classica cercava piuttosto di trascenderlo, il corpo, in ragione di quella cosa impalpabile che è stata variamente chiamata anima, spirito, nous, psychè.
Per concludere, corpo batte anima per due a zero. Gol di Marco Castoldi e di Cristian Bugatti, in arte, in arte… decidete voi se sia arte oppure no.

mercoledì 5 febbraio 2020

Sanremo 2020, o sull'arte ai tempi di Amadeus


Il Sanremo 2020 di Amadeus è pura arte!
Un momento, facciamo un passo indietro, e anche uno di lato. Iniziando col premettere che non ho ascoltato una sola bella canzone ieri sera; e anche Fiorello, più che essere davvero simpatico, fa il simpatico, contribuendo a quel senso di diffusa tristezza che aleggiava sull’intera manifestazione.
Eppure mi sento di ribadire l’affermazione iniziale: questo Sanremo, come le edizioni immediatamente precedenti ma in misura maggiore, condivide con l’arte una diversa disposizione al reale, che è ormai totalmente surrogata e vicaria, quando non caricaturale. Lo possiamo sperimentare con chiarezza soffermandoci sull'esibizione di Achille Lauro.
Il ragazzo è anche simpatico, più di Fiorello almeno, ma ricorda un’ipotetica imitazione di Crozza a un performer glam degli anni settanta, mettiamo David Bowie. La differenza sta appunto nel fatto che David Bowie, a parte l’evidente e diversa caratura musicale, possedeva la capacità mimetica di intercettare gli umori del presente, e di restituirli in forme ambigue, fantasiose e cangianti.
Nulla di tutto ciò in Lauro e negli altri cantanti dell’ultimo Sanremo, ciascuno, a modo suo, una copia di una copia di una copia. Ma perché dico allora che è arte? La risposta sta in questo movimento dalla realtà al suo doppio, a caratterizzare l’arte a partire da una data ben precisa: l’affermazione su larga scala del cinema, dunque gli anni trenta e quaranta, prima negli Stati Uniti e, con il dopoguerra, in tutto il mondo.
Da quel momento l’arte ha smesso di essere una sorta di specchio in cui una comunità umana si contempla e quindi riconosce, anche nella tensione al proprio trascendimento, in seguito chiamata arte sacra; ma è sempre l'uomo che si osserva nei suoi risvolti occulti e ulteriori. Poi e come anticipato è però arrivato il cinema, che ha iniziato a svolgere quella stessa funzione con maggiore credibilità, ossia immedesimazione emotiva, esperienza del simbolico, passando in seguito il testimone con a televisione e ora a internet e videogiochi, così togliendo definitivamente la sedia da sotto il culo all’arte, che ha dovuto iniziare ad arrabattarsi come può.
Perlopiù, l’arte ha cercato di replicare lo scherzetto subito dal cinema, occupando la sedia di qualcun altro, nella fattispecie della critica. Ed è per via di questo scambio di ruoli che l’arte contemporanea ha imboccato una direzione come si dice meta-artistica: non la rappresentazione e tantomeno la creazione della cosa in sé, ma ciò che in narratologia viene chiamato mise en abyme, sorta di sogno nel sogno in cui la realtà è sempre altrove e può essere evocata solamente di sbieco, come fa Andy Warhol quando stilizza le icone del proprio tempo. Non le fonda più, intendo, come avvenuto nel passato, ma ammette esplicitamente la propria funzione gregaria.
Qualcosa di simile abbiamo potuto vedere anche ieri sera all’Ariston, con giovani solo anagraficamente che recitano la parte di giovani veri, con tanto di slang e posture malmostose; oppure abbiamo cinquantenni, come Irene Grandi, che scimmiottano l’Irene Grandi degli esordi, la ragazzina sfrontata e un po’ maschiaccio che ti dice vuoi fare sesso, ok, facciamolo adesso! Ma l’adesso della Grandi è del tutto fasullo, come quello di Lauro e di tutto il carrozzone di nani e ballerine.
Poi, magari, qualcosa si sarà pure salvato, perché alle undici ho preso una pastiglia di Rivotril e sono sprofondato nell’ovattato mondo delle benzodiazepine. Sognando i tempi in cui l’arte era veramente arte, e Sanremo Sanremo. Con il volare nel blu dipinto di blu di Modugno che non era una pallida citazione, ma il sentimento, autentico, di milioni di italiani innalzati dal miraggio del boom economico. Ora precipitato negli incubi del coronavirus, da cui distogliamo lo sguardo volgendoci all’immensa macchina caricaturale allestita da Amadeus.

sabato 1 febbraio 2020

L'epidemia dell'identità, o su chi dice io


Il coronavirus. In questi giorni molte parole, immagini, parerei illustri e meno, perlopiù di carattere strettamente medico o giornalistico, non di rado in una sovrapposizione terroristica tra i piani. Mi sembra che vi sia un versante però ancora poco indagato, che potremmo anche chiamare filosofico.
Stando ai dati che ho raccolto in questo profluvio di informazioni, la mortalità associata alla contrazione della malattia è del 2%; ma il 2%, è forse inutile ricordarlo, tra chi è stato infettato dal virus, quindi non più di un quinto della popolazione, come avviene per una normale influenza. In altre parole, la probabilità statistica di morire a causa del coronavirus equivale al 2% del 20%, una percentuale che oscilla effettivamente attorno a un (quasi) trascurabile 0,5%. Viceversa, la probabilità di morire nel corso della vita per un tumore è stata stimata intorno al 30%, mentre quella di morire per un male a caso, per dirla con Ivano Fossati, è del 100%.
Ciò che ci fa tanto preoccupare – e io sono tra i primi a farmela sotto, non voglio chiamarmi fuori – non è dunque la paura di morire tout court, ossia di morire un giorno, chissà quando, chissà come, ma di morire di polmonite nei prossimi mesi, in cui si presume dilagherà in tutto il mondo la malattia partita dalla provincia cinese di Wuhan.
Questo dato emotivo ci indica che l’identità non è qualcosa estesa nel tempo, già che l'elastico mentale ha sempre un radicamento nell'adesso: il giovane che si immagina sposato alla più carina della classe 
 nel mio caso si trattava di una certa Simona, che nell'immaginario proto televisivo dell'epoca io associavo a Maria Giovanni Elmi, la fatina bionda che annunciava Carosello  o l'anziano che ricorda, con rimpianto, le scorribande giovanili, sono entrambi pensieri che si pensano a partire da un qui e un'ora.
E così anche il corpo con cui mi identifico e verso il quale provo preoccupazione, è sempre questo corpo qui, di cui ho esperienza nel momento presente, e anche quando si allontani dall’ideale (il vecchio che si guarda allo specchio e non si riconosce più) ci rode il culo doverlo lasciare, lasciare entro un orizzonte di tempo limitato, intendo. Diversamente il corpo di quell’altro, quel tizio che porta il mio nome e possiede le chiavi del mio appartamento, tra venti, trenta e fossero pure cinquant’anni, non sarà più il mio corpo, non sarò io, ma una persona che vagamente ancora mi rassomiglia, ma che con me ha in comune solo una manciata di ricordi.
La domanda a questo punto diventa: ma davvero quella vocina interna che dice io, a volte spesso a sproposito – io di qua, io di là… – coincide con la memoria e la proiezione, come tanti letterati e filosofi hanno suggerito nella storia?
L’epidemia drammatica di questi giorni pare risponderci negativamente, per quanto rimane aperta la domanda. Con tutti gli scongiuri del caso, che muoia dunque quel lui con in tasca i miei documenti anagrafici, che muoia in un giorno che si presume sempre remoto e piovoso, che muoia di tumore o di un altro infido agguato. Tanto, più mi allontano dall'esperienza, dalla presenza, meno sarò. Ma col cazzo che io voglio lasciarci le penne dopodomani, per lo stramaledetto coronavirus.