mercoledì 30 giugno 2010

Rosso o verde?, o sulla verità daltonica



L'associazione Asia. Li ho scoperti su internet da pochi giorni, hanno sede a Bologna e organizzano delle cose interessanti, tra cui le Vancances de l'esprit; che a parte l'odiosa formulazione francese, mi sembra un'iniziativa molto bella: brevi stage filosofico-divulgativi, aperti a tutti sebbene a pagamento, in una località dolomitica vicino a Bolzano.
In seguito il materiale di questi corsi, tenuti dai massimi esponenti della cultura italiana, viene editato in dvd e messo in commercio. E mi sembra apprezzabile anche questo.
Infine sul portale del loro sito web compaiono di tanto in tanto delle video interviste, o brevi confronti tra autori. Proprio oggi veniva discussa l'idea filosofica di verità tra Gianni Vattimo e la sua ex allieva Franca d'Agostini, entrambi protagonisti delle prossime Vacances de l'esprit.
Personalmente ho trovato il confronto illuminante nel porre con radicalità, ma anche cordiale passione, quello che è forse l'argomento filosofico decisivo.
Dopo aver visto il video (lo si trova a questo link), ho avvertito il desiderio di elaborare un mio breve commento, che segue qui nella forma di una mail che ho spedito ad entrambi.
Non li conosco di persona, ma nel caso avessero la bontà di rispondermi aggiungerò anche la loro eventuale replica.

Gentili Franca d'Agostini e Gianni Vattimo,

ho appena seguito il video confronto che vi trova intellettualmente contrapposti sul sito internet dell'associazione ASIA. Colgo l'occasione per ringraziare entrambi, oltre naturalmente anche l'associazione ASIA, per la bella e utile iniziativa. Al termine della visione mi è quindi venuta alla mente un'immagine che mi piacerebbe condividere.

L'immagine è questa: un semaforo rosso.

Anzi, meglio, un semaforo rosso in una strada deserta e nebbiosa, una notte come tante nella sterminata provincia americana. Puro Edward Hopper, insomma. Che non a caso viene descritto come pittore realista; anzi: iper-realista. Da ciò ricavo una sensazione di rassicurante certezza, su cui mi sembra che debba convergere lo spettro molteplice delle opinioni: è vero, è reale che il colore di quel semaforo, in quel momento, in quel luogo, è il rosso. E' addirittura iper-vero.

Se non ci fosse uniformità di consenso, un eventuale automobilista potrebbe infatti superare la linea dello stop, scontrandosi con un (altrettanto eventuale) autovettura che provenisse dalla direzione tangente. E dovremmo infine concludere che, come per l'esempio classico della pioggia - "se mi bagno è vero che piove" -, a questo primo ed elementare livello dell'esperienza esistono delle affermazioni verificabili e certe.

O se preferiamo e più formalmente, una convergenza univoca tra proposizioni ed oggetti.

Ma in narrativa le cose sono spesso più complicate e contraddittorie che in filosofia, e io non sono un filosofo ma uno che racconta storie. Così alla guida della Cadillac rosa, che sopraggiunge a forte velocità verso lo stesso sperduto incrocio, immaginiamo di avere Jack Ultimo Bicchiere. Il quale oltre a essere ubriaco, assonnato, disperato perché la sua fidanzata l'ha appena lasciato, è anche daltonico. E percepisce dunque come verde ciò che a noi appare di un bel rosso carminio.

Una prima valutazione parziale ci imporrebbe però a questo punto una distinzione, che vede la materia linguistica scindersi tra:

1) Predicati relativi all'esperienza sensibile del mondo, quali appunto quelli che riguardano un semaforo; oggetto che ha nella manifestazione evidente il suo principale requisito.

2) Predicati relativi a un'esperienza mediata e culturale, non verificabili attraverso esperienza diretta. Ad esempio idee religiose, concetti di giustizia, gusti e valori morali.

Ma concentriamoci ora sulle sole proposizioni relative al primo punto, e cioè tutte le affermazioni che hanno nella fattualità sensibile il loro riferimento concreto. Bene, l'esempio di Jack Ultimo Bicchiere ci mostra come anche in questi casi, in cui ci appelliamo all'evidenza che proviene dai sensi, non esista una materia certa e incontrovertibile che faccia da sfondo ontologico al giudizio. Ossia anche il rosso non è rosso in taluni casi che sono ugualmente reali, e dunque "veri".

Ma ha senso scrivere il termine verità tra virgolette, come ho appena fatto io? Credo di no. E ciò dipende dal fatto che, in una prospettiva filosofica ossia di massima coerenza linguistica,
realtà e verità sono termini non equivalenti. Ancora più radicalmente, l'esempio di Jack Ultimo Bicchiere ci porta ad ammettere che la realtà possiede sempre un elemento costruttivo, originato dall'incontro tra soggetto e mondo, prima ancora che di relazione tra diversi interlocutori, producendo per sedimentazione dialettica l'insieme dei saperi che vanno a costituire una specifica cultura. Mentre la verità filosofica è qualcosa che per definizione dovrebbe "stare sopra" a tutto ciò (epistème).

Eppure un'affermazione cromatica non mi pare che possa essere liquidata come "culturale". Non avviene infatti interpretazione, o trasmissione di saperi calcificati nel giudizio; senza allo stesso modo poggiarsi sopra a un dato stabile e incontrovertibile, né a maggior ragione
metafisico. Piuttosto le impressioni sensoriali hanno quale legittimazione l'omogeneità prevalente del sistema neuro-cognitivo umano. Che ci porta a percepire, in massima parte e cioè statisticamente, una particolare vibrazione dello spettro elettromagnetico allo stesso modo. E allo stesso modo così anche la chiamiamo: rosso.

La circostanza per cui esistono persone, come Jack Ultimo Bicchiere, che percepiscono in modo alternativo quello stesso stimolo sensoriale, non mi pare così un argomento sufficiente per escludere dal dibattito filosofico ogni riferimento fattuale o realistico, concludendo che tutto è soggettivo ed interpretabile. Mi sembra piuttosto una variabile utile a separare concettualmente ogni valutazione basata sull'esperienza - che chiameremo provvisoriamente "verità sensibile" - da discorsi di ordine interpretativo e dunque negoziale, che paradossalmente potrebbero rivelarsi filosoficamente "più veri" delle proposizioni ricavate dall'esperienza. O detta diversamente: ciò di cui non abbiamo percezione non è detto che non sia, e viceversa ciò di cui abbiamo prova tangibile attraverso i sensi non è detto che sia per ciò stesso vero (può ad esempio trattarsi di un miraggio).

Questo esempio, mi rendo conto, riporta la discussione dentro l'alveo vagamente naif di un Bigino di storia della filosofia. In cui viene insegnato che con la modernità si passa dall'aliquid est (qualcosa è lì) degli antichi al cogito cartesiano, e cioè da un atteggiamento di ottimistica confidenza rispetto alle informazioni che provengono dai sensi - come San Tommaso gli antichi si affidano al barometro del naso - a una brezza dubbiosa, una sorta di tarlo fenomenico. Eppure, proprio tale pedante premessa, è utile per arrivare a quello che a me pare il punto davvero delicato. Se noi ammettiamo quale elemento dirimente e veritativo i sensi, anche solo nella loro declinazione statistica - perché di questo si tratta: statisticamente i più percepiscono una vibrazione elettromagnetica come rosso - estendendone l'applicazione dal primo campo predicativo al secondo (e cioè ai predicati che non contengono un'esperienza diretta del mondo, ma ai valori e alla cultura), approdiamo a risultati piuttosto imbarazzanti.

Infatti, come abbiamo appena visto, l'elemento di legittimazione che proviene dai sensi è di natura non qualitativa ma quantitativa, statistica. Quindi più che di verità dovremmo parlare di con-senso, cioè di convergenza di sensazioni che non raggiungono mai l'unanimità del giudizio. Ma è forse più chiaro con un altro esempio.

Una maggioranza statisticamente schiacciante di persone è attratta da persone di sesso opposto. Se a tale premessa di carattere unicamente numerico noi volessimo applicare il dunque sillogistico, arriveremmo a riconoscere come vere le posizioni del Papa sull'omosessualità. Dal punto di vista della statistica come elemento di discernimento del vero, la Chiesa Cattolica Apostolica e Romana non fa infatti che ratificare un dato diffuso d'esperienza. Agli uomini (prevalentemente) piacciono le donne, e alle donne (prevalentemente) piacciono gli uomini.

Ma questo è consenso, non verità!

O detta in termini filosofici, questo è l'errore, nei nostri tempi sempre più diffuso, di chi confonda
l'episteme con la doxa, la verità con una sia pur legittima opinione (sì, anche le sensazioni sono opinioni: perché sono opinabili).

La questione analitica diventa dunque che, come avviene anche per il daltonismo, è arbitrario e concettualmente errato estrarre un dato statistico-fattuale per indurre una conclusione di tipo ontologico sull'essenza ultima delle cose, quale appunto l'affermazione apodittica che l'omosessualità è "contro natura". E' un falso sillogismo, in cui si passa dalla premessa minore a quella maggiore. E ciò non solo perché non abbiamo esperienza fattuale della natura oltre il limite dei nostri sensi, ma anche perché, se così fosse, non solo gli omosessuali ma anche i daltonici, semplicemente, non sarebbero.


Fatte queste premesse di carattere metaforico-concettuale, io mi sento vicino a una posizione in qualche modo interlocutoria rispetto a quelle espresse da Franca d'Agostini, più incline a una visione oggettivante della materia, e Gianni Vattimo, per cui invece ci troviamo al cospetto di una competizione, non sempre evidente, tra interessi contrapposti; quindi in ultima istanza la verità sarebbe uno strumento di potere, già che per lui la nostra esperienza di uomini si limita a una contesa tra opinioni (il famoso "pensiero debole").

Trovo insomma che l'esperienza sensibile, per quanto sottilmente ondivaga e ontologicamente inattendibile, abbia un tale grado di persuasività concreta da proporsi quale elemento fondativo e dirimente le questioni pratiche di verità ed errore. Il problema, perfettamente intuito da Heidegger e sottolineato da Gianni Vattimo, è che tale verità esperibile non riguarda tanto ciò che realmente "è", per così dire, ma quel che "funziona". E' cioè una verità di tipo
efficiente, prima ancora che logica, già che a partire da Aristotele la logica esclude l'eccezione; non esiste una logica daltonica, o perlomeno non esisteva eccezione dentro la logica classica, che fa ancora da sfondo al pensiero comune. Mentre per la scienza, e per la tecnica che ne sventola spensierata i trionfi, è sufficiente che la pistola si inceppi in un numero statisticamente poco significativo di colpi.

Se da un punto di vista del pensiero pratico mi sento così di convenire con i dati che provengono dall'esperienza sensibile - in caso contrario, senza un elemento maggioritario di consenso su cui fondare la convivenza civile, sarebbe inevitabile lo scontro con tutte le auto, non solo con la Cadillac rosa di Jack Ultimo Bicchiere - avverto l'estensione dello stesso modello valutativo come altamente pericoloso, quando appunto applicato a proposizioni non verificabili sensibilmente; e cioè ai valori, alla cultura. In questo caso, e solo in questo, mi sento in piena sintonia con Vattimo e Heidegger. Se infatti volessimo estendere il principio statistico anche al mondo dei valori, davvero dovremmo convenire sul fatto - saremmo cioè logicamente tenuti a farlo - che non solo Hitler non aveva torto a sterminare le minoranze dissenzienti, ma che aveva ragione...