domenica 27 novembre 2022

Federico Fashion Style, o sulla geopolitica dei simboli

Io non so chi esattamente sia Federico Fashion Style, ma una cosa l'ho capita: quando Putin e Cirllo I, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, ma anche l'Isis, i Pasdaran, Xi Jinping, gli anarchici, la Spectre, Kim Jong-un, Godzilla, i punk e quelli che sputano nel piatto dove mangiano come me parlano dell'Occidente, non pensano a Pericle e Voltaire ma a Federico Fashion Style. Federico Fashion Style è il simbolo, dal greco συμβάλλω, mezza parte dell'effige di coccio che, quando ricomposta, restituisce una verità più profonda, l'intero smarrito. Ma senza quella metà perduta, Federico Fashion Style, sempre lui, diventa il cadavere in perfetta e allegra salute che galleggia in piscina, come nella sequenza iniziale di Sunset Boulevard. Si trattava allora di William Holden che comincia a raccontarci la sua vita in flash back, le vicende che l'hanno condotto all'esito fatale. Federico Faschion Style però non dice nulla: sorride, ammicca, si liscia la barbetta, e così dobbiamo immaginare la festa che si è svolta tutt'attorno. I mojto al Papete, il derby, uno a caso, tanto i tatuaggi dei calciatori sono tutti uguali, basi ritmiche campionate e piatti d'argento con candide strisce – polvere sei e polvere ritornerai, dice scherzano la ragazza – sulla terrazza Sentimento; che bel nome per inciso, ricorda quelli delle navi con cui pescare carne umana infreddolita: Humanity One, Ocean Viking, Rise Above, Louise Michel, Aurora, Nadir... Un flusso verbale che sembra diventare unico quanto i corpi che vi si accalcano; in fondo potrebbe essere il nome di una barchetta anche Black Friday, o Amazon, dove ho appena acquistato un idropulsore dentale con il 40% di sconto, e la certezza che nessun minimo brano di bollito si rifugerà più tra i miei molari. E poi amici, nemici, odiatori, dentro a una costellazione di fantasmi (ma ben scolarizzati, fanno fede le copertine dei libri appena letti, medaglie al valore da ostentare sulla propria giubba social) che noi chiamiamo casa – gli altri Demonio. Se oltre a Federico Fashion Style esiste ancora qualcosa per cui battersi ed eventualmente morire (no, non vale dire la libertà, perché quelli ti risponderebbero libertà di essere come Federico Fashion Style e si ricomincerebbe da capo la zuffa, brandendo i nostri idropulsori come mitra, pistole ad acqua) se esiste forse sarebbe il momento di tirarlo fuori. Tanta roba nel passato... Ma per il futuro? Qual è il futuro alternativo a Federico Fashion Style che riusciamo a immaginare per noi, non dico proporre come modello al mondo intero? Io una risposta non c'è l'ho, e, assieme all'idropulsore, ho acquistato una bussola: per capire dove stia esattamente la Mecca, o in alternativa qualche altro dio incazzoso verso cui chinare il capo e alzare il culo, senza timore che si scomponga e diradi la capigliatura. Ma nel dubbio, mi segno il numero di telefono dello studio di Federico Fashion Style...

venerdì 25 novembre 2022

Nomi, o su voce e pensiero

Attenzione: questo è un meta post. Siete ancora in tempo per interrompere la lettura. Se proseguite vi assumete la responsabilità di immergervi in uno spazio anteriore al pensiero. Uno spazio privato da cui spalanco le porte, avanti! Chi c'è c'è e chi non c'è non c'è. Eccovi dunque, ben trovati, potete sedervi o rimanere in piedi, a vostra discrezione. Mentre guadagno il centro e con spavalda incoscienza affermo: Jessica è il nome femminile più butto del mondo. Ma anche Samantha e Chantal e la sua variante, forse ancora più pretenziosa, Chanel, come una delle due figlie di Francesco Totti; l'altra si chiama Isabel che è pure un poco da parvenu, ma se ti trasferisci in un fotoromanzo fai sempre la tua porca figura. Della stessa famiglia erano in corsa per la maglia nera anche Ilary e sua sorella Melory. Un tempo, quando ero bambino negli anni Settanta, la bruttezza dei nomi femminili era riferibile a Genoveffa, Asdrubala e Pinella. Oppure Abelarda, c’era un fumetto, protagonista una nonna forzuta, che titolava così. Ma Abelarda a me appare un diamante grezzo rispetto a Chantal. Sul versante maschile, Adolfo, che a me piace ricordandomi Adolfo Celi, e Benito che pure non è malaccio – il mio meccanico si chiamava così –, per ragioni politiche sono diventati inservibili. Guido, il mio nome, mantiene un certo allure aristocratico solo in Toscana, mentre nel nord Italia è diventato un nome da sagrestani e scemi del villaggio. Se poi aggiungiamo il cognome, con Gabriel Garko si compie il capolavoro onomastico del kitsch. Molto belli invece Mimì, Zazà, Lulù, Gegè, Dudù e in genere tutti quei nomi tronchi e bisillabi di simmetrica composizione. Spopolano nell’aristocrazia napoletana decaduta che acquista pochette e foulard da Marinella; altro bel nome, per inciso. Funzionano molto bene anche con i cani, specie i barboncini, quello di Berlusconi porta uno dei nomi suddetti; per offrirvi un aiutino dirò che era il nomignolo di Raffaele La Capria. Il mio cane si chiama invece Mela, da Carmela, che pure mi piace. E poi tutti i meravigliosi nomi popolari presenti nelle canzoni di Jannacci: l’Armando, Mario, Vincenzina, Giovanni telegrafista e Veronica, il primo amore di via Canonica con cui fare l’amore al Carcano – in pè! (per chi non conosce il dialetto milanese, in piedi). Intanto, il suo amico Giorgio Gaber si scusava nel pronunciare il nome di entrambe le mie nonne: “chiedo scusa se parlo ancora di Maria”. Maria Maddalena, Maria Brasca, Mariù, parlami d'amore, sì, senza dimenticare Maria Giovanna Elmi, la fatina bionda che annunciava l’inizio di Sandokan dal monoscopio di televisori che avevano appena acquistato colore; era il 1976 e io mi ero innamorato di lei, dopo una breve sbandata per la Perla di Labuan. L'attrice che la interpretava si chiamava come il Papa, ma quello che è venuto due anni dopo: le discese sulle piste delle Dolomiti con gli sci, le immagini paparazzate in piscina, da Paparazzo, formidabile invenzione nominale di Fellini, "non abbiate paura" furono le prime parole pronunciate dal balcone di San Pietro; un'esortazione che in coppia con Tony Manero – questo sì che è un nome! – mette il sigillo conclusivo agli anni di piombo. Per tornare alle canzoni, c'è chi il nome se lo cambia passando dalle stelle alle stalle: "ti chiami Ines, ma adesso / il nome che porti è Judith" (Paolo Conte). Quindi la bellezza di Anna, Silvia, Lia, Rosa, Sara, Susanna, Chiara, Lucia, il nome della santa che si prende cura degli occhi. Vanessa mi appariva altisonante e fatuo – lo mettevo al livello di Moira e Moana, peggio ancora riesce a fare solo Asia – ma poi ho conosciuto una ragazza che si chiamava così e mi è venuto a piacere. Stesso discorso per Jeanette: lei era svedese e bellissima, il nome però francese. Se sei svedese per me puoi chiamarti come ti pare; ma, quando nata a Ladispoli, Jeanette continua a farmi un po’ sorridere. Dai, chiamati Giovannina e non farne tante. E cosa dire di Carla... Niente in contrario, intendiamoci: nome schietto, germanico; se non fosse che il suo significato è uomo – primo esempio di pensiero queer, dunque – e viene pronunciato nel paese delle vocali, con tutte quelle consonanti che frenano il canto e minacciano lo spirito. E Valentina anche no, grazie, abbiamo già dato, il nome femminile più inflazionato degli ultimi vent'anni, che si accompagna al riflusso maschile dei nomi degli evangelisti e dell'apostolo grullo, quel Pietro a cui bisognava rispiegare ogni volta le cose. Ma perché io invece le dico solamente, butto lì un po' a casaccio ciò che mi passa per la testa? Per farvi perdere tempo, semplice. Avrei potuto trascrivere le mie parole su un diario personale – in effetti davvero penso che Jessica sia un nome orrendo – su cui magari tornare in seguito per riorganizzarle, strutturarle, valutare se queste propensioni nominali possiedono qualcosa di significativo. E invece no: fuori tutto, tutto e subito. Riportiamo la mente a luogo spoglio del possibile. Utilizzo, insomma, come tutti, il web in forma di deiezione. Convertendo il principio del pensiero in voce, la sua scaturigine gocciolante in oceano che non esiste, se non nella fantasia. Per diventare navigabile avrei dovuto far decantare lo slancio verbale, come si fa con certi distillati. L’esercizio che mi impongo è allora quello di provare a distinguere tra voce e pensiero. Di farlo in tutto ciò che scrivo, intendo. Madame Bovary c’est moi. Peccato solo che sia passata alla storia con il cognome del marito, quando anche il suo nome ha tutta la mia deliziata ammirazione. Emma. Di farlo in ciò che scrivo ma anche in ciò che leggo. Se fossi un bookmaker londinese, darei alla vittoria della voce sul pensiero un ampio margine di probabilità.

giovedì 24 novembre 2022

Un fascista che odiava il formaggio, o sull'ambiguità romanzesca

La filosofa e scrittrice Michela Marzano ha vinto il premio Mondello con il romanzo Stirpe, in cui narra la scoperta dell'adesione al fascismo da parte del nonno paterno. Una conoscenza tardiva, frutto della rimozione familiare che porta a traumi successivi: quello di non diventare madre, innanzitutto, confessa in un' intervista a Più libri più liberi di Repubblica, temendo di trasferire al figlio quella cattiva radice. Le parole testuali sono le seguenti:

"Il mio vero dovere era raccontare la mia storia, sciogliere la mia vergogna. Quella che mi ha impedito di diventare mamma. Perché il punto di partenza è quello, avevo tanta vergogna, talmente tanta da pensare di non avere il diritto di far nascere un bambino o una bambina, perché avrei trasmesso qualcosa di sbagliato.”

Lo studioso di letteratura Stefano Brugnolo ha offerto a queste parole un bel commento, concentrandosi sull'uso delle strategie espressive dell'iperbole e della prosopopea. È curioso, conclude, che quasi nessuno più scriva (o dichiari di scrivere) romanzi solo per il piacere di farlo; "per raccontarsi, essere letti, comperati, venduti, conosciuti. Perché magari così si vincono dei premi..." No, lo si fa per vero dovere, o in alternativa mossi da un'urgenza, o da una necessità. Due termini che ricorrono di frequente nelle dichiarazioni di intenti degli scrittori.

Alle acute considerazioni di Brugnolo che come me non ha letto il romanzo, ho voglia di aggiungere (non per dovere, non per necessità  solo voglia) una sensazione quasi pittorica ricavata dalla lettura dell'intervista a Marzano. Quella dell'univocità prospettica. 

Ma forse è più chiaro se mi spiego richiamando una vicenda biografica speculare. Anche mio nonno era infatti fascista. Dopo l'8 settembre del 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana con il ruolo di Capitano degli Arditi della Folgore, che guidò in molte missioni di cui non ha mai amato parlare; il poco che so lo ricavo da ricerche storiche personali, o da parole sfuggite a mezza bocca dalla nonna. Tra queste contrastare – e cioè uccidere, sgombriamo il campo anche dagli eufemismi – le formazioni partigiane in Val d'Ossola. Nulla di cui essere orgoglioso come nipote, insomma.

Eppure non mi sentirei mai di attribuire a lui, Alfredo, detto Pinin perché più piccolo dei fratelli per età e statura, la mia attuale mancanza di figli. C'è piuttosto un episodio che amo ricordare. Al termine della guerra venne incarcerato: dapprima a Pisa, dove vide Ezra Pound pendere nella sua gabbietta come un canarino muto, poi assieme a Dino Grandi, ugualmente laconico temendo in mio nonno una spia, e infine con un poveraccio di cui conosco solo un dettaglio: adorava il formaggio, in particolare il gorgonzola.

Mio nonno odiava invece il gorgonzola, e più in generale era allergico ai formaggi. Sua moglie, mia nonna, non capiva: perché diavolo mi chiede sempre del gorgonzola? Non preoccuparti, ho tutto, sto bene, le diceva. Ma portami del gorgonzola. Alla fine ammise che non era destinato a lui. Nessuno andava mai a trovare il suo compagno di cella e, a questo modo, gli sembrava di offrirgli consolazione. Nella forma di una fetta di gorgonzola che saturava l’aria della sala visite di San Vittore.

Nei libri di storia l'adesione al fascismo di mio nonno non troverebbe alcuna giustificazione. Va bene così, nessuna attenuante. Si combatteva e, a volte, si moriva dalla parte sbagliata. Punto. Ma, in quello spazio diverso e ambiguo che è il romanzo, mio nonno è sia la feroce guida ai rastrellamenti dei partigiani, sia l'uomo mite che io ho conosciuto da vecchio – ogni volta che avevo il raffreddore accorreva con le aspirine e un albo di Topolino –, e ancor prima chiedeva alla moglie dell'odiato formaggio per il suo compagno di cella. Per me niente, grazie. Sto bene.

Compie una simile operazione Giorgio Gaber quando canta di uno zio fascista. Non c'è alcuna univocità nella sua voce, nessuna assoluzione – il fascismo è quella merda che conosciamo – ma piuttosto la comprensione che l'umano è tanto più grande delle ideologie con cui si cerca di racchiuderlo, più grande perfino della provvisorietà dei gesti, che vengono smentiti da altri gesti. Gaber ci mette il suo tempo per dirlo, riporto il testo nella sua completezza perché a ogni tentativo di taglio mi sembrava di ferire una creatura viva e integra, che si rifiuta di offrirsi in parti:

"Caro vecchio zio fascista

È vero che avete fatto un bel casino

Ricordo dai racconti di mia madre

Che sei andato a Roma a piedi, da Milano

A istinto io ti ho sempre giudicato

Come uno che si accende e non ragiona

E ho fatto un po' di facile ironia

Senza capire mai la tua persona

Direi che eri un po' stupido e felice

Coerente con l'immagine del duce

A ventun anni avevi già una figlia

La guerra tutta tua e l'idea della famiglia

Ai tempi in cui cadevano le bombe

Mostravi con orgoglio il tuo coraggio

Eppure ti piaceva l'aria fresca

Delle mattine limpide di maggio

L'uomo è quasi sempre meglio

Rispetto alla propria ideologia

Ricordo quella volta che piangevi

E quanto stavi male per la zia

Del resto il segreto del fascismo

È nel simbolo del fascio littoriale

E appena un fascettino si è staccato

Svanisce la sua forza criminale

Caro vecchio zio fascista

A vederti innaffiare le tue rose

Ancora non mi entra nella testa

Come hai potuto fare certe cose

Sorridi accarezzando i tuoi nipoti

Con una commozione così vera

Hai sempre avuto il cuore troppo tenero

E la testa troppo dura

Negli uomini politici di oggi

C'è come un grosso salto di statura

Ma c'hanno ancora il cuore troppo tenero

E la testa troppo dura."

Nelle parole di Marzano il mondo torna invece a separarsi tra bene e male, giusto e sbagliato, trauma e guarigione. Oltre che scrittrice lei è anche o, forse, soprattutto filosofa, e in questo diverso ruolo la ricerca definitoria di chiarezza mi appare legittima. Chiaro netto e senza ombre. Ma se ci muoviamo verso o territori incerti delle letteratura, la sua dichiarazioni di intenti, come nel caso di Stefano Brugnolo, mi ha fatto passare la voglia di sfogliare le pagine del romanzo. Per dare avvio a quel gesto antico ci vuole infatti l'et et, non l'aut aut. E un po' di puzza di gorgonzola, perfino se sei allergico al formaggio.

(PS - Senza neppure bisogno di processo, mio nonno fu prosciolto dalle accuse per cui fu incarcerato al termine della guerra. Ci tengo ad aggiungerlo. Sono nipote di un fascista, non di un criminale di guerra.)

mercoledì 23 novembre 2022

Calimero e il giaguaro

Come resistere alla tentazione di spillare anche la mia goccia di pipì, da aggiungere al secchio in cui chi non piscia in compagnia o è un ladro o è una spia. Mi riferisco naturalmente al caso del parlamentare di origini ivoriane Aboubakar Soumahoro, eletto nelle liste di Verdi e Sinistra Italiana.

I gravi abusi ai danni dei dipendenti della cooperativa gestita da moglie e suocera sono in fase di accertamento giudiziario, dunque è giusto essere garantisti. Ma è inevitabile l'associazione mentale con i maneggi dei familiari di Gianfranco Fini per l'appartamento di Montecarlo.

Le vicende sono naturalmente diverse, con un tema comune che riguarda la responsabilità politica, non penale, attenzione, di un rappresentante del popolo sull'attività dei congiunti. In linguistica chiameremmo questo genere di rapporti metonimia.

Sulla questione si possono avere opinioni diverse – personalmente, e cioè a naso, percepisco buona fede in Sumahoro, la cui azione a favore della causa sindacale è stata nel passato meritoria – ma il galateo istituzionale prevede discrezione. Difendersi nelle sedi opportune con vigore, ma allo stesso tempo mantenere un profilo basso sulla vicenda, fino al momento in cui questa sia interamente chiarita.

A ora possiamo dunque esprimere solo un giudizio di "stile", che vede il neodeputato uscirne malissimo: la querimonia lacrimevole (a partire da quando Giorgia Meloni, nel dibattito in Aula, gli diede per errore del tu, subito scusandosi) da agitare contro gli avversari politici e la stampa, il ricatto morale con cui sferrare il colpo finale. Io sono nero come Calimero, sembra dirci, e se mi attacchi lo fai solo per questo.

Una critica di metodo che va estesa anche al sostegno pregiudiziale nei suoi confronti, che ricorda più il tifo calcistico – è uno dei nostri, difendiamolo! – che la dialettica democratica. Io mi colloco con convinzione ideale a sinistra, ma oltre a smacchiare il giaguaro, se si vuole essere intellettualmente onesti, si dovrebbe indirizzare la propria candeggina anche verso bersagli che ci riguardano.

martedì 22 novembre 2022

Se ti tolgono ciò che non è tuo


“Non si è soli quando un altro ti ha lasciato, si è soli se qualcuno non è mai venuto.” Mi sono tornate alla mente queste parole che appartengono a una vecchia canzone di Roberto Vecchioni. Stavo seguendo, con qualche anno di ritardo, The Leftovers, la bella serie di Damon Lindelof tratta dall’omonimo romanzo di Tom Perrotta, il quale ha collaborato alla sceneggiatura. Ed ecco che Vecchioni ne diventa la colonna sonora.

L’idea di partenza è semplice quanto geniale: Il 14 ottobre del 2011 il 2% della popolazione mondiale (140 milioni di persone) scompare all'improvviso. Puff, svaniti, nel nulla, come recita il titolo con cui sono state tradotte in italiano le tre stagioni, originariamente trasmesse su HBO. A quella scomparsa le persone reagiscono in vario modo, ma tutti sembrano condividere la percezione di una sottrazione illegittima. Ciò che avevano o, meglio, pensavano di avere, gli spettava per una sorta di diritto naturale. Non importa che si tratti di cose o di rapporti umani, nel sentire diffuso possiedono lo stesso statuto proprietario

Una felice intuizione che Perrotta ha saputo tradurre in metafora drammaturgica: l’Occidente, pare dirci, più che su un generico patriarcato si fonda su quel senso del possesso che, in un’altra canzone, viene definito prealessandrino. Ma non solo possesso delle donne da parte degli uomini, o degli schiavi dai padroni: tutte le relazioni avvengono sotto l’ipoteca del verbo avere, e il colonialismo rappresenta solo l’estensione storica di un vizio psichico radicato nella nostra cultura, che da alcuni decenni ha iniziato a vacillare.

La cartina di tornasole, al solito, più efficace, è quella del linguaggio. Non so come viene espresso in altre lingue (a parte inglese e francese), ma è curioso che alla nascita di un figlio una persona dica in Italia "ho avuto un figlio". Al limite, se sei un uomo, hai contribuito a generarlo, o se sei una donna l’hai partorito – per quale stramba associazione mentale i figli si dovrebbero avere? Eppure ci sembra che le cose stiano naturalmente così, per il pater familias il diritto di proprietà era totale, riflettendosi sulla vita dei congiunti che ricadevano sotto il suo arbitrio fin anche all'omicidio, in questo caso non sanzionato dal diritto romano.

E invece no, leftovers, superstiti: ci si sveglia una mattina e i figli non sono più nostri, le mogli chiedono il divorzio e poi si affiliano a una strana setta in cui ci si veste di bianco, si comunica solo attraverso la scrittura e si fuma dalla mattina alla sera – è quanto accade a Kevin Garvey, capo della polizia Mapleton e protagonista della serie. Ma anche tutto il resto dispare; a volte bruscamente, altre con soffice noncuranza, e il vuoto di senso si fa in un certo senso concreto. A mancare non è più solo l’idea astratta di un dio ma Giovanni, Fabietto, Silvia, Rudy. Non sono morti. Non sono vivi. Semplicemente, non li abbiamo più.

Si insinua così il dubbio che questa perdita improvvisa rifletta una condizione anteriore e non riconosciuta, quella del dono: la donna che ti offre le labbra per un bacio, ringraziala, anche se siete spostati dì mille volte grazie, perché quel bacio non ti spetta, può sempre essere revocato, come il figlio che non è tuo e prima o poi e come giusto se ne andrà.

I risvolti religiosi sono voluti, si intravede l'ombra del pugnale di Abramo sul collo di Isacco e Gesù che invita a lasciare e, perfino, a odiare madre, padre e fratelli per seguirlo. Ma col passare delle puntate subentrata una sensazione che ci conduce in territori diversi, verso un Oriente in cui l’assenza non è sintomo di perdita ma luogo di generazione; in una celebre storiella zen il maestro invita a versare altro tè in una tazza già colma, e al traboccare del liquido l’allievo dovrebbe sviluppare gratitudine per ciò che agli occhi dello stolto è solo mancanza.

Ed è così che il fantasma degli scomparsi si fa progressivamente vacante, consentendo a chi resta di riconoscere, prima, l'assenza come tale, quindi chiudere il cerchio del lutto e colmare lo spazio attraverso nuove relazioni; all’inizio con impacciato sospetto, timore come è sempre per le cose nuove. Ma alla fine una delle poche leggi certe della vita è che il vuoto tende a essere riempito.

Milo de Angelis, poeta magnifico, è ancora più radicale di Tom Perrotta, e non si ferma al 2%. La perdita è costitutiva, ontologica direbbe un filosofo. Non solo gli altri ma nemmeno noi siamo del tutto nostri. Un sospetto che rimane attaccato anche al termine della visione di The Leftovers, e si condensa nel monito tremendo con il quale conclude una poesia che non è sua, non è mia ci dice tra le righe, non è di nessuno. Già che “se ti togliamo ciò che non è tuo \ non ti rimane niente”.

giovedì 17 novembre 2022

Psicanalisi e uova di lompo, o sull'intrattenimento

 


Da bambino una delle prime parole difficili che ho imparato è stata succedaneo. La leggevo al supermercato dove accompagnavo volentieri mia madre – mi piaceva la cassiera con i capelli rossi e le lentiggini, mentre batteva l'importo del Dixan mi faceva sempre l'occhiolino –, la leggevo su vasetti di vetro colmi di pallini da caccia che ho scoperto essere uova di lompo, ed ero orgoglioso anche di conoscere il nome di un pesce che si chiama così, da aggiungere a trota, tonno, salmone e pochissimi altri. Tra cui muggine, alle cui uova il generoso lompo offriva un succedano.

Sostituto dunque, o meglio ancora ripiego. Mi è tornata in mente quella parola difficile che inserivo nei temi per fare bella figura assistendo, ieri sera, a una videoconferenza dell'associazione Philo; promossa da Romano Madera, una persona di cui ho massima stima, si occupa di psicanalisi e filosofia. Uno dei termini ricorrenti è stato relazione: la psicanalisi è una relazione che cura, ricordava la brava analista a indirizzo biografico Nicole Ianigro. Al termine è intervenuta una donna sulla quarantina, con parole quasi commosse ha manifestato la sua, testuale, "immensa gratitudine" per il percorso psicanalitico intrapreso. Procede da oltre dieci anni, ha concluso con una vezzosa punta di orgoglio.

Solo a questo punto, per libera associazione direbbero in psicanalisi, è comparsa l'immagine delle uova di lompo. Ho quindi immaginato il film delle relazioni della donna appena intervenuta, ma soprattutto delle mie. Poca roba davvero. Fidanzamenti sempre in bilico e ora conclusi; qualche amico di infanzia con cui condividere scemenze su WhatsApp; un paio di volte all'anno sento per telefono i miei cugini di Milano (da cuccioli trascorrevamo le feste natalizie a Bormio nella casa dei nonni, in attesa della neve per discendere le strade del paese con lo slittino); e poi naturalmente Facebook, i cui contatti vengono iperbolicamente chiamati amici. Un altro succedaneo che ha finito col sostituire l'originale. Infine mamma, papà e cane.

Ah, poi c'è anche la psicanalisi. Una volta a settimana incontro uno psicanalista attraverso Skype; i medici me lo consigliano, la mia depressione peggiora. Naturalmente non mi serve a stare meglio, ma contribuisce a fare un po' di conversazione; più che altro parlo io, come quando mi siedo sui divanetti porpora di un night club assieme a un'entraineuse ucraina o rumena, fa di sì con la testa ma mica sono sicuro che capisca tutto ciò che dico.

Eppure, anche qui basterebbe prestare un poco di attenzione alle parole: entraineuse, intrattenitrice, intrattenimento. In fondo sta tutto lì. Solo gli sprovveduti pensano che quel rapporto contenga qualcosa di più profondo. È solo commercio verbale, ed è giusto pagare una poveretta seminuda per beccarsi le tue menate e qualche raffreddore.

Naturalmente il parallelismo con la psicanalisi è solo parziale. La terapia, messa a punto da Freud nella Vienna borghese a cavallo tra Otto e Novecento, nasce come cura per uno specifico disturbo. L'isteria. Bisogna dire che a quello scopo funzionava benino, l'uomo con gli occhiali tondi, la barba e il sigaro aveva compreso che a rinchiudere il desiderio sessuale (prevalentemente femminile) dentro a una pentola a pressione sotto cui arde il fuoco di una società bigotta e codina, prima o poi, da qualche parte, il vapore deve sfiatare. Lo sbuffo prende allora il nome di sintomo.

Ma ora? Ora la psicanalisi si è trasformata: non più luogo della verità sessuale da rivelare, ma della menzogna relazionale da occultare. Chiamare infatti relazione quello che a tutti gli effetti è un rapporto iscritto nelle forme dell'economia tardo capitalistica – pago per avere attenzione, pago per illudermi che un essere umano sia interessato a me, proprio a me e non a un altro che mi rassomiglia – equivale a chiamare amore la prostituzione. In una buffa e, per me, bellissima canzone di molti anni fa, Julio Iglesias intonava con voce tremula e profonda: "sono un pirata ed un signore, non confondo il sesso con l'amore."

Anche in psicanalisi amore e sesso non vengono confusi, ma si confonde il commercio di parole con relazioni umane autentiche, come venne confuso Socrate con i sofisti. Cosa che andrebbe anche bene quando i termini del rapporto siano chiari: se non hai una donna che si prende cura del tuo corpo ti rivolgi a una prostituta; mentre, se nessun amico si prende cura della tua anima, la psicanalisi ti può offrire soccorso. 
È il bello della nostra epoca: telefoni, come per ordinare una pizza capricciosa, e dopo pochi giorni qualcuno ti accoglie con garbo nel suo studio; se volgi il capo puoi scorgere statuette africane e libri intonsi e preziosi, accostati con metodo sugli scaffali della libreria. E come per la pizza capricciosa, alla fine saldi il conto.

Tutto ciò non guarirà la solitudine e il non senso della vita, già che senso, significato, valore sono termini che assegniamo alle relazioni significative che riusciamo o non riusciamo a istituire (anche quelle illusorie con il fantasma di un dio), e non sempre è colpa nostra; per avere una relazione bisogna essere come minimo in due, e perché questa sia autentica deve sottrarsi all'ipoteca dei dispositivi tecnici ed economici. Ma a volte anche la finzione – pensiamo al cinema, al sollievo che ci offre  è comunque meglio di niente. Perciò, dopo dieci anni, la nostra donna continua a fare le sue due sedute settimanali; evidentemente ha le risorse per farlo. In questo la psicanalisi non è cambiata molto dai tempi di Freud: nasce come terapia per ricchi, e continua a esserlo.

Sono dunque altri gli aspetti in cui dobbiamo ricercare la sua trasformazione, divenendo una forma vagamente lussuosa di intrattenimento; non guarisce la gamba rotta ma fa da stampella, cosa non trascurabile in un mondo di persone sempre più sole e claudicanti. Curiosamente, anche le tariffe sono simili a quelle dei night club: un'ora di conversazione, in entrambi i casi, ha un costo che oscilla tra i cinquanta e i cento euro. Lo stipendio della cassiera con i capelli rossi e le lentiggini per due giorni di lavoro.

Ci sono però anche delle differenze. In psicanalisi, nell'importo raramente fatturato, non è incluso il gin tonic, e in genere i terapeuti non sono avvenenti come le entraineuse. Ma se anche ti venissero certe idee, guai ad allungare la mano sulle cosce della tua analista; gesto che nei night club è ampiamente tollerato, se non promosso. Per il resto sono entrambi dei surrogati, succedanei di relazioni sociali sempre più labili e frammentarie. Dove la guarigione non è prevista, all'intrattenimento psicanalitico e a quello erotico-affettivo, come nell'ergastolo, non esiste il fine pena. Ma in un tempo in cui le uova di lompo hanno preso il posto del caviale, di più e di meglio non possiamo chiedere.

mercoledì 16 novembre 2022

Marcuse e Mariotto, o sulle parole che fanno mondo

Negli anni Sessanta i giovani dei college americani leggevano L'uomo a una dimensione di Marcuse. Non tutti lo capivano, naturalmente. Molti lo facevano solo per l'umano piacere - si chiama moda - di citarlo all'interno di una conversazione, guadagnando in tal modo delle chance sessuali con le ragazze. O perlomeno è quanto speravano.

Eppure, anche in questo caso, anche se si trattava solo di una finzione interessata, qualcosa restava comunque attaccato. Come quando si simula una risata, e poi ci si trova a ridere per davvero. Le parole di Marcuse facevano come si dice mondo.

Mi chiedo dunque a quale mondo conducano le citazioni che trovo oggi sul web, la dimensione in cui si realizzano... Forse la differenza con il passato è che non è più unica, ma plurima come tutto ciò che è social; dove la metafora del multiverso ha scalzato l'universalità della cultura popolare dei decenni scorsi.

Selvaggia Lucarelli, mettiamo. Quando leggo le news sullo smartphone viene sempre riportato un suo tweet o una sua polemica. Ma io cosa me ne faccio, cui prodest? Se sussurro quelle parole all'orecchio di una mia coetanea, lei, gli occhi appannati e le labbra tumide, dischiude forse piano e con un sospiro le cosce?

Non credo proprio, ma potrei sempre tentare. Se non funziona insisterei con i battibecchi tra Guillermo Mariotto e Giampiero Mughini. Vada come vada, anche queste parole fanno mondo. Sono risate di plastica che giorno dopo giorno si convertono in carne.

sabato 12 novembre 2022

Il suicidio come fattore politico

Una persona che conoscevo si è gettata la settimana scorsa dalla finestra della camera d’ospedale in cui era ricoverata per esami, ed è morta.

Si trattava di un uomo di tre o quattro anni più vecchio di me, sono in buoni rapporti con il fratello – alla domanda come va risponde sempre "Splendidamente!" – ma con cui lui credo di non avere mai parlato, salvo salutarci ogni volta che ci incrociavamo per strada; cosa che avviene spesso in un piccolo paese di provincia. Non so quale fosse la ragione per cui stesse facendo degli accertamenti, mi hanno riferito alcuni pettegolezzi clinici sul suo conto che naturalmente non riporterò. Ma c'è qualcosa che mi preme aggiungere a una notizia già in sé tristissima.

Dopo questo episodio ho infatti deciso di iscrivermi all’associazione Luca Coscioni, con sede in Italia, e alla svizzera Dignitas, entrambe impegnate nell’aiuto alla persone che per ragioni serie e accertate hanno deciso di interrompere la loro vita.

NON è un’istigazione al suicidio, sia ben chiaro. Parlo unicamente a titolo personale. E l’aspetto collettivo che pure c’è – altrimenti non pubblicherei un post su Facebook – ha natura opposta a ciò che potrebbe apparire a una lettura distratta: vorrei che nessuno compisse più il gesto del mio conoscente, vorrei non dover più sentire di corpi che giacciono al suolo dopo essersi lanciati da una finestra.

Ma ci sono anche condizioni di vita obiettivamente inaccettabili. La mia è una di queste. Mi alzo al mattino sperando solo che arrivi di nuovo e presto la notte. Una notte senza risveglio, da fare seguire a una veglia più funebre della stessa morte, ha così finito con l’apparirmi il male minore.

Suggeriva un filosofo antico: pensate a come vi sentivate prima di nascere, prima ancora di essere concepiti, su, concentratevi e rendete presente quel momento... Allora, come state? Non malaccio, dai.

Ecco, la morte è quella cosa lì: un prima che viene dopo. Ed è a volte preferibile all’adesso.

Dicono che le persone del segno dell’ariete siano un poco ingenue, diciamo pure naif, ma possiedano una tenace vocazione a perseguire la verità. Mi sono sempre disinteressato di astrologia, ma, da ariete ascendente cancro, la trovo un’approssimativa fotografia che mi ritrae. Una verità politica, civile, beninteso, per cui ora ho deciso di impegnarmi: uscire da questa vita senza doversi lanciare dalla finestra. Non pensiamo dunque che sia "una questione privata", come quella del partigiano narrato da Fenoglio. È una questione che riguarda tutti.

Io almeno non lo farò. Nessuna finestra, cappio, gas di scarico dell’automobile (prima sincerarsi bene che non sia elettrica!) o fucile da infilarsi in bocca, come fece Hemingway, e poi premere il grilletto. Ma non intendo nemmeno permettere al male di sostituirsi alla vita. 

Purtroppo male e vita spesso finiscono col coincidere. È capitato a me, negli ultimi dieci anni, forse anche qualcosa di più. Capita a milioni di persone. La medicina rappresenta un tentativo, spesso efficace, per disgiungerle nuovamente, e non ho ancora smesso di sperimentare ogni mezzo per stare meglio. Ed è forse superfluo aggiungere che è quanto consiglio a tutti: valutare ogni alternativa, tentare anche le soluzioni più implausibili. 

Camus si presentò una notte a casa di un amico con un cosciotto di prosciutto. “Mangiamolo assieme” disse all’amico che si stropicciava gli occhi ancora mezzo addormentato, chiedendosi cosa ci facesse lì il grande filosofo, il premio Nobel per la letteratura, con un prosciutto! “Mangiamolo assieme” insistette Camus, “altrimenti non arrivo a mattina. Mi ammazzo prima.” Vivere, non significando nulla in sé, può significare anche un prosciutto da condividere con un amico in piena notte, per quanto forse il maiale non approverebbe.

Circoscrivendo di nuovo il discorso all'unica finestra da cui posso sporgermi senza rischiare di precipitare, ossia il mio sguardo, devo confessare che la soluzione Camus è per me impraticabile: ho smesso di mangiare carne di maiale, e i numerosi tentativi di stare meglio hanno ottenuto quale risultato il trasferimento delle mie esigue finanze a medici e psicologi. Alcuni di essi erano in buona fede, altri, inizio a sospettare, avevano le dita incrociate durante il giuramento di Ippocrate. In fondo è un gioco delle parti, per alcune persone il nostro male è la loro festa.

Esiste però anche quell’altra forma di separazione a cui accennavo: un’uscita di scena dignitosa, senza alcun messaggio simbolico (in genere punitivo, colpevolizzante) da inviare a chi resta. Secondo gli antichi gnostici il corpo rappresenta una sorta di guscio, le delizie del tuorlo sono celate al suo interno. Un’immagine che mi fa tornare alla mente quando mia nonna mi inviava in missione nei luoghi più impervi del fienile, dove le galline, da lei lasciate razzolare in libertà, deponevano le uova.

Ora le galline e la nonna non ci sono più, il fienile, insieme alla fattoria tutta, è stato venduto a un’asta fallimentare, e se anche non ci fosse più chi dice io in questo testo un po' finto e un po' vero, come tutti i testi, sono certo che non vi perdereste molto. Io invece ci guadagnerei la fine di una sottrazione quotidiana e dolorosa e implacabile, come gocce d’acqua (plinc... plinc... plinc...) che sfuggono a un rubinetto rotto. Ma la remissione di una passività, in matematica possiede comunque segno positivo.

lunedì 7 novembre 2022

La lingua delle spose, o sul perché non leggerete più miei commenti su Facebook

Ormai sono diventato bravo: quando pubblico qualcosa su Facebook sono in grado di anticipare le reazioni; uno statistico direbbe che il mio livello di confidenza supera l'80%, che è come a dire che ci piglio.

La settimana scorsa, ad esempio, ho postato una scemezuola breve e satirica, quasi una barzelletta. Mi attendevo tra i quindici e i venti like (di più no, perché mancava l'elemento sentimentale) e venti sono arrivati. Due giorni fa ho scritto invece un testo più lungo e analitico, diciamo pure filosofico, denso, e proprio per questo sapevo che a malapena avrei raggiunto i cinque like. Ne sono arrivati tre.

Da principio mi sentivo orgoglioso per queste mie facoltà quasi profetiche, ma poi è subentrato un dubbio sotto forma di paragone. Ho pensato a un bambino di sei anni: ogni volta che dice delle cose intelligenti viene messo in castigo, a letto senza cena e tivù. E guai se protesti! Mentre se il bambino scoreggia, rutta, versa le fialette puzzolenti sotto il banco dei compagni, viene premiato con un bel 10 sul diario dei Pokémon. Per non dire di quando torna a casa sporco di merda, ed è tutta una festa di complimenti e regalini.

Ma crescendo, continuavo a pensare, che uomo diventerà? Scemo, quasi certamente. E così io, quando nuoto in una boccia di vetro che talvolta confondo con l'oceano, che pesce sto diventando? Un delfino... Non credo. Più facilmente un'acciuga, di quelle piccole piccole che si muovono solo in banchi.

Non mi permetto di rispondere alla stessa domanda per voi, ma questo tipo di interazioni sui social  da acciughe, da calamari giganti e burloni o da esibizionisti sentimentali, che invece del pisello fanno sgusciare dall'impermeabile un gattino arruffato  a me non fanno bene. Non dico che ogni rapporto dovrebbe rendermi diverso e migliore: ma peggiore no, e che cavolo! Un po' di bellezza ci sarà pure, ancora, da qualche parte.

Da quando ho iniziato a perdere i capelli e non sono più il quindicenne orgoglioso di essere considerato il più bello della classe, ho cominciato a cercarla fuori di me. Ma di nuovo: è bellezza, intelligenza, vita, entrare in una relazione verbale con i post che leggo su Facebook, dove le scrittrici depongono un cuoricino se a scrivergli sono altre scrittrici, mentre gli altri vengono puntualmente ignorati in assenza di pedigree?

Amichettismo lo chiama il mio amico Fulvio Abbate. Salvo poi vedere anche lui affannarsi e sbracciare controcorrente, forse i salmoni devono sollevare un sacco di spruzzi prima di trovare un'insenatura dove l'acqua è calma e ospitali le rive, e lì deporre le uova. Quanti pesci per un così piccolo mare.

Torniamo allora alla mia pozzanghera defilata, e al fantasma della bellezza. Non ne trovo, di bellezza, nemmeno nel dialogare con chi commenta ciò che scrivo: il mezzo è quello che è, non consente un approfondimento vero, scarti laterali, impennate del ragionamento o della fantasia. Solo un'orizzontalità fatua in cui finisco col dissipare il mio tempo, quando l'illusione di un talento da coltivare è già svanita da un pezzo.

Ho così deciso di non commentare più ciò che leggo sulle bacheche degli altri, e, per disposizione simmetrica, mi comporterò allo stesso modo anche con i commenti che trovo in calce ai miei post. Non risponderò pubblicamente, almeno.

Nella lingue semitiche, nel sanscrito e nel greco antico, oltre al plurale e al singolare esiste una coniugazione duale. Possiamo vederla alla maniera di uno spazio intermedio tra il singolo e i molti, come quello che nella religione cattolica il fedele si ritaglia quando abbandona il piedicroce per entrare nella penombra del confessionale.

Non credo che l'ammissione dei propri peccati sia tanto importante, quanto il fatto che si è in due; per chi ci crede, l'altro è il sostituto nientemeno che di Dio. Ma potrebbe pure essere il portaborse di Manitù, o semplicemente sé stesso: un prete, un uomo di fronte a un altro uomo, per fare brillare la scintilla che accende il fuoco del racconto.

Se volete comunicare con me scrivetemi dunque in privato, magari potete usare Messanger. So a malapena qualche parola di greco antico ma possiamo inventarci il duale anche parlando in italiano. Sì, parlando, perché risponderò lasciando il mio numero di telefono.

Se non siete d'accordo con qualcosa che ho scritto ci confronteremo, potremmo anche arrivare a litigare, ma senza insultarci come avviene quando non ci si mette la faccia, in una replica testuale degli automobilisti che fanno le corna quando i finestrini sono sollevati, le portiere ben chiuse. Oppure potremmo incontrarci, perché no. A me farebbe piacere. Mi sento solo e vagamente depresso; o perlomeno è quanto sta scritto sulle ricette per gli psicofarmaci.

Potremmo potremmo... massì, potremmo perfino innamorarci. Quando si gioca al facciamo finta che spariamole grosse! In questo possiedo ancora dei limiti culturali: sono un banalissimo eterosessuale di mezza età, non sono queer, fluido. Ma se nessuno è perfetto cambiare è sempre possibile.

Cambiare in meglio, l'ho già scritto, è difficoltoso, ammetto i miei limiti. Ma i social mi rendono una persona peggiore, e fatemelo dire senza alcuna intenzione offensiva: anche voi non siete messi tanto bene. Specie quando come prima cosa che fate al risveglio è ritrovare a tentoni lo smartphone, con cui condividere la fondamentale esperienza appena fatta. Dormire. Quindi specificare se il cuscino era morbido o duro, cosa avete mangiato la sera, pisciato, cacato. Oppure sognato, ammesso che sogniate ancora.

Io ho smesso di farlo. Non sogno più. Ma sono tutte cose che racconterò ai margini dello sguardo, qui ci sono troppi occhi, ne bastano due. Più i miei un po' acciaccati che fanno quattro. Almeno se qualcuno vorrà ascoltarmi e raccontarmi dei suoi sogni o non sogni, baci o non baci, non o non. Perché un cazzo di sì, pronunciato a piena bocca e con convinzione, come quello di una sposa sull'altare, su Facebook non l'ho ancora sentito.

(Testo pubblicato in originale su Facebook il 6 novembre 2022)

sabato 5 novembre 2022

Scienza e teologia, inaspettate convergenze

 


La storia degli ultimi anni somiglia sempre più a un film distopico. E bon, è la nostra storia, siamo, come direbbe un filosofo barbuto e pensoso, situati in un luogo e in un tempo definiti, con cui è necessario confrontarci.

Quando sul capo ci è cascata anche la tegola della pandemia e la scienza medica ha prontamente realizzato dei vaccini, il mio giudizio è stato immediatamente favorevole: questo rimedio abbiamo trovato, l'abbiamo messo a punto qui, ora, nell'emergenza quale incrocio terroso tra desiderio e possibile. 
E questo useremo. Alternative sensate non ne vedevo.

Ma non mi sfugge che gli attuali vaccini, se osservati da un'immaginaria prospettiva dislocata in un tempo ulteriore, bastano poche decine di anni, forse meno, ci appariranno come arcaici, e guarderemo agli intrugli che accorrevamo a farci iniettare come oggi guardiamo ai salassi, nel medioevo panacea per ogni male.

Più in generale, un vaccino è un farmaco, che nella lingua greca da cui il termine deriva (Φάρμακον) ha significato sia di medicamento sia di veleno. Dunque alcune – e bada bene solo alcune! – delle tonitruanti obiezioni no vax potrebbero trovare quel giorno fondamento, per quanto statisticamente limitate da un'affidabile sperimentazione.

Ciò che a emergenza attenuata comincio a trovare stucchevole è il continuo riferirsi ai vaccini come scienza tout court: la scienza dice questo, la scienza dice quest'altro... Quando a parlare sono esseri umani anche loro affacciati alla finestra del loro tempo, dal quale si sporgono, come il muezzin, per strillare una versione nemmeno troppo aggiornata del positivismo ottocentesco.

Eppure, ripeto, da persona totalmente favorevole ai vaccini, mi sorprende che nessuno obietti alle trionfali dichiarazioni di fiducia nelle magnifiche sorti e progressive con una domanda semplice semplice: di che scienza stiamo parlando?

Perché di scienze ce ne sono perlomeno due, che da medesimi presupposti (il metodo) giungono a esisti antitetici. Non sto dicendo che l'omogeneità rappresenti un bene assoluto, e anzi, in una certa misura, è dal conflitto che sono venute molte importanti scoperte e innovazioni; o se vogliamo e in forma più attenuata: dalla dialettica tra pensieri divergenti.

Nell'ultimo secolo è però avvenuto qualcosa di nuovo. Parte del pensiero scientifico ha fatto proprio un modello relazionale di conoscenza, dove osservatore e oggetto osservato non sono mai completamente separabili, e chi conosce interferisce nel processo di conoscenza.

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, a cui si giunge dopo un lungo e scrupoloso studio delle particelle subatomiche, è sopravvissuto a numerose verifiche sperimentali, e con ragionevole fiducia possiamo ora affermare che l'esito dell'esperimento, come la bellezza per Shakespeare, sta negli occhi di chi guarda. Almeno se parliamo della realtà ai suoi minimi osservabili t
ermini.

Da ciò si ricava una responsabilità anche morale dell'atto conoscitivo, che non è mai neutro e in un certo senso va a smentire la celebre sentenza attribuita ad Aristotele: "amicus Plato sed magis amica veritas". Macché, è esattamente il contrario: per la fisica prima si dà l'amicizia (ossia la relazione) e poi, quale conseguenza, la verità.

Ci sono però altre branche del sapere scientifico che non la pensano così, e sono rimaste a una percezione della verità del tutto disgiunta dall'amicizia, come era per Aristotele. È il caso appunto della medicina, dove si continua a ragionare secondo categorie aristoteliche o, se si preferisce, newtoniane: c'è il paziente, la malattia e poi ci sono il medico e la cura, tra cui quella preventiva costituita dai vaccini. Ma rimangono elementi distinti e oggettivabili, facendo della medicina l'espressione di un pensiero filosofico duale.

Una lacerazione implicita, mai davvero messa seriamente a tema già che una soluzione non si offre, almeno nel presente, tra la polarizzazione funzionale alla conoscenza medica e il monismo quantistico. Curiosamente riflette il percorso teologico occidentale: dalla pluralità degli dèi si passa all'unico Dio di Israele, che comunque incarna un'alterità assoluta, pure un poco incazzosa. Di nuovo c'è Dio e poi ci sono gli uomini, e malgrado il patto di alleanza rimangono ben distinti da cieli difesi da una corte di angeli.

È solamente con il cristianesimo che il confine certo tra Padre e Figlio comincia a incrinarsi, e l'identità viene riconfigurata in forma trinitaria; dove il Figlio siamo potenzialmente tutti noi e la trinità la spoletta che ci unisce alla sorgente paterna, da ricercare all'interno di una nuova soggettività espansa, più tardi con Jung prenderà il nome di . Ma già Agostino ammoniva: "in interiore homine habitat veritas".

E chissà allora che anche la medicina, prima o poi, non cominci a cercare una verità interiore, da accompagnare all'orizzontalità incarnata qual è l'amicizia tra uomo e uomo; ma pure nei confronti di animali, piante, universo intero. E non solo puntando lo sguardo, amplificato da strumenti micro e macroscopici sempre più potenti, a qualcosa che appare esterno, nella prateria oltre la cornice della porta, come cowboy protesi nel raggiungere una frontiera
 che sembra non arrivare mai. Senza il dubbio dei folli, o dei fanciulli, che sia da sempre già varcata.