lunedì 20 dicembre 2021

Il punto zero della narrazione


In uno spettacolo teatrale di alcuni fa, il trio formato da Aldo, Giovanni e Giacomo si interrogava sui meccanismi che dischiudono le labbra al riso, andando a ricercare ciò che veniva chiamato zero comico assoluto; sorta di numero primo non più divisibile in frazioni, da cui la risata scaturisce come lava dal cratere di un vulcano.

Tale luogo quasi metafisico, idea platonica della comicità, nella loro interpretazione prende la forma di Tafazzi; un omino vestito tutto di nero (la tutina attillata ricorda quella di Diabolik) che con una bottiglia di plastica vuota si percuote le parti intime, ricoperte da un sospensorio bianco.

È impossibile trattenersi alla sua vista, Tafazzi, che accompagna il movimento della mano con una cantilena da curva sud (oh oh oh oh oh!), è davvero travolgente, un’araldica del ridicolo a cui ogni aggiunta sarebbe di troppo. E chissà che non sia possibile fare qualcosa del genere anche per la narrazione, individuando un’immagine che racchiuda il senso del raccontare una storia e il piacere di leggerla, ascoltarla, guardarla scorrere sul grande schermo. Non necessariamente una metafora, un gesto soltanto: può rimandare a qualcosa ma anche a nulla, al Nulla.

Mi è allora tornata in mente una pagina di Verso la foce, un reportage in cui Gianni Celati, accompagnato da un amico fotografo, si avventura tra le marane da cui è composto il delta del Po, a confluire nei robusti contrafforti con cui si cerca di arginare il grande fiume. Sopra uno di essi Celati scorge un ragazzino che pedala su una bicicletta del genere chiamato Graziella. Si china prima in avanti e poi, con un colpo sincronizzato di braccia e reni, il giovane solleva la ruota anteriore continuando a muovere i pedali, in un gioco d'equilibrio che tutti conosciamo con il nome d'impennata.

Da una parte abbiamo così il fiume largo, fondo e limaccioso, dall’altro il ripido pendio dell’argine e in mezzo una sottile striscia su cui corre il ragazzino con la bicicletta, sempre intento nella sua impennata. Piano piano comincia però a inclinare da una parte – non c’è un momento esatto, non un motivo apparente –, ecco sta per cadere; ma riesce ad arrestarsi proprio a un passo dal precipizio, metà della ruota è sospesa nell'aria umida e tiepida del tramonto.

A quel punto il ragazzino si volta indietro, non si capisce se abbia intravisto lo scrittore e il fotografo, la sua espressione è ambigua, come cantava Giorgio Gaber sembra non sapere se ridere o piangere e allora battono le mani, i bambini della canzone, fanno finta di essere sani.

Il ragazzino sull’argine del Po invece non fa niente, come in Aldo, Giovanni e Giacomo anche Celati agisce per sottrazione, ci consegna solo un’istantanea del suo volto che somiglia (mi figuro io) a quello di Antoine Doinel nel finale de Les Quatre Cents Coups, quando raggiunge correndo il mare, i piedi sollevano i primi spruzzi, la sua fuga dal collegio è andata a buon fine. Ma poi si gira, in questo caso non solo con la testa ma è tutto il corpo a mutare direzione, sembra cominciare a dubitare che il suo obiettivo sia un approdo e non nuovo punto di partenza, e fissa lo spettatore dritto negli occhi. Clic.

domenica 19 dicembre 2021

Lo specchio di io



Strano che nessuno abbia ancora detto che "È stata la mano di Dio" è un film di Pupi Avati. Si è parlato di omaggio a Fellini, se ne ode a un tratto anche l'inconfondibile voce dietro a una porta socchiusa, ma a me ha ricordato il sentimento nostalgico di Pupi Avati, quel monumento alla gioventù perduta che sfocia nelle parole del camorrista di cui diviene amico Fabietto, alter ego di Sorrentino: "Io nun so pazzo, io so giovane!" Però Pupi Avati e più bravo a fare Pupi Avati, così come De Luca è più bravo a fare De Luca – fa più ridere – che non Crozza quando imita De Luca.

Non che il film di Sorrentino sia brutto, al contrario, a me è piaciuto molto, pur continuando ad avere la sensazione che sia stato girato da qualun altro; e ciò nonostante sia presente un nucleo narrativo forte, la voglia o, come si usa dire adesso, l'urgenza di raccontare una storia che cerca di farsi voce dal profondo, non eco d'infinite altre storie che rimbalzano come sulla superficie di uno specchio, uno dei tanti di cui sono piene le sue pellicole. Sarebbe bello, invece, se su quei riflessi il regista napoletano sostasse, per scoprire finalmente il suo volto che finora non è quello di Narciso, ma di Proteo.

E chissà che lo specchio smetta di ripetergli che è il più fico del reame, glielo dicono già tutti e glielo dico anch'io, ma fosse uno specchio magico, una porta attraverso cui si viene introdotti alla radice psichica sfiorata da questo film, a mostrarci come il continuo desiderio di approvazione coincide con l'unica approvazione mai davvero arrivata: quella di un padre nel caso morto prematuramente – ma l'assenza morale non è meno devastante di quella fisica , un padre anche in forma traslata e cioè un Maestro qui identificato in Capuano, un padre che ti dica va bene, non ostinarti a cercare di essere ogni volta il più bravo della classe, va bene così, non servono le frasi a effetto, puoi acquietare quella smania di redenzione della vita in forma ("La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema"), vai bene e soprattutto ti voglio bene.

A quel punto, Paolo Sorrentino e non uno che gli somiglia, o a cui lui cerca ostinatamente di somigliare, potrà girare il suo primo "vero" film. Di cui questo rappresenta solo un prologo, il trailer carico di promettenti aspettative. Dai che ci siamo quasi!

venerdì 17 dicembre 2021

Amicus veritatis, sed magis amicus Fabius Volo



Oggi, su Linkiesta, ho letto per la prima volta un articolo di Guia Soncini, e devo dire che l’ho trovato bello. Argomentato, ben scritto, le stilettate sarcastiche (per le quali è amata\odiata) non eccessive e infilate al punto giusto. Il tema viene ripreso in forma anaforica per tutta la durata del testo, e coincide con la formula: “la televisione ha senso solo se è orrenda.” Nulla di orrendo, al contrario, nella scrittura della Soncini, che però continuerò a non leggere. Perché?

Ci ho pensato un momento, per quanto già conoscessi la risposta. Perché Guia Soncini mi è antipatica – la voce proprio, la faccia che non trovo per nulla brutta, lo dico a scanso di quel sessissismo a cui si viene crocefissi per un nulla, come il sorriso vagamente sornione… Ma in fondo che ne so: l’antipatia, il più delle volte, non possiede un motivo definito. Mi è antipatica. Punto.

Ho poi provato a leggere qualche pagina da un libro di Fabio Volo, scaricato dal web in forma di ebook. In questo caso non c’è però stato il ribaltamento prospettico: Fabio Volo, ai miei occhi, è rimasto uno scrittore della domenica, come si diceva un tempo per qualificare i pittori dilettanti, inebriati da un gesto su cui non possiedono un controllo pieno e smaliziato, forse per il troppo amore che li muove. Uno scrittore della domenica che scrive per un pubblico della domenica. E fin qui nulla di male.

Ma che succede, anche una volta formulato lo sbrigativo giudizio – snob come chiunque attribuisca al proprio gusto una misura universale –, continuo a leggere, una pagina tira l’altra e va a finire che il libro di Fabio Volo me lo leggo fino in fondo, lo divoro, ascolto prima ancora di leggere sentendo risuonare la voce dello scrittore a ogni capoverso, come avviene quando si porta una conchiglia all’orecchio. Eppure non posso ancora dire che tutto ciò mi sia piaciuto.

Il fatto è che mi piace lui, al contrario di Guia Soncini mi è simpatico, vorrei essergli amico e andare a mangiare la pizza con le mogli – in realtà io non sono sposato e neppure fidanzato, ma forse la moglie di Fabio Volo ha un’amica da presentarmi, ancora meglio se islandese come lei continuo a crogiolarmi in una pappa di sogno. Fino a che arriva a ridestarmi una vecchia memoria scolastica: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”, sono amico di Platone ma ancor di più della verità.

La frase viene attribuita ad Aristotele, anche se è dubbio che l’abbia davvero pronunciata. Gianni Vattimo, già una trentina di anni fa, ragionava su di essa come snodo fondamentale della cultura occidentale, in cui la verità viene dapprima avvertita come oggettiva e separata da chi la esprime, ma in seguito si indebolisce sempre più fino a che il soggetto prende il sopravvento sull’oggetto, o ancora più precisamente il senso va a confluire nella relazione: soggetto\oggetto\interlocutore.

La sintesi del suo pensiero che, per l’appunto, viene chiamato debole, ricalca tale ribaltamento: sono amico della verità, ma non esiste verità senza amicizia, o ancora più radicalmente la verità è già nella mia amicizia con Platone. L’uscita dalla metafisica di cui parlava Heidegger sta in fondo tutta qui, nella rivalutazione dell’amicizia come elemento costitutivo della verità.

Mmm… dunque vuoi dirmi che Fabio Volo scrive meglio di Guia Soncini? No, non lo dico né lo penso. Ugualmente, continuerò a leggere scrittori che mi sono sim-patici; e, in un tempo in cui la simpatia non è più consegnata unicamente alla pagina, ciò implica una sorta di regressione del mio status di lettore a livello delle scuole medie, in cui il mondo veniva diviso tra amici e rompicoglioni. Non posso infatti prescindere dall’immagine pubblica che un autore offre di sé, non posso essere oggettivo, la filologia si fa strumento sempre più spuntato, e la sovraesposizione mediatica (che avviene principalmente attraverso i social) finisce col diventare un elemento fondante nel giudizio su un’opera. Da qui il successo di opere biografiche o para-biografiche, altrimenti dette d'autofiction.

La scelta di esporsi per uno scrittore andrebbe dunque valutata con molta attenzione, sospendendo provvisoriamente anche le querimonie sul fatto che Fabio Volo sia in testa alle classifiche, proprio lui, un comico! Quando tu giovane scrittore così bravo, tu che e hai speso 15.000 euro per frequentare la Holden (dove hai imparato le tecniche del cut-up e dello stream of consciousness), tu con trentaquattro libri venduti più uno regalato a una tipa che ti attizza, tu questi argomenti vedi sbriciolare tra le dita, accorgendoti di essere solo la simpatia che sei riuscito a stabilire con il lettore, fuori e dentro al testo.

Possiamo così scegliere di eclissarci e lasciare parlare solo la pagina – ma l’assenza ha comunque un valore evocativo, come testimonia la battuta di un vecchio film di Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” – oppure aprire un profilo Facebook dove sparare battute a raffica, nella speranza che qualcuno ci prenda in simpatia e poi acquisti i nostri libri. Ma qualsiasi scelta si decida di fare, è utile avere consapevolezza che abitiamo un tempo in cui il sentimento illusorio di amicizia per Fabio Volo supera quello per la verità. Anche letteraria.

mercoledì 15 dicembre 2021

Il grande romanzo sul Covid, perché non è ancora stato scritto


La sensazione, diffusa, è che in questi due anni sia accaduto qualcosa di enorme, inaudito. Nei secoli scorsi ci furono epidemie anche più gravi, un dato generalmente ricordato per minimizzare la situazione e criticare le politiche governative, offrendo una risposta giusta a una domanda sbagliata. Ma è un fatto che nella memorialistica del periodo non vi è quasi traccia di ciò che avveniva all'interno dei corpi, la parola era riservata a questioni considerate più importanti.

Nel solo Ottocento si contano in Italia sei ondate di colera, che provocarono 600.000 morti. Chi si è preso la masochistica briga di leggersi per intero gli epistolari di Manzoni, oppure di Leopardi che di colera morì a Napoli nell'epidemia del 1837, o ancora di Benedetto Croce, Cavour, Mazzini, assicura che non vi fanno mai riferimento, non una sola riga in cui si nomini la terribile malattia.

Da ciò si ricava che i nostri antenati non badassero troppo alla salute (e in parte è probabilmente vero, si facevano molti figli anche come "scorta”, distribuendo il rischio che qualcuno morisse prima di raggiungere la maggiore età), e anzi fosse bello vivere mentre scorrazzava un virus, vestirsi con le galosce e farsi cavare i denti con una tenaglia arrugginita.

Eppure nelle narrazioni pubbliche questa memoria è ben presente, sebbene trasfigurata attraverso lo specchio concavo dell'arte – la peste del Seicento, descritta con dovizia di particolari nei Promessi sposi, è certamente un modo per accostarsi a ciò che i contemporanei di Manzoni stavano vivendo con angoscia, così come il Decameron di Boccaccio che innalza il presente a emblema, da cui la sua natura di classico.

Nella nostra epoca i rapporti si sono invece invertiti: dilaga l'aneddotica sul Covid, ma manca il grande romanzo, oppure la pellicola, lo spettacolo teatrale, manca una mediazione artistica che dal particolare emotivo muova all’elemento universale. Se i nostri giorni fossero un film, sarebbe tutto girato in soggettiva, mai un campo lungo, un dolly dall'alto.

Forse questa narrazione onnicomprensiva ha bisogno di tempi di decantazione – Der Tod in Venedig di Thomas Mann fu scritto nel 1921, a dieci anni dall’ultima ondata di colera –, ma il dubbio è legittimo. In un'opera che si pretenda artistica, l’elemento discriminate, ci viene di continuo ripetuto, viene fatto risalire alla forma e alla complessità dell'oggetto indagato, in cui torti, ragioni e virtù sono spesso confusi e paradossali, come lo è l'animo umano.

Non sarà allora un caso che molti scrittori amassero pescare (Hemingway, Carver, London, Melville ecc.), che dello sprofondamento negli abissi del senso si fa chiara metafora. Riflettiamo ora su cosa pesca il nostro sguardo quando si immerge nel presente; non è richiesta un'attenzione particolarmente vigile, basta sintonizzarsi su un talk show televisivo oppure entrare in un social network, e poi confrontare ciò che si legge con il libro della memoria, pensare ai nostri vecchi compagni di scuola.

Fatelo anche voi, cercate di ricordare lo scemo della classe, a volte sono più d'uno; in una bella canzone di Vinicio Capossela questa figura archetipica prende il nome di Spessotto, colui che durante le interrogazioni fa scena muta e "se non funziona vuol dire che è rotto, se non lo capisci allora lo spacchi". Bene, nel mio caso tutti gli scemi della classe, tutti gli Spessotto che ho incrociato sono ora contrari ai vaccini; o detta diversamente: conosco molti scemi vaccinati, ma nessuna persona davvero intelligente che sia diventata no vax.

Questo però è un problema per ogni tentativo di trasfigurazione artistica. La divisione manichea inibisce il gesto creativo, lo riduce a forme bozzettistiche minori, satira sociale tutt'al più. È come se il galleggiante di sughero a cui è appesa la lenza dei nostri scrittori, invece di sprofondare perché il leggendario pesce d'oro ha abboccato e tira giù, giù, sempre più giù dove il mondo si fa indistinto e inquietante, balzasse in superficie per restarvi, come se il mare si riempisse di galleggianti colorati e tutto fosse visibile e a portata di sguardo.

Il significato originario del termine apocalisse coincide con una simile condizione; i veli che nascondono la realtà cadono spontaneamente, e non è più necessario ricercare (con parole, trame, figure retoriche e personaggi) una verità che già si offre con pornografico ghigno, in un movimento che ricorda il maniaco sessuale quando dischiude l’impermeabile crema di fronte a una bambina che gioca nel parco. E se in un romanzo gotico bambina e maniaco, alla fine, si scoprono essere la stessa persona, a noi non viene offerta alcuna sintesi dialettica: gli Spessotto continuano a marciare imperterriti per la loro ottusa via, mentre i primi della classe, con il fiocco azzurro appuntato sul grembiule, stanno vagamente tronfi sull’altro lato del marciapiede.

Per questa ragione dubito che venga mai scritto il grande romanzo sul Covid, le cui pagine sono già squadernate davanti ai nostri occhi, tutto è già oscenamente chiaro e diviso per squadre; Milan e Inter, guelfi e ghibellini, Stanlio e Ollio. E così preferiamo andare su Netflix a cercare qualcosa di più vitale della vita.

domenica 5 dicembre 2021

Understatement, o sul canto finale dei corpi



Conosco persone che spendono un sacco di soldi per acquistare qualcosa, qualsiasi cosa, mettiamo un'automobile, ma che appaia umile, modesta, discreta. Per restare all’esempio, con gli stessi soldi di un macchinone magniloquente e vistoso loro si prendono una Mini.

È il concetto di understatement, che non significa una ricerca dell'umile, del modesto, il discreto, ma del suo involucro. Deve infatti lasciare trasparire uno status superiore, secondo una dinamica di sotto testi comunicativi da far girare la testa; io voglio mostrarti che sono ricco, sembrano dirti, anzi sussurrarti le persone understated, ma nel farlo utilizzo un segno in cui non deflagri la mia condizione, anzi venga come occultata – ma non del tutto. Si deve cioè intravedere che (col cavolo!) io sono davvero umile, modesto e soprattutto povero. Nell’arte retorica corrisponde alla struttura semantica dell’antifrasi: dire una cosa per comunicare il suo opposto.

Riflettendo sulle dinamiche vagamente perverse dell'understatement, mi sono accorto che, prima di diventare un vezzo diffuso nelle classi economicamente più elevate (pensiamo a Bill Gates e ai suoi maglioncini tortora, uguali a quelli impilati sugli scaffali dell’OVS), è stato il modello universalmente accettato per la bellezza femminile. Lo mostra, al solito, meglio di tutti Dante, in quello che potremmo vedere come un manifesto ante litteram di tale disposizione: "tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand'ella altrui saluta"; e da notare anche qui il verbo della reggente, parere, e cioè sembrare, in luogo di un forse più congruo essere.

Ma Dante non si sbagliava mai, e selezionava i verbi con grande cura. Per molti secoli l'Occidente, ma in fondo anche l'Oriente, ha imposto alle proprie donne una sorta di schizofrenia psichica, in cui la virtù (principalmente estetica) era pretesa ma allo stesso tempo negata nella sua piena manifestazione, forse intuendo che la libera circolazione della bellezza femminile poteva compromettere l'ordine sociale; molti miti parlano di questo rischio, a partire da quello del Pomo della discordia, le cui conseguenze condussero alla guerra di Troia. Ecco allora che le forme sensuali e pericolose del corpo vengono ammantate di gentilezza e di modestia, o perlomeno così appare.

Una struttura portante della cultura a cui apparteniamo – il femminile deve essere contenuto, pena lo scatenarsi del caos – entrata in crisi in tempi recenti, quando si è come ribaltata di segno: sono gli uomini, i manager, i vincenti che hanno fatto proprio il modesto travestimento dell'understatement, mentre i velami si sono progressivamente sciolti nella controparte di genere. Basta farsi un giro su qualsiasi social network, dove incontriamo donne anche colte e non più giovanissime, intellettuali spesso, laureate in discipline ardue di cui si mostrano giustamente orgogliose, le vediamo cambiare ogni pochi giorni la propria immagine di status, inserendo fotografie non di rado ammiccanti, un tempo le si sarebbe definite sexy.

Non fa eccezione la politica, che anche in questo si dimostra specchio del Paese. Proviamo a immaginare le donne della Prima Repubblica (Nilde Iotti, Tina Anselmi, Franca Falcucci) nei panni di Mara Carfagna o Maria Elena Boschi, Nunzia De Girolamo, Giorgia Meloni. È cambiata la moda, si ribatterà. Sì e no. La moda femminile si apre infatti al corpo a partire dagli anni sessanta con le minigonne di Mary Quant, ma secondo uno schema fatto proprio dal titolo di un celebre film del periodo: “Poveri ma belli”; quando il potere, che in buona parte già coincideva con il denaro, continuava a proteggersi con un solido carapace dalla penetrazione dello sguardo, come i drappi e le foglie di fico che Daniele da Volterra, meglio noto come il Braghettone, dipinse sopra i genitali negli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, su commissione di Pio IV.

Ciò che contraddistingue i tempi nuovi non è dunque la circolazione del corpo in quanto tale, ma del corpo del potere, il corpo che come i lingotti d'oro nelle banche centrali doveva rimanere occultato per generare valore, secondo il felice parallelismo suggerito da Bataille. Lo squadernamento del corpo non solo femminile (in questo Mussolini fu profeta) segna dunque uno scarto simbolico nella rappresentazione del potere, che al fondo è sempre un potere seduttivo, almeno se vuole essere riconosciuto e non solo subito.

Nelle società tradizionali il corpo del potere coincideva con la maschera, ossia con un "altro” numinoso che ne legittimava lo statuto, e di cui il sovrano veniva rivestito per ipostasi. Era in un certo senso una maschera anche il potere erotico della donna, un’epifania sempre dilazionata, rimandata, come avviene nel cerimoniale dello strip-tease (“e lèvate 'a cammesella, a cammesella gnernò, gnernò"). Il corpo, in altre parole, per regnare qui doveva essere altrove.

Ma se le cose stanno a questo modo, il dilagare del corpo anche nelle classi dominanti, tra i raffinati, gli istruiti, che attraverso la pratica dell’understatement velano al contempo i simboli del loro status, induce il sospetto che il potere del corpo si sia nel frattempo affievolito, e perché ci si accorga della sua esistenza si debba alzare la voce sempre più. Potremmo così guardare alla diffusione dei tatuaggi come a un grido scomposto del corpo, che reclama un’attenzione altrimenti negata: guardami, GUARDAMI! gridano corpi sempre più irrilevanti sulla scena pubblica, e a ben vedere anche su quella privata, sessuale.

Possiamo affidarci al più oscuro dei filosofi, Hegel, che vede i segni del tramonto di un ciclo storico nella sua postrema affermazione, ma anche a un’immagine dolente e familiare, in cui il cigno canta quando è prossimo alla fine. E i nostri corpi, i corpi delle nostre donne, le donne che non sono più nostre ma, giustamente, dei loro corpi, cantano più forte che mai, in attesa forse di richiudere le ali. E senza ali, in effetti, si sale meglio a bordo di una Mini, bada bene con tutti gli optional del caso. 

lunedì 29 novembre 2021

Zerocalare, o sulla divaricazione tra autore e doppelt


In una delle sue innumerevoli e preziose riflessioni sul gesto narrativo, Milan Kundera suggeriva che è sempre collocato nello spazio e nel tempo, anche quando le indicazioni cronospaziali sono vaghe; in tal caso a essere messa a tema è proprio tale vaghezza: non possiamo, semplicemente, eludere luoghi e tempi, che dell'accadere sulla pagina rappresentano le coordinate cartesiane. Non così la poesia, che può svilupparsi nella cantabilità di una visione disincarnata.

Lo stesso dispositivo che, secondo una moda filosofica recente, potremmo definire situante, agisce sul punto di vista interno alla narrazione costituito dai personaggi, anch'essi portatori di una sorta di marchio di fabbrica; può essere più o meno preciso (il giovane, ad esempio, in luogo delle sue specifiche anagrafiche), ma comunque da inserire in uno spazio virtuale manifesto, in cui nel corso della narrazione il prima si fa poi. Kundera arriva così a concludere che uno degli scopi del romanzo è proprio interrogarsi su cosa significhi avere una certa età, oltre a essere nati in un determinato posto, con quegli amici, genitori, strade, palazzi, lingua, suoni.

Se le cose stanno a questo modo, mi sembrano del tutto inconsistenti le critiche alla nuova serie di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, che la vogliono troppo romana, oppure adolescenziale o, ancora, intrisa di sottocultura da centro sociale. Semplicemente, quello è il mondo – la smagliatura nello spazio-tempo – che all’autore preme raccontare: la vita di un adolescente che gli rassomiglia cresciuto nella periferia romana dei primi anni novanta; e nella periferia romana, allora come adesso, si parla romano, non vedo quale sia il problema.

Cercherei piuttosto di capire se questa sua deliberata scelta del particolare – “se vuoi essere universale parla del tuo villaggio”, già ammoniva Tolstoj – riesca a intercettare un interesse diffuso, e cioè quell’universalità di cui dice il grande scrittore russo. I temi non mancano: la marginalità sociale; il desiderio di riconoscimento; l’amore ricercato e a un tempo temuto, mancato, quindi rimpianto; l’amicizia; il lavoro e la sua assenza; la generazione di una coscienza critica nella forma reificata di un armadillo, con cui avviare dei buffi dialoghi interiori; la morte; la degradazione dei vincoli comunitari e una diffusa bizzarria sociale, forse specchio deformante di rabbia, frustrazione ecc.

Insomma, c’è un’abbondanza di materiali che vanificano le critiche di una prospettiva autoriferita, in cui il particolare invece di spiccare il salto verso l’alto o, meglio, verso l’altro costituito dallo spettatore, si tradurrebbe in particulare, orgoglioso e idiosincratico compiacimento della propria differenza. No, non è così. C'è molto mondo in Zerocalcare, anche e soprattutto quando tiene le palpebre semisocchiuse.

Una visione interposta che si ottiene attraverso il principale strumento di cui un artista si avvale: lo stile, ossia la capacità, quando c’è, di plasmare quei materiali in forma di racconto, digressioni, ritmo. E anche qui, mi pare che Zerocalcare ne esca con più meriti che magagne; sa insomma padroneggiare le storie che racconta, strappandoci, ogni volta, un pensiero o un sorriso.

La nota stonata mi sembra piuttosto da ricercare in quella corrispondenza, non importa se vera o presunta, che l’autore persegue fin dalle origini con i suoi personaggi; nella serie su Netflix il sostituto biografico è costituito da Zero. Nelle prime tavole disegnate da Zerocalcare il rispecchiamento funzionava, secondo una strategia narrativa che si stava affermando nel periodo e che con prestito francofono (qui americanizzato nella pronuncia) viene chiamata autofiction. Poi però il gioco si è inceppato.

Vediamo dunque cos'è successo nel frattempo. Si crogiola nell’incomprensione, quanto tutti lo celebrano; parla di marginalità sociale ma è al centro dei riflettori; dice di non essere amato con i fan che lo aspettano sotto casa per sfiorarne il lembo della felpa, come si fa con il mantello dei santi; ha problemi di soldi nonostante Netflix lo strapaghi; dà voce a un eterno sedicenne, quando di anni ne ha trentasette.

E però, attenzione: il soggetto delle prime affermazioni è il personaggio, Zero, mentre delle seconde Zerocalcare, o meglio ancora Michele Rech, questo il nome di battesimo dell’artista romano nato a Cortona il 12 dicembre del 1983 da madre francese. Posto dunque che l’autofiction è più finzione che “auto”, nel nostro caso l’ambiguità biografica non giova più al suo oggetto espressivo, il doppelt, negli anni, si è reso completamente indipendente dal demiurgo, e nessuna pozione è più in grado di consentire la conversione tra il Dr. Jekyll e Mr. Hyde.

Un’impasse, quella tra autore e suo sostituto simbolico, che abbiamo già incontrato altre volte, ad esempio nelle ultime canzoni di Bruce Springsteen: come possiamo accordargli di nuovo la nostra fiducia (la famigerata sospensione dell’incredulità) quando continua a cantare di scorribande notturne tra i neon di vecchi distributori di benzina e sdentati drop out, mentre ora lo sappiamo giocare a golf con Barack Obama, condividerne gli yacht?

Meglio sarebbe allora se Springsteen avesse istituito una distanza più netta tra autore e personaggi, e lo stesso Zerocalcare; bastava assegnare al protagonista della serie un nome diverso, e ciò anche se è una storia romanzata e non il presente del suo autore, che dalla traccia mnestica del fanciullino che è stato continua a spremere idee feconde. In fondo, anche la fantascienza più spericolata non potrebbe prodursi senza il trampolino dell'esperienza di chi scrive.

Peccati veniali, certo, a fronte di una serie che ho trovato più carina che geniale – alla fine nulla è davvero inaudito in questa recherche adolescenziale compiuta con garbo e ironia. Non merita la liquidazione superciliosa dei commentatori più cinici e distratti, ma nemmeno l’acclamazione di nuovo genio dell’underground.

domenica 21 novembre 2021

Filosofia e realtà, prove tecniche per un divorzio

 

È molto interessante l’intervento di Giorgio Agamben che si può trovare qui, consiglio a tutti di vederlo. Dice, al solito, delle cose intelligenti, oltre a dirle bene e con voce scolpita, fisico arso, sguardo austero. Sembra un bravo attore che interpreta il ruolo del filosofo continentale – la finzione è spesso più credibile della realtà – e non il (grande) filosofo continentale quale Agamben è senza ombra di dubbio.

Nel caso del video in questione, più che sul sostantivo filosofo l'accento andrebbe però posto sull'aggettivo continentale. Segue una domanda, che mi sono posto al termine della visione: cosa distingue la filosofia continentale, di derivazione germanica ma in seguito divenuta egemone in tutta l'area europea, e in particolare in Francia con gli sviluppi dello strutturalismo, cosa la distingue dalle forme che il pensiero ha imboccato nei paesi di lingua anglosassone?

La risposta canonica è una maggiore attenzione, in quest'ultima, ai problemi logico-linguistici, a fronte di un'ipoteca ontologica presente nei continentali. Mmm… ma davvero riesci a dire cose del genere senza che ti scappi da ridere? sembra sussurrarmi una vocina interna. Dai, non fare il furbo e prova a ridirlo con parole tue.

Ok, allora la sparo, la sparo grossa: la realtà, è questo che viene a mancare progressivamente nei filosofi continentali, la mano del bambino che non si alza all'appello del maestro. Quella realtà a cui l'attore che interpreta Agamben si è sostituito, senza che egli se ne sia forse reso conto la fiction ha preso il sopravvento, ne mima voce e movenze con la maestria di un novello Stanislavskij. Nella dotta disquisizione sui diritti e le libertà, la sua controfigura elude infatti ogni riferimento alla realtà storica contingente, è come se parlasse da una bolla di sapone collocata in nessun luogo e nessun tempo.

Quando, ad esempio, all'inizio afferma che il Green Pass istituisce un pericoloso "stato d'eccezione", non gli viene il dubbio che sia la realtà a porsi ora come eccezionale, e le risoluzioni giuridiche siano solo l'incerto nonché provvisorio riflesso pratico, a seguire le movenze del virus come le gambe della danzatrice nel tango?

No, la musica di Agamben è quella dell'orchestrina del Titanic – sempre lo stesso valzer, allo sfinimento – mentre la nave va a fondo. D'altronde queste note stanno scritte sullo spartito, queste abbiamo imparato a memoria negli anni, ti avrebbero risposto gli orchestrali con un'alzata di spalle.

Non è nemmeno importante che l'eccezione si chiami ora Covid e non iceberg, per l'ologramma che inscena il fenotipo del filosofo continentale, il suo monumento idiosincratico al comune buon senso, importante è la rarefazione astratta del pensiero; in un allevamento di tori diventerebbe cruciale la libertà di vestirsi di rosso, oppure di scoreggiare, come Joe Biden di fronte a Camilla Parker, alla presentazione di un nuovo profumo alla violetta.

Le circostanze concrete non devono insomma pregiudicare il principio, che in questo caso coincide con uno slogan talmente fortunato da aver prestato il nome a una motoretta della Piaggio e un noto marchio di assorbenti. Libertà, Liberty, cavallo vincente non si cambia, anche se cambia tutto là fuori.

O per dirla con tonalità evangelica, per l'attore Agamben nel ruolo che gli viene meglio e perciò replica con sdegnata prosopopea, il sabato non è per l'uomo ma l'uomo per il sabato, per la legge, la filosofia. L'oggetto della riflessione smette così di essere di alcun interesse, tutto è forma, stile del pensiero, la pescità (per dirla con Aristotele) ha preso il posto del pesce in carne e resche.

Massì, chi se ne frega della realtà! Piuttosto, come nella caricatura di Bertinotti realizzata da un Corrado Guzzanti in stato di grazia, anche la caricatura del filosofo continentale sembra che voglia solo divertirsi, parlare difficile, fare gli scherzi.

O non sarete anche voi tra quelli che ancora credono che la filosofia debba occuparsi della realtà?

venerdì 5 novembre 2021

Tutta colpa di Aristotele


È tutta colpa di Aristotele. Da diversi mesi ci sto pensando – non continuativamente, non sono così masochista… – e alla fine questa è l’unica risposta che sono riuscito a darmi. Aristotele, sì, colpito e affondato.

La domanda, perché senza domande non ci sono neppure risposte, coincide con l'interrogativo sulla provenienza (la radice psichica ma anche culturale, storica) di tutta questa insofferenza verso il Green Pass, la "dittatura sanitaria" e altre misure, ovviamente, "liberticide". Slogan pronunciati da persone di tutti i tipi, sarebbe più semplice, oltre che confortante, fosse solo l'eco di minoranze poco intelligenti e riottose; ci sono invece filosofi, scrittori, critici d’arte e giornalisti. Quella che un tempo si sarebbe detta intellighenzia, per intenderci. La quale in forma non certo unanime, grazie a dio, ma comunque significativa continua a ripetere quelle che mi apparivano come delle colossali str… va be’, diciamolo eufemisticamente: sciocchezze.

E invece no, non sono sciocchezze, dietro c’è niente di meno che lo Stagirita con il suo principale lascito formale, costituito dal sillogismo. Lo schema, come noto, è il seguente: tutti i pesci hanno le branchie. Nemo è un pesce. Dunque, Nemo ha le branchie.

Bene, proviamo ora ad applicarlo all’emergenza pandemica. Tutti gli uomini che vengono contagiati muoiono. Paolino è stato contagiato sei mesi fa. Dunque, Paolino sarà già morto.

Macché, ribatterebbe Paolino toccandosi le parti basse, sono qui, sono guarito e sto benone! Ci tocca allora cambiare di sillogismo: tutti gli uomini che vengono contagiati guariscono. Nicolò è stato contagiato da Paolino. Dunque, Nicolò guarirà.

Ma cos’è quella faccia triste, Paolino, non sei contento della notizia? No, il mio amico Nicolò e morto ieri. Di Covid. Insomma, non se ne esce, con la dinamica propria delle malattie virali non è possibile istituire nessun sapere certo, nemmeno se provassimo a estendere il sillogismo alla cura: tutte le persone vaccinate la fanno franca. Io mi sono vaccinato. Dunque, io la farò franca. Un’affermazione purtroppo smentita dall’esperienza, che ci offre indicazioni solo in forma probabilistica, mai collocate in un orizzonte biografico definito (situato direbbe uno di quei filosofi concentrati sui diritti, le libertà soggettive) ma solo per macrocategorie impersonali.

Credo che provenga proprio da qui la diffidenza alle misure di contenimento istituite a tutela della salute: sono anch’esse incerte, vaghe, piene di contraddizioni. Eppure sta proprio in tale vaghezza – si chiama statistica – l’unico strumento di cui disponiamo per contenere il contagio. Potremmo anche vederlo come il pensiero della complessità, grazie al quale l’italiano Giorgio Parisi ha appena ottenuto il premio Nobel per la fisica, in opposizione alla linearità storica che continua a informare il nostro sistema educativo, in cui una singola persona non può essere morta al 32% e al 68% viva, come il gatto di Schrödinger.

Eppure se non usciamo da tale eredità aristotelica, in cui si è vivi oppure morti, in cui tutti i pesci devono avere le branchie, le cose non possono che peggiorare. Lo vediamo in Russia, in Bulgaria, Romania, Austria. Tutti paesi che hanno fatto della logica aristotelica il filtro tra il singolo e la comunità; la comunità non è tale fin che non mi contempla con assoluto rigore nominale, sembrano pensare, forse inconsciamente, i loro cittadini, io sono io e non un altro che mi rassomigli. Quel rigore evocato anche da Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Vittorio Sgarbi, Diego Fusaro, e che gli fa dire che un morto o mille morti o cinque milioni sono lo stesso, ossia una controfigurazione dell'umanità fatta di riconoscibili vissuti, a coagulare in un nome e cognome già scolpiti sulla lapide.

Per contrastare un pensiero che si richiama, in forma certo malintesa, alla più alta tradizione umanistica, in mancanza di una robusta iniezione di sapere scientifico (uno non può darsi da solo la cono-scienza, come Don Abbondio il coraggio), suggerisco allora di spostare l’argomentazione dal piano razionale a quello simbolico, istituendo per questa e le future pandemie l’equivalente sanitario del milite ignoto. Tu non devi, in altre parole, seguire le profilassi suggerite per salvare te stesso o i tuoi cari, ma per responsabilità civile verso il monumento al milione e mezzo di morti ignoti che l’Italia avrebbe avuto senza lockdown, mascherine, vaccini e Green Pass. Un milione e mezzo di Paolini, Nicolò, Giovanni, Luise, Assunte, non sapremo mai i loro nomi. O meglio non li sapremo prima, come nella canzone di Jannacci: “ah, se me lo dicevi prima…” No, prima non è possibile, solo dopo. Ma quel dopo è già l'ombra di esatte proiezioni statistiche.

Il conto è presto fatto: senza alcun argine politico e sanitario, il virus avrebbe finito col penetrare tutti i nostri corpi, ma proprio tutti con un indice di contagio stimato, per la variante Delta, al pari della varicella (R0 > 8), finendo con l'uccidere il 2,4% della popolazione italiana; senza contare le conseguenze a lungo termine nei guariti, ciò che chiamiamo Long Covid. Categorie queste  sommersi, salvati e malconci   che sono per l’appunto ignote, non sappiamo come collocarci all'interno di esse, chi di noi avrebbe avuto la peggio. Ma se il termine noi ha ancora un senso, cari filosofi, cari intellettuali, imparate a pensare un po’ in astratto, ribaltando lo schema deduttivo del sillogismo all'induzione; tornando al pescetto da cui siamo partiti, il vostro amato Aristotele la chiamerebbe "pescità", per cui sono pesci anche quelli che non abboccano all'amo.

Non è difficile, da recenti studi etologici pare che la facoltà di astrazione appartenga anche ad alcuni primati, perfino uccelli. In fondo vi chiediamo solo questo: non di raggiungere la maestà corrusca di Giordano Bruno, a osservarci dall’alto del monumento a Campo de' Fiori, ma quella della cornacchia che gli si posa distratta sul capo.

lunedì 25 ottobre 2021

Nuovi peccati: l'espressionismo



Nella pagina dei commenti de la Repubblica di oggi, Enzo Bianchi, ex priore della comunità di Bose, ricorda che il primo dei comandamenti è quello dell’ascolto (“ascolta Israele!”), senza il quale anche i dieci incisi sulle tavole di marmo consegnate a Mosè cadrebbero nell’oblio. Inascoltati, appunto.

Leggendo le sue parole mi è venuta in mente la scuola fondata a Crotone da Pitagora nel 530 a.C. Gli allievi erano divisi in una cerchia più ristretta, i matematici, e altri che potremmo vedere come delle matricole, a cui era negata la visione diretta del maestro. Solo potevano intravederne la figura dietro a una tenda: la voce filtrava ma non gli era consentito porre domande, o altre forme d'interlocuzione. Perciò venivano chiamati acusmatici, da akousma, voce, suono, a cui era limitata la loro esperienza per la durata di tre anni dall'ingresso nella scuola, ce lo comunica Porfirio di Tiro. Tre anni di assoluto silenzio e ascolto.

La reminiscenza scolastica mi suggerisce una modesta proposta: e se introducessimo una simile regola anche per i social network? Qui tutti parlano, linkano, commentano, postano fotografie, ma pochissimi stanno ad ascoltare. Me compreso, naturalmente. Da un punto di vista tecnico non è difficile. Per tre anni si dovrebbe aver dato prova di ascolto, ad esempio riassumendo gli interventi che più ci hanno colpito. Quindi anche a noi sarebbe consentito scriverne di propri, come nella scuola di Pitagora avremmo guadagnato il diritto di parola, saremmo stati promossi alla cerchia dei matematici; quando prima che una faccenda di numeri e calcoli, matematica significa tecnica dell’imparare.

Ovviamente so che non potrà mai essere così, o meglio non potrà essere più. Fate dunque come se non avessi detto nulla, come se non mi aveste ascoltato; un esercizio che ci viene particolarmente bene in un mondo in cui l’impulso a dire supera di gran lunga quello ad ascoltare. Condannandoci, aggiungerebbe Enzo Bianchi, a essere peccatori. Una forma di moderno peccato che potremmo chiamare espressionismo, in cui viene confusa per virtù (la sincerità) l'espressione di ciò che pensiamo. Ma lo pensiamo veramente – si può pensare senza aver prima ascoltato, insegnare senza avere imparato? – o lo esprimiamo soltanto…

giovedì 21 ottobre 2021

Ambra e il Cavallo, per un’etica civile del luogo comune


"Ogni volta che mi rendo conto della verità di un luogo comune, mi viene da gridare, come Archimede, "Eureka!" Lo confidava Michel Houellebecq a Fabrizio Coscia in un’intervista di qualche tempo fa, da cui ricaviamo che compito della letteratura è smentirli, i luoghi comuni, quanto confermarli, ossia sottoporre la realtà al collaudo di un’esperienza interposta e fittizia; nel linguaggio della scienza vengono chiamati esperimenti mentali.

Ciò che il gossip ci sta dando in pasto nelle ultime ore può dunque essere visto come esperimento mentale, il cui esisto farebbe gridare Eureka! a Houellebecq. Mi riferisco al pettegolezzo rilanciato da Dagospia, per cui l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri sarebbe portatore di una virtù, che, per dirla con le parole di Fabrizio De Andrè, tra tutte le virtù è la più indecente. Per dirla invece con le parole di Dagospia, l’allenatore, nel giro dei conoscenti, verrebbe chiamato Cavallo. Insomma, Allegri è superdotato, e chiudiamola qui.

Ciò che mi interessa provare a dischiudere sarà allora il rapporto tra stereotipo e realtà, oggetto e narrazione; una porticina piccola piccola e nascosta che si apre su un grande confuso magazzino; ci troviamo Marylin Monroe con la gonna sbuffata al insù ma anche le Marlborlo arrotolate nel risvolto della t-shirt di Marlon Brando ma anche il Big Jim… È in quello specchio che la nostra anima, il suo residuo dal saccheggio degli ultimi decenni, perlomeno, si riflette. Le Grande Autre lo chiama con bella espressione Lacan, il Grande Altro.

In questi giorni è stato celebrato il funerale pubblico della relazione tra Ambra Angiolini (la "vittima") e Allegri (il "carnefice"), quale mormorata conseguenza di un tradimento scoperto dalla prima e agito dal secondo, con tanto di tapiro ad Ambra da parte di Striscia la notizia e parole accorate e solidali di Massimo Gramellini. Tutto ciò ha colpito l'immaginario collettivo, l'ha ridestato dal torpore delle infinite discussioni sul Covid.

Voglio essere molto chiaro: il tapiro ad Ambra è l'ennesima scemenza di un programma ripugnante, e che lei possa soffrire per amore mi spiace; in un’ideale piramide di Maslow dei dispiaceri, tale sentimento occupa però una posizione prossima alla base, ben dopo alla tristezza per il mio cane, Mela, che oggi si contorceva per gli spasmi causati da una brutta colite. Prendo semplicemente atto che il contegno pubblico di Ambra è stato impeccabile, dimostrandosi donna intelligente e ironica; i due termini sono forse sinonimi, ma gli riconosco volentieri entrambe le qualità. Come credo anche lei preferisca, l’intera vicenda umana mi appare così rubricabile nel cintato perimetro dei cazzi suoi.

Trovo invece di grande interesse la risonanza mediatica, civile e perfino letteraria della vicenda, che ancora una volta vede la realtà conformata al suo sciatto stereotipo, letteratura di genere se vogliamo essere generosi: la bella attrice non si fidanza con un cassaintegrato malato di fibromialgia (qualcuno che mi somigli, per intenderci), ma con un uomo altrettanto ricco, famoso e, ora si scopre, anche superdotato. Stiamo dalle parti dei romanzi Liala, o di quel suo upgrade che sono i programmi pomeridiani di Rete 4.

Il che va benissimo, sia chiaro: non c’è biasimo, sarcasmo né tantomeno invidia nelle mie parole. Ma sarebbe bello, come fa Michel Houellebecq, che anche il pensiero progressista imparasse a convivere con i luoghi comuni, li rivendicasse perfino. In fondo, passare dal riconoscimento del mondo così com’è e non come dovrebbe essere, già nelle favole viene indicata come la via più salubre per ridestarsi dal sogno prima che divenga incubo; basta trasformare nuovamente i principi azzurri in rospi, e il gioco è fatto.

La mia geremiade non riguarda dunque i dolori della post-giovane Ambra, ma il fatto che la famigerata casalinga di Voghera non possa avere un fidanzato ugualmente ricco, famoso e superdotato, da cui farsi fare le corna e poi ricevere un tapiro d’oro da Striscia la notizia. Questa è l’unica forma di democrazia che scorgo nel selfie mediatico in cui l’Italia si indigna, protesta, ride, si incazza, l’unica forma di equità sociale sopravvissuta all’implosione di ogni altra utopia.

giovedì 14 ottobre 2021

Il riconoscimento politico del fascismo, una risposta ad Andrea Di Consoli


Lo scrittore Andrea Di Consoli ha scritto un post su Facebook in cui si dichiara contrario allo scioglimento di Forza Nuova. In realtà non fa espressamente il nome della formazione neofascista, ma l’attualità politica lo suggerisce senza ombra di equivoco. Nello stesso testo, argomentato con equilibrio e nessun tono polemico – glielo riconosco volentieri come merito –, passa quindi dal particolare all’universale, assumendo che lo statuto pubblico di partito o movimento funziona da argine a eventuali tentazioni eversive, conducendo il sentire in esso coagulato al sicuro approdo della dialettica democratica. Ciò lo porta a concludere che fu un errore anche la messa al bando costituzionale del Partito Fascista Repubblicano.

Il ragionamento non è del tutto eccentrico (nelle tenebre prepolitiche si trama più facilmente che alla luce del sole), per quanto, in prima battuta, già gli si potrebbe obiettare: dunque sfasciare la sede della CGIL non è da considerarsi un gesto eversivo? Allo stesso modo il maggior rappresentante delle istituzioni statunitensi, Donald Trump, ha innescato le derive violente di Capitol Hill, così come la Notte dei cristalli fu orchestrata da un movimento politico alla guida della Germania quale conseguenza di regolare suffragio, che consegnò a Hitler un'ampia maggioranza relativa (43,9% dei voti, per un'affluenza del 71,6). Ed è questa un’ombra che può ripresentarsi – e si è ripresentata – a ogni occasione, almeno quando la democrazia si traduca in mero computo dei consensi, braccio di ferro tra istanze alternative nella gestione pratica della vita associata.

Ho appena usato il termine ombra, altre e più precise definizioni non mi vengono in mente. In questo gioco di chiaroscuri meglio di me si è espresso Karl Popper, che con i suoi testi filosofici articola quella che mi appare la risposta più convincente ad Andrea Di Consoli; e fatto salvo che nessuno pretendeva che quest'ultimo risolvesse una questione annosa con un intervento sui social network, per quanto le sue parole vanno contrastate con fermezza.

Anche Popper, come Di Consoli, pensava che una società democratica dovesse essere aperta al dissenso, integrandolo in forme visibili con cui ci si possa confrontare in forza dell’argomentazione. Ma qualora questa disposizione porti al formarsi di movimenti che ne pervertono la natura, teorizzando la revoca dei diritti e delle libertà personali e collettive, a sua volta, la società aperta auspicata dal filosofo, deve sapersi richiudere. Di più: blindare a propria tutela.

Può apparire a prima vista un paradosso, ma a ben vedere è un gesto di estrema coerenza: limito tutto ciò che ha nel limite la sua premessa ideologica, già che se non lo facessi finirei con l'essere a mia volta limitato – da una presunta superiorità razziale, religiosa, di genere ecc.; o semplicemente perché c'è chi si diverte a vedere gli effetti dell'olio di ricino. Per farlo mi avvalgo di tutte le possibilità che il potere democratico mi consegna, tra cui la chiusura forzata di un movimento politico di tal sorta.

Lo schema del ragionamento di Di Consoli va dunque ribaltato. Non è vero che l’emersione di un sentire antidemocratico attraverso lo status politico ci tutela da quelle idee, ma ne rende al contrario la realizzazione ancora più incombente. Parlando in linea puramente teorica e, spero, assurda, chi può infatti escludere che Forza Nuova possa diventare il partito di maggioranza in Italia? Il fascismo, la cui rappresentanza Di Consoli vorrebbe reintegrare, ebbe un ampio consenso popolare. E democraticamente cancellò infine la democrazia.

Se noi accettiamo la presenza di Forza Nuova come legittima e riconosciuta espressione di un pensiero altro, dobbiamo insieme accettare la remota eventualità di essere governati dai suoi capoccia, che dalla curva di qualche stadio (sempre che il Daspo non li escluda anche da lì) si trasferirebbero a Palazzo Chigi, con tanto di bandiere e trombette e spranghe. Ma quell’eventualità coinciderebbe con la fine della società aperta, che per questo, fintanto che è nelle condizioni di farlo, deve preventivamente escludere i suoi nemici, confinandoli oltre al limes in cui il pensiero può trovare pubblica rappresentanza. E cioè, tra gli altri, il fascismo, neo o vetero che sia.

mercoledì 6 ottobre 2021

La città senza insegne

 

Ieri notte ho sognato che avevo trovato finalmente un lavoro, non prendevo più il reddito di cittadinanza. In effetti io non prendo il reddito di cittadinanza, sono semplicemente disoccupato, ma nel sogno le cose stavano in modo un poco diverso; lo scrivo per i lettori più pignoli, i campeggiatori nella pineta del realismo: la tenda va piantata bene a terra e i grilli fuori a frinire, mai dentro la testa. Anche i sogni, per queste persone, devono essere documentabili, e chiamano fiction tutto il resto. Nel nostro caso si tratterà allora di onirofiction.

Nella messa in scena notturna non so quanto pagassero per il nuovo lavoro, ma, come si dice, importante è cominciare. Cosa devo fare ho chiesto rimboccandomi le maniche?

Un uomo alto con folti baffi neri mi ha indicato un telefono di celluloide. Roba da modernariato, mercatini rionali, con il disco commutatore per comporre i numeri facendolo ruotare in senso orario. Per un attimo ho avuto il dubbio che fosse quello con cui la mamma telefonava alla zia, e, dopo un’ora di ma dai... ma tu pensa... DAVVERO?! citofonava bestemmiando il vicino, con cui condividevamo la linea attraverso  il duplex. Devi rispondere quando suona, ha detto l’uomo troncando bruscamente i miei ricordi, e poi raccontare una storia.

Una storia, quale storia…? ho ribattuto perplesso.

Non importa, fai tu. La persona che chiama ti dirà una parola: usala, immagina che sia la motrice di un treno a cui devi attaccare i vagoni. Si tratta, in genere, di persone che vogliono solo passare il tempo. Inventati qualsiasi cosa, basta che non dici parolacce.

Come nelle favole al telefono di Gianni Rodari! ho esclamato; finalmente avevo trovato un aggancio, il primo vagone merci del treno.

L'uomo coi baffi neri è rimasto impassibile. Evidentemente, nel mio sogno, che era la sua vita, non esisteva Gianni Rodari. Un sogno di merda, va' (ma l'ho solo pensato, non si sputa nel piatto dove si mangia).

Ecco che squilla il telefono. Una voce rauca e quasi sussurrata, probabilmente appartiene a una persona anziana, senza tanti preliminari mi suggerisce la parola insegna. Insegna, mmm... Imposto le corde vocali sul registro Gassman (Vittorio eh, mica il figlio spilungone) e comincio a fare il mio lavoro.

C'era una volta una città in cui i negozi non avevano le insegne. Nemmeno una? mi chiede il signore anziano, diciamo pure vecchio. No, nemmeno una, via pure i cartelli stradali. E questo era un problema, in particolare per gli stop e i centri massaggio cinesi.

Senza insegne avevano iniziato a chiudere: prima uno, poi l'altro, come le luci di un condominio dopo le dieci di sera. Le massaggiatrici che resistevano passavano il tempo ad allenarsi tra di loro, torneranno i tempi buoni si dicevano per farsi coraggio. Ma, per quel particolare tipo di prestazione, non funzionava, mancava un dettaglio anatomico che finivano per scordare. E alla fine mollavano come chi le aveva precedute.

Qualcuno mormorava che stessero tornando in Cina, tornavano a casa loro, per la felicità di un famoso partito politico che ne aveva fatto lo slogan, l'Italia agli italiani; purtroppo esisteva anche nel sogno, il partito politico sì e Gianni Rodari no. Proprio un sogno di merda. E comunque che ne so dove fossero finite le massaggiatrici cinesi, ho dovuto infine ammettere incalzato dal mio interlocutore.

Rimanevano solo i maschi, ma non trovando moglie – i cinesi si sposano notoriamente tra di loro – finivano coll'estinguersi; niente più involtini primavera, casalinghi a poco prezzo, negozi in cui si riparano gli smartphone, niente più cinesi di qualsiasi sesso e solo uomini caucasici con i baffi, come quello che mi aveva assunto.

E le altre donne? mi chiede il vecchio con il solito filo di voce. Quelle simili a noi, senza gli occhi a mandorla e la elle al posto delle erre. Sì, insomma, dove sono finite le nostre donne?

Accidenti, mi ha preso in castagna, è un particolare a cui non avevo pensato. Balbetto qualcosa ma poi mi tocca ammetterlo: non lo so. Posso solo confermare che anche loro erano scomparse.

I maschilisti lo imputavano al fatto che le donne, pure, sono insegne: fioriscono a primavera per le vie del centro, come Wanda Osiris quando si dischiude il sipario. Al posto dei neon profumi, foulard colorati, minigonne e bigiotteria, per distinguersi tra la folla. I maschilisti più maschilisti di tutti aggiungevano: e un bel culo. Nel paese senza insegne, concludevano, è normale che non ci fossero culi femminili.

Ma le femministe ribattevano ringhiose sui sociali network (non potevano infatti farlo di persona, erano sparite insieme a ogni altra donna) che se ne erano andate per solidarietà con le massaggiatrici cinesi. Quindi condivano il tutto con qualche segno grafico transgender, tanto per mettere le cose in chiaro. Il fatto che il vecchio non facesse obiezioni mi faceva pensare che l'avesse bevuta...

Al posto di parole, dall'altra parte della cornetta, sentivo però provenire dei sospiri, potevano essere anche singhiozzi, non si capiva bene. Forse ho esagerato, mi dico. Le storie non cambiano certo il mondo, ma quel piccolo pezzo di mondo costituito da chi le ascolta sì, le narrazioni possono essere ascensori come sgambetti. Che sia ruzzolato nella tristezza per colpa mia?

Ho pensato allora di alleggerire il racconto, basta a volte una rima baciata per strappare un sorriso. In una città senza insegne, dico, una storia in cui non sopravvive nemmeno un piccolo arrugginito cartello sopra a una vetrina, tutto dilegua in un'ombra confusa. Le cose, quando non vengono segnalate, notate, è come se non esistessero. Prima di arrivare alla luna bisogna passare per il dito che la indica. E all'oscurarsi dell'ultima insegna, la città rimane senza fregna.

A quel punto è rientrato l'uomo coi baffi neri e mi ha strillato qualcosa in tedesco, l’accento era quello della Renania settentrionale, sembrava il comando impartito a un Dobermann con le orecchie drizzate, pronto a scagliarsi alla mia gola. Du bist gefeuert, du bist gefeurt! ripeteva.

Bisogna aggiungere che io, in tedesco, conosco solo la parola wurstel, ma nel sogno lo parlavo correntemente, in particolare il dialetto della Renania settentrionale, se incontravo un renano ci saremmo messi a raccontare barzellette sui bavaresi, chiamandoli affettuosamente terroni.

Ho così potuto tradurre al vecchio che ancora mi ascoltava confuso, spiegandogli che non potevo più andare avanti con la storia perché ero appena stato licenziato.

martedì 28 settembre 2021

Paragone rionale


Il caso Morisi. Ciò che leggo mi pare si concentri su un particolare: si drogava, e cedeva ad altri la Gbl, o Ghl, la cosiddetta "droga dello stupro". Il primo aspetto a me appare del tutto irrilevante – drogarsi non è motivo di biasimo, né di virtù –, mentre sul secondo si potrebbe discutere; se la sostanza veniva venduta è un reato penale. Ciò che a me ha colpito non è però ancora questo.

L’episodio mi ha ricordato gli avventori del bar Corona, sta proprio sotto casa mia. La mattina sono già lì con un bianchino in pugno, uno in particolare, si chiama Graziano, quando passo mi saluta sollevando il calice in segno di brindisi. Insomma, avrete capito che Graziano mi è molto simpatico.

Ma se entrando al bar Corona, non lo faccio spesso e ordino sempre un caffè corretto grappa, Graziano cominciasse a dirmi: “La grappa, nel caffè: ma non ti vergogni? Alcolista, scarto umano, quelli come te dovrebbero schiaffarli in galera, e poi buttare via la chiave…” Ecco, se mi dicesse così Graziano non mi starebbe più tanto simpatico.

E così Luca Morisi, che, fuori dal perimetro rionale del paragone, ora mi sta sui coglioni ancor più di quanto già non mi stesse prima, quando rilanciava le sceriffate di Salvini contro i (presunti) drogati. Lui e il suo cazzo di algoritmo “Bestia”!

lunedì 27 settembre 2021

Autofiction


In questi anni è divenuto di uso corrente il termine anglosassone autofiction. Stiamo parlando di letteratura, naturalmente. La traduzione letterale, autofinzione, o meglio ancora autofinzione biografica, ne restituisce il senso senza alcuna distorsione. Ma l’inglese è l’inglese, e ormai solo Diego Fusaro pronuncia Nuova Iorche, come faceva Ruggero Orlando nei suoi collegamenti da Big Apple, erano gli anni settanta o giù di lì.

In realtà la parola, e anche il concetto, provengono dalla Francia, quale reazione alla poetica della morte dell'autore propugnata da Roland BarthesFu Serge Doubrovsky a parlare di autofiction per la prima volta negli anni settanta, ma poi la pallina del flipper rimbalzò negli Stati Uniti, che già si cimentavano nel genere attraverso un movimento chiamato New Journalism (Truman Capote, Norman Mailer, Hunter Thompson ecc.) e a noi è ritornata con la pronuncia anglofona; come il termine latino media, plurale di medium, che ormai i più pronunciano "midia". A essere pignoli dovremmo così dire: "otofixion".

Quanto ci sia di finzionale e quanto di biografico, ovvero di reale, non è importante stabilirlo, essendo altamente variabile. L’autofiction funziona se il lettore crede che le cose siano andate a quel modo lì, scritto sulla pagina, e ne viene coinvolto, entrando in una risonanza altrettanto biografica con le parole del testo.

Ho fatto esperienza del funzionamento del meccanismo proprio ieri, dopo aver pubblicato un racconto su Facebook. Scrivevo di un viaggio a Milano per una visita medica, in cui avrebbe dovuto accompagnarmi un amico che all’ultimo momento mi ha però dato buca. Ho così dovuto disdire la visita; in questo periodo la mia salute è malandata, cinque ora alla guida dell'auto sono troppe. Ma il medico, uno di quei professori blasonati con il nome composto, ha comunque preteso il compenso. La disdetta, aggiungevo, è avvenuta con 29 ore e 30 minuti di anticipo sull’appuntamento, e questa cosa ha suscitato la reazione indignata di molti lettori. Un vero stronzo, hanno concluso.

Ma la reazione di una lettrice è stata diversa. Nel mio amico, di cui non menzionavo il nome, le è parso di riconoscere una persona che anche lei conosce bene, lo chiama addirittura "un santo”, e forse davvero lo è. Ma di quale amico stiamo parlando: di quello di Guido Bussoli, il mio nome di battesimo, o di Guido Hauser, la voce che dice io nel testo? Ossia dell’autore o del punto di vista in cui si focalizza internamente la narrazione, un personaggio a tutti gli effetti. E così anche il suo amico, il mio amico, l’amico del personaggio e dell'autore… Ma amico di chi, alla fin fine: di chi stiamo davvero parlando?

Un dubbio da cui la lettrice non è stata attraversata – e per fortuna, altrimenti il mio testo avrebbe fallito nel suo intento di essere creduto quale biografia, la parte fiction dell’iceberg deve sempre rimanere sommersa – e mi ha accusato di avere messo quella meravigliosa persona in cattiva luce, anzi, e testualmente, “in croce” – non si fa così!

Cosa è accaduto mi sono chiesto allora, perché una reazione tanto forte e risentita?

In fondo, nel racconto io non parlavo male del mio amico, mi limitavo a dire che mi ha dato buca, cosa effettivamente accaduta anche nella realtà, per quanto nel farlo ho forzato un po’ la mano a fini narrativi; l’amico di Guido Bussoli, il mio “vero” amico, aveva detto che mi avrebbe dato conferma due giorni prima dell’appuntamento, quello di Guido Hauser no. Inoltre, il setter della storia ha preso un infarto dopo aver udito una fucilata, mentre il cane posseduto dal mio amico ha avuto il coccolone traversando la strada. Piccole differenze, slittamenti, ma comunque sufficienti a istituire un mondo diverso, che si chiama narrativa. Intendendo col termine lo scarto, più o meno marcato, tra l’accadere e la sua rappresentazione, o quando lo scarto si allarga: invenzione.

Io ho provato a difendermi, a spiegare la distinzione dei piani, ma più lo facevo più lei insisteva (non si tratta così un amico, vergogna!), fino a quando non ho compreso che aveva ragione lei: l’autore non possiede mai l’ipoteca sulle reazioni emotive del lettore, e tanto più sono accese tanto più l’inganno narrativo è andato a buon fine, il cosiddetto “patto di sospensione dell’incredulità” è stato sottoscritto; poco male se ha poi imboccato la via imprevista della ripulsa ringhiosa.

L’effetto principale della finzione autobiografica, per come ne ho fatto esperienza, sta dunque nell’istituzione di simili reazioni di rispecchiamento; magari e se possibile più concilianti, per quanto ci siano autori che hanno di mira proprio il disagio del lettore. Un solo nome: Michel Houellebecq.

O detta in altre parole, attraverso l’autofiction, quando il dispositivo va a segno, si realizza un grado superiore di tensione tra lettore e testo di quanto avviene, di norma, nella narrazione puramente finzionale, in cui negli anni si è progressivamente allentata la stessa dinamica; il sospetto è che un ruolo decisivo l’abbia avuto l’avvento del cinema, in cui le emozioni primarie vengono veicolate con maggior forza persuasiva. Non è forse un caso che, tranne rarissimi episodi (mi viene in mente Caro diario di Nanni Moretti), nel cinema non si fa ricorso all’autofiction. L’illusione sullo schermo funziona sempre alla grande, mentre sulla pagina scritta ha perso molti colpi.

Ma se riusciamo a ripristinarla attraverso la strategia autofinzionale, dobbiamo essere consapevoli che corriamo dei rischi. Come in ogni altra forma d'illusionismo si deve infatti prestare attenzione all’esecuzione del trucco, già che si possono ottenere degli effetti di ritorno non previsti; quelli, sì, pienamente reali, come viene mostrato da Stephen King nel romanzo Misery; il cinema, avvoltoio di specchi ed emozioni, ne ha subito colto le potenzialità, nella bella trasposizione che in italiano prende il titolo di Misery non deve morire (ma a King pare non piacque).

Nel mio caso, con le debite proporzioni, Guido Hauser ha ottenuto 63 like su Facebook, ma Guido Bussoli si è guadagnato una persona in più che lo guarderà in tralice, lo guarderà con sospetto e disprezzo (hai tradito il tuo amico, hai tradito il tuo amico!) tutte le volte che lo incontrerà sul giro degli stupidi di Sondrio.