venerdì 18 novembre 2011

Mario Monti, o sulla visione e la tecnica


Alla fine, la cosa più semplice è ancora aprire un vocabolario. E leggere al suo interno:

Tecnico [tèc-ni-co] (pl. m. -ci; f. -ca, pl. -che) agg. 1) Che concerne la fase applicativa, esecutiva, pratica, delle cognizioni teoriche di una disciplina scientifica, di un'attività, di un'arte…

Interessante, no? Come a dire che un tecnico, qualsiasi tecnico, anche un governo e in particolare questo governo, non rappresenta la semplice messa in opera di una pratica asettica ed efficiente, ma contiene sempre un nucleo teorico ed ideale. O più sinteticamente: una visione.

Con la differenza che il tecnico, rispetto ad esempio al filosofo o al politico o allo scienziato, che esibiscono pubblicamente la loro teoria, incorpora tacitamente l'elemento ideale ed astratto: una sorta di bussola che rimane dietro la plancia di comando, implicita ma non meno presente. Ed è proprio in virtù di tale "automatismo teorico", diciamo così, che il tecnico può occuparsi in via esclusiva delle cose. O meglio, come ci ricorda il Dizionario della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli, della loro fase applicativa, esecutiva e pratica.

Non potendo esprimere alcun giudizio sull’operato tecnico del governo Monti – il fare può essere valutato solo a posteriori –, è allora forse più utile la ricerca di quell’elemento teorico che per definizione deve essere incluso in qualsiasi tecnica. Anche perché l’eventuale bontà della sua azione starà proprio nella corrispondenza con la teoria implicata quale sfondo naturale e indiscusso. Insomma, proviamo a discutere l’indiscutibile. E a restituirgli una visione.

La visione implicita all’esecutivo tecnico presieduto da Mario Monti, come già ricordato da molti editorialisti, coincide verosimilmente con la concezione liberale dell’economia. Ma al contrario di quanto il termine vorrebbe suggerire, il liberalismo economico non è affatto libero, impregiudicato da alcuna ingerenza esterna, ma puntellato da una serie di istituzioni che ne correggono e indirizzano l’andamento. La principale di queste istituzioni si chiama banca.

Successivamente, seguono tutta una serie di paletti istituzionali e spesso trans-nazionali, la cui funzione è essenzialmente quella di ratificare e quindi preservare i rapporti di forza (forza economica ma anche militare, politica) tra i principali attori sociali che si contendono la scena – stavo per scrivere i principali paesi, ma l’economia liberale pare non amare troppo questo concetto, considerandolo un vincolo a una libera e spensierata circolazione delle merci.

In altre parole, potremmo guardare alla teoria economica liberale come a una forma di darwinismo ben temperato. Dove il più forte prevale, ma il meno forte, quando si facesse anch’egli forte, non ha la possibilità di dispiegare l'intera potenza acquisita. O almeno, lo può fare – mostrare i muscoli – solo in forme limitate e stilizzate. Proprio come certe automobili sportive vendute sul mercato americano, ma preventivamente munite di un accrocchio che ne smorzi l’impeto del motore.

Tutto ciò, cambiando metafora, ricorda un incontro truccato di pugilato. Il campione in carica deve vincere. E se non ci riesce con i propri cazzotti, l’arbitro e la giuria gli concedono tutta una serie di aiutini, di spintarelle, chiudendo un occhio verso ogni sua lieve scorrettezza. Ma quand’anche in questo modo l’irruenza dello sfidante non fosse contenibile, beh, il sistema economico liberale si mostra allora tollerante e flessibile. O come scriveva Flaiano a proposito del popolo italiano, ben disposto a “correre in soccorso dei vincitori”. Che a questo punto – e solo a questo punto – possono venire incoronati nuovi campioni.

I governi tecnici sono dunque delle anomalie in questo senso. Non perché non siano imparziali – come abbiamo visto, l’economia liberale è sempre parziale e strategicamente intenzionata –, ma perché rappresenta il caso in cui sia l’arbitro a indossare i guantoni e venire incoronato vincitore.

Ma l’arbitro è già da sempre il vincitore! E’ lui che fischia, ad esempio, quando a basket si tocca la palla con i piedi e a calcio con le mani. Ed è sempre l’arbitro, o meglio il sistema che conferisce all’arbitro la sua autorità, a tradurre l'eccezione in norma, e viceversa la consuetudine in torto. Il potere sta insomma nella regola, non in chi si afferma attraverso di essa. Ed è per questo che la regola, o se preferiamo la Legge, può essere in qualsiasi momento manomessa o revocata: perché è il riflesso di una visione, non di un fatto come l’ideologia tecnico-scientifica vorrebbe farci credere.

Ma chi è, dunque, che dispone oggi non tanto del potere economico, ma della regola economica ad esso sottesa, ossia della lente che definisce e scontorna la visione?

E’ difficile rispondere a questa domanda. Forse, è però possibile avvicinarsi per opposizione. Ad esempio chiedendosi chi NON dispone del potere, e cioè noi tutti, i cittadini. Non i cittadini italiani ma neppure quelli europei o cinesi o americani, nessuno di essi dispone al tempo attuale (né probabilmente ne ha mai disposto) di alcun potere di regolamentazione economica, che è ormai del tutto alieno al controllo democratico. E ciò perché buona parte dei sistemi di controllo ed arbitraggio economico sono di natura privata.

L’economia è di mercato perché DEL mercato, semplicemente. Il sovrano ha capitolato per il mercante.

La Banca Italiana, ad esempio. Qualcuno è ancora convinto che la Banca Italiana sia proprietà dei popolo italiano? No, è privata. E anche la BCE, anche la Federal Reserve: le principali istituzioni economiche sono tutte private. Ma andiamo allora a vedere cosa dice il dizionario italiano anche a proposito di questo aggettivo:

Privato. Che si riferisce al singolo individuo in sé, a prescindere dagli obblighi e dalle prerogative sociali, civili e politiche che gli sono propri...

Il debito pubblico di un paese – che è invece affare che per definizione concerne le fondamentali "prerogative sociali, civili ed politiche" – consiste dunque nell’impegno economico di una comunità di persone verso un soggetto economico privato, che gli presta del denaro. Ma se questo soggetto non è interno alla comunità, dove lo prende il denaro?

Semplice, lo crea, lo fabbrica, lo inventa. E cioè lo stampa di notte come Totò, Peppino e Felice Cardoni nella Banda degli onesti, con un vecchio ciclostile.

Ok, ho semplificato. Forse troppo. Ma, essenzialmente, il sistema è questo qui. Esiste un gruppo estremamente limitato e circoscritto di persone che detiene un enorme potere. Un potere che non è militare e non è nemmeno economico in senso proprio (quattrini, per intenderci, ville, gioielli…), ma consiste nel dare all’economia una precisa direzione strategica, decidendo quando la palla può essere pigliata a calci e quando invece afferrata con le mani.

Avete presente quei bambini che a un certo punto dicono "la palla è mia" e adesso si cambia gioco? Ecco, questa gente ragiona più o meno allo stesso modo. Ci mette la palla, ma generalmente non i piedi.

Tocca però aggiungere che tale potere disciplinare – chiamiamolo il potere di possesso della palla, o se preferite PPP, come Pier Paolo Pasolini che aveva capito con largo anticipo il gioco – tale potere non coincide necessariamente con l’arbitrio più sordido e bieco. Anzi, spesso contiene delle finalità sociali anche condivisibili. Ma rimane il fatto che moltitudini di persone giocano al gioco di “qualcun altro”, non so se mi spiego…

Bene. Mario Monti per ideologia, storia personale e vocazione appartiene a pieno diritto a questo non meglio definito “qualcun altro”, che si occupa dei giochi dei più perché i più sono convinti che solo lui abbia il pallone, un bel pallone gonfio e guizzante. Che non è mica vero, per inciso. Ma è propriamente questa la visione che si cela dietro le esibite stimmate tecniche del nuovo Presidente del consiglio italiano. Uno che fa, ma prima ancora che decide quando il pallone va preso con i piedi e quando invece con le mani.

L'attuale arbitro\giocatore è in ogni caso una delle personalità più rilevanti – e probabilmente capaci – tra i possenti possessori della palla; club a cui egli aderisce con un consenso che appare sincero e ispirato, pronto a rincorrere ogni pallone per controllare che tutto segua le proprie regole. Ora, almeno in frangenti politici estremi e caotici come l'attuale, non mi sembra del tutto insensato affidarsi a un uomo onesto e con tali caratteristiche.

Ciò che mi sembra invece inquietante è un quadro politico e sociale che non sa pensarsi, cioè meglio non sa immaginarsi, vedersi, al di fuori di tale recinto normativo. Un minuscolo campetto di periferia che un’ingessata élite di burocrati con il fischietto, assiepata ai lati con il loro bel pallone lucidato, da lanciare ogni tanto nella mischia, ha tratteggiato a misura della propria immaginazione ormai rattrappita e pigra.

Personalmente, trovo quasi inevitabile una parentesi politica del tipo cosiddetto tecnico, gestita da una persona seria e capace come Mario Monti. Ma non mi sfugge che queste sue capacità sono indirizzate, come il dizionario italiano suggerisce, a una “fase applicativa, esecutiva e pratica" da cui mi sento del tutto estraneo, o ancor meglio ostile.

E non perché io sia ostile all'opera di tamponamento di un' obbiettiva emergenza – principalmente economica, ma anche politica e civile –, quanto piuttosto alla visione che cova dietro alle pratiche di necessario e urgente risanamento. Sì, io ammetto e perfino auspico l’intervento della tecnica finanziaria di un distinto signore che sa le cose che dice e dice le cose che fa, ma continuo a considerare, sul lungo termine, la sua visione miope rispetto alla vastità del campo visivo umano.

Spero dunque che questo ennesimo governo “tecnico” sia l’occasione per le forze politiche – e qui penso davvero a tutte le forze politiche, non solo alla sinistra – per sviluppare un pensiero immaginifico. Ossia una visione che sappia andare oltre l’angusta cartolina che ci spacciano per la Realtà, e che invece è il prodotto di un’interpretazione interessata e soprattutto non più controllata democraticamente.

E dunque Occupy Wall Street, ok, come no. Questo è lo slogan vitale di un movimento al suo stadio nascente e necessariamente caotico. Poi però deve succedere il lavoro politico, ideologico e perfino artistico, che da una confusa emozione sappia trarre una nuova e coerente visione. Da cui un progetto e una nuova tecnica, possibilmente diversa dal quella del professor Mario Monti.

O se volgiamo dirla con una sola battuta: siamo stufi dei vostri palloni, adesso è il turno della nostra mongolfiera!

giovedì 3 novembre 2011

Caballero & C., o su come distinguersi dentro al medesimo pollaio



Una volta, mio papà, ha portato a casa una rivista illustrata. Me la ricordo molto bene.

In realtà, mio papà portava a casa spesso quella rivista illustrata, che di solito veniva letta dalle persone serie. A volte lo accompagnavo ad acquistarla in un'edicola che odorava di fieno e menta, mi ricordo molto bene anche di questo.

Io ero piccolo, saranno stati i primi anni settanta, e non ero molto pratico nell'uso degli aggettivi - l'aggettivo serio, ad esempio - oltre che certo sulle differenza tra il fieno e la menta. Piccolo ma con buona memoria, e frequenti interrogativi. Ad esempio: è più serio il papà il nonno o lo zio...?

Mia mamma non sapeva mai rispondere alle mie richieste di comparazione gerarchica, ma, secondo me, se un aggettivo non riuscivi a metterlo in ordine, a fare una specie di scala, di classifica, non era un aggettivo serio.

Hulk, per dire. Hulk è chiaramente più forte di Thor. Ma Thor è più forte di Capitan America che è a sua volta più forte dell'Uomo Ragno e così via, non so se mi spiego…

Da ciò si ricava che forte è un aggettivo serio, mentre serio, al contrario, se non si può fare una graduatoria della serietà, non lo è mica tanto. E però anche forte diventa un aggettivo poco serio, se serio non è più serio, credo che si chiami proprietà transitiva, ma lasciamo andare.

Ci stava dunque questa rivista illustrata, dicevo. Che di solito era una rivista seria. Quella volta lì ci stavano però delle foto di persone comuni - uomini, donne, vecchi, grassi, giovani, belli, brutti, magri, anche qualche bambino e perfino uno senza un braccio - ed erano tutte nude. Persone comuni nude fotografate su una rivista che aveva ancora un vago sentore di fieno e menta, la portava a casa mio papà.

Adesso magari qualcuno si metterà a ridere, ma nei primi anni settanta, quando mio padre ha portato a casa una rivista illustrata per persone serie, insieme al profumo di fieno e menta dell’edicola a lato della Standa, stare nudi dentro una fotografia era considerata una cosa poco seria.

Ci stavano infatti delle altre riviste, riviste poco serie come Caballero, Cronaca Vera, Penthouse, dove questo succedeva regolarmente. La nudità, intendo, e pure dell’altro.

Federico, che aveva trovato una copia di Caballero in un prato al ritorno da scuola, parlava di strani incastri geometrici, cosa da non credere. Io queste riviste di nudità geometrica però non potevo leggerle, a meno che non le trovassi anche io nei prati vicino alla scuola dove fiorivano i goldoni, poco prima che fossero soppiantati dalle siringhe. Era una legge scritta ma più spesso sottaciuta, come un sottinteso omertoso: no naked for children.

E così la rivista, normalmente seria, che ha portato a casa il mio papà, è stata per me la prima occasione per vedere una cosa poco seria come un corpo nudo. Anzi, molti corpi nudi e candidi come lenzuola appena lavate, e ora stese al sole ad asciugare.

Le donne anziane della rivista avevano seni flaccidi e larghi capezzoli, chi chiari e chi bruni, gonfi come lumachine ingorde di lattuga. Anche tra le gambe degli uomini pendeva una lumaca, ma un poco più grande di quella delle donne e dei bambini come me. C'era poi un uomo - a me sembrava vecchio perché aveva i capelli bianchi - che aveva la lumaca più grossa e lunga di tutti gli altri. Era quella l'immagine a cui ritornavo con più frequenza, insieme al pube di una ragazza orientale con i peli folti e lisci, discriminati proprio al centro come i capelli di un famoso giocatore dell'Inter.

Ma perché tutte queste persone con le loro lumache dentro a un giornale serio? mi chiedevo tra me e me, ormai disperando dell'aiuto della mamma.

Se anche gliel'avessi domandato, lo so già, lei mi avrebbe risposto che le fotografie stavano dentro la rivista di papà perché sono fotografie artistiche, realizzate per una campagna di sensibilizzazione in favore di questo o quell’altro inghippo, una campagna ovviamente artistica, avrebbe risposto mia madre, ci scommetto quello che volete.

Ma più o meno artistica della Gioconda e degli acquarelli che dipinge l'amico del nonno, e che teniamo in sala a fianco della foto di papà che gioca a tennis? avrei ribattuto io, e non ne saremmo più usciti.

Secondo la mamma nell'arte non si potevano fare classifiche, lo stesso che per la serietà. Come a dire che Montagne Verdi di Marcella Bella era pari a Jesahel dei Delirium, al festival di Sanremo del 1972. Mica vero.

In ogni caso, da quel giorno in poi e con una certa regolarità, io continuo a imbattermi in servizi in cui vengono fotografate delle persone comuni completamente nude. E’ una specie di genere, mi viene da dire. Se non di archetipo, di topos espressivo, di ricorrenza liturgica per persone con scarsa memoria.

Ma io, che ho una buona memoria visiva, non posso scordarmi, oltre al pube della ragazza orientale e al lumacone dell’uomo con i capelli bianchi, gli sguardi che si scambiavano le persone nude che ho visto nella rivista seria. I corpi sul Caballero di Federico infatti non contano, quando me l’ha mostrato era ormai inzuppato e pieno di terra, le pagine incollate una all’altra. Ma da quel poco che si intravedeva le lumache avevano più che altro l'aspetto di serpentelli, proprio lì sul punto di sputare il loro mortale veleno.

Se si potesse mettere un’etichetta a quello sguardo, lo sguardo che si scambiavano tra di loro le persone nude, ma anche serie, sulla rivista di papà, io lo chiamerei “rubare la marmellata e farla franca”.

Era cioè l’istituzionalizzazione formale di un’eresia, mi viene da dire adesso dopo che ho imparato a parlare anch’io come le persone serie, che sono quelle che se anche compravano Caballero poi l’infilavano tra le pagine del Corriere della Sera o del Sole 24 Ore. E’ l’infrazione che si fa regola, intendo, traducendosi in qualcosa come un nuovo canone artistico.

Cavolo, ma quando serio sono diventato?!

La nudità è invece una cosa poco seria, sembravano suggerire i protagonisti svestiti della foto, una cosa perfino sporca, cattiva. Ma ciò perché viviamo in una cultura che l’ha resa tale, una cultura che l’ha sporcata e incattivita.

Mettersi a nudo su una rivista seria equivaleva dunque a svelare non tanto se stessi, ma il codice culturale che ha posto la semplice verità del corpo fuori dalla scena pubblica, rendendolo letteralmente osceno. E con ciò a ripulire l’immagine dalle incrostazioni dello sguardo, come le pagine di Caballero dallo strato fangoso del campetto del pallone, dove Federico l’aveva nascosto sotto un grande sasso piatto.

E allora guardate noi, guardateci ci dicono le persone nude e comuni: lo vedete come siamo semplici, come siamo naturali e belle e pulite, con le nostre miti lumachine, senza veleno, senza lingue guizzanti e biforcute, nella nostra umana imperfezione.

Eppure, nella cultura tardo moderna dove non esistono più dei reali tabù morali ed estetici – se non quello di non consumare, di non acquisire merci a getto continuo, come aveva intuito Pasolini – l’infrazione estetica e morale diviene un atto vagamente comico.

Come si fa a trasgredire qualcosa che non c’è, cosa stai infrangendo se non ci stanno più regole da infrangere?

E invece, con regolarità cronometrica, c’è sempre un fotografo che vuol togliere, svelare, riportare all'evidenza quel che cova sotto agli abiti della convenzione sociale. Come se ancora si trattasse di scrostare gli infiniti veli che si sono depositati su una presunta verità originaria, da sbucciare con il piglio beffardo di un manifesto di Mimmo Rotella.

Quando il Re era già nudo, e noi tutti svestiti da qualsiasi sovrastruttura etico-morale. Così questa tensione alla semplice evidenza di natura, che per altro produce esiti spesso pregevoli su un piano formale, come nel caso dei nudi in massa di Spencer Tunick, si avvita in un cortocircuito dell'esperienza visiva: più si toglie, più emerge insinuante il dubbio che si stia invece cercando di mettere qualcosa. Di collocare la materia impalpabile di un'idea.

Un'idea che coincide idiosincraticamente con i propri confini, e cioè con il principio di una diversità, di uno stigma riqualificante non tanto il corpo che la ospita, ma una soggettività ormai priva di radianza espressiva. L'essenza rivela l'assenza, direbbe forse un pensatore postmoderno. Ma ogni assenza richiama il riempimento di un codice esterno che la renda leggibile e comunicabile.

Tutto ciò, non saprei come altro chiamarlo se non trasgressione.

Non però trasgressione da qualcosa, attenzione, e neppure espressione artistica eccentrica di qualcos'altro. Un sfondo simbolico sottile, piuttosto. E anche infido a ben vedere. Vischioso.

L’idea che mi sono fatto io, a quasi quarant’anni dal mio primo incontro con un corpo nudo fotografato, è allora che noi abbiamo un bisogno quasi fisiologico di trasgredire, di svestire le consuetudini che fanno da asticella ai nostri gesti. A maggior ragione, e appunto per paradosso, quando l'asticella sia posta al livello del suolo, innalzando un muro di nebbia.

Ecco, noi abbiamo bisogno di superare quella concentrazione di acqua vaporizzata mista a dubbi, come negli spettacoli in cui un mimo finge di muoversi a ridosso di una parete, per poi scavallare l’ostacolo che egli stesso ha immaginariamente implicato.

Forse perché la trasgressione si impone come un possibile nuovo confine, cioè quale gesto che assume un valore quasi araldico, di figura con un alto grado di solidità culturale, oltre che di riferimento sociale. Scriveva il filosofo francese Michel Foucault:

La trasgressione è la glorificazione del limite.

E così queste persone comuni, nella loro disarmata e complice nudità, anche adesso che non hanno più alcun tabù sociale da infrangere, ancora si cercano lo sguardo come a dire: "L’abbiamo fatto franca, siamo riusciti a rubare ancora una volta la marmellata, a essere trasgressivi, diversi dagli altri, originali...

Ad assere comunque qualcosa, qualcuno.”

Ma in pratica, gli altri a cui si stanno tacitamente riferendo per opposizione, e cioè i conformisti, i borghesi bigotti e i codini, con tutti i loro inutili abiti, hanno la stessa consistenza del muro immaginale del mimo. Stanno nella loro testa, non esistono.

Allo stesso modo, è un pregiudizio infondato anche il tabù che queste opere di estremo e ricorrente conformismo si propongono di infrangere, non possedendo alcuna oltranza estetica (se non quella piacevolezza formale che già gli abbiamo riconosciuto) a sostegno di una idea ormai comune e diffusa: la trasgressione.

Nonostante ciò, io penso che non sia del tutto inutile e inconsistente quel che viene rappresentato. Qui si sta infatti reinventando un limite, per poi poterlo nuovamente infrangere in una sorta di infinità ricorsività, dove trasgressione e regola si richiamano come lo jodel del pastore altoatesino e il proprio eco. E qual è l’effetto di questa impresa apparentemente inutile, insensata?

Io credo che esista qualcosa come un guadagno sociale, che consiste nel sentirsi complici di un gruppo fortemente coeso, non isolati e soli. Un po' come me e Federico nelle nostre bravate: le fialette puzzolenti nelle tasche dei cappotti delle compagne, o l’utilizzo di Corrado Lapsus come cavia nelle piste più pericolose ed infide di slittino. Se non si spiattellava contro un abete, poi andavamo noi.

Ma anche a livello individuale, la trasgressione, o meglio l’illusoria adesione al suo spettro contagioso, produce la sensazione di sentirsi diversi dalla massa. Quindi definiti, circoscritti da un segno fosforescente, luminoso anche di notte come lo Stabilo Boss. Individualizzati direbbe forse uno psicanalista junghiano. Insomma, di esistere.

Si tratta dunque e ancora una volta di un paradosso, di un cortocircuito estremo. La differenziazione – estetica, culturale, cognitiva – viene raggiunta proprio attraverso la rappresentazione dell’elemento più comune e universale: il proprio corpo naturale, al netto di qualsiasi successivo sovratesto ornamentale, o di un segno storico ed intenzionale.

E così non ho ancora capito se queste recenti operazioni “artistiche” mi fanno più pena o tenerezza. Di certo, mi ricorderò per tutta la vita delle riviste serie di mio padre, di quelle un poco meno serie di Federico e dell’odore di fieno e menta dell’edicola che le ospitava entrambe, a pochi scaffali di distanza. Sì, come galline sul trespolo del medesimo pollaio, ma ciascuna certa di essere l'unico e impareggiabile gallo.