sabato 14 gennaio 2012

Agnizione


Ecco, oggi finalmente ho intuito - una vera e propria agnizione - per cosa verrà ricordato il nostro tempo: l'orgoglio della mediocrità, i mediocri che hanno smesso di pagare il loro mutuo con l'intelligenza, i saperi costituiti, e navigano a vista seguendo il periplo del proprio ombelico, chiamando mare tutto quel poco niente che ci sta dentro.

lunedì 9 gennaio 2012

Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, una mail


E’ da poco uscito in libreria, per l’editore Bompiani e in parte curato dal suo stesso editor, Elisabetta Sgarbi, un interessantissimo volume in cui gli autori si interrogano sul presente italiano e sui modi in cui la conoscenza si organizza e trasmette. Cosa significa insomma, oggi, per tutti noi, questa vecchia parola: cultura. Il tragitto interpretativo scelto è quello dell’indagine sul campo, in una sorta di odissea geografica lungo tutta la penisola, alla maniera del celebre reportage di Pasolini intitolato Comizi d’amore.
Non ho ancora avuto occasione di leggere il libro, ma da quel che ne ho inteso mi sembra che l'Itaca verso cui l'intero viaggio si protende non corrisponda a una definizione stabile e certa, ma all'eco di molte voci, non necessariamente concordi, che nel loro rifrangersi restituiscano almeno un’atmosfera: l’ombra della cultura, appunto. Ma se la cultura ha dismesso l’immutabile stabilità del monumento, facendosi luce, riflesso ottico, clima del pensiero, appare opportuna la scelta di allegare al volume due dvd, in cui l’interrogazione viene girata dallo scrittore Edoardo Nesi e dal filosofo Eugenio Lio ai numerosi ospiti della narrazione. E nel caso di uno dei due dvd si tratta di un vero e proprio film, che con lo stesso titolo del volume (Se hai una montagna di neve tienila all’ombra) è stato presentato alla 67a Mostra del Cinema di Venezia, riscuotendo un generale interesse.

Colpito e stimolato dalla bella iniziativa, ho subito inviato una mail a Elisabetta Sgarbi, complimentandomi per il progetto. L'autrice, molto gentilmente, mi ha risposto. Per un normale galateo che vuole la corrispondenza privata rimanere, per definizione, privata, non riprodurrò ciò che lei mi ha scritto, ma solo la mia replica. E ciò nella convinzione, forse un poco presuntuosa, che contenga un nucleo di pensiero dal valore generale. E dunque pubblico.


Gentile Elisabetta,

la ringrazio molto per la risposta e l'attenzione. Per quel che mi riguarda, e come spero si sia inteso anche dal mio testo, io un tentativo per coniugare il termine cultura al singolare invece ancora lo farei. Non cioè culture, coriandoli di conoscenza, sistemi chiusi e particolari con i propri codici e le proprie regole d'uso, alla maniera in cui la disposizione postmoderna ci ha insegnato a riconoscere, non senza qualche buona ragione. No, proprio e ancora Cultura con la c maiuscola, come prima che Quentin Tarantino fosse in grado di reggere una cinepresa tra le mani.

Per tornare a una sagomatura sintetica di questo termine stropicciato dall'uso, ma soprattutto dall'abuso, bisogna però essere disposti a distinguere preliminarmente tra
sapere e cultura; ed è una proposta ermeneutica, per così dire, non certo una verità linguistica. Ammettendo tale premessa normativa - la cultura non corrisponde con l'oggetto della conoscenza archiviata -, si può in compenso definire un nuovo senso unitario, oltre che un'utile funzione sociale del nostro sostantivo. Che possiamo figurarci come un punto di vista superiore, impregiudicato dalle ambiguità in cui lo costringono le pratiche del fare.

La cultura come
"link", insomma, come nodo e relazione, che solo dall'altro riusciamo a cogliere nel suo insieme significante, proprio come l'aviatore che per primo si accorse delle misteriose linee nel deserto di Nazca. Tutto ciò nello slancio verso una postura rialzata, si è detto, ma allo stesso tempo incerta e precaria: un orizzonte da guadagnare e subito rimettere in discussione, in un oscillante e instabile sforzo verticale. Una sorta di panopticon (tanto inviso a Michel Foucault) da cui noi possiamo finalmente scorgere, o meglio creare, istituire attraverso il processo dell'interpretazione, le relazioni significative tra i saperi particolari, nel tentativo di conferirgli una direzione e uno scopo pienamente umani. Un panopticon, sì, e però di gelatina.

Ma il tema diventa a questo punto l'accordo sul punto in cui collocare lo sguardo generale sulle cose, come se si trattasse di un film in cui il regista - mettiamo ancora Tarantino - non sia più il solo a decidere le inquadrature, e una moltitudine di comparse si affannasse per scegliere dove posizionare la camera di ripresa. Infatti, come aveva intuito lo stesso Foucault, una prospettiva culturale imposta dall'altro è sempre una verità arbitraria, che inevitabilmente produce schemi gerarchici ed effetti di potere, rigidità sociali, se non proprio abuso e violenza.

Il problema della cultura è dunque inseparabile dal problema della democrazia, a ben vedere e come è già stato visto. E la cultura postmoderna nasce in fondo anche come tentativo imperfetto di risolvere il dilemma: chi decide qual è il balcone corretto da cui affacciarsi?

Eppure, senza un punto di osservazione condiviso da cui collegare i puntini del disegno nascosto, o se preferite i tasselli sparsi nella cornice robusta del puzzle, è impossibile ottenere ciò che il termine cultura prevede:
una visione, intesa come totalità articolata nelle proprie molteplicità espressive.

Cambiando ancora di metafora, sarebbe come cercare di costruire una casa di soli mattoni, senza l'ausilio della malta. Ecco, a me pare che questo tempo sconti un eccesso di mattoni, ma nessun legante che li tenga assieme, ossia che li colleghi conferendo la solidità necessaria ad un comune progetto civile. E in questo senso, dal trespolo instabile da
cui provvisoriamente mi protendo, la cultura si mostra come la semplice e umile malta che tiene unito l'edificio del pensiero. Ma senza la quale è davvero difficile costruire un nuovo tempio, o anche solo una baracchetta in cui farsi compagnia nelle notti più oscure...

Con simpatia

guido hauser

martedì 3 gennaio 2012

2012, o sul come naufragar ci è dolce in un bicchier


Cambiamenti. 2012. Fine di un ciclo cosmico, secondo il calendario Maya, che è anche il nome con cui gli indiani chiamavano anticamente l'illusione, nella forma di un velo impalpabile che mantiene gli uomini separati dalla verità. Ma di quale verità stiamo parlando? L'apocalisse, intesa letteralmente come svelamento, ce lo dovrebbe indicare. E dunque eccoci finalmente qui, nel tempo che non ha più supplementari e si prepara al disvelamento del vero, di cui già si dovrebbero scorgere alcune tracce, i cosiddetti segni. Se non che, provando a sbirciare nella sabbia sottile della clessidra, a me sembra che l’unica cosa fino ad ora mutata, l'unico segno certo, riguardi la gastronomia. Sì, proprio la gastronomia: come il condannato a morte che indugia sulle volute di fumo dell'ultima sigaretta, in fondo anche negli abissi del palato si possono condensare i variabili destini, in attesa del definitivo striptease di Maya. Il Nero d’Avola, ad esempio. Chi se lo filava – a mala pena sapevamo che esisteva, da qualche parte laggiù in Sicilia – il vino che porta questo nome. Le donne, specialmente, ma anche le ragazze, le adolescenti con i pantaloni flosci e dalla vita bassa bassa sul sipario dei glutei, a conferma del fatto che la coperta la puoi tirare da una parte sola, tutte queste nostre belle femmine d'Occidente che entrano in un bar dove fino al decennio scorso avrebbero ordinato una Guinness alla spina, oppure un succo di pera corretto latte, una Coca Cola senza limone, no, ora ordinano Nero d’Avola. Con le più scaltre e audaci che si sincerano sulla zona di provenienza e il produttore, prima di congedare il cameriere con un gesto magnanimo della mano. Probabilmente è un sintomo di quella recente epidemia dell'inconscio gastronomico collettivo – l'ennesimo trucco di Maya? – che si chiama corsi di sommelier. Anche il pubblico femminile adesso li frequenta, e con grande convinzione. Così quando si trovano lì per lì con un calice di Nero d’Avola, le donne della terra del tramonto iniziano a rigirarselo commosse tra le mani, avvicinando con delicatezza l’orlo ancora illibato alle narici, per cogliere gli effluvi e i sentori e le fragranze ancestrali, prima di lanciarsi sulla disamina dei retrogusti: mela canterina, banana selvaggia, mandorla notturna... E se Omero guardando il mare lo vedeva color del vino, queste pozzangherine porpora sono diventate il nostro minimo oceano, in cui far veleggiare l'antico sogno di una totalità amichevole e docile. Mentre noi, noi maschi, intendo, espropriati dalle abituali rotte etiliche in cui abbiamo navigato con mestizia o euforia, il più delle volte di bolina, abbiamo finito col virare su una nuova forma di illusione alimentare: il cioccolato (rigorosamente fondente, ça va sans dire). Io stesso mi scopro a concionare intorno alla percentuale di cacao delle tavolette, che non deve mai – ma mai e poi mai, sia chiaro! – essere inferiore al 70%. Per il resto, 2012 e profezia Maya permettendo, a me sembra che siamo rimasti gli stessi italo-coglioni di sempre. E se naufragio ci sarà, sarà come sempre in un bicchiere.