mercoledì 31 maggio 2017

Do ut des, o sull’elogio dell’amore interessato



Verso un uomo in stato di totale disgrazia economica che seduca una donna più vecchia di lui, più brutta e però anche più ricca, non ci vuole molto, in ogni caso un’uguale disgraziata ma sul piano sentimentale semplicemente per piazzarsi a casa sua – lei ora gli fa da mangiare, lava i calzini e forse pure qualche pompino, ma non troppo spesso –, verso un uomo di questo genere la riprovazione è generalmente unanime e senza appello. 
Io invece provo simpatia, mi è capitato anche di recente.
Ma é uno stronzo! mi si risponderà indignati da più parti. 
E perché?
E' uno stronzo perché la sta raggirando, è chiaro, mi ribatte il mio ideale interlocutore con passione. Sfrutta a proprio vantaggio una fragilità della donna.
Intendi dire che non stanno giocando lo stesso gioco, e dunque tra i due non è presente simmetria? 
Ecco, sì, giochi, simmetria. È proprio così: non c'è simmetria! 
E infatti non c'è, le motivazioni sono diverse. Ma per quanto il gioco non coincida, il tavolo sì, con le carte che si sovrappongono fortunosamente. E poi nei baci dei fidanzatini di Peynet, o in quelli moderni che impugnano lo scettro di un bel cornetto Algida cremoso – colano dalle mani intente nelle carezze goccioloni di panna e cioccolato, prima di raggiungere i jeans di lui, un poco logori sulle ginocchia, e l’abitino di lei con piccoli fiori chiari stampati –, vedi in loro quella simmetria che prima invocavi con severità, anche se sembrano giocare lo stesso antico gioco dell'amore?
Uhm...
In fondo, nell’amore erotico abbiamo un’asimmetria ancora più radicale: io do un bacio a te, tu dai un bacio a me, io ridò un bacio a te e così via… Lo squilibrio è collocato al principio, è principio del piacere, dove agisce quale campo di forza tra opposti che mai trovano composizione: un fine e una fine, e dunque si deve andare avanti.
Vai avanti anche tu, faccio fatica a seguirti.
Va bene, passiamo allora ai nostri due poveri cristi, proviamo ad avvicinarli col pensiero. L’uzzolo del corpo e gli afflati dello spirito sono superati dall’interesse (ma anche dalla compassione umana, non di rado), mentre le forze, da interne e piscologiche, si fanno manifeste e materiali. Do ut des, sembrano dirci i due senza più slanci appassionati e aritmie funzionali, ma con un buon senso pratico da incorniciare ed esibire a fianco dei diplomi nel tinello.
Questo è vero, ma è allora buon senso non provare più sentimenti? 
No, non sentimenti: desiderio. È il desiderio che si alimenta di dislivelli. E in ogni caso anche in questa circostanza viene messa in atto una strategia per colmare un divario tra urgenze di diversa natura, perlopiù riuscendoci: il disgraziato trova fissa dimora e la zitella... beh, lei lo può esibire in pasticceria, con l’implicito tiè rivolto alle amiche che la vedevano ormai definitivamente fuori gioco. Cosa dovrebbe darci fastidio in tutto ciò: il fatto che abbiano realizzato il loro utile, senza mirare, fallendo, alla pienezza dell’inutile?
Pienezza dell'inutile?!
Pienezza, sì, o meglio sostanza utopica – l’amore  romantico – che si risolve in replica infinita di una scintilla che mai divampa in incendio, fino a che si scarichi l’accendino. Tanto di cappello, allora, a chi riesce a pararsi almeno il culo.

lunedì 29 maggio 2017

Ma quanto è bello essere buoni, prova anche tu! No, grazie, preferisco un gin tonic



Un atteggiamento che mi ha sempre incuriosito, e che ora trovo diffondersi sul web, sui social network in particolare, è quello di chi istruisca gli altri sulle virtù dell’altruismo. A volte l’invito morale è esplicito e un po’ naif, ma, altre volte, la perorazione virtuosa assume forme articolate e dotte, nella forma di veri (sebbene miniaturizzati) trattati psicologici e filosofici, di cui ammiro la sottigliezza dello sguardo.
Nella sostanza: se fai e vivi solo per te, finisci con l’essere infelice, frustrato. Mentre se l’obiettivo delle tue azioni sono gli altri, sorge, progressivamente, un sentimento di pienezza e soddisfazione.
L’ho detto, ho semplificato. Ma anche nei modi più compiuti e lambiccati, questo schema di pensiero – che in buona sostanza condivido, non sono un orco – mi lascia un po’ perplesso.
Ad esempio, uno psicologo che dica al suo paziente: “Per ritrovare gioia e serenità dovrebbe farsi carico del prossimo, lei pensa troppo a se stesso. Provi, e vedrà come starà già da subito meglio nell’occuparsi, gratuitamente, anche solo di un criceto.”
Non è sbagliato, il ragionamento. Ma sono ancora credibili le parole dello psicologo quando, terminata la seduta, stacca una parcella da cento euro – ma come, non dovresti abbracciarmi e dire siamo a posto così?
Allo stesso tempo, in che modo questi continui inviti pubblici all’altruismo, questa catechesi laica al limite dell’invasione di campo (il mio campo psichico), possono essere inclusi nelle stesse categorie morali che propugnano? Davvero l’estensore del richiamo è convinto che le sue parole, nella semplice sostanza verbale dell’enunciato, possano fare il mio bene, e così accordarsi al precetto appena esposto?
Non so, ma c’è qualcosa che non quadra. Mi sembra alle volte che ogni vocativo etico contenga una remunerazione riflessa, nella forma dell’oddio come sono bravo, bello, buono, quando parlo a questo modo. Quanto mi piaccio, insomma. E dunque quanto io stia facendo il mio proprio bene, non quello dell’altro.
In altre parole, per essere davvero credibile l’invito al bene dovrebbe contenere un piccolo “costo”: fisico, economico, psicologico, non importa. Comunque un segno, o meglio un pegno che dia conto del trascendimento di sé.
Da questo punto di vista non è peregrina, per quanto estrema, la scelta della Chiesa cattolica romana a favore del celibato dei chierici. E’ come se contenesse un sotto testo di questo tipo: lo vedi come soffro a non scopare, a non realizzare il mio desiderio di uomo, donna, di persona umana. Ma per questo sono tanto più affidabile nel mio cristianesimo, attraverso cui supero il piccolo orticello dei vantaggi personali (e per quanto anche il masochismo contenga una sua sottile economia psicologica, ma qui ci allargheremmo...).
In ogni caso, l'invito al bene senza un sacrificio anche minimo e soprattutto senza una mia richiesta di aiuto – ma te l’ho chiesto io, di dirmi come fare per essere felice, per diventare buono e giusto come sei tu? – rischia di risuonare in chi l’ascolta come le parole di quel cretese, Epimenide, che sosteneva che tutti i cretesi mentono. Ma se tutti i cretesi mentono mentirà anche Epimenide, no?
Allo stesso modo, invece di ripetermi dalla mattina alla sera quanto è figo essere buoni e generosi, perché non mi offri un gin tonic, che sono più contento…

domenica 28 maggio 2017

Francesco Totti, o sulla riemergenza del tragico



Francesco Totti, dunque. Pare non si possa parlare d’altro. E’ il tema del giorno. A me Totti non sta antipatico, non sta simpatico, non sta niente. Ma ne riconosco le immense qualità sportive, che gli hanno regalato una notorietà del tutto meritata; e con questa i soldi, le donne, il successo mediatico.
Ma pure riconosco la sua proverbiale modestia intellettuale, a cui egli stesso si è prestato con grande autoironia, che ce lo rende gradito malgrado l'espressione un po' imbronciata; ma se l’autoironia è una componente dell’intelligenza, scemo del tutto proprio non deve essere.
Insomma, dai, diciamolo: Totti è sempre stato un po' uno “scemo a metà”, per parafrasare bonariamente il titolo di un bell'album di Pino Daniele; oppure un uomo dall’intelligenza dimidiata, se si preferisce nuovamente la dizione eufemistica; o meglio ancora un bambino, un pupone, che una compiuta articolazione di pensiero non ha ancora avuto modo di sviluppare. Ma è proprio questo che in fondo di lui ci piace: l’idea che la perfezione della forma (certe verticalizzazioni smarcanti, i colpi fantasiosi e i goal da tutte le posizioni) possa darsi al netto di una sostanza mentale.
Se però facciamo un po’ di replay con la moviola della storia, ci accorgiamo che questa non è una novità. Già in epoca antica le narrazioni esemplari erano composte da uomini, eroi, creature polimorfe che sono come contenitori vuoti, mossi dal pungolo di divinità altrettanto vuote e capricciose.
Nel mondo omerico, insomma, non esiste sostanza umana o divina, che si presenterà solo a partire da Socrate. Nel mondo omerico c’è solo forma ed emozione. Così quando riesci a comporle, a tenerle assieme anche solo per un istante, ottieni la bellezza, che si presenta con l'aspetto cangiante di un'epifania.
Oltre al suo indiscutibile talento, che ho già ricordato e a cui ancora una volta mi inchino, io credo dunque che il successo di Totti discenda dalla sua natura mitica, che nella specie di un'epifania moderna fa alzare il pubblico dalle gradinate, ed esclamare: Ooooh!
Ma, oltre che mitica, la sua forza di suggestione è anche epica, in quanto corale, collettiva. Ed è entro questo perimetro collettivo che la pienezza del vuoto si manifesta svuotando la mente dal ragionamento, per consegnare chi l'osserva alla festa dell’emozione, che fa da correlato all’epicità dell’intero gioco del calcio.
Al loro meglio, e cioè in campo, i calciatori sono infatti dei simulacri mossi da forze spirituali bizzose, che ne determinano i successi o le rovine. Mentre i calciatori gravati dalla zavorra dell'intelligenza – pensiamo solamente a uno come Rivera, ma ce ne sarebbero molti altri –, per quanto grandi vengono più velocemente dimenticati, senza raggiungere mai e per intero il cuore dei tifosi.
Risponde allo stesso schema mitologico anche la penosa uscita di scena di Totti. Abbiamo infatti un dover essere (il campione di sempre, che per questo non vuole smettere di giocare) che si oppone a un non poter essere più (allo stesso livello atletico di prima).
Ciò che ne risulta è l’aporia tragica in cui ogni soluzione viene impedita, se non nella morte dell’eroe, simbolica o reale che sia. Concorre a questa funzione il battage polemico che viene fatto da più parti, che fa di Totti la vittima sacrificale di Spalletti, qui visto come un padre malvagio che divora i propri figli.
Eppure Totti dovrebbe ringraziare il suo allenatore saturnino, già che in questo modo può scomparire dall’orizzonte sentimentale non come vecchietto un po' acciaccato, ma nella forma dell'eroe tragico: infilzato da una freccia nel tallone che aveva lanciato tanti assist…





sabato 27 maggio 2017

Isacco



Alle elementari avevo un compagno di scuola di nome Isacco. Un giorno, credo fosse inverno, lo deduco dal fatto che Isacco indossava un lupetto pesante e ispido quando, quel giorno invernale, l'ho preso per il collo. Afferro da dietro il suo collo ispido e inizio a stringere con tutte le mie forze.
Questo bambino, Isacco, era il matto della classe.
Doveva aver combinato anche quella volta qualcuna della sue mattane, ci puoi scommettere. In fondo se l’è cercata, pensavo dentro di me mentre stringevo, sì se l'è proprio cercata, meritava una lezione!
Rovesciava i banchi se non riusciva a risolvere un problema – Pierino ha cinque mele, la capra gliene mangia due, quante mele rimangono? –, oppure Isacco mordeva, pigliava a calci la porta, o la maestra, quando lo riprendeva. Cose così, prima che la campanella ci facesse tirare un sospiro di sollievo.
Isacco faceva paura a tutti.
Ricordo l'episodio ma non il motivo esatto per cui l’avevo preso per il collo. Ultima ora del doposcuola, era sicuramente inverno, faceva freddo e già si era fatto buio. Sulla pelle sentivo la lana pesante e ispida del lupetto nero di Isacco, che mi faceva venir voglia di starnutire.
In ogni caso se l'era cercata, meritava una lezione!
Gli avevo passato il braccio destro sopra la testa e poi, scendendo all'improvviso, avevo chiuso il gomito a forbice come avevo visto fare da Sandokan in televisione: per fermarlo, per salvare la classe da tutte le cose matte che sempre combinava Isacco.
Lui era diventato rosso, sbuffava dal naso e anche dalla bocca, sudava e si dimenava dentro il suo lupetto ispido, mentre io trattenevo uno starnuto. Però stranamente non parlava, al contrario di me che gli ripetevo: Stai calmo Isacco, calmati, se ti calmi ti lascio andare. Devi solo stare calmo!
Ma più parlavo e più il suo silenzio si faceva ermetico e forsennato, comunicandomi una frase chiarissima in qualsiasi lingua, anche in quelle che ancora non conoscevo: Appena mi lasci, ti morderò!
Gli altri, intanto, soprattutto le bambine, mi guardavano con ammirazione, perché li stavo salvando da Isacco: Isacco il matto, Isacco finalmente qualcuno gli ha dato una lezione!
Ma se l’è cercata, se lo meritava, ci puoi giurare!
In quel momento è suonata la campanella, come il libero per tutti a nascondino, liberi da quella furia di Isacco.
Per qualche motivo la maestra non era presente. Forse era in sala insegnanti, oppure alla macchinetta del caffè a parlare con le giovani colleghe, le gambe lunghe sotto le gonne a fiori che usavano a quel tempo, l’alito tiepido di Lavazza qualità Oro.
La maestra non c’era.
I miei compagni iniziarono a riporre i pennarelli Pelikan nell’astuccio, l’astuccio con le moto da cross stampate nella cartella, le cinghie della cartella sulle spalle e con passo lento e trascinato andavano via. Li vedevo con la coda dell'occhio attraversare la porta di truciolato con impresso i segni dei calci di Isacco, da cui fuoriusciva una bava gialla di segatura.
Prima lasciarono la classe le bambine, che avevano preparato con anticipo le loro cose e smesso di guardarmi con ammirazione, poi, uno a uno, i maschi, tutti i maschi tranne me e Isacco.
Rimanevano dunque solo due piccoli corpi sotto la luce lattescente del neon centrale, i banchi erano stati disposti a circolo per aver più spazio per i lavoretti di bricolage. Il mio corpo, da dietro, che stringe il corpo di Isacco senza quasi più distinzione, in una fissità statuaria che ricorda un monumento classico, Laocoonte preso tra le spire del serpente.
Ma anche senza riuscire a muoversi, Isacco continuava a soffiare come la serpe ferita da Laocoonte, ripetendomi nella sua lingua muta: Ti morderò, ti morderò, stai sicuro che ti morderò, appena mi lasci andare.
E io davvero avrei voluto farlo, allentare il mio braccio e dire ma va' là, è stato tutto uno scherzo, dai Isacco andiamo a casa: non vedi che è già tardi, è buio, è freddo, tra poco il bidello chiuderà la porta e noi resteremo qui, perdendoci la nuova puntata di Sandokan su Rai 1.
Il ricordo finisce a questo punto, non so come sia andata a finire: mi ha morso, non mi ha morso, ho starnutito...?
Resta un enigma anche se il bidello ci abbia chiusi dentro, senza poter sapere se Sandokan ha ucciso la tigre con il suo kriss o sposato lady Marianna, la Perla di Labuan, interpretata da una Carole Andrè che mi aveva fatto provare uno strano formicolio dentro la pancia, che un altro compagno sosteneva fosse quella cosa lì, proprio quella, l'amore di cui tanto parlavano i grandi.
Ma a volte ho l’impressione che è una situazione mai conclusa per davvero, e che io sia ancora avvinto al corpo muto e fremente di Isacco, volendo e non volendo andarmene un giorno via da lì.