venerdì 28 settembre 2018

Un di nos, o sulla città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, tra due file lunghe e scure di montagne


Io sono nato e cresciuto in una città ma piccola piccola incastrata tra due fila di montagne lunghe e scure. Nella città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, tra due fila di montagne lunghe e scure, la Lega Nord viene ancora chiamata Lega Lombarda, e quando si parla di qualcuno nato e cresciuto qui, come me, viene detto “un di nos”, mentre gli altri sono gli altri. Tra gli altri che vanno bene ci sono le donne ucraine che fanno le badanti, le donne cinesi che fanno le sarte o, in alternativa, le parrucchiere, e le donne rumene che fanno i pompini. Le altre donne e specialmente gli altri uomini, invece non vanno bene. Ma se c'erano anche le donne africane a farlo in macchina per dieci euro, oppure le albanesi, e però gli euro salgono a venti, me l'ha detto mio cugino che fa il taxista a Milano, se c'erano come in tutte le città civili e solo un po' meno piccole, io penso che andavano bene lo stesso. Ma purtroppo non ci sono. Il fatto che non ci sono le donne africane e albanesi a fare quelle cose in macchina, basta che non ti scopre la ronda padana, nella città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, incastrato tra nere fila di montagne, comporta che per fare lo stesso bisogna andare al night club o negli appartamenti con le lenzuola di carta e le donne rumene da pagare, anche più di settanta euro. In pratica, lo stipendio di una badante ucraina per due giorni di minestrine imboccate a uno dei nostri vecchi e pannoloni da cambiare, che in cerniere sostituite dalle manine svelte di una sarta cinese fanno dodici o tredici cerniere  non lo so quanto ti prendono per uno shampoo e taglio, i capelli io me li taglio da solo. Ma certi conti bisogna farli lo stesso, i soldi non crescono mica sugli alberi, troppo comodo ti insegnano nella città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, la Lega qui è ancora Lombarda. Per questo motivo certe cose non si fanno troppo di frequente, e così il resto del tempo lo si passa seduti al bar Piero o nelle verande degli altri bar con la stufa a forma di fungo, si va fuori per fumare. Io non fumo, mai fumato, ma nelle verande degli altri bar che non sono il bar Piero, quelli con la stufa a forma di fungo per chi fuma, ci sono i televisori che trasmetto gli incidenti, e poi lì fa anche più caldo. Non che il freddo mi mette paura, dalle nostre parti il freddo è come i canguri per gli australiani, ma le sere invernali davvero non passano mai, in particolare se uno non fuma ma guarda gli incidenti come me. Allora, per ingannare il tempo, la gente, la nostra gente impara a guardarsi in giro e non solo gli incidenti. Con due fila lunghe e scure di montagne, quello che vedi sono però solamente la luna, gli elicotteri quando uno si spacca la testa  di solito è per arrampicarsi sulle montagne che non ti fanno vedere un bel niente, io credo che lo fanno per controllare se c'è qualcosa dall'altra parte , e infine i satelliti e gli ufo, per quanto un tizio al bar Piero dice che sono la stessa cosa e un altro risponde sono due cose diverse. Allora, alle volte, se non si mettono d'accordo o c'è un bell'incidente da guardare in tivù, si dicono cornuto e poi sputano e poi volano dei pugni. Rimangono, da guardare a parte gli incidenti e gli ufo, ma forse sono dei satelliti, rimangono dicevo gli altri clienti, che si dividono in due categorie. Ci sono quelli e parlo sempre di nos, quelli tra di noi che nei nostri bar ordinano un bianco di Custoza, un euro e cinquanta dice il barista, grazie, e poi quando è finito un altro e un altro ancora... Funziona così, almeno dalle cinque di sera in poi e spesso anche prima, nel momento preciso in cui si allunga l’ombra scura delle montagne in cui è incastrata la città in cui sono nato e cresciuto io, che è davvero piccola piccola. Ci sono però degli altri, ma non degli altri-altri, intendo sempre degli altri-nostri, degli altri che quando vedono un di nos che ordina un bianco di Custoza fanno un sorrisetto come a dire qualcosa che però non dicono mai, e al barista fanno solo un cenno del capo, lui ricambia con un altro cenno. A quel punto il barista, invece di servire il bianco di Custoza a quello di nos che l’aveva ordinato per primo e dunque avrebbe la precedenza, dico, il barista no prende una bottiglia da un frigorifero a parte e qualcuno sussurra è un vino francese, con cui riempie il bicchiere della persona che ha ordinato per seconda, la quale fa un altro cenno come a dire nuovamente qualcosa che solamente il barista sa quelle cose lì, loro si capiscono alla perfezione. Per sapere se un di nos ordinerà un bianco di Custoza o un bicchiere di vino francese che costa anche più di sette euro, dunque quasi un pompino in macchina con una prostituta africana, sempre che c'erano nella città piccola piccola incastrata tra due fila scure di montagne le prostitute africane, e non ci sono ma certi conti ti insegnano a farli lo stesso, troppo comodo se no, per saperlo prima basta guardargli i pantaloni. Se indossa dei pantaloni color aragosta e ha passato i quarant’anni di età, puoi star certo che ordinerà un vino da più di sette euro, e invece di andare con una rumena con le lenzuola di carta dopo andrà in un night club, dove ordinerà lo stesso vino francese che ha ordinato al bar con un semplice gesto del capo, e lo capiranno al volo anche lì. L'unica differenza è la grandezza, qui con lo stesso cenno gli porteranno l’intera bottiglia e non un solo bicchiere, le cose vanno dette precise, bottiglia che berrà con delle signorine che non sono delle nostre e però non è un problema, vanno bene anche quelle, mentre di fuori si alza la luna e i satelliti e gli ufo e qualcuno si spacca la testa, nel tentativo di scavalcare le montagne. Alla fine pagherà il suo vino francese preferito al night club quattrocento euro, non ha contanti? non importa signore, c'è la carta, mentre le signorine cambiano tavolo e raggiungono un altro con i pantaloni color aragosta, che dunque ordinerà anche lui una bottiglia di vino francese e non un bicchiere di bianco di Custoza. Una volta ho fatto il conto, qui i conti ti insegnano a farli, una bottiglia di vino francese al night club corrisponde a duecentosessantasei virgola sei periodico bianchi di Custoza al bar Piero, o se si preferisce venti pompini da una prostituta albanese chinata sul sedile laterale del suv di proprietà di uno a caso con i pantaloni color aragosta, che tanto non ci sono state mai neppure quelle. A parte le elezioni in cui qualcuno, a turno, dice ognuno a casa loro, e gli altri che stanno in piedi al bancone del bar Piero fanno su e giù con la testa senza parlare, come gli orsetti sul lunotto posteriore dell'auto di mio cugino che fa il taxista a Milano, molto altro non succede nella città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, la Lega in quei giorni diventa particolarmente Lombarda. E anche adesso che sto invecchiando, me ne accorgo dai capelli, li taglio sempre da solo ma ogni volta ho meno lavoro da fare, anche adesso che ho provato un vino francese e non sempre e solo bianco di Custoza, io non ho ancora deciso se acquistare o meno dei pantaloni del colore delle aragoste, tra due fila lunghe e scure di montagne.



giovedì 27 settembre 2018

Zanza, un eroe moderno


Io la conoscevo bene è il titolo di un vecchio film con Ugo Tognazzi e Stefania Sandrelli. Un film bellissimo. E anche io lo conoscevo, certo non bene ma solo di sfuggita, come treni che accostano alla stazione di Bologna per poi ripartire in direzioni opposte, e vai tu a capire quale dei due si stia muovendo per primo...
I nostri treni si sfiorarono trentatre anni fa alla discoteca Blow Up di Rimini, dove, insieme a un amico omonimo, stavamo stravaccati sul bancone a tracannare Gin Fizz (ma che fine ha fatto il Gin Fizz?) dopo aver superato gli esami di maturità per il rotto della cuffia. Ma all'improvviso apparve lui, la camicia nera aperta fino allo stomaco, i pendagli d'oro, seguito da un corteo di donne tutte giovani e carine. Così lo avvicinammo e gli rivolgemmo la parola, volevamo capire cosa facesse esattamente un butta dentro, come amava definirsi per contrapposizione ironica alla più comune professione del buttafuori. Ma mentre quelli sono omoni che cacciano i molesti e gli spacca maroni di ogni sorta, il mio lontanissimo conoscente, ci spiegò con distratta cortesia, col suo metro e settanta scarso di statura, i capelli lunghi e ossigenati e, insomma, la vera bellezza è altrove, intercettava le turiste straniere, per poi trascinarle all’interno del locale. Era però solo la prima tappa, continuò con accento romagnolo. La seconda consisteva nel scoparsele, e stiamo ovviamente parlando dello Zanza, al secolo Maurizio Zanfanti morto a Rimini la notte tra il 25 e 26 settembre 2018. Scopando, se a qualcuno fosse sfuggito.
 Di lui i giornali, le televisioni e il web hanno infatti già detto tutto, soffermandosi sulle modalità pruriginose del decesso. Anche perché, scopare, è quanto aveva fatto per quasi tutta la vita, al punto di guadagnarsi una certa fama compiacente, da strizzatina d’occhio e colpetto di gomito tra maschi. Ma in fondo è quanto capita da sempre: il piacione del bar che enumera le sue gesta amatorie attorno al tavolo del bigliardo; con la differenza che le pareti del Bar Sport qui si allargano all’intera penisola, anzi molto oltre se è vero che anche alcuni giornali stranieri gli hanno dedicato ampi servizi. Die Zanza, der Super Pappagallo von Rimini.
Ricapitolando. Un uomo di sessantatre anni che per tutta la vita non ha fatto altro che scopare – da centocinquanta a duecentoventi donne diverse per stagione, almeno nei tempi belli – muore scopando con una ventitreenne romena. Ma quante volte l’abbiamo già ripetuto questo verbo? Scopare. E temo che dovremo ancora scriverlo, prima di arrivare a un provvisorio congedo dallo spettro italico dello Zanza. Non vedo infatti altra figura che meglio di lui possa ricapitolare lo spirito nazionale; una natura tragica, per nulla gioiosa o giocosa, e ve lo posso confermare dopo aver intercettato la traiettoria del suo sguardo al Blow Up, che si aggirava seguendo il moto fluttuante delle luci stroboscopiche alla ricerca di nuove conquiste. Uno sguardo mite, bonario, perfino dolce e quasi timido, niente a che vedere col mattatore variopinto che metteva in scena. Ma ogni tanto faceva capolino quel suo demone, e come negli occhi di Gatto Silvestro iniziava a girare una scritta: scopare scopare scopare. Anche dopo trent’anni dal nostro incontro, ancora scopare. In auto. Con una ragazzetta rumena. Finché il cuore dice basta.
 Se ne ricava una sorta di loop, una replica infinita che ne circoscriveva e limitava l’azione, che probabilmente avvertiva come la cornice del quadro di successo. Zanza era infatti il pezzo forte della galleria, l’opera ammirata e segretamente copiata da numerosi altri maschi, e che a sua volta lui avrà probabilmente ricalcato, prima di identificarsi totalmente con essa. Ma la ripetizione di un gesto, qualsiasi gesto, in fondo non è tanto importante, è prova certa di servitù, come aveva intuito Hegel nella sua lettura del rapporto tra servo e padrone. Per questo Zanza, più che la figura eroica di Don Giovanni, nemmeno nella variante epica ipotizzata da Milan Kundera - la ricerca in ogni donna di una minima particolarità che solo lei possiede - a me ricorda quella umile e guitta di Arlecchino servitore di due padroni, anzi di infinite padrone che a un tempo soggiogava e onorava con lo scettro del suo fallo, lo possiamo immaginare di oro purissimo incastonato da diamanti rubini. Eppure anche il tesoro che teneva celato negli slip, invece di liberarlo, di renderlo padrone della propria vita, lo imprigionava alla più spietata tra le leggi, la legge del desiderio.
 Desiderio particolare era però quello dello Zanza, un desiderio indifferenziato – Lacan lo chiamerebbe jouissance, godimento – nel quale si rimanda di continuo l’assunzione di una scelta, che al contempo separi dal desiderio di tutti gli altri. E’ infatti con il risveglio progressivo dal sogno dei molti che si può iniziare ad annaffiare la propria unica rosa, e a coltivare la differenza del giardino dalla prateria. Ma è un processo di riconoscimento e selezione, o se vogliamo restare nel gergo della setta psicanalitica di individuazione, un processo che in ogni caso avviene solamente con l’età adulta, e il conformista, il qualunquista, vive nell’eterna condizione di bambino. Questo era dunque lo Zanza, un Peter Pan travestito da Arlecchino. In altre parole un italiano vero.
 Sarà allora con la narrazione o, meglio ancora, con l’interpretazione dell’altro – non una donna ma quella donna, quell'uomo lì – che un rapporto sessuale si stacca dall'orizzontalità della tela e acquista la terza dimensione, ossia diventa cosa umana e non solo gesto tecnico e muscolare. Ma la tragedia della tarda modernità consiste proprio nell’incapacità di iscrivere la vita in un racconto individuale, evitando di copiare il tema dal banco del vicino. E moderno tra i moderni, Zanza è l’eroe tragico del nostro tempo, la cui morte diviene nemesi ed emblema pubblico, monumento. Ma quella porzione, dolcissima, del suo sguardo che si rifletteva nel giallo lattescente del Gin Fizz, conserverò sempre con simpatia. Che la terra gli sia leggera, come a chiunque debba attendere la morte per diventare finalmente ciò che è.


martedì 18 settembre 2018

La femmina non esiste, o sulla partita a calcio tra eros e civiltà


La donna non esiste. Anzi, la femmina, la femme n'existe pas, come affermava Lacan con un sorrisetto sornione, dopo essersi ravvivato la lunga zazzera bianca.
 Una provocazione tra le altre buttata lì, con distratta nonchalance, per vedere di nascosto l'effetto che fa, secondo la felice formula di una canzone di Jannacci? No, per il grande psicanalista francese la femmina non esiste veramente, esplosa nello scontro tra treni che corrono in opposte direzioni. Ma potremmo, magari con tonalità meno drammatiche, dire lo stesso degli uomini, che somigliano a un iceberg dove a emergere è solo la settima parte della massa. Quello è l'Io.
 Sotto, nell'acqua gelida, l’enorme scoglio di ghiaccio si divide in altre due parti distinte, che non sono immediatamente percepite (quindi inconsce) e spesso in conflitto tra di loro. Freud diede a tali istanze psichiche il nome di ES e Super Io, a cui Lacan aggiunse qualche nuance, ma in fondo si attenne a tale schema. Semplificando un poco, non è difficile vedere in esse la sedimentazione interna di esperienze molto comuni. Da un lato abbiamo infatti la specie e dall'altra la società, o se si preferisce e con più precisione: la civiltà.
 Ciò che reclama la specie è unicamente la replica di sé, in una riproposizione infinita dell’identico solo minimamente perfezionato a ogni giro. Siamo insomma ancora dalla parti di Darwin, con l’umanità vista come una dea bendata che si muove un po’ a tentoni. Un cammino accidentato dove non viene premiato il più giusto ma, come si dice, il più adatto, che sarà il più sano, forte, bello, almeno a quel livello lì, che possiamo immaginare come privo di volumetrie. Ed è così che la specie procede per vie cocciutamente orizzontali, del tutto disinteressata a ogni verticalità dello spirito.
 Ci penserà allora qualcun altro a introdurre variabili meno materiali, quali ad esempio il potere, la giustizia, il peccato e la virtù. Questo qualcuno si chiama appunto civiltà, e si occupa della produzione di un’immagine per tutto ciò – chi coltiva rimpianti marxisti può anche chiamarla sovrastruttura, o più burocraticamente codice assiologico. Tra le varie immagini forgiate dalla civiltà vi è naturalmente anche un prototipo del femminile; che non coincide con la donna così com'è, attenzione, ma come dovrebbe essere!
 La donna reale, la femmina in carne e ossa, è tenuta da quel momento ad adeguarsi al modello, pena la svalutazione sociale sotto forma di stigma infamante (puttana, cattiva madre, lazzarona), in seguito interiorizzato per il tramite di abili stratagemmi, tra cui quello religioso. Il senso di colpa sta in fondo tutto qui, come anche il complesso di inferiorità – ho le tette troppo piccole, ad esempio. Ma rispetto a cosa? Semplice: alla donna che dovrei essere.
 La sostanziale differenza tra uomini e donne sta nella maggiore divaricazione, per le donne, tra le richieste della civiltà e quelle che provengono dalla specie. Negli uomini vi è al contrario più allineamento, forse perché la civiltà è stata creata dagli stessi maschi, e non ostacola il piacere maschile al servizio della specie. Ma vediamo come ciò sia stato possibile.
 In Occidente l'invenzione del femminile ha seguito diverse fasi, ma l'esito più influente, e tutt'ora operante, nasce nelle corti provenzali attorno all'anno mille. Sono stati i poeti a sillabare il femminile moderno per la prima volta, quindi a precisarlo, a infiorarlo con caratteri eterei e rarefatti che scontavano un eccesso di idealizzazione, e ciò per via del fatto che quella donna il più delle volte non era accessibile; non era insomma la loro fidanzata o moglie, ma la moglie di qualcun altro. Donna angelicata, dunque, perché dalle mani che vorrebbero afferrarla vola via verso la testa, dove lievita nel sogno a occhi aperti.
Una genealogia condivisa con il sentimento amoroso, così come mostrato da Denis de Rougemont nel suo capolavoroL'amour et l'Occident. Il problema è che l'altra parte immersa, quella che fa capo alle specie, possiede idee del tutto differenti su ciò che debba essere una femmina, ed è qui che si precisa l'enigmatica sentenza di Lacan. La femmina non esiste perché, nella nostra tradizione almeno, la sua immagine pubblica è stata generata da maschi adulti e desideranti, che non hanno però tenuto in alcun conto delle esigenze concrete che fanno tana nel corpo di una donna. Tra cui la principale è riprodursi sessualmente, seguendo gli appetiti del tutto diversi della specie.
Sarà allora nel conflitto tra specie e civiltà che la donna smarrisce definitivamente la sua esistenza, già che le due voci sono difficilmente compatibili: o ascolta le sirene letterarie dei poeti provenzali, e diviene sempre più disincarnata, astratta e tanto buonina, come Lupo de Lupis, oppure condiscende i richiami del suo ventre, che la portano a celebrare la specie a danno della civiltà che ne ha prodotto l'immagine.
Nella grammatica lacaniana possiamo vedere contrapporsi queste forze attraverso due altre nozioni, quella di immaginario e di simbolico. Nella prima il femminile coincide ancora totalmente con la femmina biologica, e il desiderio non subisce il limite della legge di castrazione, che come noto è la categoria psicanalitica fondante: non cercare l'intimità con il corpo della madre, pena l'evirazione da parte del padre.
Una legge che solo in seguito, con l'accettazione e incorporazione del simbolico, ossia non solo del limite ma anche delle forme, delle strutture positive che il limite viene a prendere nell'incontro con il linguaggio, solo in seguito, dicevamo, può agire dall'interno, trasformando attraverso l’interiorità psichica la femmina in donna. Ma l'elemento femminile o, meglio ancora, sessuale, nella donna non può mai venire superato e risolto in immagine pubblica e virtuosa, pena la vanificazione della specie.
Non sarà finissimo, ma nemmeno una forzatura individuare l'ambiguità di questa condizione in una diffusa pratica erotica, in cui l'oscillazione del significare prova a coniugare gli opposti, senza mai trascenderli in dialettica. E si tratta ovviamente della fellatio. Nell'accostarsi al fallo maschile, la donna, infatti, sembra onorare l'oggetto simbolico per definizione, nel gesto genuflesso e subalterno del suddito che bacia lo scettro del sovrano. Ma invece cosa fa, non arresta le labbra alla superficie, non si ferma allo smagliante luccichio dell’oro zecchino o ai diamanti che ricoprono l'asta della Legge, ma affonda la sua bocca fino a incorporarla, a sbranarla, evirando idealmente il maschio e facendo proprio il suo potere, assieme al seme della vita che reclama tutto per sé.
Da questa immagine vietata ai minori di diciotto anni, si potrebbe provare a sviluppare ulteriormente l'intuizione di Lacan. La donna, in quel momento, esiste e non esiste allo stesso tempo, come la particella quantistica nel celebre principio di indeterminazione di Heisenberg. Nel nostro caso, attribuiremo il collasso della funzione d'onda a un osservatore esterno che coincide con l'intera storia umana, come un enorme occhio in cui oscillano le pupille di tutte le persone venute al mondo, portando la particella subatomica a dover scegliere tra eros e civiltà, tra specie e società, in un'infinita fellatio dagli esiti mai conclusi. Quindi attenzione, quando una donna si china su di voi…
Certo, ci sono state epoche, come l'Ottocento vittoriano, in cui la specie sembrava stesse per capitolare a vantaggio della civiltà, e le produzioni astratte e culturali, gli ideali di grazia, di bellezza, informavano delle loro invenzioni le smanie sommerse della vita. Ma ora le cose non stanno più a questo modo, e anche le donne, come gli uomini, come le baccanti di Euripide, si stanno liberando della gabbia simbolica della civiltà. Ed è il ritorno del rimosso o, più prosaicamente e di frequente, lo smuoversi del capriccio: una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte: ferma restando la salute, come ammoniva Nietzsche dalle pagine dello Zarathustra.
Nel dispiegarsi di un desiderio senza più il limite contenitivo di alcuna legge, le donne, le femmine, le indeterminate di genere femminile, hanno così iniziato a sbarazzarsi di quegli orpelli che erano stati cuciti loro addosso dalla civiltà, stracciando le pudiche gonnelline a riparo delle gambe oscene dei comò. Abbiamo quindi assistito a un'evirazione su larga scala, via, a morte tutto ciò che prova frapporsi tra le donne e il principio puro del piacere, e non possiamo non riconoscere che si siano riprese ciò che era loro. E’ come una partita di calcio in cui, dal 1968 in poi, la specie è in vistosa rimonta sulla civiltà, che ormai vaga in campo del tutto attonita e incapace di reagire.
E allora bye bye femmine angelicate, Laure, Beatrici, adesso le donne non ricercano ideali estetici o morali, ma estratti conto belli grassi. Oppure cartelle cliniche che certifichino una sana e robusta costituzione, per vivere in un eterno presente fatto di bellezza, forza e gioventù, da coltivare con cure estetiche e sfiancanti sedute di stepping in palestra. Ma è un minimo corredo che richiedono, anzi reclamano anche e soprattutto nei maschi, in una perfetta e realizzata democrazia del desiderio: ci volete fighe per gratificare, oltre al vostro uzzolo, la specie di una progenie degna del dott. Mengele, e noi vi vogliamo fighi. Tutto il resto non ci interessa. Facciamocene dunque una ragione, tanto già sappiamo che la femmina non esiste...

domenica 9 settembre 2018

Perle ai porci, o sul fantasma di seduzione


C'è una famosa massima che personalmente e da sempre detesto. Negli ultimi tempi sto però iniziando a conciliarmi, fuochino direi se si trattasse di un indovinello, se non proprio fuoco, fiamma, incendio. Non dare perle ai porci, dice la massima che detestavo e ora detesto un po' meno.
 In realtà è un precetto evangelico, sta in Matteo, capitolo sette, paragrafo sei, e nella sua forma estesa recita: "Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi."
 Ma anche nella bella lingua di Matteo, tersa come un laghetto svizzero, continuava a sembrarmi un'affermazione un po' azzardata e tronfia, addirittura presuntuosa. Io sono la conchiglia che produce la perla, tu il porco. È evidentemente questo l'aristocratico contenuto che ci vuole comunicare Gesù.
 E invece no.
 Il monito, mi sono accorto in seguito, funziona anche se viene cambiato di segno. Non dare porci alle perle. Nemmeno sotto forma di prosciutto, speck, mortadella di Bologna. No grazie, ti risponderebbe comunque la perla.
 Il senso della frase, o perlomeno quello che parla a me, insegnandomi qualcosa di prezioso come una perla, smette dunque di essere tu vali più degli altri, non mescolarti alla plebe allo stesso modo in cui le cose sante non vanno mescolate a quelle profane, pena il rischio di venire sbranati. E’ infatti solamente uno dei possibili significati, e a ben vedere tra i meno interessanti.
 Bisognerebbe allora frugare alla ricerca di un messaggio più recondito. Che potremmo magari individuare in un avvertimento, più che in un diktat. Quello di guardarsi dalla convinzione ottimistica di poter stabilire, sempre e comunque, una relazione tra le cose. Prova a versare dell'olio dentro l'aceto, ogni tanto capita di sbagliare nel fare il rabbocco alle oliere. Ma poi, cavolo, vedi una macchia giallastra e unta galleggiare in superficie! Non si integrano, è pura chimica.
 Allo stesso modo esistono delle linee invisibili che impediscono agli esseri umani di integrarsi. O per lo meno ci vuole sforzo, tempo, cultura. Anche un poco di vocazione. E non è detto che tutti abbiano tale affinità, oltre al tempo e alla voglia di compiere lo sforzo. Quanto alla cultura, lasciamo andare…
 Ho così imparato, pian piano, all'inizio non è stato semplice, a riconoscere le linee di confine. E quando ora vedo l'ombra di un filo spinato – e a guardar bene si vedono sempre, basta socchiudere gli occhi e usare il naso come antenna – non cerco di tagliarlo. Nemmeno per mezzo di quella cesoia che chissà perché chiamiamo dono. Ma tra le lame si nasconde, come sotto un lenzuolo candido, un vecchio fantasma. E come tutti i fantasmi non vuol decidersi a morire.
 E’ il fantasma dell’io. Io sono, io voglio, io che per essere e volere provo a sedurti. E la prima richiesta di un seduttore è sempre: amami! Dovete amarmi tutti, guardate come sono buono continua a strillare il fantasma, mentre porge il suo bel dono infiocchettato.
 In molti casi sarebbe però come donare perle ai porci, sì, ormai l'abbiamo compreso. O porci alla perle, fate voi. Per quel che mi riguarda io ho già cambiato lenzuola al letto, e deciso di farci una bella dormita sopra. Possibilmente in compagnia: ma non di tutti!


sabato 8 settembre 2018

Giulio Mozzi, o sull’antipatia come stile letterario

Giulio Mozzi è un bravo scrittore. Ma forse dovrei mutare il tempo verbale, già che Giulio Mozzi, pur continuando a essere bravo in ciò che fa, da molto tempo non scrive più. Narrativa, almeno. Eppure il suo semplice ma puntiglioso registro sintattico, dal tono un po’ introverso che vira spesso nello stralunato, per raggiungere bizzarre e inquietanti epifanie con ritmo sempre più lento, bradicardico, e però implacabile come la pedalata di Fausto Coppi, tutti questi elementi sono ancora riconoscibili in ciò che pubblica. Testi perlopiù legati alla sua attività editoriale – prefazioni, ad esempio, quarte di copertina – o di animatore culturale sui social network, dove si dedica con successo alla didattica narrativa. Ma come potremmo chiamare questa felice costellazione di segni, che vanno a formare un vero e proprio stile?
Ci ho pensato un po’, e alla fine continua a tornarmi un’espressione che avrei magari preferito evitare, vista la grande stima che provo verso l’autore padovano: lo stile, alla Mozzi, è quello dell’antipatia.
Provo a spiegarmi. Prima della comparsa, intorno alla metà degli anni novanta, degli scrittori della generazione di Giulio Mozzi, in effetti non era così. Pensiamo al caso emblematico di Baricco, che pur avendo quasi la stessa età di Mozzi ha raggiunto il successo con anticipo. In ogni cosa che scrive o, più in generale, che fa, compreso soffiarsi il naso e arrotolarsi le maniche della camicia, sempre e rigorosamente bianca, Baricco cerca di essere simpatico. Ad esempio utilizzando un idioletto giovanile di derivazione salingeriana (Holden, non a caso si chiama la sua scuola di scrittura), ammiccando al lettore, sorridendo e ravvivandosi la folta chioma con mani che seguono a braccia sempre nude, per via delle maniche ravvolte della camicia bianca di cui sopra. Baricco, insomma, mette simpatia in tutto quello che fa, e il fatto che a molti sia antipatico è forse perché ce ne mette troppa…
Bene, prendiamo Baricco e facciamogli fare tutto il contrario – via la camicia bianca, i boccoli, il sorriso sornione, la zeppola, i monologhi compiaciuti e i dialoghi buffi, via anche e soprattutto lo slang giovanile misto a citazioni dotte –, e abbiamo Giulio Mozzi. Uno scrittore antipatico, ma davvero tanto antipatico a partire dalla postura del corpo nelle foto che lo ritraggono (le mani conserte abbondano), fino al modo pedante e brusco con cui risponde agli interlocutori. Ricorda, in questo, certi nostri insegnanti di religione quando venivano incalzati dalle obiezioni ingenue degli alunni. Ma come, sembravano comunicare con la loro aria pretesca, io parlo tutti i giorni con Dio e tu al massimo col poster di Chinaglia, che cazzo voj capì…
Eppure questa sua antipatia sempre un po’ burbera e ironica – sì, si può essere burberi e allo stesso tempo ironici – alla fine conquista il lettore, che è avvinto dal suo particolare modo di periodare per spirali avvolgenti e immaginifiche, come un boa che parte dai piedi per raggiungere infine la testa, in cui il ragionamento si distilla quasi sempre limpido e chiaro. E’ forse tutto qui, lo stile alla Mozzi: togliere quando ti aspetti che uno metta, e mettere, continuare a mettere, ma non ha ancora finito? quando ti aspetti che uno tolga. Uno come Baricco, almeno
Per molto tempo i giovani scrittori italiani alla ricerca di una lingua che ne rendesse riconoscibile la voce, hanno guardato proprio a lui. Baricco. Essere simpatici, a tutti i modi, leciti e illeciti, diventò dunque la loro strategia retorica. Ora però mi sembra che le cose stiano cambiando. Più che dai romanzi, me ne accorgo dagli interventi rilasciati a getto continuo sui social network. Da baricchiani – leggi, simpaticoni – gli scrittori si stanno infatti trasformando in mozziani – leggi, antipaticissimi. Non tutti, naturalmente, ma la percentuale mi sembra significativa, e merita forse una riflessione supplementare. Proviamoci.
Io trovo che la simpatia somigli alla felicità. Tolstoj l’attribuiva, nel perfetto incipit di Anna Karenina, alle famiglie con poca fantasia, già che “tutte le famiglie felici si somigliano”. Così mi pare che anche gli scrittori simpatici al fondo si somiglino, e questo è in qualche modo naturale. Al contrario, l’antipatia si basa su una particolare forma di differenza, non si può essere tutti antipatici allo stesso modo, pena l’uscita dall’antipatia per entrare in un diverso sentimento. La noia. Secondo lo stesso schema tolstojano, l’antipatia ricorda piuttosto l’infelicità, per cui ogni famiglia infelice – continua nel suo capolavoro lo scrittore russo, non troppo simpatico neppure lui – è disgraziata a modo suo. E così lo dovrebbe essere ogni antipatico, che deve trovare il modo di differenziarsi non solo dai simpatici, come hanno saputo fare Tolstoj e Giulio Mozzi, ma da tutti gli altri antipatici.
Se da lettore non provavo particolare entusiasmo nell'imbattermi in tutti questi scrittori simpatici, avverto dunque un imbarazzo persino maggiore quando adesso leggo dei testi scritti alla maniera di Giulio Mozzi. Va bene, siete corrucciati, tortuosi, attraversati da travagli metafisici e pure un po’ stronzetti (Mozzi sa essere generosissimo, per inciso e a differenza vostra), ma la ripetitività di questa postura mi allontana dalla pagina. Con Mozzi, quello vero, con il bollino blu come la banana Ciquita, non è stato così, dal momento che la sua antipatia possedeva un tratto inaugurale. Da cui la sensazione, vivificante, di mostrare le cose da un punto di vista alternativo, dove a essere illuminato era il lato oscuro della luna di Baricco.
Ora però l’effetto sorpresa si è esaurito e prevale una vaga percezione di fastidio, come quando il tormentone dell’estate precedente viene riproposto dal disc jockey poco esperto. In anni ancora recenti si è sperimentato qualcosa di simile con l’espressione signora mia. Promossa, con estrosa mimesi, da Arbasino, e poi finita in logoro cliché neoavanguardistico. No, non se ne può più di signora mia, signora mia basta! E così pur continuando a considerare Giulio Mozzi un antipatico di talento, comincio a non poterne più dei suoi numerosi cloni, che spadroneggiano sempre un po’ scostanti e presupponenti sul web, anche in versione femminile. Ridatemi piuttosto Baricco e la sua innegabile simpatia, se non riuscite a darmi la vostra unica e insostituibile voce.


venerdì 7 settembre 2018

200, o sui popoli e le parole

L’italiano è una lingua che comprende circa 250.000 vocaboli. Tanti, pochi… Beh, il francese arriva a malapena a 100.000 e l’inglese a quasi 500.000; senza naturalmente contare il linguaggio tecnico, difficilmente quantificabile. Stiamo insomma in una condizione intermedia, che non tiene però conto della presenza, nella nostra lingua, dei diminutivi e dei vezzeggiativi, i quali incrementano il lessico in modo significativo e l’inglese non contempla. Ad esempio casa, casina, casetta, casupola, casotto, casona, casaccia… E siamo già a sette, per una sola radice.
Ma ci serviranno poi davvero, tutte queste parole?
Nel 1976 deve esserselo chiesto anche Tullio de Mauro, e ha così indagato la competenza linguistica di un ventenne tipo; non di un bracciante lucano, per intendersi, un ragazzo che ha seguito studi regolari, senza magari brillare. Dopo aver campionato oltre 50.000 giovani italiani, ha concluso che il numero di vocaboli padroneggiati si aggirava intorno a 1600. E sembrano pochissimi, lo 0,6% del totale, al punto che dopo vent’anni a Tullio de Mauro sorse probabilmente qualche dubbio – mi sarò sbagliato? – e rifece l'indagine. Con suo stupore, il numero era però sceso a 640. Ma poco prima di morire, nel 2017, il famoso linguista si mostrò ancora più pessimista, e a un intervistatore dichiarò che il capitale lessicale dei ragazzi si era a suo avviso ridotto ulteriormente, lo stimava ora attorno ai 200 vocaboli. Duecento, ho riletto bene, non ci credevo, e cosa ci fai con duecento vocaboli?!
Ordini un panino da McDonald's, d’accordo, ma mi raccomando non gli si chieda se desidera salsa tartara oppure tabasco, già che il ventenne 2.0 conoscerà al massimo la parola maionese o se va di lusso ketchup; non ci scommetterei però, probabile che chiami quest’ultima salsa rossa. Quindi avrà in memoria qualche termine elementare, quelli che ti fanno studiare alle prime lezioni dei corsi di lingue – il cane è sotto il tavolo, il libro è sopra il tavolo – e davvero poco altro. Di leggere un giornale, con duecento vocaboli, non se ne parla proprio, tutt'al più ci fai un cappellino di carta. A stento riesci a comprendere il telegiornale, ma giusto perché ti aiutano le espressioni del viso del conduttore e il suo tono di voce, oltre alle immagini del servizio. Poi basta, finita qui.
Dunque totale incapacità di dar forma verbale alle proprie emozioni, e a maggior ragione di sviluppare un pensiero civile, collegando fatti concreti a principi etici astratti e generali; ma bisognerebbe conoscerlo l’aggettivo etico, anche in forma di sostantivo, che dubito essere presente nel minimo corredo lessicale dei nostri cuccioli. Allo stesso modo della parola afasia, la cui a privativa impedisce alla voce di articolarsi in forma, e quindi in senso. Quel che rimane è il suono introverso e gorgogliante di certi frigoriferi nel cuore nella notte, che sembra vogliano dirci qualcosa. Ma quando infine ti alzi, li raggiungi, ok, dimmi, cosa c'è, ci trovi solo il Tetra Pack di un succo di frutta aperto, da cui prendi una sorsata prima di tornare a letto ciabattando.
Un filosofo austriaco del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein, avrebbe chiosato il tutto con un suo celebre motto: the borders of my language are the borders of my world. Sì, i confini della mia lingua sono i confini del mio mondo. Il problema è che i confini della lingua dei ragazzi che incontri quando prendi l’autobus, il tram, o in ascensore come quel tipetto col ciuffo che scende sempre al terzo piano e ti sfila davanti ascoltando musica con le cuffiette del telefonino, i confini linguistici anche di tuo figlio e di tuo nipote sono diventati piccoli, ormai ben più piccoli di quelli geografici, tanto che non riescono neppure ad avventurarsi oltre la soglia del proprio gruppo su un social network. Mi spiegava un amico che ora Instagram sta spodestando Facebook, già che non c’è nemmeno più bisogno di scrivere “ehi raga come butta”, basta postare una foto con espressione tra il languido e il corrucciato e attendere il fiorire dei consensi.
Fosse anche solo per questa ragione, se ne ricava che l’immigrazione da altri paesi non è più arrestabile, perfino quella cosiddetta selvaggia. Ma siamo sicuri che sia una brutta notizia, e non ci convenga invece fare come i banditori dei circhi che spuntano in provincia a primavera, insieme ai primi giaggioli? Massì, venghino siori, venghino, le gabbie sono aperte ma pochissimi gli animali autoctoni che abbiano il sacrosanto impulso della fuga. Lo sapete, ad esempio, quanti caratteri, non vocaboli, dico proprio caratteri, contiene la lingua cinese? Ve lo dico io: 56.000. Certo, anche loro non li conoscono tutti, ma è stato stimato che un bambino cinese di sei anni padroneggia già 2.500 caratteri, che salgono a circa 3.500 nell’adolescenza, e cioè a un’età equivalente a quella in cui i somari italiani arrivano a stento a 200 parole. Per non dire degli africani che sbarcano qui già parlando due o tre lingue (francese, inglese e quella del paese di provenienza), a cui si aggiunge in breve tempo l’italiano, con una quantità di termini che di certo supera la taglia nostrana. Un'extra small, naturalmente.
Nella sequenza di un film dei primi anni sessanta, Pasolini faceva pronunciare a Orson Wels una desolata considerazione sullo stato deisuoi connazionali – “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” –, ma cosa dovremmo dire adesso? La contrazione linguistica in corso ci porta a dover appaltare ad altre voci il nostro Paese. Qualcuno, magari proprio quell’Ali dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli che invocava lo stesso Pasolini in una lirica tardiva, qualcuno che sappia ancora dire mare, costa, chiesa, basalto, tripode, bellezza. Soprattutto bellezza.
Uomini e donne dunque, che insieme fanno bambini 
 non solo figli unici  e i bambini parole. Non importa chi e quale sarà il colore della loro pelle, ma bisogna fare presto. Dai navi allora, gommoni, remi, presto! A sbarcate altri popoli alle prime luci dell’alba, gente ossuta intrisa di salsedine, in quel silenzio che non è fine ma principio, inizio di ogni vocabolario. Perché prima di parlare, prima della voce, vengono i denti, per mangiare oppure per mordere. Non importa. Nemmeno se saranno barbari, cinesi, guerrieri masai o arcieri ostrogoti. Venga chiunque abbia ancora parole per nominare le cose, già che i nostri figli, le stesse facce ottuse delle madri,  quando escono rilassate e sempre più belle dal corso di yoga, la stessa Fred Perry dal collo rialzato presa dall’armadio di papà, non le sanno più dire.


mercoledì 5 settembre 2018

Calcio e filosofia, o sui travestimenti del nichilismo



La figura del tamarro, da macchietta diffusamente collocata nelle periferie urbane del nord Italia, per virare a Roma il suo nome in coatto, con Maradona, negli anni ottanta, guadagna il riverito centro della scena pubblica, inaugurando l'inversione sociale delle polarità esterno e interno. Quel che prima stava all'esecrato margine del giudizio, diventa così accettabile e perfino virtuoso. 
Più tardi è il turno di Bobo Vieri, il quale assume la stupidità irriverente e baldanzosa – un tipo umano che alle medie era incarnato dal pluriripetente, lo si può visualizzare appoggiato allo stipite della porta dei bagni con una Marlboro che pende spenta al lato della bocca – per convertirla in nuovo modello di comportamento giovanile, di cui passerà in seguito il testimone a Mario Balotelli. Ora è il turno dello sdoganamento del narcisismo, attraverso la tartaruga addominale di Cristiano Ronaldo, e dell’anaffettività introversa e un po’ tignosa, che con tutta evidenza ci comunica l’espressione vacante di Leo Messi.
Potremmo dire che il calcio sia il moderno lenzuolo con cui si traveste il fantasma tardo ottocentesco del nichilismo; Nietzsche lo faceva coincidere con la trasvalutazione di tutti valori, aggiungendo che con ciò si realizza la “vittoria della morale degli schiavi”. Non è difficile, lo sport rende la filosofia molto più semplice e accessibile: Maradona, senza il calcio, sarebbe rimasto una sorta di schiavo del sistema di produzione post industriale, confinato in un barrio vagamente equivoco di Buenos Aires, dove si sarebbe prodotto in spacconate sempre più logore e autolesionistiche. E così Messi, Vieri, Ronaldo, Balotelli. Tutte persone che, per ambiente familiare, cultura, atteggiamento, in una società tradizionale verrebbero confinate all’orlo irrilevante della vita, e ora invece ne guadagnano la piazza centrale. 
Se ne ricava che il calcio rappresenti l’ultima utopia rivoluzionaria sopravvissuta agli scossoni della storia, in grado di trasformare il rospo in principe, e il brutto anatroccolo in cigno.
Ma a questo primo dato umanamente progressivo – in fondo il talento e l'estro calcistico non si ereditano per continuità dinastica –, si accompagna un effetto perlopiù trascurato. Con il loro esempio amplificato dai ripetitori televisivi e largamente seguito, o meglio inseguito, senza venire mai raggiunto, i nuovi miti sportivi trasformano infatti anche l’idea platonica di cigno e di principe, sempre più simile a un rospo. Facendo passare l’illusione che non solo ogni scarafone sia bello a mamma sua, ma bello in quanto scarafone, e ogni rospo abbia così diritto a una principessa. Cosa purtroppo non vera.

Calvizie, o sulla memoria a lungo termine


Nei film storici dei secoli a venire, ammesso che di film si possa ancora parlare, verremo rappresentati, non senza un'affettuosa ironia, come l'ultima generazione con gli occhiali da vista e i capelli radi e incanutiti o, peggio, la tonsura clericale da calvizie, prima della scoperta di una cura definitiva a queste arcaiche patologie. Non vedo molte altre ragioni per essere ricordati.

Parla come mangi, o sulla superbia

Esistono due forme di superbia, me ne convinco ogni giorno sempre più. La superbia dei superbi, che cercano di schiacciare l'interlocutore dall'alto, o da un luogo che presumono tale – linguaggio volutamente tortuoso e incomprensibile, esibizione di uno status superiore, soppressione di ogni concessione empatica –, e la superbia dal basso, attraverso cui si nega ad altri ogni sforzo di elevazione, zavorrando il rapporto alla misura del "parla come mangi". La cultura del populismo, che ha nell'idioma romano la sua lingua veicolare (ahò, sti cazzi, anvedi…), si fonda su questa seconda variante della superbia: la superbia dei modesti. Curioso ossimoro con cui non solo si sgonfiano, benemeritamente, i palloni troppo gonfi, ma si vorrebbe riportare anche ogni aquila alla misura di un tacchino, perlopiù riuscendoci. Almeno nella nostra epoca, che è una delle più superbe di sempre.

martedì 4 settembre 2018

Happy wedding o vaffanculo...? Parliamone, con Andrea Colamedici


In oltre dieci anni non mi era mai successo: un confronto di opinioni contrarie in cui non finisse col prevalere l’aggettivo, a scapito del sostantivo. Non sul web, almeno. Uno scambio che non termini in rissa, caciara e insulto, o ancora più di frequente aristocratico e muto sdegno, secondo quel principio di ir-responsabilità già individuato da Giorgio Agamben, il quale lo fa risalire all’avvento della comunicazione mediata dalla tecnologia. Appropriandosi di un'intuizione dell'amico Pasolini, il grande filosofo romano parla addirittura di mutazione antropologica, in cui a essere venuto meno è una sorta di “giuramento tacito tra i parlanti”, che nelle comunità storiche vincolava gli interlocutori a una risposta sempre e comunque dovuta all'altro. Ora, con tutta evidenza, non è più così. E’ cambiato il galateo della comunicazione. Siamo cambiati noi.
Mi è però capitato ieri – conversare da posizioni antitetiche senza sbranarsi o ignorarsi, per quanto neppure convergere in una pigra dialettica degli opposti –, e benché dovrei avere ormai imparato che una rondine non fa primavera, l’attualità del tema mi suggerisce di ripubblicare qui l’intera e conversazione. Che nasce dal seguente post su Facebook dell’editore e filosofo Andrea Colamedici, a commento del matrimonio tra Fedez e Chiara Ferragni:

Cari spin doctor e finissimi strateghi, voi che cercate idee per risorgere e mettere al mondo discorsi nuovi, coinvolgenti e affascinanti, che spazzino via la rabbia, il risentimento e l’odio tra esseri umani: studiatevi Chiara Ferragni. Passate qualche giornata ad analizzare il suo matrimonio con Fedez, a guardare tanto i numeri (di persone coinvolte, di sponsor, di ricadute economiche) quanto la sostanza: di cosa è fatto quel matrimonio? Di felicità, di festa, di spensieratezza, ma anche di cazzeggio, di gioco, di estetica, di studio. Una narrazione perfetta che ha fatto dimenticare a tutti per tre gironi di seguire la linea del risentimento. Implementate quel sogno nei vostri ideali e li vedrete brillare. Senza l’entusiasmo e il desiderio non c’è speranza. Perché soltanto il tempo della festa e dell’insurrezione, come spiegava Furio Jesi, può opporsi alla religione della morte.

Commento, tra i molti, di Guido Hauser:

Trovo questo post vagamente equivoco, in particolare per la confusione, per dirla con Lacan, tra il piano del simbolico e quello dell'immaginario. Ciò che qui viene detta, implicitamente spregiandola, "linea del risentimento", contiene infatti un seme fecondo di realtà; fecondo perché in grado di maturare dal puro risentimento, emotivo e dunque sterile, al riconoscimento del conflitto, da cui derivare un gesto a cui seguano altri gesti, un sasso che squarci la tela opaca del consenso, o ancora meglio un comportamento strategico e finalizzato. Al contrario, nel matrimonio spettacolare o, più propriamente, spettacolo matrimoniale tra la Ferragni e Fedez, il simbolico inteso quale codice da cui ogni potere trae la sua occulta legittimità, è messo già da subito fuori gioco, lasciando definitivamente posto all'immaginario, al sogno, la rêverie. Che coincide con una delle mitologie più arcaiche e fruste: la ierofania laica tra la bella blogger che si è fatta tutta da sé, come si dice dal basso, e il principe altrettanto bello e famoso e partito dal nulla di una periferia, per iscrivere i suoi tatuaggi nell’Olimpo della rappresentazione. Ma l'emozione fa velo a una struttura sottostante (e rieccolo il potere, il simbolico…), che, come nell’eccezione del carnevale, ratifica l’ordine feriale, già che la trasgressione celebra immancabilmente qualche regola. Nel caso quella di un presunto precetto ontologico, prima ancora che sociale, per cui ciò che sta sopra deve rimanere separato da ciò che sta sotto, i belli dai brutti, i vincenti dagli sfigati, nella neolingua trionfante anche detti "comunisti". E chi insegnò a smascherare questa macchina mitologica (sempre propizia al potere) fu proprio Furio Jesi. Qui citato, sia detto senza polemica, un po' a sproposito.

Risposta di Andrea Colamedici:

Vedi, potrei risponderti specificando che il reale è un'effrazione e quindi non si può dire, a differenza del simbolico e dell'immaginario, e da qui mille altri saltimbocca che rasserenerebbero la mia e la tua elucubrazione. Però ti dico: dai un'occhiata alle stories di Chiara Ferragni. Poi dai un'occhiata alla comunicazione intellettuale, politica, letteraria italiana e ti accorgerai di come, a brevissimo, di Lacan e Jesi non resteranno neanche le nostre citazioni a sproposito, se qualcuno non si prende la briga di uscire di casa e accettare la sfida.

Guido Hauser:

Andrea, come ho scritto io la penso diversamente, all’opposto proprio. Non credo, insomma, che il punto sia intercettare e quindi far lievitare l'emozione popolare; per dirigerla, magari, in una direzione alternativa e virtuosa. Ce ne sono già fin troppe, di emozioni. Ce ne sono ovunque. Ed è pericolosissimo cercare di fare i pifferai delle emozioni altrui, almeno quanto impastare torte con il lievito della mitologia, non a caso De Angeli... Ed è lo stesso tentativo magico di Topolino apprendista stregone, il quale finisce con l’allagare tutto utilizzando delle scope vivificate (da cosa? Ma dall'emozione fantastica, naturalmente) per trasportare secchi colmi d’acqua. Asciugare piuttosto, far decantare l'emozione come un attore al culmine drammatico di una messa in scena brechtiana. Se poi mi dici che, oggi, con Brecht si perde e con Fedez Ferragni si vince, sono d'accordo. Ma in questo io sono hegeliano, e tra vincere salendo sul carro emotivo (e immaginario) di Fedez o aspettare il prossimo tram, io aspetto il tram. Fosse anche quello su cui viaggia Godot…

Andrea Colamedici:

Guido, è che a forza di rinnegare le emozioni ci giochiamo i sentimenti. D'altra parte resto un platonico, anche se tradito: i miti s'hanno da fare, non c'è scampo. Platone si accorse che il suo mondo stava crollando perché i miti/colonne che aveva intorno erano pieni di crepe. Costruì (inventò) quindi altri miti, più robusti e altrettanto immaginari. "Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre", scriveva a proposito Sallustio. C'è da guardare al non avvenuto non perché accadrà (non accadrà), ma perché è. Buonanotte!

Guido Hauser:

Concedendo, con un po' di generosità, a Fedez e Ferragni un sentimento vero, spuntato non si sa bene come nel bouquet di cartapesta che ci mostrano orgogliosi e commossi, credi che per le altre decine di migliaia di persone coinvolte nel e dall'evento, davvero si possa parlare di sentimenti e non di emulazione degli stessi, secondo lo schema nietzschiano che porta a distinguere tra desiderio e vogliuzza ("una vogliuzza oggi, una vogliuzza domani, fermo restando la salute")? Io penso, ecco, che tu abbia semplicemente utilizzato una metafora poco felice, o se preferisci un mito degradato. Se ce ne sbarazziamo e torniamo alle parole nude e crude, forse le nostre posizioni potrebbero riavvicinarsi, se non ancora convergere. Ad esempio, invece di emozioni o sentimenti, apriamo il vocabolario alla parola passione, che io trovo estremamente realistica, per nulla immaginaria o mitologica. Lo stesso realismo che faceva dire a Sartre: "passione è patire l'altro, è la consapevolezza che la nostra possibilità di trascenderci è legata alla libertà dell'altro". Passione, libertà e autotrascendimento. Queste sono dunque le tre parole che io butto sul piatto, come il giocatore di poker che invece di lasciare rilancia. E che davvero fatico a coniugare con il matrimonio show di questi giorni… (Buonanotte a te!)