mercoledì 29 aprile 2020

Imagination



Più di tutte mi piacciono quelle donne con cui, fin da subito, mi basta il modo in cui si annodano i capelli con una matita, la scelta dei fiori da piazzare su un abitino color cobalto, avverto intimità. Se dovessi trovare un correlativo oggettivo al termine, troppo astratto, intimità, direi il gesto di ridere assieme: del modo in cui un tizio in canottiera osserva gli altri per vedere se osservano i suoi bicipiti; o magari della tosatura da punk di un barboncino, e di quella da barboncino di un punk; e poi ridere rallentando in auto, apposta, sempre più piano, mentre una stronza con la Mini continua a suonare per passare; e vai, vai, vai a farti fottere! Ma ridere soprattutto di noi, già che il sotto testo di ogni risata è stiamo dalla stessa parte, ma con mitezza, senza bisogno di vigorose pacche sulle spalle, lasciamo volentieri ad altri lo stemma di affiliazione a un club, un clan, fosse pure il biscione di una squadra di calcio da appuntarsi sul bavero della giacca, una parte che è sempre un po’ ammaccata. La sensazione è che già dall'inizio – e spesso lo è per davvero, io tendo a essere una frana fin dal primo appuntamento – fossero già manifeste tutte le mie imperfezioni, piccole manie, paure, défaillance sessuali, e lo stesso per la donna che ora si è tolta la matita dai capelli e scarabocchia qualcosa sul tovagliolo di carta del bar di una stazione ferroviaria; forse è una caricatura del mio naso, come a tutti i vecchi continua a crescere. È come, ecco, se già fossimo degli ex, ma pur conoscendo il finale scelgono ugualmente di rivedere il film, senza giudicare gli errori del regista; penso a chi, all'uscita dal cinema, come prima cosa ti dice uhm, la fotografia era un po’ sovraesposta, la colonna sonora extra diegetica, il doppiaggio… Sì, ma il film ti è piaciuto o no? L’unica differenza è che l'abisso di lacune è qui soltanto immaginato; troppo facile immaginare la bellezza, o l’indurirsi di un capezzolo allo sfioramento della mano; e immagino anche questo, sia chiaro. E poi immagino che tutto sia finito: la paura, il lockdown, lo scrivere pensieri un po' a casaccio da condividere con degli sconosciuti, avendo così l'illusione che in quel che faccio ci sia del vero. Immagino che quella donna esista davvero. E abbia fatto un fischio – una donna che sa fischiare... – per ordinare altre due Vodkatiny al cameriere, la bevanda preferita da James Bond. Mi immagino immaginare, come il tizio in canotta con i suoi enormi inutili bicipiti.



martedì 28 aprile 2020

Achtung!


Ho finalmente compreso il motivo della mia subentrata avversione per i no vax. Prima mi facevano semplicemente sorridere, come si sorride, un po' forzatamente, a una barzelletta così così, quelle di Berlusconi ad esempio, il Cavalier Bestetti che va al night club con la moglie. Era insomma un atteggiamento estetico, perché estetiche, dunque ineffettuali, erano le prese di posizione dei no vax, secondo quella forma propria delle rappresentazioni semplificate e ingenue che prende il nome di kitsch. Sì, i no vax erano in fondo solo delle macchiette kitsch, e potevano perfino essere rivalutati, con lo snobismo che ci è proprio, come si fa con i film di Alvaro Vitali.
Da quando hanno cominciato a negare l'esistenza del Covid-19, o a mettersi di traverso alla realizzazione di un vaccino che lo contrasti, manomettere i ripetitori 5g, boicottare le app per il tracciamento dei contagi (tutte cose che c'entrano come i cavoli a merenda con la sigla no vax, per quanto vedo che sono sempre le stesse persone a proporre queste iniziative, della serie quando sei scemo una volta sei scemo sempre...), anche il mio sentimento è parallelamente mutato. Non sono infatti più solo gesti estetici ma ora anche morali, o, più propriamente, immorali, già che attentano al bene comune, alla salute oltre che alla bellezza.
Dal sorriso scodinzolante e sornione mi sono così ritrovato al ringhio. Non dico sia l’atteggiamento giusto, ma l’estremità dei tempi richiama comportamenti ugualmente estremi, prese di posizione chiare, forti, come direbbe un mediocre politico in tivù. Almeno quando la mediazione razionale si sia mostrata impossibile. Che non vi venga dunque in mente di attraversare il cancello di quella cloaca che sono diventati i social network, un ambiente ormai irrimediabilmente infetto, un focolaio, e nessun vaccino potrà debellarvi da Facebook. Ma lì dovete restare. Attenzione, cane che morde!

Splendido splendente


Lo so che l'ho già scritto, che non si dovrebbe scrivere. Ma continuo a vivere con disagio la ricezione di quel che posto su Facebook. Se il tono è intimidatorio, aggressivo, indignato o comunque sia presente un nemico reale o metaforico, meglio ancora se per affrontarlo si faccia ricorso all’arma bianca del sarcasmo, bingo, colpito e affondato.
Lo stesso, in tempo di pace, ottiene un atteggiamento ilare, scanzonato, pettegolo, ammiccante, compiacente, patetico, garrulo e di aggettivi ce ne sarebbero a bizzeffe, il tutto sigillato dentro una confezione aforistica, barzellettiera. In questi casi faccio il pieno di like; pieno si fa ovviamente per dire, sono un facebooker di nicchia, per usare un eufemismo.
Diversamente, quando mi sforzo di scrivere delle cose semplicemente belle – che lo siano o meno è un altro paio di maniche – vengo regolarmente ignorato; con l'eccezione di chi mi segue con indulgente benevolenza, che colgo l'occasione per ringraziare.
Ora dovrei avere imparato anche un'altra cosa, Marshall McLuhan la scrisse nel 1967, the medium is the message, il mezzo è il messaggio, e proviamo allora a capire quale sia il messaggio che ti restituisce lo specchio di Facebook, lo fa attraverso la forma simbolica che gli è propria, e cioè ancora una volta il gradimento dei tuoi contatti espresso con un pollicione blu.
Fatti furbo, ecco cosa ti dice il mezzo-messaggio tutte le mattine quando ti fiondi sui social network per vedere se sei ancora vivo, la tua presenza può essere obliterata solo da un'attenzione differita, non c'è più, non c'è mai stata per la nostra generazione, la fioraia all'angolo a dirti buongiorno signor Guido, che bel bastone da passeggio. Grazie, buongiorno a lei Caterina, le sue rose oggi mi sembrano più profumate del solito, me ne dia una da infilare nell'asola della giacca.
No, sono vivo se al mio risveglio trovo una manciata di like, o dei commenti con cui darsi di gomito, emoticon che strizzano l'occhio, cuoricini,  ma per ottenerli devi farti furbo. E con furbo si intende un poco stronzo e ridanciano, ma come Lupo de Lupis, che è lupo, sì, ma pure tanto buonino, sempre pronto a intonare una canzone stappa lacrime, restituendo i like a chi te li offre per ricomporre una famiglia virtuale, una tribù di simili al ribasso.
Detto con le parole di un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo ricordò Moravia alla sua morte, detto con le parole di Pasolini ti insegneranno a non splendere. E tu splendi invece. Ma è difficile farlo quando si è costantemente braccati dall'ombra, che oscura ogni tuo minimo sforzo ti farti un poco migliore, più articolato e complesso, immaginifico. O se si preferisce splendente, appunto.
L'unica è seguire il precetto evangelico: lascia case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi... Ma devo lasciare anche i like? Sì, anche quelli. E cosa ci guadagno, la vita eterna? No, la vita interna, la vita in io, che per chi non l'avesse ancora capito è il diminutivo di Dio. Ma un io un tantino più grande della taglia extra small che vorrebbe farti vestire Facebook. 

Metafore


È meglio morire di fame o di coronavirus? Lo si sente dire accendendo il televisore, lo si legge sui social network, al bar e dai parrucchieri no ma unicamente perché sono chiusi, altrimenti si pronuncerebbe anche lì, al punto che molti hanno finito per credervi e ripeterlo a loro volta, scordando che è solo una metafora.
Recita il vocabolario Treccani alla voce metafora: "Processo linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, basato su una similitudine sottintesa, ossia su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono."
Il concetto diverso da quello normalmente espresso, in questo caso corrisponde a non cambiare l'automobile a gennaio, rinunciare a un maglioncino Fred Perry tanto grazioso, per gli occhiali da sole Persol se ne riparla l'anno prossimo, basta anche agli happy hour con le ostriche ancora vive e pulsanti, o i ristorantini da cinquanta, quaranta, diventano troppi anche trenta euro a testa, al massimo una pizzetta ma senza prosciutto e funghi e doppia mozzarella, una Margherita e via.
Morire sta insomma per passarsela male, dovendo ridurre, anche di molto, il tenore di vita che segue a una lunga euforia delle aspettative; aspettative la cui data di nascita o ancora meglio il concepimento (prima ne mancava l’idea astratta, lo slancio emotivo) possiamo collocare nel secondo decennio del dopoguerra, il cosiddetto boom economico. Da allora in Italia di fame non muore più nessuno, né è un rischio che corriamo adesso, con o senza lockdown, cacciamocelo bene in testa!
Di coronavirus al contrario si muore, si muore in senso tutt'altro che metaforico, si muore e basta. Inoltre, la stessa domanda contiene un altro elemento della retorica antica, che proprio per tale ragione viene chiamata domanda retorica, in cui a ciò che viene chiesto già si offre una risposta, per quanto implicita è del tutto evidente. Nella circostanza, torniamo a lavorare, vada come vada, cosa vuoi che siano quattro vecchi che ci lasciano le penne, alzare le chiappe e produrre!
Bisogna dunque stare molto attenti quando si fanno delle comparazioni tra piani diversi del significare – uno metaforico e l'altro letterale –, specie se non si ha troppa confidenza con la logica discorsiva, e con le figure della retorica che ne sono l'alfabeto. Anche perché se lo vai a chiedere a Bergamo, meglio morire di fame o di coronavirus, minimo ti becchi un mattone in testa. E ti va di culo che è anche questa solo una metafora...

domenica 26 aprile 2020

Dubbi II, la vendetta


Ma perché per diventare virologi bisogna fare sei anni di medicina, quattro di specializzazione post laurea, master, aggiornamenti, apprendistato meglio se all'estero, con tutta la rottura di coglioni di impararsi una nuova lingua, quando basterebbe un giro su Facebook dove l'amico di un amico di un tuo amico, diventato nel frattempo amico tuo, potrebbe spiegargli che i vaccini non servono a niente, sono addirittura dannosi, basta un bicchiere di acqua e limone la mattina e molto sole per stimolare il sistema immunitario, al limite anche un po' di tritolo da piazzare sotto l'antenna 5g più vicina a casa?

Madeleine


Rimpiangere lo schiaffo salmastro del mare in tempesta, troppo facile, l'inconfondibile sentore con cui le libecciate di fine agosto si intrufolano tra le lamelle azzurre delle cabine, oppure i ciuffi di rosmarino tra le rocce vulcaniche, lo schivo ginepro e, al suo opposto, la vampa violazzurra della lavanda con quella sua supponenza olfattiva, come se ti sussurrasse alle narici "non avrai altro odore al di fuori di me". Troppo facile, sì, perfino scontato. Quando basterebbero profumi molto più umili e diffusi, ugualmente proscritti dal calendario dei giorni: la pizza marinara, solo pomodoro e aglio e un filo d'olio, nient’altro, o il gessetto strofinato sulla lavagna di ardesia, oltre a un odore è anche rumore, a qualcuno fa venire la pelle d’oca ma a me ricorda la derapata sugli sci arrivati al casotto dello skilift, o il disco di granito che scivola sul ghiaccio in quello sport per ricchi scemi, o scemi ricchi, non ho mai capito cosa viene prima, e neanche le regole del curling. Se discendiamo la gerarchia aristocratica degli odori, agli ultimi posti, chissà perché, troviamo quello dei preservativi appena scartati, i più altezzosi li chiamano condom, hai messo il condom? mentre per i ruspanti e smaniosi diventano goldoni. Lo stesso nome pronunciato da bambini quando, già utilizzati e flosci, apparivano in una radura del bosco dei Bordighi; ci si arrivava alla ricerca delle fragole selvatiche ma, rinvenimento ancora più fortunato, epifania, al loro posto e accanto ai preservativi ci stava una copia fradicia di Caballero; era stata abbandonata dagli amanti clandestini dopo che era servita a dare un po' di sprint, non era facile accoppiarsi in auto quando i SUV erano solo una bislacca iperbole di futuro. Purtroppo rimaneva ben poca cosa del giornaletto, non giornale o rivista o peggio ancora magazine, le pubblicazioni pornografiche si chiamavano giornaletto; quel che ne restava almeno, dopo aver assorbito troppa pioggia per poter sfogliare le pagine incrostate, se ti andava bene riuscivi a vedere due tette e un cazzo posato proprio nel mezzo; il confronto, inevitabile, rendeva il mio simile a Gulliver nel paese dei giganti. Ma torniamo all'odore. Gomma, officina meccanica, nel finale una nota chimica e ospedaliera, la salute prima di tutto. O magari è semplicemente lezzo di candeggina, traccia di urina di un vecchio che si è pisciato addosso, vomito di lattante, biancheria intima di un prevosto, è difficile da individuare, forse si tratta di petrolio. Ricorda infatti la benzina degli anni settanta, quando non erano ancora presenti gli additivi "verdi". Per il resto il rituale era lo stesso, solo celebrato dall'uomo con la salopette blu: la pistola dell'erogatore infilata nella bocchetta del serbatoio della Fiat 125 dello zio, parte il conteggio, in lire, sulla colonnina del distributore, accompagnato da una nuvola ipnotica che penetra dai deflettori socchiusi nel caldo asfissiante di estati infinite; con mia cugina Alessandra cercammo perfino di berne un goccio, lo zio si era allontanato per acquistare un'audiocassetta del Quartetto Cetra che avremmo cantato alla ripartenza. E poco importa con chi li userai – i preservativi, i condom, i goldoni –, se dopo dovrai pagare oppure è un dono che la vita ti sta facendo, l'abitino di cotone cobalto accasciato ai piedi del letto, piccoli fiori chiari lo trapuntano. Il profumo celestiale dei preservativi, la puzza triviale dei preservativi, qualcuno se li ricorda ancora? Io ne ho aperto uno dimenticato in un cassetto, così, solo per annusarlo, una una lunga tirata dal naso come prima dell'immersione... Improvvisa madeleine per sfuggire al lockdown.


Dubbi


Ma è normale, mi chiedo nel dormiveglia, più veglia che dormi in effetti, è normale che il tuo vicino di casa diciassettenne tutte le notti e dico TUTTE, dalle tre alle cinque, anche cinque e tre quarti, parli a voce mediamente alta con la fidanzatina che dorme, si fa per dire, assieme a lui, ogni tanto ridacchiano e si scambiano delle frasi affettuose e buffe, non potete immaginare quanto siano affettuose e buffe le frasi che si scambiano invece di dormire, e quanto bella è la voce di lei mentre ride, ricorda un bicchiere di cristallo scagliato in terra da un cosacco dopo aver trangugiato la sua vodka, li puoi udire chiaramente anche se la voce non è alta ma solamente media, il bicchiere e la risata intendo, provengono dalla camera sopra la camera dove dovresti dormire tu, hai problemi alla vista ma in compenso ci senti come un bracco di Weimar altrimenti detto Weimaraner, inoltre soffri di depressione e quindi di insonnia, cosa c'accezzecchino le due cose non l'ho ancora ben capito ma pare sia così, basta un niente per svegliare un depresso, ad esempio una biglia di ferro che cade (dubbio nel dubbio: a diciassette anni si gioca ancora a biglie...?) e comunque è un problema tuo, loro sono semplicemente in lockdown, le scuole sono chiuse, non che cambiasse molto per il tuo vicino che ha ripetuto la terza media tre volte, ma tant'è, quando termina l'effetto senza effetto della pastiglia arancione di sonnifero che hai preso dopo il film in tivù, alla fine il protangonista muore ma il suo cane continua tutti i giorni ad aspettarlo alla stazione, si chiama Rivotril, il farmaco, non il protagonista e nemmeno il cane, che in ogni caso non è un Weimaraner, Rivotril come una rivolta dentro un Autogrill, e così quando tu sei definitivamente, irrimediabilmente sveglio i due fidanzatini si addormentano e con loro anche il cosacco ormai completamente ubriaco, lo capisci dal fatto che non scagli più bicchieri in terra a ogni succhiotto sul collo, per svegliarsi a mezzogiorno con un gran bell'appetito e nuova sete di vodka, la madre in cucina a spignattare mentre tu ti  ritrovi con due occhiaie così, è normale mi stavo chiedendo all'inizio di questo periodo infinito ma mi sa che non me lo chiedo più, piuttosto prendo un'altra pastiglia di Rivotril, chi cazzo se ne frega se sono le 7.12 del mattino e non c'è mai stata nessuna rivolta dentro nessun Autogrill.

sabato 25 aprile 2020

Enigmi


I corazzieri con la mascherina. Più che i politici, il Presidente del Consiglio, perfino Mattarella, sono rimasto colpito dall’immagine dei corazzieri con la mascherina. Non so perché: i tempi sono questi, è normale. Ma mi ha ricordato certe fotografie di Luigi Ghirri, in cui l’obiettivo circoscrivere una porzione di presente che ci sfugge. Rimanda ad altro, trascende ciò che mostra, consegnandoci un enigma da risolvere, un rebus. Quello dei corazzieri con la mascherina… Un rompicapo che non riesco a dipanare, mi inquieta.

Lezioni di samming da una spammer


Da qualche tempo una rompicoglioni ha preso l'abitudine di girarmi cazzate su Messanger, così, come si infilano volantini per la svendita di un negozio di scarpe in una cassetta delle lettere. So che la cosa è abbastanza comune, lo spamming su Messanger intendo, e non vi davo troppo peso. Fino a ieri almeno, quando mi ha invitato a partecipare a un'iniziativa collettiva.
Si tratta di spegnere lo smartphone per un'ora tutti assieme. A questo modo verrebbe mandato un segnale chiaro e forte ai politici – politici = cattivi, ovviamente il sotto testo – facendogli capire che non vogliamo la app per il tracciamento dei contagi.
Coincidenza vuole che nella stessa giornata avessi scritto un post in cui mi esprimevo in maniera opposta sull'argomento. Non che il mio punto di vista sia decisivo, ma la prossima volta, magari, che si leggesse quel che scrivo prima di usare la mia casella come una cloaca. E per una volta gliel'ho detto.
Ti pare che io abbia tempo di leggere tutto quello che postano i miei contatti, risponde lei. Come se non bastasse continua: non mi scocciare (SCOCCIARE?!) con queste prediche. Piuttosto impara a fare come me, imposta dei filtri su Messanger per non essere contattato da tutti gli spacca maroni che ci sono in giro.
Beh, non so l'effetto che avrebbe fatto a voi, ma io l'ho trovata una risposta geniale. Come se il mostro di Scandicci ti spiegasse che lui mica si apparta in un boschetto con la sua bella, l'Angiolina, macché, non sono così grullo. Se non vuoi essere squartato, la prossima volta vai a scopare in un parcheggio a pagamento!

venerdì 24 aprile 2020

La peste nuova, o sullo sdrucciolare delle storie sullo scivolo del mondo


E così sono diventato il personaggio di un romanzo. In realtà è solamente un attimo, come il passaggio fugace di Hitchcock dentro una sua pellicola, facciamo a tempo a riconoscerlo, eccolo, è lui, ma sei sicuro? E che ne so, dopo un secondo è già sparito, lasciando spazio ad altre storie. Quelle che ci racconta Fulvio Abbate ne La peste nuova, appena pubblicato da La nave di Teseo. Stavo per scrivere ripubblicato, ma, il libro, è frutto di una profonda e radicale riscrittura di un romanzo precedente, La peste bis del 1997.
Chissà cosa stavo facendo quando è uscita la prima edizione, mi piace pensare che stessi baciando una ragazza di nome Mariangela, come la figlia di Fantozzi, tutti però la chiamavano Lella, aveva grandi occhi verdi e un profumo di cocomero. Più prosaicamente sarò stato a bermi un bianchino al Bar Piero, ad acquistare le crocchette per il cane, comunque conficcato nella cosiddetta vita vera, non mi ero ancora trasformato in fabula – “Il mondo divenne favola” scriveva Nietzsche ne Il crepuscolo degli idoli –, controllo per esserne certo ma il nome e il cognome sono proprio i miei, il personaggio dice le cose che dico io. Solo che ad accorgersi dello sgattaiolare di Hitchcock nel romanzo di Abbate è stata un'altra persona, lo scrittore Piersandro Pallavicini.
Mi invia alcuni giorni fa un breve messaggio: “Conosci Fulvio Abbate?” “Sì, certo, è mio amico” rispondo senza capire il senso della domanda, non vorrei gli avesse rubato l'autoradio. “Siamo amici anche se non ci siamo mai incontrati di persona”, aggiungo per prendere un po' le distanze, chissà mai che chieda a me di ripagargli l'autoradio. “Allora sei proprio tu il Guido Hauser di cui scrive. Trovo che Abbate sia una persona notevole.”
Curioso il termine utilizzato. Notevole. Non so se Pallavicini l’abbia fatto intenzionalmente, ma è lo stesso aggettivo con cui Jung sintetizzò il suo primo incontro con Freud, pare durò quasi otto ore. All’uscita, stremato, Jung disse solamente: “Una persona davvero notevole!”
Ora che ci penso, notevole è la qualità di ciò che viene notato, magari già ci stava sotto il naso e non ce ne eravamo mai accorti. E il romanzo di Fulvio rappresenta proprio questo: non una vicenda compiuta o, come si dice, un plot, ma l’arte di accorgersi, di notare e collegare dettagli apparentemente indipendenti, come quelli che legano Freud a Jung a Pallavicini a Nietzsche e a Guido Hauser; che poi sarei io ma anche qualcun altro, qualcuno sfuggito dal mio controllo per farsi racconto. E ciò grazie a Fulvio Abbate, che ha unito i puntini.
L’unica trama oggettiva, a tenere assieme i personaggi della narrazione, è dunque il fatto che sono vivi, sullo sfondo di un’epidemia che stravolge l’abituale collocazione delle cose (spazzolino sul lavandino, camicie nell'armadio, preservativi nel cassettino dell'automobile, chissà mai che stasera si rimorchi) ponendole sull’orlo dell’abisso. Ma se discostiamo le quinte dal fondale contingente, appaiono gli intrecci, il senso narrativo dell'essere in vita, che è per l'appunto solamente narrativo, ossia un non-senso che assume grazia e misura in virtù delle scelte discrezionali dell’autore; scelte linguistiche e di immaginazione, come in tutte le storie compresa la più umile di tutte: inventare barzellette.
Guido Battaglia, il protagonista, ammesso che ve ne sia uno, fa proprio questo. Inventa barzellette. Come un virus, potremmo vederle quali unità minime del narrare, ed è forse la ragione per cui due ragazze bellissime si rivolgono a lui: raccontaci una storia che salvi il mondo, in cambio avrai il nostro corpo. Ma Guido è solo uno scrittore di barzellette, salvare il mondo, una parola… Oltretutto è appena stato mollato da Valeria, la geniale ideatrice di quasi tutte le loro storielle.
Inizia così un'odissea narrativa tra vicende reali, possibili ma soprattutto dentro il loro statuto, ossia la funzione civile del gesto di scrivere, che se non tutto il mondo dovrebbe sempre cercare di salvarne un piccolo pezzo, un mondo. E così comprendiamo che le storie davvero posseggono la medesima natura di una barzelletta, il cui tratto virtuoso è quello di congedarsi dal proprio autore, per poi magari ritornargli come un boomerang. Ricordo quando dissi a un amico che il cantante dei Simple Red era il piccolo attore con i capelli rossi di Tre nipoti e un maggiordomo, l’avevo sentito in giro. "Ma mica è vero" mi  rispose lui, "è una cazzata che mi sono inventato io, da quando l'ho detto al Bar Piero ha già fatto due volte il giro di Sondrio: se la sono bevuta tutti!" Ecco una storia.
Anzi, una buona storia, qualcosa che si bevono tutti, o anche solo qualcuno che poi la rilancia come una barzelletta. D’altronde la mia presenza nel libro di Abbate è avvenuta allo stesso modo. Un paio di mesi fa ho scritto un post su Facebook, paragonavo la condizione epidemica alla battaglia di Waterloo, o più precisamente al suo prologo a Ligny, quando il 6 giugno 1815 Napoleone sconfisse l’armata prussiana comandata feldmaresciallo Gebhard Leberecht von Blücher.
A Ligny c’era anche un mulino, il mulino di Brye, lo possiamo vedere nel dipinto del pittore britannico Ernest Crofts, e dentro il mulino contadini, donne, bambini, mugnai, forse anche qualche coniglio e gallina, almeno prima che il piccolo corso ne facesse il suo quartier generale. Un minimo universo agreste del tutto ignaro della grande ombra della storia che si allungava, visibile solo quando ha preso la forma di palle di cannone e luccicare di sciabole alle prime luci dell’alba. Ma chi sono questi? Li avevano messi in mezzo, insomma, come noi siamo stati messi in mezzo in quella regolazione finale dei conti tra bios e tecnica; nella circostanza interpretata dalla tecnica medica all’affannata ricerca di un vaccino.
Questo scrivevo nel mio post, poco male se non se l'è filato nessuno, credo di aver toccato il minimo storico dei like. Ma Fulvio l’ha incrociato e deve averlo incuriosito, così insieme a me è finito nel suo romanzo. Perché la letteratura, almeno quella di Fulvio Abbate, è il movimento laterale in cui le cose si discostano dalla loro collocazione per acquistare una luce nuova e rivelatoria. E ciò anche quando il segreto svelato coincide col refrain di una vecchia canzone di Francesco De Gregori: "e non c'è niente da capire..." Solo da narrare.
Dubito che sarà sufficiente a salvare il mondo, e così a comporre quella barzelletta perfetta con cui Guido Battaglia avrà diritto al suo compenso sessuale; ma non spoilero nulla anche perché non sono ancora arrivato alla fine. Di meglio, dal raccontare storie, dal trasformaci in fabula come è accaduto a me, non abbiamo comunque ancora trovato. Almeno noi che non abbiamo divinità barbute in paradiso, o utopie tecnologiche a cui affidare le magnifiche sorti e collettive. Per questo il libro di Fulvio Abbate è realmente notevole, e io gli sono grato per la comparsata che mi ha offerto.



Protagonista e regista della mia femminilità


Inizio a pensare che le poche righe di presentazione che vengono associate al profilo in un social network, ma perfino su WhatsApp, ovunque sia richiesta una sintesi espressiva della persona, possano essere considerate un genere letterario, spesso più accurato e rivelatorio di intere paginate di descrizione. Facebook, ad esempio, mi suggerisce di richiedere l'amicizia a una giovane che così si presenta: "Io... Donna... protagonista e regista della mia femminilità. Ma appartengono alla vita. E con lei... Ci gioco."
Un incipit formidabile, da cui ricavo due informazioni decisive: 1) Zuckerberg, nonostante i suoi sforzi di accumulare dati sul mio conto, continua a non capirci un cazzo e a sparare nel mucchio, e questo mi conforta; 2) diversamente, a me sembra di sapere tantissimo di lei, Donna protagonista e regista della sua femminilità, con cui giocare, al punto che mi guardo bene dal contattarla.
La mia ritrosia non mi impedisce però di riconoscerle uno straordinario talento. In una manciata di parole è infatti riuscita a tratteggiare l'essenza di ogni buona storia: il personaggio. Che poi sia anche sé stessa, nella circostanza, non la esenta dal merito letterario. Dubito che alla maggior parte degli scrittori sarebbe riuscita una pennellata verbale altrettanto icastica, a restituire quel grottesco involontario quale carrozzeria (ora un po' ammaccata) del nostro tempo. Non a me, di sicuro.

giovedì 23 aprile 2020

Privacy, o sulla rottura di coglioni come manifestazione di benessere


Ma cos'è tutta questa ansia da privacy? Sento alzarsi un coro di dissenso dalle app per il tracciamento dei contagi, addirittura qualcuno minaccia – via social naturalmente, il nuovo balcone di Palazzo Venezia da cui scoccare i propri proclami – l'interruzione di qualsiasi rapporto con chi scaricherà l'applicazione. Ebbene, io lo farò, bye bye.
Per chi invece preferisce la ragione alla proclamazione, proviamo a riflettere sul nuovo fenomeno. È come se si fosse passati dal terrore di essere contagiati al timore di essere computati, che mi sembra una buona notizia. Da bambino, quando mi buscavo un raffreddore, mia madre mi diceva che nel momento in cui tornavo a rompere i coglioni era un chiaro segno di ripresa. Prendo dunque atto che il Paese si sta riprendendo, e lo fa nella forma che ci è propria: rompere i coglioni.
A parziale rassicurazione dai nostri legittimi timori, cito quel che pensa sull'argomento Alessandro Vespignani, fisico italiano trasferito negli Stati Uniti dove dirige il maggior centro di ricerche per la creazione di modelli epidemiologici. Chiede il giornalista Mario Calabresi, perché chiedere e informarsi è sempre giusto, ragguagli sull’intrusione nelle nostre vite che applicazioni e controlli potranno portare.
"Onestamente non vedo il pericolo" risponde Vespignani, “queste app possono rispettare la privacy ed essere ingegnerizzate per non avere un database centralizzato e quindi rispettose delle nostre vite. Gridare allo scandalo oggi, quando si tratta di tracciare i contagi, è fuori luogo: ogni giorno seminiamo montagne di dati senza mai preoccuparci e ora spacchiamo il capello in quattro. Ci dimentichiamo che quotidianamente noi giriamo con qualcosa in tasca che ci traccia, ci mappa e ci quantifica. Con il nostro permesso. E non serve a salvare vite."
E adesso riprendiamo pure a rompere i coglioni. Ma sapendo che è solo il nostro modo di stare al mondo, per manifestare di essere vivi.



mercoledì 22 aprile 2020

Ammonimenti


Da alcuni giorni mi imbatto su Facebook in ammonimenti agli scrittori: che non vi venga in mente di scrivere su epidemia, virus, corona, Covid, lockdown sono termini che non devono avere cittadinanza nei vostri futuri romanzi, mi raccomando, per non parlare di plateau e curva dei contagi. No no no!
Dichiarazioni di intenti in conto terzi che, perlopiù, vengono diffuse da altri scrittori, o comunque da addetti al settore; un settore, l’editoria, che chissà come mai continua a percepirsi al centro del mondo, quando nella migliore delle ipotesi ne rappresenta solo un’amabile periferia, come quei quartieri residenziali con i tulipani all’ingresso e l’addetto alla sbarra che dice buongiorno al passaggio di un Audi.
In linea di principio non sono comunque in disaccordo, ma neppure d’accordo. Intendo. La letteratura è da sempre stata ricognizione degli interstizi del reale (e che piaccia o meno, di quella realtà ora fa parte anche il Covid-19) quanto prefigurazione di mondi alternativi, catabasi nello spazio infero della psiche, emersione del rimosso sociale. La letteratura è insomma tante cose, un termine che andrebbe sempre coniugato al plurale.
Un bravo scrittore italiano, Enrico Macioci, ad esempio ha scritto dei bellissimi racconti a partire da un evento ugualmente traumatico, il terremoto dell’Aquila, mentre Dave Eggers ha preso spunto dall’uragano Katrina. Chissà se anche allora c’è stato qualcuno a sollevare il dito indice per mettere in guardia dallo scrivere su terremoti e alluvioni…
Queste prese di posizione, schematiche e vagamente snob, finiscono così col ricordarmi una vecchia trasmissione di Bonolis, in cui dentro una corale baldoria venivano contrapposti bagnini di Rimini a femminielli di Napoli, a 
decidere quale dovesse essere la giusta sessualità umana.

Cazzate


Quando Lapo Elkann, intervistato da Floris a Dimartedì, dopo il consueto effluvio di cazzate ha detto “io sono buono”, per un attimo ho intuito che stava dicendo la verità. Una verità più profonda e luminosa delle cazzate appena biascicate, con quella voce nasale che sembra fatta apposta per essere imitata, specie quando ripete a pappagallo "è la realtà dei fatti, la realtà dei fatti, la realtà dei fatti..." Cazzate, appunto. Ma rimane l'intuizione: un uomo buono, a cui forse si dovrebbe avere la sensibilità di non allungare un microfono davanti alla bocca. Da questa apparente contraddizione non traggo conseguenze, sia chiaro. Se non quella di dubitare da chi pretende di ricavare la natura delle persone dai gesti, anche e soprattutto linguistici, noi siamo quello che facciamo ripetutamente sosteneva Aristotele. E invece no! Lo sguardo perso e dolce di Lapo Elkann mi fa pensare che siamo da un'altra parte. Dove sia questa parte non lo so, né cosa sia. Ma c'è sempre un mandante alle cose che zampillano da un cratere con cui ci identifichiamo, il linguaggio stesso è un mandante, non siamo noi, per quanto sia giusto e anzi sacrosanto esserne responsabili, in questa tacita finzione che si chiama civiltà. E dunque come concludeva Altan, anche a me piacerebbe sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che dico (oltre a quelle che scrivo).

Tarzan


Nella piccola città dove sono nato e dove, per caso o per pigrizia, ancora mi ritrovo, tutte le sere alle nove in punto si leva un urlo che ci pare di conoscere... Sì, è proprio l'urlo di Tarzan!
Ma non un Tarzan solo, prima sono venuti quattro Tarzan, quattro amici un po' goliardi che si sono inventati un modo per sfogare la tensione di questi giorni e salutarsi da una finestra all'altra, emulati nei giorni successivi da un numero crescente di persone, basta andare in terrazza a quell'ora per essere investiti da un'intera polifonia di Tarzan.
Alcuni sono un po' stonati, più che l'urlo del signore della jungla pare il verso di uno che abbia incocciato in una sedia, o il calciatore in barriera a cui finisce la punizione proprio lì, ma tutto contribuisce a fare brodo. È in ogni caso la prima volta che qui si manifesta un gesto di fantasia, almeno da che ne ho memoria. Non saranno Les demoiselles d'Avignon, d'accordo, e solo una caciara un po' birbona, ma mi piace pensare che sia un primo passo.
E chissà che dopo Tarzan non arrivi anche Cita e poi Jane e poi magari Zorro, a disegnare una bella zeta sul pancione del sergente Garcia. Perché quando la realtà sembra chiudersi su sé stessa l'immaginazione è l'unica chiave: non tanto per uscire, ma per aprire un'altra porta. Brava Sondrio!

martedì 21 aprile 2020

Un cappello

Una volta ho sgridato mia nonna perché si era seduta sopra il mio cappello. Si trattava di un cappello marrone appena acquistato, le falde in stile Indiana Jones e però con il tessuto impermeabile, piccole pieghe da usura aggiungevano un tocco fané, per questo non si è rovinato. Ma io ho sgridato mia nonna ugualmente, e anche mia madre che la difendeva.
È stato un errore, l'avevo posato sulla poltrona su cui, dopo pranzo, la nonna si metteva a prendere il sole che filtrava dalla porta finestra socchiusa, i lunghi ferri mossi da mani che non temono le ortiche, mentre il filo di lana si scioglie dal gomitolo per prendere la forma delle calze che avrei indossato l'inverno successivo, Radio Maria quale colonna sonora.
Non l'aveva visto il mio cappello da Indiana Jones, tutto qui, e si è accasciata a peso morto come un vitello sulla paglia, un errore anche il suo. D'altronde nella vita ho compiuto errori ben più gravi, mia nonna non se l'è presa per la ramanzina e mi ha restituito il copricapo in forma bidimensionale, sembrava Willy il Coyote quando finisce sotto il rullo compressore, per poi riprendere a sferragliare salmodiando un Pater Noster.
A volte ho pagato per i miei errori ma perlopiù l’ho fatta franca, come quando rubavo alla Standa in seconda media; piccole cose, intendiamoci, una volta ho infilato in tasca un turacciolo di sughero, mi sembrava che un oggetto più costoso avrebbe causato dolore al signor Standa. A me in fondo bastava quel turacciolo, era il mio modo di onorare la foto di Renato Vallanzasca che avevo incollato su una pagina del diario di Snoopy. Le mie compagne ci piazzavano Miguel Bosè e io Vallanzasca. Poi si cambia, parlo per le compagne.
L’avere sgridato mia nonna è però un errore che non sono mai riuscito a perdonarmi. I cattolici hanno quell’invenzione formidabile che si chiama confessione, Freud deve avere copiato da lì prima di consegnarci il suo compitino, la solita aria da primo della classe; con la differenza che i preti ti fanno vuotare il sacco gratis, mentre gli psicanalisti vorrebbero convincerti che se non paghi non funziona. E pensare che quando esci dal confessionale ti regalano pure un biglietto omaggio per il paradiso, come fanno i venditori di materassi che ti offrono in giunta il set di pentole. Peccato che quel giorno io abbia altri impegni.
Non me ne faccio un cruccio, semplicemente non sono cattolico, forse neppure cristiano. Il mio dio non è inchiodato alla croce ma alla mangiatoia del presepe che facevo da bambino, il muschio lo prendevo nel bosco dei Bordighi e con la carta stagnola tracciavo i ruscelli, oppure si è smarrito nell’odore di incenso e zibibbo che respiravo in sagrestia, la cosa divertente era infilarsi la cotta e una sottana bianca come quella di don Aurelio. Ed ecco un chierichetto, voilà, un piccolo servo del Cristo Redentore.
Io però continuavo a chiamarlo Gesù, mi stava simpatico Gesù, gli rivolgevo la preghiera prima di dormire seguita da quella al mio angelo custode (solo evitavo l’eterno riposo, non per altro ma morti non ne conoscevo, era un concetto troppo astratto), e in fondo mi sta simpatico anche ora. Peccato che la sua attendibilità teologica mi appare la stessa di Willy il Coyote: uno cammina sulle acque e l'altro nell'aria, mentre lo spuntone di canyon su cui si trovava precipita al suolo schiantato dalla dinamite; e seppure finisca male per entrambi alla puntata successiva sono ancora lì, come se niente fosse. Due belle storie, niente da dire. Quanto alla psicanalisi, con me ha funzionato come i tentativi del maldestro coyote di acciuffare Beep Beep.
Però scrivo, so scrivere. Posso vedere i caratteri grafici con cui comporre le parole errore, nonna, scusa, calze, grazie, sogno. Un sogno bello, ma una mano invisibile deve averlo spento, clic, come faceva il nonno con Radio Maria quando in tivù iniziava il programma di Funari. Ecco, già mi sembra di stare un poco meglio. Non è difficile, è un giochino che possono fare tutti, basta avere qualcosa da ricordare e qualcuno da cui farsi perdonare. E poi ora che ci penso era un cappello un po' da tamarro.

Ronde padane


E le ronde padane, mi chiedo. Quei fantocci con una pseudo divisa verde a scimmiottare le SA naziste. La loro principale ragion d'essere era bussare al finestrino dell'auto, una a caso purché parcheggiata dietro a un capannone industriale e con dentro due che fanno del loro meglio: lei per raggranellare qualche euro, e lui per offrire un fugace incanto a una sera che l'avrebbe altrimenti visto di fronte a Paperissima, ridendo al ruzzolare di un ciccione dalla motoslitta.
Ok, se preferite chiamateli pure cliente e prostituta. E dopo aver controllato, non si capisce bene a quale titolo e con quale autorità, il permesso di soggiorno alla ragazza, il più anziano della ronda guardava l'uomo dritto negli occhi; anche perché, se avesse abbassato lo sguardo, avrebbe incrociato nei pantaloni ancora semi calati: "Alla sua età, mi dia retta, torni a casa da sua moglie. E mi raccomando, non si faccia più trovare qui."
"Mi scusi" rispondeva l'altro con un filo di voce, "sono caduto in tentazione..." Intanto cercava a tentoni il buchino in cui infilare l'ardiglione della cintura, porca miseria, dove è finito, mentre la ragazza si riallacciava con noncuranza il reggiseno.
Il terzo membro delle camicie verdi, in genere si trattava di una donna che fino a quel momento era stata zitta e in disparte, sigillava il tutto con un secco: "Si vergogni!" A cui nel visualizzare la scena si deve accompagnare l'indice puntato nella direzione del poveraccio preso in castagna, prima di girare le spalle e andare alla ricerca di nuovi atti impuri.
Comicità involontaria, insomma. Ma anche desolazione, abuso di potere, velleità, erotismo surrogato, arte di arrangiarsi, ombra del sogno occidentale, sfiga che passassero di lì proprio in quel momento. Era tante cose assieme, come la vita che non si presta ai tentativi di semplificazione, altrimenti chiamati cattiva letteratura.
Ma ora le ronde padane sono chiuse in casa a fare lavoretti di bricolage, hanno rispolverato il traforo in soffitta; le prostitute in casa a vedere film d'amore in russo, albanese, rumeno; in casa anche i clienti accanto alle mogli da cui non possono più sfuggire, l'amore coniugale alla fine trionfa sempre, e in tivù c'è sempre un ciccione che inciampa senza più riuscire a distinguere la propria risata da quelle registrate. Tutti in casa.
Per salvarci la vita, si dice giustamente. Il prezzo è la sua rinuncia, certo provvisoria, per tornare alla complessità, alla buona letteratura, come alchimisti dobbiamo sperimentarne il lato opposto, rendere una linea piana il sismografo dei giorni, almeno fino a quando il virus non ne sia più una bizzosa intemperanza. Non avrei mai immaginato che si potessero rimpiangere le ronde padane...



lunedì 20 aprile 2020

C'è solo la strada


Vivo nell'unica città lombarda senza prostitute lungo i viali periferici e gli spiazzi sterrati sulle provinciali, dove gettare i Kleenex e i pacchetti vuoti di Marlboro. Per questo, più che una catastrofe nucleare, Sondrio ora ricorda un'infinita domenica pomeriggio, in fondo non è cambiata molto. Ma mi chiedo se gli abitanti di Sesto San Giovanni, Lurago d'Erba, Lentate al Seveso, Dalmine abbiano finalmente compreso quanto possedevano e quanto hanno perduto, almeno da quando anche le prostitute sono in lockdown...
Non entro in una querelle etica tutto sommato abbastanza semplice da risolvere: alcune prostitute, specie nigeriane, sono sfruttate e in condizione di semi schiavitù, mentre per altre è una scelta, per quanto senza alternative allettanti – l'attrice che scodinzola sul red carpet, la Ministra dell’Istruzione un po' imbronciata, la virologa che pontifica in tivù – e piuttosto se ti va di culo la cassiera all'Esselunga, una scelta più triste che oscena.
Se però spostiamo lo sguardo a una prospettiva civile e addirittura urbanistica, ci accorgiamo come le prostitute siano o, meglio, fossero l'ultimo presidio umano a fare barriera all'incedere delle sale scommesse e compro e vendo oro e distributori GPL delle nostre periferie, insomma al niente cementificato, adornato di cacche di cane come gli sposini in marzapane sulla torta, almeno da quando le PlayStation hanno sostituito le caciare dei bambini nei cortili.
Alle sottoscrizioni dei comitati virtuosi per debellare le prostitute dai loro lampioni raminghi, io suggerisco così una contro sottoscrizione per riconoscere alle prostitute lo statuto di bene nazionale, protetto come si conviene dall'Unesco e da spalmare sui deplian assieme alla torre di Pisa, Santa Maria Novella, il ponte dei Sospiri e altre bellezze nostrane; poco importa se quelle ragazzine infreddolite e semi nude che vedevamo sfilare a lato della nostra auto con il riscaldamento a palla, fossero spesso importate dai paesi dell'est europeo. D'altronde la bellezza è dove si manifesta, anche San Pietroburgo è stata fatta bella dagli architetti italiani.
E però attenzione: mi riferisco alle prostitute vere, anzi veraci, che sfidano la strada e le sue leggi (c'è solo la strada cantava Giorgio Gaber, la strada sui contare, la strada è l'unica salvezza) e non le escort che si accompagnano ai calciatori. Di quelle possi
amo pure fare a meno. Ma un mondo senza prostitute ad abitare la notte, venti di bocca e trenta l'amore, è semplicemente questo mondo emergenziale: case, famiglie, televisioni, videogiochi e poi altre case, famiglie, televisioni...

domenica 19 aprile 2020

Incidenti, o sul cappotto double face della modernità


In questi giorni non c'è nulla che mi irriti come la diffusione di notizie false o incomplete e soprattutto tendenziose sull'epidemia. La maggior parte di ciò che leggo su Facebook, per intenderci: funeste e sottaciute devastazioni attribuite alle reti 5g, presenza di Covid-19 nel vaccino per l'influenza, trame occulte rivelate da una gola profonda al cugino di tuo cugino, in cui emergono responsabilità intenzionali di questo o quel gruppo di potere; il più recente capro espiatorio è Bill Gates, che non si capisce bene perché dovrebbe profittare dalle circostanze, a far concludere ai complottisti da lui stesso create. Bill Gates produce sistemi operativi per computer, non farmaci, se a qualcuno fosse sfuggito.
Ma ora non voglio parlare della superficialità umana (e sto usando un eufemismo, per quanto la parola a cui pensavo comincia sempre con la esse) e piuttosto provare a fare un ragionamento a margine di una delle tante tesi alternative alla versione ufficiale che vengono proposte, a cui i social offrono la consueta e sollecita risonanza. Mi riferisco a un non meglio precisato incidente nel laboratorio microbiologico di Wuhan; ora esiste anche un'indagine della Cia avallata dal premio Nobel Luc Montagnier, scopritore del virus dell'HIV.
Naturalmente io non ho la minima idea se le cose stiano a questo modo, e sono a conoscenza di studi scientifici che, al contrario, sembrano confermare la mutazione spontanea del Covid-19 da un ceppo animale; come nel caso della Sars, a monte ci sarebbe il pipistrello. Già da subito, quando mi sono imbattuto nell'ipotesi dell'incidente, mi è però sembrata plausibile, diciamo non vera ma verosimile.
Il filosofo francese Paul Virilio sosteneva che ogni innovazione tecnologica si porta appresso una sorta di ombra, e magari non subito ma, presto o tardi, come un'eclisse finirà col ricoprire il proprio sole. Quando inventi il treno devi dunque sapere che stai inventando anche il deragliamento ferroviario, prima non era mai esistito, al massimo potevi ruzzolare da cavallo, e così per tutto quanto: automobile, incidente automobilistico; aeroplano, catastrofe aerea; cavalcavia di cemento armato, ponte Morandi; centrale nucleare, Chernobyl... Gli esempi sono infiniti.
Nella circostanza non voglio affermare che tutto sia partito dal famigerato laboratorio di Wuhan, a volte è meglio un non so di tante inutili parole -
"su ciò di cui non possiamo dire dobbiamo tacere", intimava un altro filosofo. Ma trovo non sia un atteggiamento superstizioso e antiscientifico mettere in conto che un incidente potrebbe effettivamente essere avvenuto, o avvenire in un futuro anche vicino, alla prossima curva sull'autostrada che conduce alle magnifiche sorti e collettive. Cosa fare, allora?
L'unica cosa certa è impegnarci per rendere sempre più sicure le nostre tecnologie. Ma con la consapevolezza che non potremo mai cancellare interamente quell'ombra di cui parlava Virilio, è il reverse del cappotto tiepido della modernità.

sabato 18 aprile 2020

Habeas corpus, o sulla differenza tra ovvio e intelligenza


Rimango sempre affascinato di fronte alle manifestazioni dell’ovvio. Ha questa caratteristica l’ovvio: non è sbagliato, anzi nella maggior parte dei casi è giusto, corretto, a volte perfino ineccepibile. E perciò consolidato in abitudine. Proprietà che lo fanno confondere con l’intelligenza, la quale non è per nulla ovvia – non c’è niente di più anti abitudinario dell’intelligenza – e al contrario ricerca percorsi inediti a problemi vecchi nuovi.
Ciò avviene quando l’ortodossia dell’ovvio incontra degli ostacoli accidentali. È il caso recente dell’insegnamento. Scoppia un’epidemia su scala planetaria. Cosa fare? Proviamo con la didattica a distanza, che previene i rischi di contagio e consente, in periodi di emergenza, di portare avanti i programmi scolastici. Mi pare una risposta intelligente, no? Possiede infatti dell’intelligenza quel carattere pragmatico di valutazione caso per caso, in cui il problema può essere risolto anche solo parzialmente, almeno quando non vi fosse una soluzione ottimale. Magari cambiando funzione a un mezzo che nasce per altri scopi, come il web.
Leggo però di una lettera appena indirizzata alla Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, in cui i firmatari sono genitori, insegnanti, psicologi e chi più ne ha più ne metta, meglio se con un titolo accademico davanti. Le ricordano che la didattica a distanza non può sostituire la scuola, nella forma di un insegnamento in presenza. Che dire… In linea di principio è impossibile non essere d’accordo: l’educazione a distanza non può etc. etc. Quello che scrivono loro, insomma. È semplicemente ovvio.
Ma perché inviare questa lettera proprio adesso, mi chiedo? Ora che l’insegnamento in presenza si tradurrebbe in un rischio concreto per la salute. Capisco così che un’ultima caratteristica dell’ovvio, a renderlo così popolare, è la percezione di un accrescimento del proprio valore: come mi sento fico, ganzo, smart a dire le cose come stanno, a cantargliele in faccia alla Ministra. Al punto che viene il sospetto che questo smania di obliterazione della propria intelligenza nasconda un dubbio occulto sulla stessa.
Se ne ricava che la frequentazione dell’ovvio è prerogativa dei cretini, magari non cretini totali ma fuochino, la direzione è presa, c'è l'abbrivio. Una strada che porta alla cassetta delle lettere più vicina in cui imbucare il proprio appello, dove si rivendica una sorta 'habeas corpus'. Quello dell’insegnante e degli allievi a fronteggiarsi nuovamente, e, mentre l’uno scrive qualcosa sulla lavagna col gessetto, gli altri si sparacchiano palline di carta con la cerbottana ricavata dalle biro Bic, dando prova incontestabile di  intelligenza: stornare, come già visto, un mezzo a funzione diversa. Qualità che proprio non riesco a riconoscere agli estensori della missiva.

venerdì 17 aprile 2020

Mamme no vax

Nei giorni scorsi ho scritto che l'unico effetto positivo dell'epidemia è la scomparsa dall'orizzonte pubblico dei no vax. Mi sbagliavo. Ho appena letto di alcune prese di posizione delle cosiddette  mamme no vax – termine meraviglioso, da titolarci un film o un romanzo – che già si preparano all'evento "funesto" di un vaccino con forme ipotetiche di disobbedienza civile, essendo del tutto ipotetico anche il vaccino. Il loro pensiero è a un tempo folle e geniale, e potrebbe così essere sunteggiato: dal momento che l'influenza stagionale causa nel mondo diverse centinaia di migliaia di morti, spesso perfino nell'ordine di milioni (il calcolo è presto fatto: in media l'uno per cento degli influenzati muore per cause connesse alla malattia, e viene, sempre in media, contagiato ogni anno il 30% dei sette miliardi e mezzo degli abitanti del pianeta), a questo punto perché non morire anche di Covid-19? È una questione di democrazia, sembrano suggerirci le madri no vax. Dunque non cercare di evitare i morti per l'influenza – ad esempio vaccinandosi di più, non sia mai detto! – e invece fare pari e patta con le morti da polmonite virale. È il principio del mal comune mezzo gaudio. Se ti rompi una gamba spezzala anche al tuo amico, e vedrai che poi stai meglio. Quando facevo le scuole elementari, in simili casi, si utilizzava un'espressione che più politicamente scorretta non si può: "bravo, hai vinto il mongolino d'oro!" Davvero orrenda espressione per tempi diversamente orrendi. Questi.

giovedì 16 aprile 2020

Il pane


Ieri è morto nella sua Pesaro Mirko Zagor Bertuccioli. E chi è? La stessa domanda che mi veniva fatta quando dicevo che La canzone del pane è uno dei pezzi più belli degli ultimi vent'anni, quelle rare perle che riescono a cambiare l'umore di un giorno partito storto e farti canticchiare ovunque, è impossibile resistere alle parole: "quando a casa tornerai, vienimi a trovar, io ti posso offrire il pane..."
Non che poi venga detto molto altro, l'offerta del pane, ripetuta ossessivamente come in un romanzo di Émile Zola, solo accompagnata da una base elettronica martellante, che più moderna non si può. Erano i Camillas, il duo pesarese di cui Bertuccioli era cantante e tastierista. Non conoscete neppure loro? Va be', continuiamo a farci del male...
Comunque aveva 46 anni ed è morto di Covid-19. Magari basta chiamarla malattia dei vecchi, eh. E se proprio vogliamo intonare qualcosa dal balcone per farci forza sopra quei tristissimi lenzuoletti con scritto andrà tutto bene, basta anche Venditti, Grazie Roma, basta, o la lagna di Morandi con cui ci ammorbano a ogni interruzione pubblicitaria in tivù: cantiamo piuttosto La canzone del pane, nessuna combinazione di parole e musica riflette meglio il desiderio e la speranza. Perché prima poi a casa, ma non questa, un'altra, torneremo. E lì troveremo qualcuno a offrirci il pane.

Potete ascoltarla a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=famtpC7t23o

martedì 14 aprile 2020

L'inferno sono gli altri


L'inferno sono gli altri, scriveva Jean Paul Sartre. Una di quelle frasi che sembrano intelligenti e ci piace ripetere in pubblico, ma sotto sotto, se ci pensiamo bene, è un po' una stupidaggine: gli altri chi, gli altri quando? Signor Sartre, cerchiamo di essere un po' più precisi. E infatti il grande filosofo francese non si è mai sognato di affermarlo seriamente, è l’estratto da una sua opera teatrale, Porte chiuse, del 1944.
Eppure la psicologia profonda ragiona secondo le stesse generiche categorie teatrali, per quanto non si sia mai bevuta quella storia dell'inferno identificato con gli altri. Ma forse sarebbe il caso di cambiare il tempo verbale: non si era. Il primo caso italiano di Covid-19, a parte i due cinesi in vacanza, è stato dichiarato il 21 febbraio. Il famoso trentottenne di Codogno. Nemmeno due mesi fa, anche se oggi sembran secoli.
Un lasso di tempo in cui si è creata una fenditura, un crepaccio tra il giorno e la notte. Di giorno terrore allo stato puro: non solo quando si avvicina uno sconosciuto, basta un lontano conoscente senza mascherina, magari vuole stringerci la mano. Ma che, scherziamo?!
Di notte però i soliti vecchi sogni, in cui, come se niente fosse, continuiamo a fare gruppo, branco, comunella. Una replica bizzarra delle relazioni che abbiamo, ma soprattutto la manifestazione di quelle che vorremmo, con donne meravigliose che spasimano per i nostri baci. Questo fino a pochissimo tempo fa, almeno.
Nelle ultime notti, gli ultimi sogni, sta infatti iniziando a fare capolino l'ansia da contagio. Non sempre va detto, ma cominciano a essere frequenti i sogni in cui mi devo proteggere dai contatti sociali, in cui l'inferno sono gli altri. Sono le movenze dell'inconscio, un film con il doppiaggio fuori sincrono dal labiale del mondo.
Quando tutto sarà finito, speriamo presto, andrà dunque rieducato anche l'inconscio, bisognerà fargli capire che gli altri a volte sono simpatici, buffi, intelligenti, e in diversi casi degli incorreggibili spacca maroni, più fastidiosi di una mosca in camera prima di addormentarti. Ma mai l'inferno.
Mentre scivoleremo dolcemente nel sonno, qualcosa però mi dice che quella mosca riprenderà a ronzare nei nostri sogni. Per molte notti. E il nostro inconscio a temere che gli altri siano ancora l'inferno. Saranno i tempi supplementari dell'incubo che stiamo vivendo, i tempi senza lancette della psiche.