lunedì 26 agosto 2019

Veronica Tomassini, o su quando la virtù diventa una gara


Su Pangea, rivista avventuriera di culture & idee presente sul web, il 20 agosto è stata pubblicata un’intervista a Veronica Tomassini, la firma è di Matteo Fais. Nel rispondere alle poche domande che rappresentano un esile canovaccio, la scrittrice siciliana parla di impegno, politica, scrittura e contestazione; in particolare quella alle politiche sull’immigrazione del governo Salvini.
La materia è ampia e complessa, ma la Tomassini sembra rubricare il tutto sotto un’unica chiave interpretativa: quella della messa in scena dei buoni sentimenti a opera di una sinistra mediamente colta, mediamente impegnata, mediamente caritatevole e insomma in tutto e per tutto media, che ha nei suoi scrittori e intellettuali il compiaciuto corrispettivo pubblico, da essa deprecato con vigore. Insomma, viene rinnovata la critica al filisteismo progressista che con Tom Wolfe, nel 1970, guadagnò il fortunato stigma di radical chic.
Tra questi sono evidenti, per quanto impliciti, i riferimenti a Saviano, Murgia, Littizzetto, Veronesi, Albinati, Raimo, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Come già in romanzi viscerali e tormentati e soprattutto belli, Tomassini gli oppone la propria esperienza di amore, eros, cicatrici, vodka, fame, freddo, pidocchi, da cui anni fa è stata risucchiata  nel tentativo di aiutare un giovane immigrato polacco, e quindi altre persone nelle medesime e disperate condizioni.
Il nocciolo del suo ragionamento a me appare il seguente: io ho fatto più di voi, ho infilato le mie mani, mani di giovane donna innamorata, dentro la merda e il sangue, e invece voi che fate? Meno, molto meno al mio confronto. Da ciò ricava che i suoi colleghi sono dei “sovversivi da davanzale”, che si cimentano in un impegno a basso voltaggio solo per ottenere dei benefici dal sistema editoriale, ancora ben collocato dentro la cosiddetta egemonia culturale di sinistra; e questo, per inciso, probabilmente corrisponde a verità.
Nella logica formale, la struttura del suo pensiero prende il nome di induzione, e opera attribuendo delle ragioni generali a comportamenti particolari; intendo, le ragioni dell’impegno di Saviano potrebbero, verosimilmente, essere diverse da quelle della Murgia, e quest’ultime da ciò che muove gli altri scrittori o semplici cittadini che contestano le politiche immigratorie della Lega di Salvini. Inoltre, l’appassionata intervista sconta quel che potremmo chiamare effetto asticella, come avviene nel salto in alto. Un’asticella che va continuamente alzata per raggiungere il record mondiale della virtù.
Se dunque, e nessuno glielo contesta, Tomassini si è adoperata con generoso sforzo nel tentativo di aiutare gli ultimi della terra, c’è qualcuno che ha fatto certamente più di lei. Mi immagino ad esempio un’ipotetica intervista a Gino Strada: “Queste scrittrici che rimproverano ai loro colleghi di dire molto e fare poco, ma che cavolo vogliono, di che diavolo cianciano?! In confronto a quanto ho fatto io scompaiono nel muschio del presepe, sono delle sovversive da social network…”
Ma anche il molto realizzato da Gino Strada non sarebbe niente, almeno se lo rapportassimo, mettiamo, con San Francesco d’Assisi, e così via all’infinito alla ricerca di un’inconcussa purezza. Per quel che mi riguarda, nella vita ho fatto davvero pochino per aiutare il mio prossimo evangelico quanto il laico altro da me, ma sono grato anche per queste imperfette e forse (in taluni casi almeno) interessate misure di solidarietà umana e politica, Richard Gere che con una mano si ravviva la zazzera bianca e con l’altra porge un piatto di pasta e fagioli. E perché no, mi chiedo?
Certo, non sarà moltissimo rispetto alla catabasi negli inferi dell’immigrazione slava compiuta da Veronica Tomassini, ma, come suggerisce la parabola dei talenti, che ciascuno restituisca in base al capitale ricevuto, ciascuno in base alle proprie energie e capacità. E lo sprezzo con cui la Tomassini sputa sui modi e le forze degli altri scrittori, non le fa certamente onore.

domenica 25 agosto 2019

Deforestazione, o sulle linee invisibili della storia


È affascinante assistere al lavoro degli storici. Io li guardo con gli occhi ammirati ma anche un poco impiccioni – vorrei mettere il becco ogni volta, dire la mia – di un anziano di fronte a un cantiere stradale. In particolare, la capacità che hanno gli storici di individuare delle linee invisibili: sono lì, a posteriori (dopo che gli storici le hanno ripassate col pennello) ci sembrano evidenti, come cavolo ho fatto a non vederle?! Ma mentre le persone vivono, amano, urlano quando il dentista sfiora il premolare, il mondo si presenta con l'illusoria continuità di sempre.
Per decine di anni, a volte anche centinaia, tutto scorre composto, non necessariamente placido e però senza troppi scossoni, i giorni sono uguali ai giorni. Ma poi zac, lo storico traccia una linea, o forse la porta solamente in superficie, la spolvera come si fa con i campi da tennis in terra rossa battuta, e niente è più uguale a prima. Ci sono eventi che fanno rumore, clamorosi cambi di scena politica, oppure battaglie che rendono il mare color del vino, come quella di Lepanto. Ma, più spesso, si tratta di fatterelli tanto piccoli che anche gli storici faticano a riconoscere la linea sottostante, come due giovani californiani impegnati nell’assemblare componenti elettroniche in un garage, dando poi al risultato il nome di un frutto.
A loro, agli storici, tocca dunque solo il lavoro finale, più simile a quello di Amerigo Vespucci che non a quello di Colombo. Ed è così solo a mappa ultimata, tutte le sigle e i confini al loro posto, che anche noi possiamo accorgerci che il passato non era una linea retta o, come alcuni ancora insistono a dire, una freccia, ma il manto di una zebra; con l'unica differenza che la distanza tra le fasce è diseguale e alcune sono più marcate di altre, effettive dogane da cui si entra in una terra nuova e straniera. Se immagino un uomo del futuro – naturalmente imbeccato da uno storico – che guarda alla nostra epoca, non avrebbe che l'imbarazzo della scelta: elezioni di presidenti col parrucchino biondo, smartphone sempre più sottili e potenti, soccorsi negati ai naufraghi e offerti a bagnanti che fanno il morto, automobili a contendersi la presa di corrente con il fohn per sfrecciare con la discrezione di un ladro...
Ma se dovessi scommettere sul momento esatto in cui il mondo verrà riconosciuto come nuovo, il Nuovo Mondo, non mi affiderei alle distopie di Aldous
Huxley, ed è anzi forse già qui, vicinissimo, come si dice a portata di mano, per quanto solo i più fortunati possono allungare la propria e toccarlo, mentre l'accesso è libero per le donne, come nelle discoteche degli anni ottanta. È infatti cosa loro, affar loro ma un poco anche nostro, che abbiamo iniziato a familiarizzare con la novità attraverso i primi film porno, si passò dagli ingombranti Super 8 a più snelle videocassette in VHS nascoste all'occhio vigile dei genitori (bastava metterci un'etichetta con la scritta Blues Brothers), divenendo in breve la prassi. Già, sto parlando della fica depilata.
Da quando a una donna o, forse, sarebbe più giusto dire a una femmina, vai tu a sapere chi fosse, è venuta questa bizzarra e geniale idea (un rasoio e un po' di schiuma, e il gioco è fatto) davvero siamo entrati nel futuro. Un tempo radicalmente nuovo in cui sbirciare tra le gambe delle nostre amanti e compagne, alle figlie preferiamo non pensare, distogliere lo sguardo come fa la commessa quando si digita il PIN, e non trovare più nulla, una pallida distesa di nulla che fa tutt'uno con la pancia e le cosce. 
Il futuro, sì. Che coincide con la caduta di ogni differenza, demarcazione cespugliosa, il sesso come altro, a prendere la forma vagamente infantile e incestuosa del medesimo: le fiche tutte uguali, la carne che si fa finalmente carne, eucarestia. Un futuro che non possiede le divise azzurre e le orecchie appuntite di Star Treck, ma è ugualmente standardizzato e uniforme. Eppure, almeno per me, sempre tiepido e accogliente.

sabato 17 agosto 2019

Cui prodest, o sulla (presunta) congiura pluto-medico-farmaceutica


Conoscevo uno spacciatore di eroina. Io non ne ho mai fatto uso e, proprio per questo, lo spacciatore mi invitava a riflettere: “Ma tu credi a quello che scrivono i giornali, davvero credi che noi spacciatori tagliamo la droga con dei veleni. La verità è che quando qualcuno muore per cosiddetta "overdose", è perché la roba era troppo pura. La gente si abitua a quella merda tagliata con sostanze del tutto innocue, tipo integratori alimentari in polvere, hai presente il Meritene, e continua ad aumentare la quantità. Ma la volta che gli capita roba buona, sì, insomma, poco tagliata, ci lascia le penne. Ogni morto è per noi un cliente in meno, siamo stronzi ma mica scemi.”
Non ho più rivisto il mio conoscente spacciatore, e confesso che non mi manca. Mi sono però tornate alla mente le sue parole leggendo le polemiche sulla scomparsa di Nadia Toffa. Ma davvero, anche in questo caso, qualcuno è così scemo da credere che la medicina ufficiale sia una sorta di Spectre, composta da persone (centinaia di migliaia di persone, tutte complici ed omertose) che avvelena i pazienti oncologici per il solo gusto di farlo, quando già sono disponibili miracolose terapie naturali in grado di risolvere ogni male?
Certo, la medicina non è composta solo da capaci e virtuosi – le case farmaceutiche, in particolare, mi lasciano dei dubbi… – ma anche per loro ogni paziente morto è un cliente in meno. Se non ai test in doppio cieco, i laboratori tecnologici, il duro lavoro in cui molti ricercatori in buona fede sono impegnati, pensiamo al vecchio detto latino: cui prodest, a chi giova?

sabato 10 agosto 2019

Facebook again, un polittico

Prima tela

"È inutile che ti affanni, tanto potrà provare interesse e affetto per te, come per chiunque altro, una manciata di persone, al massimo una manciata..." 
A volte mi torna in mente questa frase che mi disse oltre vent'anni fa una psicanalista, in un'era geologica in cui ancora non esisteva Facebook. Peccato, perché non ci avrei messo tutto questo tempo a comprenderla, quando su Facebook mi appare il sotto testo a ogni intervento, che sia un vagito incorniciato dal pronome io o il tentativo, cocciuto quanto ingenuo, di articolare un pensiero critico.
In ogni caso, una grande lezione di vita, senza neppure il bisogno di pagare uno strizza cervelli: l'ascolto, l'attenzione e in casi rarissimi anche il barlume di un sentimento, sui social network provengono sempre da una manciata di persone. Nel mio caso erano, grossomodo, una quindicina quando avevo poco più di cento contatti, e sono una quindicina ora, con il contatore che segna 1853.
Cambiano nel frattempo i nomi, i volti, forse anche l'odore che non avverto, ma rimane il sigillo di quella cifra: quindici, come il gioco del quindici, un rompicapo che non sono mai riuscito a risolvere. E così il mistero per cui uno sconosciuto, nonostante o grazie a quel che scrivo, ha attenzione per me, mentre la maggioranza se ne fa giustamente un baffo, e come nella canzone di Lou Reed continua a battere ostinatamente il proprio tamburo. 
Un'esperienza che immagino diffusa, per quanto con numeri mutevoli e fino ad arrivare alle iperboli dei cosiddetti influencer, ma che, prima o poi, da qualche parte trova una dogana abbassata, un limite, su cui si infrange ogni ardore espressivo. Da qui l'ombra minacciosa del fallimento, del manca qualcosa, qualcuno, all'appello della maestra. O non sarà magari il mio quel banco vuoto là in fondo...? 
Le cose potrebbero però stare in altro modo, mi sono detto di recente. Non sarei insomma passato dal dieci all'uno per cento di gradimento, così come attestato dai like, ma piuttosto rimasto all'interno della manciata, manciata di mani, che mi sorregge anche se ogni volta cambia forma e provenienza, a evitare il tonfo verso un abisso che non è forse il male maggiore... 
Ringrazio dunque quelle mani, quegli occhi, e quell'affettuosa quindicina di lettori. Se cercassi di scrivere in modo diverso per aumentare i frutti nel mio paniere, sarebbe come indossare la giacca di Adinolfi, e non riuscirei a riempirla nemmeno con una dieta di sole fettuccine. Quindici è invece la mia taglia: una extra small che veste slim fit, ma è tiepida e accogliente.

Seconda tela

L'algoritmo di Facebook mi suggerisce di contattare solo giovani donne, perlopiù carine. Ho un elenco pendente di oltre trecento fanciulle, una più bella dell'altra, una più desiderosa dell'altra di diventare mia "amica". Le richieste che ricevo quotidianamente, anche sei o sette al giorno, come per altro capita a chiunque abbia superato i mille contatti (è come con il denaro: più ne hai e più te arriva), le richieste provengono però da uomini adulti miei coetanei, e cioè come si dice 'di mezza età'. Immagino siano carini anche quelli, non voglio insinuare, anche se non possiedo parametri di valutazione obiettivi. Ma il dubbio più incalzante è un altro: si diceva che la tecnologia si sarebbe sostituita all'umano, sapendo di noi più di quanto noi stessi sappiamo. E cosa sono io per la tecnologia? Una specie di playboy seriale, un po' fanè ma ancora arzillo. Peccato che, per la realtà statistica, io sia invece un ferro vecchio...

Terza tela


Trovo questo post, pubblicato poco più di un'ora fa da un mio contatto, l'equivalente di un trattato di sociologia. Ma in tre sole righe. E una domanda, sotto forma di sondaggio: "ascelle non depilate? Io vorrei non vorrei ma. Ditemi la vostra."
Vostra a cui fino adesso hanno dato corso, rispondendo con slancio subitaneo, ottantatre persone, nostri simili, fratelli. Ottantatre!
Se l'epoca attuale ha uno Zeitgeist, io lo immagino accucciato dentro a quella domanda, come un bambino che non vuol farsi vedere ma spera di essere scoperto. E in quelle risposte che saranno certamente scanzonate, ironiche, ammiccanti, tanto da tirare il tempo con cui concludere senza ingombro di pensiero la giornata.
Già domani non saranno infatti più nulla, e bisognerà trovare una nuova domanda, un nuovo sondaggio: "cazzo circonciso? Io vorrei non vorrei ma. Ditemi la vostra."

Quarta tela

Non sapevo di essere iscritto a un gruppo che si chiama "Leggo letteratura contemporanea". In genere sto alla larga dai gruppi, tutti i gruppi ma in specie quelli che accetterebbero tra gli iscritti uno come me, per dirla con le parole di Groucho Marx.
Del gruppo che ha avuto la malaugurata sorte di contemplarmi, ritrovo, sulla mia bacheca Facebook, un messaggio appartenente a uno dei membri, deduco dal consenso bulgaro essere particolarmente seguito. Al contenuto esatto non posso risalire (è un gruppo chiuso e ora ne sono uscito) ma corrispondeva a qualcosa del genere: "È morto Camilleri, lo skrivo xke so ke piaceva a un tot".
A me questo messaggio ha fatto sorridere, e se pure è una cosa che faccio raramente - rispondere ai post altrui - ho pigiato il tasto reply e digitato: "Ma è morto Camilleri o Kmllri?"
Insomma, una frase scherzosa ma innocua, nella quale si prendeva bonariamente in giro la difussione delle contrazioni nominali, che mi appariva a maggior ragione incongrua in un gruppo che fa della letteratura il proprio oggetto.
E però che succede, cominciano a piovere insulti, mi danno del povero idiota, con corollario di faccine disgustate e pollicioni blu per chi mi mette all'indice... Ma cosa avrò detto di tanto scandaloso?!
Controllo meglio il post da cui tutto è sortito, come una torta al forno stava lievitando ulteriormente nel consenso, i like superavano il mezzo migliaio, e mi accorgo che la persona che l'ha scritto soffre di gravi problemi di salute, è su una sedia rotelle e ha una mascherina al volto collegata a tubicini trasparenti, immagino per fornirgli l'ossigeno di cui difetta. 
La prima sensazione è quella di un' incontenibile vergogna: mi sono burlato di una persona in stato di disgrazia, forse scrive a questo modo perché non ha agio nel farlo normalmente, sì, è certamente così, non riesce a pigiare alcune lettere, o gli procura dolore farlo. Scemo scemo scemo, ecco cosa sono! 
Leggendo altri suoi messaggi, mi accorgo però che riesce a scrivere anche in forma più estesa e consueta, e i miei dubbi prendono una diversa direzione. Una condizione oggettiva di minorità può essere traslata, su un piano diverso, in virtù 'a prescindere', blindando a priori ogni forma di critica, anche quando ironica...?
Mi viene in aiuto il fantasma di Dino Risi, che nella sua disincantata intelligenza amava ripetere: "Il razzismo finirà quando si potrà dare dello stronzo a un negro."
Ma allora anche il populismo sentimentale finirà quando si potrà dire, senza alcun malanimo o sarcasmo, che una persona con gravi handicap fisici ha scritto una cosa involontariamente comica. In caso contrario, continueremo a considerare i diversi, in qualcosa, diversi in tutto e per tutto, che è la forma più subdola e tenace di razzismo.
Ma si sa, Facebook non è il luogo della sottigliezza intellettuale, e così mi dispongo di buon grado a fare da capro espiatorio: è morto Kmllri, viva Kmllri e ogni forma di patetismo e semplificazione!


Quinta tela

Ci sono alcuni viaggi che uno fa solo per scoprire la direzione dei propri passi. Nella maggioranza dei casi si ha però già in tasca il biglietto di ritorno, oltre alle prenotazioni per gli alberghi in cui si sosterrà, la lista dei ristoranti consigliati dal Gambero Rosso, il siero antivipera. La chiamano previdenza, ma è forse un modo per disinnescare quella miccia a cui l'andare appicca la scintilla, e che secondo Paul Bowles configura la differenza tra turista e viaggiatore.
Seguendo il suo pensiero, non fa probabilmente eccezione Facebook: ci sono anche qui i turisti, persone che hanno chiaro in partenza il gruzzoletto di like che intendono raggranellare ogni giorno, e poco importa se a mendicarli sia la foto del gattino o la coscia allungata sulla spiaggia, l'invettiva contro il politico di turno, a far da contraltare ai viaggiatori da social network; un po' di puzzetta sotto il naso ma anche molta voglia di scoprire cosa ci fanno lì, nel regno degli uguali, sentendosi magari un poco più uguali degli altri, come i maiali della fattoria di Orwell. Nel mio caso, è però stato un altro scrittore ad aprirmi gli occhi, o meglio a farmeli riaprire insieme alle pagine del Jakob von Gunten di Robert Walser, in cui ho trovato questa frase che da ragazzo avevo sottolineato a più mandate di inchiostro:

"Tu adesso sei, per così dire, uno zero, fratello carissimo. Ma quando si è giovani, bisogna anche essere degli zeri, perché non c’è niente di più dannoso che significare presto, precocemente, qualche cosa".

L'ho letta in silenzio. Poi a voce alta. Numerose volte. Facendo le pause, tutte le pause prescritte dai segni di interpunzione, come quegli attori che vestono sempre di nero. Ma a ogni ripetizione il nero si schiariva, fino a che mi sono sentito addosso l'impermeabile sabbia del tenente Colombo, quando si gira all'improvviso e spara la domanda che inchioda l'assassino. Una domanda del tipo: che tu sia un turista o un viaggiatore, come io mi illudevo di essere, fratello o sorella carissimi, non sarà che quel che ci unisce su Facebook è la determinazione a non essere degli zeri...?
Per questo gli altri devono ascoltarci, buon per loro se lo fanno, con tanto di sigillo di un bel pollicione blu, altrimenti si perdono qualcosa di decisivo. Si perdono ciò che abbiamo da dire, la singolarità irripetibile della nostra opinione su ogni cosa, che coincide con il gesto ampio e arbitrario del significare, dando così senso a un'esperienza che dalla realtà ha smesso di ottenere risposte.
Ma tale urgenza affermativa, per non essere appunto degli zeri, sta progressivamente consumando il suo complemento oggetto (dire che cosa, dirla come e con quali parole?), al punto che il monito dello scrittore svizzero è stato diffusamente contraddetto: un'umanità sempre più giovane, anche se non forse in senso anagrafico, anzi e come le statitistiche suggeriscono ogni giorno più vecchia, ad Occidente almeno, con la smania di "significare presto, precocemente, qualche cosa".
Si dice, insomma, diciamo come anche io sto facendo ora, senza prima aver colmato lo zero in cui siamo iscritti di attesa paziente e studio e curiosità, fino ad arrivare a 0,1; poi, se va bene, a 0,2 e così via. Qui si parte invece subito da 10 - so già tutto, tutto quello che mi serve per comunicare, e il resto non mi interessa -, con un atteggiamento che per Robert Walser corrisponde al male maggiore, l'epidemia che affligge il nostro tempo. In cui turisti e viaggiatori si sono finalmente ricongiunti, ma a essere sparito è il mondo da misurare con lente e silenziose falcate. E solo dopo, molto dopo, postare i selfie.

Sesta tela

Facebook. Per molti rappresenta la realizzazione dell'ideale democratico applicato alla comunicazione, e questo non può essere contestato. Ma, in concreto, tutto ciò cosa comporta? Ad esempio poter scrivere un post come il seguente, appena letto sulla bacheca di un mio contatto:
Un uomo del 1960 italiano ieri si è gettato sotto un treno a Montelupo Fiorentino. E' morto. Pare si tratti di suicidio. I treni hanno avuto pesanti ritardi.

Sembra la breve di cronaca di un vecchio domenicale di provincia. Con una differenza significativa. Se il caporedattore si fosse trovato il testo sulla scrivania, avrebbe immediatamente convocato l'autore nel suo ufficio. Quindi gli avrebbe chiesto: "Hai già visto un uomo gettarsi sotto un treno, GETTARSI con finalità diverse dal suicidio?"
A quel punto, l'inesperto redattore sarebbe stato invitato a cambiare il verbo. L'uomo del 1960, ossia un cinquantanovenne, scrivi allora uomo di cinquantanove anni che evitiamo al lettore di fare i conti, l'uomo avrebbe infatti potuto FINIRE sotto un treno o esserne stato TRAVOLTO; a questo modo, non sapremmo se si sia lanciato o magari scivolato, così giustificando la formula dubitativa.
Diversamente, andrebbe omesso il verbo successivo, l'intransitivo parere al presente indicativo, pare, per non rendere il fatto drammatico attraverso una formulazione comica, così come ora risulta.
Tutte acquisizioni di consapevolezza narrativa che, nel passato, avvenivano per il tramite della struttura verticale di una redazione giornalistica, dove l'impeto delle nuove leve era contenuto e direzionato da chi aveva a lungo battuto i sentieri della lettera 22.
Ma ora non più. È come se, oltre al muro di Berlino, fosse crollato ogni altro muro, tra cui quello espressivo. E così si può scrivere con disinvoltura, racimolando la propria razione quotidiana di like (più di trenta nella circostanza), che lanciarsi sotto a un treno non equivale a suicidarsi, magari si voleva vedere se sotto i treni fioriscono regole logiche alternative al buon senso. Quelle che troviamo su Facebook, con pesanti ritardi per quei trenini che viaggiano dentro la testa e chiamiamo neuroni...


Settima tela


Tra i miei contatti Facebook, uno scrittore cattolico, Demetrio Paolin, lamentava la scelta di Benigni di leggere il Cantico dei Cantici sul palco dell'Ariston. "Perché non hai scelto un passo dell'Esodo, Roberto", gli chiedeva attraverso un post vigoroso e occhiuto, ad esempio "quando l'Angelo del Signore stermina tutti i primogeniti degli egiziani? Perché non hai letto Geremia quando Dio si compiace di aver sterminato i nemici? Perché non hai letto San Paolo, l'Apocalisse?"
Paolin continuava argomentando che l'attore toscano ha "dato del cristianesimo e della fede una visione all'acqua di rose", quando, "Roberto, no il cristianesimo non è bellezza, o meglio la bellezza del cristianesimo non quella roba che hai detto tu, la parola di Dio non è quella roba che hai detto tu, ma è speranza che il mondo finisca, è speranza della parusia, del giorno che verrà, della resurrezione dei corpi dei morti, il cristianesimo è una cosa tremenda, è dire che non te ne frega di questo mondo, ma di come il mondo finirà..."
Insomma, quella visione tragica e minacciosa con cui a dottrina ci facevano cacare sotto, e che sarei anche disposto a rispettare se, come in questo caso, i cattolici non pretendessero ogni volta il monopolio interpretativo su tutto ciò che sfiora il bacile in cui intingono la mano destra, prima di portarla alla fronte e completare il segno della croce.
Ciò che voglio dire è che Benigni, a Sanremo, non si è per nulla avventurato in un'esegesi teologica della religione giudaico cristiana nel suo insieme, ma ha semplicemente estratto da quel canone scritturale un piccolo pezzo, il tassello di un puzzle più grande, per farlo risplendere di luce propria, che in questo caso corrisponde alla potenza erotica dell'amore, l'amore fisico e mondano.
È questa una interpretazione esaustiva della Scrittura? Certo che no, ma è una interpretazione più che legittima, oltre che svolta con commossa partecipazione. D'altronde, dal momento che stiamo parlando della Bibbia d'Israele, un rabbino risponderebbe che per ogni testo sacro esistono cento, anzi mille interpretazioni.Tutte giuste. Mentre per i cattolici, a partire dalla struttura gerarchica con cui si sono dati forma (leggi Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant Uffizio, ex Inquisizione) di interpretazione ne esiste solamente una. La loro.


Ottava tela

Oggi un mio contatto Facebook ha pubblicato un post in cui si augurava un mondo diverso, o meglio un piccolo villaggio domestico e familiare - la cerchia dei propri amici più cari, con una circonferenza che si estende ai conoscenti - in cui "le persone somigliano alle parole che dicono."
Veniva aggiunta una minima teoria di situazioni virtuose: "persone che ti dicono ti voglio bene e poi sappiamo restare; sono preoccupato per te e poi mi chiedano come è andata; ti chiamo alle cinque e poi lo fanno". Coerenza, insomma, e mi stava per scappare un like che si sarebbe aggiunto al già cospicuo gruzzoletto.
Poi però il mio sguardo si è appuntato sulla frase conclusiva: "persone reali che mi dicano cose reali", e lì ho immaginato scenari diversi e inquietanti. Ad esempio l'amico che, invece di uno zuccheroso ti voglio bene, le dice "ma come puzzi di ascelle oggi", oppure "mi sembri più vecchia del solito", "ti si sta afflosciando il sedere..."
Non perché voglia ferirla, intendo, ma semplicemente e come il mio contatto femminile si augurava, perché è una persona reale che realmente pensa tutto ciò. O per dirla con Edith Piaf: "je suis comme je suis", che è la classica giustificazione dei cafoni.
Ho così iniziato a sognare un mondo di pura fiction, estensione dell'immaginario disneyano; o perlomeno relazioni con chi sia sufficientemente intelligente da includere, tra vero e falso, una terza categoria. Quella dell'omissione.
Riconsegno allora al mio contatto la bella gente reale che ti dice sempre cosa pensa, e per me dipingo un orizzonte utopico il cui fondale è un'assolata piazzetta siciliana, mentre al centro della scena uomini con baffi sottili e la nera coppola in testa, a pizzicare lo scacciapensieri in un clima di diffusa omertà. Perlomeno so che non mi confesserebbero mai quanto si stiano diradando i miei capelli, o banalizzando i miei pensieri...

Nona tela

L’invito a mettere mi piace alla propria pagina Facebook, sta ai social come, nelle relazioni concrete tra persone, la supplica a farsi dire ti amo dal primo che passa per la strada; ma poi anche dal secondo, dal terzo e così via. Due gesti totalmente privi di razionalità, estrema deriva dei folli o degli innamorati persi. In questo caso di sé stessi.


Decima tela



Ma perché su Facebook non leggo mai dei post che parlano di profumi – è appena uscito Immortelle Corse di Marc-Antoine Corticchiato, il naso più talentuoso tra le nuove generazioni – o di altre cose leggere ma non per questo fatue, come l’infinità varietà dei fiori?

Mi imbatto piuttosto e di continuo in goffi slanci dentro i massimi sistemi, un certo appeal riscuote sempre la politica, ma in una declinazione tranciante e oppositiva, della serie io ho capito tutto e tu sei cretino, per dilagare infine in celebrazioni (o negazioni) artistiche e letterarie, o nel fumoso psicologismo dei rapporti uomo\donna\figli – ah i figli, i figli: queste moderne medaglie al valore da appuntarsi sul bavero!
Altre volte, sono le pose buffe del gattino di famiglia a prendersi la scena pubblica; ma è appunto il nostro gatto, cosa nostra, non come direbbe Aristotele la “gattità” in generale, in cui avventurarsi con la disposizione aperta dei curiosi. Tutto ciò mi fa sospettate che questo mezzo induca una auto percezione elevatissima della propria collocazione nel mondo, così lontana, mettiamo, dai vecchi parrucchieri di provincia, dove gli uomini parlavano di calcio e motori e le donne si sussurravano piccoli pettegolezzi, tra cui la notizia di un nuovo profumo alla violetta da provare, a cui aggiungevano un avverbio: assolutamente, da provare assolutamente.
Ecco, io non ho proprio un cavolo da dire sulle elezioni regionali – è un mio limite intendo, non una presa di posizione ideologica –, né su come risolvere disuguaglianze sociali, ondate migratorie e cambiamenti climatici, tanto meno su quale debba essere l’ortodossia delle relazioni con l’altro sesso, pardon, gender. Ma, cosa ancora più grave, non posseggo neppure un criceto di cui eternare le marachelle in folgoranti istantanee, di cui l’umanità ha certamente bisogno.
Però ho acquistato Sienè di Tiziana Terenzi, e lo trovo un profumo complesso, stratificato, strano, con note di cipresso, ulivo, iris, ginepro e cuoio, ma anche una punta quasi impercettibile di miele. Insomma, un profumo da provare. Assolutamente!

Undicesima tela

Ho un piccolo suggerimento per Mr. Zuckerberg. Il problema è stranoto, e lamentato da molti: Facebook promuove gruppi aperti e inclusivi, ma, nello spazio dei commenti, vigono prassi implicite e consolidate che sono totalmente gerarchiche, quasi feudali. Ma mi spiego con un esempio.
Se Tiziano Ferro pubblica un post e Biagio Antonacci lascia un commento (magari, come i testi delle sue canzoni, un po' banalotto), è molto probabile che tra i due cantanti si avvi uno scambio, cosa che non avverrebbe se il medesimo commento fosse lasciato da un Pinco Pallino qualunque. E lo stesso tra giornalisti, sportivi, intellettuali, politici e perfino tra quegli inetti assoluti che ora vengono chiamati influencer. Se ne ricava che chiunque abbia guadagnato un minimo di rinomanza pubblica tende a privilegiare un dialogo tra pari; di rango se non altro, non necessariamente di acume espressivo.
Per la mia esperienza ho maggiore consuetudine con l'ambiente degli scrittori, ma anche qui vedo che lo scambio finisce col decantare in gruppi chiusi ed elitari, ciarlieri in special modo con chi viene percepito come simile, ossia ratificato da logiche esterne alla comunicazione; il sistema editoriale, per intenderci.
Vi è però anche un curioso paradosso, che vede nei soggetti additati come "cattivi" - personalità non allineate, a volte ciniche o sprezzanti - una disposizione più aperta e orizzontale, per quanto non di rado burbera. E penso a scrittori spigolosi come 
Vitaliano Trevisan (con cui ho avuto scambi anche fecondi), oppure Massimiliano Parente, Gaetano Cappelli, Veronica Tomassini; autori spesso e impropriamente definiti 'di destra', per quanto è significativo che sia proprio nel terreno della sinistra militante a germogliare più rigoglioso il seme dell'elitismo, che fa storcere il naso con quella tipica espressione da puzzetta.
Ora, percepisco in questa asimmetria relazionale un malessere diffuso, causato dall'illusione, sempre prodotta dal mezzo, che davvero si potessero stabilire rapporti paritari con i propri beniamini. No, non è così, e forse non è perfino il male maggiore, già che la specie a cui apparteniamo ha questa tendenza a disporsi per tribù, spesso idiosincratiche le une con le altre; e per quanto aggiornate e ipermoderne, ci saranno sempre dei cacicchi a tirare le fila, oltre alla sterminata classe dei paria.
Per rendere la situazione più trasparente, propongo allora - ed è qui che mi rivolgo a Mr. Zuckerberg - di istituire una categoria intermedia tra l'amico e il perfetto sconosciuto; che non è nemmeno il seguace, colui che ti segue senza richiederti l'amicizia, il follower insomma, il quale ha comunque facoltà di commentare i post.
Mi riferisco a una figura antica, quella degli acusmatici. Nelle scuole pitagoriche erano allievi, per così dire, di serie B, i quali dietro un velo opaco ascoltavano attenti le lezioni del Maestro, ma non potevano interloquire con lui. E non sarebbe molto più onesto se avvenisse anche qui?
Uno stato di fatto - quello delle classi sociali, presenti a ogni latitudine dell'umano - diventerebbe riconoscibile e dunque più accettabile, magari perfino sovvertibile con una bella rivoluzione telematica. Evitando, nel frattempo, ai fedeli di Tiziano Ferro di attendere una risposta che non arriverà mai, se non nella forma di un pollicione alzato a fare palpitare di speranza.

Dodicesima tela

Mi capita sempre più spesso. Con le donne. Non con tutte le donne, intendo. E' solo qui, su Facebook, che le donne sembrano difendersi da me, attraverso quelle strategie di evitamento (più che legittime, intendiamoci) messe in opera dalle femmine di ogni specie animale quando indisposte all'accoppiamento. Ma mi spiego meglio.
A volte succede di lasciare un commento benevolo a un post femminile, o di inviare, ancora più raramente nel mio caso, un messaggio privato che non è mai volgare, tanto meno ammiccante. Un complimento, insomma. Ciò che dovrebbe essere prassi comune e che è lo stesso mezzo a suggerire; come diceva quel tale, "the medium is the message".
Eppure, quasi sempre percepisco dall'altra parte la mossa scacchistica dell'arrocco, con il re (in questo caso la regina) che si trincera dietro una corte di elusività che non saprei come altro chiamare se non con l'espressione colorita "qui non c'è trippa per gatti".
Ora, se la mia sensazione fosse corretta (potrei sbagliarmi, come cantava Ivano Fossati sono pur sempre "carte da decifrare"), se la mia sensazione fosse giusta si possono ricavare alcune considerazioni di carattere più generale:
1) gli uomini italiani, già che la località del fenomeno è importante, direi addirittura decisiva, passano effettivamente il tempo a insidiare le conterranee sul web, quando non a molestarle con selfie dei propri comunissimi attributi - e che diamine, un cazzo tra le gambe non lo si nega a nessuno, manco a te, maschio adulto in erezione formato jpg, avessi almeno risolto la congettura di Riemann!
2) in quanto uomo italiano fallomunito, le donne italiane fanno benissimo a guardarsi da me, o ancora più precisamente da tutto ciò che non risulta appetibile al loro sguardo selettivo;
3) assunto dunque che sono un uomo, e oltretutto - aggravante geografica - italiano, oltre che un facebooker spesso riluttante, io ho dunque perso, se mai posseduto, quell' appeal erotico che mi legittimerebbe come interlocutore privilegiato, dando per scontato che la comunicazione avviene a tale unico livello. Il sesso.
Il buon senso mi porta così a liquidarmi da solo, a dichiararmi obsoleto come oggetto sessuale funzionale alla riproduzione, anche se il mio ragionamento ha una coda non trascurabile. E cioè qualcuno, uomini e donne, ma direi a questo punto soprattutto donne e sempre e ancora italiane, già che i comportamenti tra generi si riflettono nello spazio, e sono così le donne italiane a difendersi da attacchi sessuali spesso solo presunti, qualcuno, dicevo, davvero è convinto che a cinquantatré anni suonati si abbia qualcosa da 'riprodurre', da riprodurre sessualmente?
Non sarà che siamo entrati in una stagione della vita in cui ci si può anche guardare, sfiorare, perfino intercettare e sedurre, senza questa ossessione alla concupiscenza gagliarda, o per converso a una riluttanza da puzzetta sotto al naso. Ciò che sto provando a dire è che uno dei pochissimi privilegi della cosiddetta mezza età, è che la specie può tranquillamente farsi un baffo di noi, consegnando ad altri - più arzilli virgulti, sinuose e toniche silfidi in posa sul bagnasciuga - il compito di tirare avanti la baracca.
Detto in altre parole, pure in un luogo sgangherato come questo abbiamo finalmente l'occasione di diventare persone, esseri umani e non solo sex machine, con tutta la complessità che il termine comporta; tra cui è inclusa anche la sessualità, che viene però di gran lunga ridimensionata. A me sembra che questa occasione potremmo anche coglierla, senza continuare, comicamente, a percepirci come principessine sul pisello, o come piselli alla disperata ricercata di una principessa. Una a caso, 'ndo cojo cojo.

Tredicesima tela


Nei giorni scorsi ho pubblicato un post che ha ottenuto 130 like e numerose condivisioni, mai il mio albero del gradimento aveva dato tanti frutti. Con il post di ieri il contatore dei pollicioni blu si è invece fermato a 4: l'albero non solo aveva perso i frutti, ma anche tutte le foglie. Quale rapporto, mi sono dunque chiesto, collega tra loro queste cifre?
Stilisticamente, il primo testo era breve e sarcastico, quasi aggressivo, come sono aggressive certe unghiate dei giornalisti nei loro elzeviri. Utilizzando la celebre espressione latina, potremmo dire che sollecitava la "pars destruens" del pensiero, il ruscello che parte e ritorna sempre alla sorgente del rancore. E comunque a voler essere generosi, niente più che uno scritto "accattivante"; un aggettivo che per inciso detesto, con quella sua radice semantica che rimanda al fare l'altro prigioniero.
Diversamente, il secondo post, il brutto anatroccolo, era svolto in chiave metaforica, filosoficamente allusiva (il conflitto tra bios e tecnica, di cui la recente epidemia si fa tragica espressione), con l'andatura verbale che assumeva una sorta di trotto narrativo, dove l'elemento finzionale era rappresentato dalla descrizione di un sogno. “Pars costruens”, in ogni caso. E se non mi avessero insegnato da piccolo che chi si loda si imbroda, direi anche un buon lavoro.
Ho fatto questa lunga premessa perché credo che la ricezione di quel che scriviamo su Facebook racconti molto di noi, ma soprattutto del mezzo che stiamo utilizzando. In cui il facile, il rabbioso, l'emotivo e il ridanciano la spuntano sempre sull'articolato e il complesso, ossia sull'intelligenza – che non è quella del lettore, ci tengo a precisare.
Per fare pace con lo specchio e potermi guardare con un minimo di considerazione, d'ora in avanti ho così deciso di dedicarmi unicamente a una scrittura costruttiva; che tradotto in termini di gratificazioni, temo che significhi masochistica, in quanto disfunzionale al mezzo.
Stilo dunque un piccolo manuale Cencelli a uso personale: niente più attacchi diretti sui social network, al limite la contestazione argomentata di un pensiero, mai di un pensante; al bando anche giochetti di parole e calembour, sollecitazioni pavloviane, flessuosi defilé di arguzia, pillole sapienziali, patetismi d'accatto, strizzatine d'occhio e colpetti di gomito; per non parlare degli imbarazzanti coinvolgimenti a chi vorremmo ci leggesse – di cui perlopiù importa poco o niente a chi li fa, tipo ditemi l'ultimo bel libro che avete letto, o se la vostra fidanzata ingoia quando fa quella cosa lì –; e poi sono da considerarsi tabù le foto di tramonti, bambini, animali (meglio se cuccioli) e a maggior ragione parenti e amici morti; ma soprattutto niente sassolini nella scarpa da levare tirare in testa al primo che passa. In pratica, tutto ciò che qui fa brodo, plauso, like.
E a noi che ci frega, direte giustamente voi se siete arrivati al termine del pistolotto. Appunto, puro masochismo. Di cui questo era solo un assaggio, le martellate sulle palle devono ancora venire.


Quattordicesima tela


Non mi piacciono le interrogazioni sui social network. Quei post in cui ci si rivolge direttamente ai propri contatti, avviene spesso nei film di Woody Allen. L'interprete sospende la recita, guarda dritto in camera, e poi parla allo spettatore come fosse suo cugino. Di solito appartengono a persone certe di avere un ampio seguito – sportivi, giornalisti, attori, ma i peggiori sono i cosiddetti influencer, oltre ad alcuni scrittori che pensano di essere al centro del mondo e se ne contendono invece i margini –, persone che domandano qualcosa di cui già conoscono la risposta, o che potrebbero scoprire con una rapida ricerca su Google. Del tipo: sapete se si può uscire a fare una passeggiata? Ma la variante più sfacciata è quella sondaggistica: quanti di voi fanno ancora l'amore, quale posizione preferite? Esiste poi una versione finto umile, potremmo chiamarla “questua perlocutoria” (cosa devo fare, sono così inetto e dubbioso da non saper compiere una scelta elementare), come la richiesta di un consiglio sul film da vedere quando sarà terminata la conta dei like. Tanto lo sai già che film vedrai, o magari non vedrai proprio nulla, resterai incollato al PC a escogitare una nuova richiesta, non fare il furbo. Sono solo forme di obliterazione del consenso, reti buttate in un mare indifferenziato per vedere quanti pescetti vengono a galla. Per poi friggerli nella padella del proprio ego.

Quindicesima tela


Da qualche tempo una rompicoglioni ha preso l'abitudine di girarmi cazzate su Messanger, così, come si infilano volantini per la svendita di un negozio di scarpe in una cassetta delle lettere. So che la cosa è abbastanza comune, lo spamming su Messanger intendo, e non vi davo troppo peso. Fino a ieri almeno, quando mi ha invitato a partecipare a un'iniziativa collettiva.
Si tratta di spegnere lo smartphone per un'ora tutti assieme. A questo modo verrebbe mandato un segnale chiaro e forte ai politici – politici = cattivi, ovviamente il sotto testo – facendogli capire che non vogliamo la app per il tracciamento dei contagi.
Coincidenza vuole che nella stessa giornata avessi scritto un post in cui mi esprimevo in maniera opposta sull'argomento. Non che sia decisivo quel che penso, ma la prossima volta, magari, che si leggesse quel che scrivo prima di usare la mia casella come una cloaca. E per una volta gliel'ho detto.
Ti pare che io abbia tempo di leggere tutto quello che postano i miei contatti, risponde lei. Come se non bastasse continua: non mi scocciare (SCOCCIARE?!) con queste prediche. Piuttosto impara a fare come me, imposta dei filtri su Messanger per non essere contattato da tutti gli spacca maroni che ci sono in giro.
Beh, non so l'effetto che avrebbe fatto a voi, ma io l'ho trovata una risposta geniale. Come se il mostro di Scandicci ti spiegasse che lui mica si apparta in un boschetto con la sua bella, l'Angiolina, macché, non sono così grullo. Se non vuoi essere squartato, la prossima volta vai a scopare in un parcheggio a pagamento!

Sedicesima tela

Inizio a pensare che le poche righe di presentazione che vengono associate al profilo in un social network, ma perfino su WhatsApp, ovunque sia richiesta una sintesi espressiva della persona, possano essere considerate un genere letterario, spesso più accurato e rivelatorio di intere paginate di descrizione. Facebook mi suggerisce ad esempio di richiedere l'amicizia a una giovane che così si presenta: "Io... Donna... protagonista e regista della miafemminilità. Ma appartengono alla vita. E con lei... Ci gioco."
Un incipit formidabile, da cui ricavo due informazioni decisive: 1) Zuckerberg, nonostante i suoi sforzi di accumulare dati sul mio conto, continua a non capirci un cazzo e sparare nel mucchio, e questo mi conforta; 2) diversamente, a me sembra di sapere tantissimo di lei, Donna protagonista e regista della sua femminilità, con cui giocare, al punto che mi guardo bene dal contattarla.
La mia ritrosia non mi impedisce però di riconoscerle uno straordinario talento. In una manciata di parole è infatti riuscita a tratteggiare l'essenza di ogni buona storia: il personaggio. Che poi sia anche sé stessa, nella circostanza, non la esenta dal merito letterario. Dubito che alla maggior parte degli scrittori sarebbe riuscita una pennellata verbale altrettanto icastica, a restituire quel grottesco involontario quale carrozzeria (ora un po' ammaccata) del nostro tempo. Non a me, di sicuro.

venerdì 9 agosto 2019

Mektoub, o sul destino dei corpi



Mektoub, My love: canto uno. Come se Eric Rohmer e Terrence Malick si fossero scambiati gli occhiali, e ne fosse scaturita una visione in cui si polarizzano le caratteristiche di entrambi: la parola sciolta e incalzante dei dialoghi continui di Rohmer, a trovare il senso proprio quando sembrano sul punto di smarrirsi, e, quale cifra del regista e filosofo americano, la purezza dell'immagine in movimento, provvisorio distillato di tutto ciò che abbiamo. Che è poco, pochissimo, e spesso offuscato dal velo dell'ideologia, una a caso pur di coprire le pudenda dell'abisso. Un filtro che Malick rimuove facendo nuovamente scintillare il bersaglio colpito dallo sguardo. 
Abdellatif Kechiche, regista franco tunisino già Palma d'oro a Cannes con La vita di Adele (premio in seguito messo all'asta per finanziare il film successivo, cosa che me lo rende ancora più simpatico), dalle lenti dei due grandi maestri che onora riesce però a lavare le incrostazioni dovute all'abitudine, e con esse i compiacimenti espressivi. Non abbiamo così quel birignao intellettuale piccolo borghese tipico di Rohmer, ma neppure il pompierismo metafisico di Malick, che tra l'Essere e il Nulla, nelle ultime pellicole, almeno, incrocia solamente il nulla. Un nulla estetico e con la enne minuscola, per nostra sfortuna...
Eppure anche Kechiche insegue qualcosa che il suo alter ego, Amin, un giovane aspirante sceneggiatore che da Parigi ritorna nel paese natio nella Francia del sud, dove trascorre l'estate del 1994, qualcosa che dopo i 180 minuti della pellicola non trova, e noi con lui. No, non c'è traccia dell'amore, my love, promesso già a partire del titolo, la cui altra voce è un termine arabo con il significato di destino: mektoub. Destino del disamore, dunque? Sì e no. Perché Amin/Kechiche, nel suo apparente muoversi a caso, a tentoni e con una sceneggiatura davvero esilissima, è come se trovasse in terra una monetina molto più preziosa, almeno per gli spettatori. Trova la vita. E questo è il più vibrante, icastico, sincero, perfino palpabile film sulla vita che mi è capitato di vedere da anni. Vita che, al netto di ciò Amin/Kechiche sfiora senza afferrare mai, si riduce a questo: corpi che si cercano e corpi che si perdono, senza necessariamente essersi presi. E in ogni caso, quando sopraggiunge il tempo, quello della visione retrospettiva del regista, sarebbe già troppo tardi, e la danza senza senso della vita prende i colori della nostalgia. Capolavoro!

martedì 6 agosto 2019

Lugano addio, o sul godimento immaginario


Lo scrittore Aldo Nove ha pubblicato di recente un post che fa rimpiangere cosa avrebbe potuto essere Facebook, se solo non avesse imboccato la rotta del Titanic. Sulla sua bacheca ricordava come i canti anarchici, la cui eco più remota possiamo cogliere dalla metà del diciannovesimo secolo, si sono estinti dopo un centinaio di anni, spariti da un giorno all'altro come le giacche con le spalline imbottite con cui negli anni ottanta si entrava al Plastic.
È impressionante rileggere ora i testi di quelle canzoni, in cui si esprime, anzi meglio si urla – la scelta del verbo appartiene sempre ad Aldo Nove –  la propria diversità economica, o in termini meno eufemistici la povertà in cui ci si dibatteva con orgoglio, essendo vissuta quale coscienza di classe. La povertà ha però in seguito cambiato connotazione pubblica, assumendo un alone quasi pornografico: "il povero non è povero, è sfigato. Deve fingersi entusiasta Dio sa di cosa, mascherarsi da pupazzo felice e recitare il ruolo di chi è nel sistema. Surreali colloqui di lavoro in cui, con la cravatta da colloquio, devi fingerti appassionato a lavori del cazzo senza mai accennare al fatto che c'è chi lavora per mangiare (ma che stranezza)."
Una fotografia lucidissima a cui non c'è molto da aggiungere. Se non, magari, provare a desumere anche il lato in ombra, che non appare nello scatto ma ad esso si compenetra come la notte con il giorno. Personalmente, lo ricavo dalla riflessione del filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek, che grossomodo in coincidenza della data indicata dallo scrittore di Viggiù (poco dopo la seconda metà del Novecento) fa risalire una metamorfosi nella formazione delle identità collettive, fino ad arrivare allo stravolgimento attuale. Quando Ugo Tognazzi aspettava Vincenzina davanti la fabbrica, l'identità era ancora effetto di un riconoscimento tra simili, rafforzata da elementi economici e territoriali e religiosi, se non da una vera e propria ferita che stenta a cicatrizzare. In ogni caso, la traccia iscritta da un aratro nelle zolle del reale.
Pensiamo ad esempio agli ebrei: io sono un ebreo perché quella è la mia religione, ma soprattutto perché al mio popolo (realismo tragico) è stata negata una terra, da cui le sofferenze successive che conducono all'apice drammatico dell'Olocausto, vero e proprio imprintig comunitario. Oppure io sono un pastore perché pascolo le pecore, e, come in uno specchio, mi rifletto nella lenta transumanza condotta dagli altri pastori.
Fin qui nulla di strano, mi sembra. E invece no continua Žižek, perché l'identità è ora divenuta irrealistica, facendo ampio uso della dinamica psichica della proiezione, in particolare quella che fa riferimento a un immaginario ludico quanto del tutto improbabile. Ed è così che un precario sottopagato non pensa più a sé stesso osservando la condizione degli altri precari, ma si vede come nella canzone di Morandi, uno su mille ce la fa, si vede con in mano il biglietto vincente della lotteria, e subito dopo al concessionario BMW.
Chi sono quei pezzenti attorno a me, si chiede dunque perplesso. Dicono di fare il mio stesso lavoro – ammesso e non concesso che domani ci sia ancora un lavoro –, ma mica la vinceranno la lotteria, loro. Lui invece sì: è già ricco, ma su una linea temporale occulta, asimmetrica al piano manifesto delle cose. Per questo è il mondo a non capirlo, non lui a non capire il mondo. 
Si comprende come in un Paese con sessanta milioni di abitanti, di cui buona parte convinti di avere in tasca l'unico biglietto vincente della lotteria, non solo è difficile la formazione del pronome noi, ma anche l'io assume contorni vagamente sfumati e teatrali. A tutto ciò, utilizzando un termine preso dallo scaffale lacaniano, Žižek dà il nome di jouissance, ossia godimento. In altre parole, il godimento è diventato l'unico elemento a offrire un'incerta base all'identità personale, un godimento bada bene immaginario!
Come nel sabato del villaggio, il godimento viene così posticipato sempre, è il piacere che verrà, il piacere di Godot, a proposito qualcuno l'ha per caso visto in giro, mandiamogli un WhatsApp, forse ritarda perché ha trovato traffico in tangenziale? Se ne ricava che il presente deve appartenere a qualcun altro, noi, in quell'adesso che si allarga come un crepaccio sorridente, abbiamo smesso di essere e allo stesso tempo non siamo ancora. Puff...



lunedì 5 agosto 2019

L'odore della carta, il fruscio delle pagine... o sul mito della lettura


Quando dico a qualcuno che da alcuni anni leggo in ebook, è frequente la replica: "E l'odore dei libri, il frusciare delle pagine...?"
In genere, sono le stesse persone che mi confidano che, se solo ne avessero il tempo, leggerebbero da mattina a sera, per loro la lettura è la cosa più importante. Ma il se ipotetico con cui hanno introdotto la frase ci comunica, appunto, e bada bene con grandissimo rammarico, che quel tempo non ce l'hanno.
Peccato, perché se solo fossero arrivati al termine di un solo libro – a chi vogliono darla a bere... – si sarebbero accorti che la lettura è un'esperienza per così dire sussultoria, e non può essere generalizzata. Ci sono infatti libri che ti cambiano per sempre e altri colmi di sciocchezze, libri che se letti in una stagione della vita, e penso ad esempio a Siddhartha, sono un fiume in piena, ma se riletti in seguito si trasformano in un ruscelletto magro magro.
È insomma come se il mito della lettura, alla maniera di ogni altro mito, avesse quale premessa la mancanza di conoscenza del suo oggetto, che in questo caso viene sublimata con un logoro stereotipo. Per comprenderlo basta leggere in modo concentrato per due o tre ore di fila, e poi tornare a una semplice e comune attività: fare un grattino dietro le orecchie al gatto, dare da bere ai gerani sul balcone, mangiare una Fiesta al caffè, è un nuovo gusto che consiglio vivamente di provare.
Tutte cose non meno importanti e gratificanti della lettura. Se siete fortunati e l'avete a tiro, anche scoccare un piccolo bacio sulle labbra di una persona che ricambia il vostro bene. Con buona pace del fruscio delle pagine, l'odore della carta e altre cazzate del genere.