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domenica 18 agosto 2024

Stronzi? No grazie

Trovo esemplare questa immagine che gira sul web. A parte l'intima grettezza del suo contenuto, è utile per comprendere la nozione sfuggente di capzioso, che ha fatto retrocedere il vocabolo all'interno di una sorta di hit parade linguistica – comunque ha sempre occupato posizioni di seconda fila, per essere onesti. Mentre è cresciuta molto la ricorrenza del sostantivo buonismo, specie nella sua variante aggettivale, buonista, con funzione di insulto. Qui l'utilizzo è a totale sproposito: buonismo, e cosa cavolo c'azzecca?

Soffrire per una sconfitta, come dichiara con orgoglio la campionessa di scherma Elisa Di Francisca, o viceversa godere del bicchiere mezzo pieno come fa la brava nuotatrice Benedetta Pilato (la quale si era rallegrata per il quarto posto ottenuto alle Olimpiadi), non sono comportamenti misurabili su un'ideale scala etica graduata, con indici di bontà a scandirne i livelli. Perciò la comunicazione è capziosa, l'inganno consiste nel mescolare piani totalmente distinti.

La bontà è un sentire che porta a un fare, ossia a comportamenti volti al bene dell'altro. Mentre in questo caso abbiamo disposizioni psicologiche diverse, che danno luogo a diverse emozioni: la serenità di chi ha comunque fatto del suo meglio, non sfigurando affatto per quanto a un passo dal podio, e la rosicatura, il tarlo, infine la sofferenza rivendicata quale atteggiamento agonistico da parte di Di Francisca, tipiche di chi non riesce più a distinguere la propria vita dalla condizione darwiniana da cui è ricalcato ogni sport, dove il più adatto è colui (o colei) che prevale sugli altri.

Ma brutto, e cioè non etico, ingannevole, capzioso, è giudicare le emozioni degli altri, squalificandole con il termine denigratorio di buonismo quando non in linea con ciò che sentiamo. Perciò è utile prestare attenzione a questi minimi segnali di cedimento alle mode linguistiche. Dietro, il più delle volte, si cela non solo una disposizione spensierata e corriva, ma una precisa ideologia. Che non è solo come abbiamo visto capziosa, ma parecchio stronza.

(PS - Suggerisco anche un confronto fisiognomico tra i due volti: quello della nuotatrice soddisfatta, se non proprio felice, per il suo quarto posto, e della schermitrice che gli dà della buonista – da quale delle due acquistereste un'auto usata?)

sabato 17 agosto 2024

Empatia o bontà?

 

"Buonismo è il nome che danno all'empatia quelli che ne hanno poca.”

Paolo Zardi, scrittore, ingegnere e soprattutto amico

"Empatia è il nome che danno alla bontà quelli che non ti prestavano mai la bicicletta. Mio papà ha detto che non posso, rispondevano se gli chiedevi di fare un giro."

Guido Hauser, che poi sarei io, dottore in Niente

Chi ha ragione?

Potete anche dire entrambi. O suggerire ipotesi alternative. La questione è aperta...

lunedì 29 maggio 2017

Ma quanto è bello essere buoni, prova anche tu! No, grazie, preferisco un gin tonic



Un atteggiamento che mi ha sempre incuriosito, e che ora trovo diffondersi sul web, sui social network in particolare, è quello di chi istruisca gli altri sulle virtù dell’altruismo. A volte l’invito morale è esplicito e un po’ naif, ma, altre volte, la perorazione virtuosa assume forme articolate e dotte, nella forma di veri (sebbene miniaturizzati) trattati psicologici e filosofici, di cui ammiro la sottigliezza dello sguardo.
Nella sostanza: se fai e vivi solo per te, finisci con l’essere infelice, frustrato. Mentre se l’obiettivo delle tue azioni sono gli altri, sorge, progressivamente, un sentimento di pienezza e soddisfazione.
L’ho detto, ho semplificato. Ma anche nei modi più compiuti e lambiccati, questo schema di pensiero – che in buona sostanza condivido, non sono un orco – mi lascia un po’ perplesso.
Ad esempio, uno psicologo che dica al suo paziente: “Per ritrovare gioia e serenità dovrebbe farsi carico del prossimo, lei pensa troppo a se stesso. Provi, e vedrà come starà già da subito meglio nell’occuparsi, gratuitamente, anche solo di un criceto.”
Non è sbagliato, il ragionamento. Ma sono ancora credibili le parole dello psicologo quando, terminata la seduta, stacca una parcella da cento euro – ma come, non dovresti abbracciarmi e dire siamo a posto così?
Allo stesso tempo, in che modo questi continui inviti pubblici all’altruismo, questa catechesi laica al limite dell’invasione di campo (il mio campo psichico), possono essere inclusi nelle stesse categorie morali che propugnano? Davvero l’estensore del richiamo è convinto che le sue parole, nella semplice sostanza verbale dell’enunciato, possano fare il mio bene, e così accordarsi al precetto appena esposto?
Non so, ma c’è qualcosa che non quadra. Mi sembra alle volte che ogni vocativo etico contenga una remunerazione riflessa, nella forma dell’oddio come sono bravo, bello, buono, quando parlo a questo modo. Quanto mi piaccio, insomma. E dunque quanto io stia facendo il mio proprio bene, non quello dell’altro.
In altre parole, per essere davvero credibile l’invito al bene dovrebbe contenere un piccolo “costo”: fisico, economico, psicologico, non importa. Comunque un segno, o meglio un pegno che dia conto del trascendimento di sé.
Da questo punto di vista non è peregrina, per quanto estrema, la scelta della Chiesa cattolica romana a favore del celibato dei chierici. E’ come se contenesse un sotto testo di questo tipo: lo vedi come soffro a non scopare, a non realizzare il mio desiderio di uomo, donna, di persona umana. Ma per questo sono tanto più affidabile nel mio cristianesimo, attraverso cui supero il piccolo orticello dei vantaggi personali (e per quanto anche il masochismo contenga una sua sottile economia psicologica, ma qui ci allargheremmo...).
In ogni caso, l'invito al bene senza un sacrificio anche minimo e soprattutto senza una mia richiesta di aiuto – ma te l’ho chiesto io, di dirmi come fare per essere felice, per diventare buono e giusto come sei tu? – rischia di risuonare in chi l’ascolta come le parole di quel cretese, Epimenide, che sosteneva che tutti i cretesi mentono. Ma se tutti i cretesi mentono mentirà anche Epimenide, no?
Allo stesso modo, invece di ripetermi dalla mattina alla sera quanto è figo essere buoni e generosi, perché non mi offri un gin tonic, che sono più contento…

giovedì 14 luglio 2016

“Tacere può essere un' azione bellissima”. Macché, parlate, parliamo: continuiamo a dire le nostre umane cazzate



Dopo il violentissimo scontro tra due treni nella campagna della Murgia che ha provocato, ad ora, ventisette vittime, hanno cominciato a fiorire i commenti. Era inevitabile, non mi sorprende né mi indigna. Alcuni, come quello dello scrittore Nicola Lagioia su Repubblica, erano anche molto interessanti. Ma più degli altri mi ha colpito il commento di una mia conoscente su Facebook, che riporto testualmente:

“La cosa più tragica di ogni tragedia è la quantità di parole vuote e inutili che vengono pronunciate e scritte. Tacere può essere un' azione bellissima.”

Questo commento mi ha colpito e, confesso, inizialmente fatto un po’ sorridere. La ragione è il suo contenuto vagamente paradossale, che non sarà sfuggito ai più. Ma chi prima ha riconosciuto e quindi descritto simili paradossi del linguaggio, una cinquantina di anni fa, è stato lo psicologo austriaco Paul Watzlawick, a cui ha dato il nome di doppio legame. Nel doppio legame viene prodotta un’affermazione esplicita, implicitamente negata con azioni non verbali che l’accompagnano, quali il tono della voce o la postura del corpo. Proviamo dunque a riconoscere il doppio legame nel breve post che questa mia conoscente ha lasciato su Facebook.

Il contenuto del messaggio verbale è semplice, e da lei stessa esposto con sintesi efficace: quando ci sono delle tragedie (come quella pugliese) si deve semplicemente tacere, starsene in un silenzio rispettoso per le vittime e per il mistero tragico di ogni destino umano. Ma per sottolineare tale necessaria attitudine alla discrezione riflessiva, cosa fa, la mia conoscente, tace, come ci sarebbe da aspettarsi in coerenza al suo pensiero? Macché, di getto compie un’azione – prendere pubblicamente la parola su Facebook, quindi rompere il silenzio contestualmente promosso – che rappresenta la perfetta negazione di quanto esposto in lettera: scrive negando il proprio scrivere, fa stigmatizzando il proprio fare. Un cortocircuito verbale che ricorda il famoso paradosso di Epimenide, in cui un cretese afferma che tutti i cretesi mentono.

A questo punto, anche noi potremmo salire in cattedra e, con uguale vocazione perlucotoria, formulare delle direttive logiche per la comunicazione, assegnare codici morali per future calamità, spiegare quello che si deve dire o non dire sui social network… Peccato che noi non siamo degli psicologi austriaci, e io trovo anzi che la mia conoscente fa benissimo a dire quel che gli pare, in fondo Facebook è nato proprio per questo: dar fiato alle trombe, liberare ogni starnuto del pensiero.

Arriverei addirittura a dire che è la nostra natura, assai diversa, che so, da quella dei castori, che pensano sia giusto fare dighe e poi fanno le dighe, mica altro, senza perdersi in riflessioni sul concetto di diga nella storia, nell’arte, nella filosofia. No, quelli abbassano il muso e iniziano a rosicchiare tronchi di abete rosso, fino a che la loro stramaledetta diga non è pronta. Noi, invece, abbiamo continuamente bisogno di rosicchiare parole, pensieri, opinioni, e poco importa la loro congruenza. Importante è piuttisto redarguire gli altri, quando occorre, quando non rosicchiano al nostro stesso modo. Ma in fondo va bene così: siamo una specie lambiccata, e davvero buffa e paradossale!

martedì 14 giugno 2016

Caro Lucilio ti scrivo, così mi distraggo un po', o sulla morale al tempo di Scherzi a parte



“Dobbiamo indirizzare la nostra stima verso un uomo onesto e averlo sempre davanti agli occhi per vivere come se lui ci guardasse”, scrive Lucio Anneo Seneca in una delle sue celebri epistole indirizzate all’allievo Lucilio, concludendo che si deve poi “agire come se (quell’uomo onesto) ci vedesse." 

In due sole righe il grande pensatore stoico sembra liquidare una volta per tutte uno dei principali problemi filosofici: la morale, ossia come comportarci nelle diverse circostanze della vita. Basta avere in mente la figura di un uomo onesto, coltivare la sua immagine dentro di noi, quindi confrontare le azioni da noi messe in atto con quelle che (immaginiamo) sarebbero state del modello che ci siamo dati. Se esiste convergenza, l’azione sarà giusta, retta, per l'appunto morale. Diversamente, dobbiamo cercare di correggerci. Semplice, no?

E invece non è semplice affatto! La soluzione di Seneca, a guardar bene, più che saggia è infatti molto astuta, come nel carattere dell’uomo. Un modo logico di procedere che a me ricorda quelli che cercano di spiegarti, magari dopo due o tre Campari e con un sopracciglio alzato, che l’umanità è stata creata dagli extraterrestri, ma non lo sai che ci hanno creato gli extraterrestri, dai, lo scrive anche la Bibbia, gli extraterrestri, sì. Concludendo la frase con una sonora pacca sulla spalla, come deve aver fatto Seneca con quello zuccone di Lucilio. 

Già, gli extraterrestri. Ma chi li ha creati gli extraterrestri? ti verrebbe voglia di replicare a quei conoscenti so-tutto-io; se non che non li trovi più, perché sono già andati al bancone a ordinare il quarto Campari.

Non riesci così mai a controbattere – ma tanto non ti avrebbero ascoltato – che l’eventuale zampino degli extraterrestri sposta semplicemente a un livello superiore il problema (ontologico) della creazione, non lo risolve. Allo stesso modo, il riferimento a un uomo onesto sposta di un livello il problema dell’onestà, o più in generale della morale. Quell’uomo onesto che noi dovremmo imitare, dove l’ha presa, dico, l’immagine dell’onestà?

E senza l'immagine, o se preferiamo un fondamento concettuale dell'onestà, la sua forma astratta e condivisibile, in quale modo comportarci…? Come si vede, siam da capo. 

Anzi, non da capo, se facciamo ancora il confronto con Seneca e la sua epoca, siamo questa volta precipitati a un livello inferiore, uno se non molti gradini più in basso nella infinita gradinata del tempo. Nel primo secolo esisteva se non altro l’idea, l’aspirazione all’onestà intesa come sintesi attiva e virtuosa del comportamento umano, ora neppure quella. Tocca concludere, mestamente, che tutto quel parlare di morale e saggezza degli antichi era solo un castello di sabbia, il gioco di un bambino che nel giro di pochi secoli, uno starnuto di Shiva, opplà, e la marea montante della modernità se l'è portato via.

Eppure non è completamente vero che l’onda consuma lo scoglio e dopo resta solamente spiaggia, deserto. Anche la nostra epoca ha infatti saputo costruire, se non proprio dei castelli, almeno delle forme, meglio delle formine in cui la sabbia che spiove dalla clessidra prenda l'immagine di una stella, un orsetto, insomma dei modelli stabili di comportamento riconosciuti dai più, a cui quegli stessi più possono ora riferirsi con soddisfazione; mentre gli altri, i “meno”, con rassegnazione. 

Certo, oggi non si tratta di saggezza, onestà, bellezza del gesto che basta a se stesso, rendendosi esemplare come avviene nel rito, che del mito è mimesi e ad un tempo sostanza, ma di visibilità sociale, potere economico, riflettori accessi sul calciatore che esce abbronzato dal tunnel degli spogliatoi, o sul giovane trepidante concorrente del talent show, che fa le corna in direzione della telecamera come ha visto fare a J-Ax. In ogni caso, è anche questo l’abbozzo di una struttura morale, ossia un modello generale, per quanto semplificato, a cui il comportamento del singolo può, anzi deve tendere per ottenere il riconoscimento del gruppo. 

Se dunque Seneca fosse nato ai nostri giorni, avrebbe probabilmente lasciato al suo pupillo un diverso testamento filosofico. Possiamo immaginare qualcosa del genere: 

Dobbiamo indirizzare la nostra stima verso un uomo di successo, con il collo della polo alzato e la zip abbassata, il suv parcheggiato sulle strisce, un uomo che fa e non dice. Un uomo che non perde i capelli ma anche se li perdesse tanto li trapianta, un uomo che incanta, avvince, stravince. Un uomo o una donna o un transgender, poco importa, se non che suoni al suo passaggio il campanello di Porta a Porta. Un uomo non come quegli omini gracili e studiosi, quelli, lo vedi, tanto non ci finiscono mai sull'Isola dei Famosi. Un uomo deciso che stia davanti agli occhi come un tatuaggio tribale, per vivere come se lui ci guardasse, per vivere nello specchio di Narciso. Un uomo che sia i suoi addominali, il suo 740, il suo sorriso. In altre parole, caro Lucilio, devi agire sempre, ma proprio sempre e sarà questa la tua Grande Arte, agire come se fossi in un'eterna puntata di Scherzi a parte.


venerdì 30 ottobre 2015

Raffreddori, o sulla felicità come timone occulto della morale




Io quando sono a casa con il raffreddore guardo sempre la tivù. Non uno specifico programma, giro, faccio zapping, mi soffermo per un nulla sulle mummie di Alberto Angela o sul decolté di Mara Venier – non perché mi piacciano le sue tette, ma per controllare di quanto sono cresciute dall’ultima volta, come fossero il correlativo fisico al lievitare del suo posticcio accento romanesco –, e poi eccì, una pigiata di pulsantino accompagnata da un nuovo tonante starnuto.

Se insieme a me, in casa, ci sta qualcun altro, faccio lo stesso: guardo la tivù, starnuto, cambio canale, esauriti gli ufficiali sprofondo in quelli privati, oh  quanto mi piacciono le liti calcistiche all’interno dei canali privati; quindi di nuovo Alberto Angela, mummie, tette della Venier e così via… In fondo è un copione già scritto, il mio. Che, come tutti gli spettacoli di successo, non si cambia di una virgola: sia di fronte a un grande pubblico plaudente, sia con quatto pensionati che tossiscono in sala, arrivati giusto perché qualcuno gli ha sbolognato il biglietto. 

Insomma, quando sono anche solo lievemente acciaccato, il telecomando deve rimanere stabilmente collocato tra le mie dita, così che possa tormentarlo a piacimento e imprimere le mie volontà allo schermo, come un sovrano con il suo scettro. E chi se ne frega se il mio compagno di sventura o, meglio, il suddito bonariamente compiacente delle mie poche drammatiche linee di febbre, avrebbe voluto vedere qualcos’altro: è un pensiero che non mi sfiora neppure lontanamente, un’incidenza statistica così remota che nemmeno viene prevista dal modello. In fondo lui, o lei, stanno bene. Mentre cavolo: io sono malato!

Eppure, quando invece sto bene, sono di norma molto disponibile e attento verso i gusti degli altri. Ad esempio a cinema, o a un concerto, lascio volentieri che scelga lo spettacolo la persona con cui esco, magari dando qualche minima direttiva subliminale – se non mi interessa proprio il film che mi si prospetta con enfasi partecipata, sbadiglio con lieve noncuranza, aggiungendo:  “Per me è uguale, figurati, ma secondo me, dico per te, ti piacerebbe molto di più l'ultimo film di Kaurismaki…” (che guarda te alle volte il caso, è il mio regista preferito).

Sono, ecco, un egoista a singhiozzo, e il mio egoismo trova il suo culmine nelle indisposizioni del corpo, prima ancora che dell’anima. Riflettendoci un momento, mi è venuto il dubbio che siamo un po’ tutti così. Magari non sempre, o non solo, quando siamo spaparanzati su un divano con la televisione accesa, ma la nostra disponibilità verso il mondo è in ogni caso mediata dal corpo, dal grado di energia e fiducia che siamo in grado di imprimere alle cose, usando il corpo come rincorsa prima del salto. 

Quando tutte le nostre risorse fisiche sono impegnate internamente, cercando recuperare forma e vigore, salute, non vi è però più alcuna attenzione verso il "fuori", e la tapparella del nostro sesto senso sociale si abbassa drasticamente. O detta in modo diverso, si può dividere solamente ciò che eccede, non quel che manca. La mancanza è come un riccio che si appallottola e caccia fuori gli aculei, o come i gatti che per guarire ma anche prima di morire che è forse l'estrema forma di guarigione si rintano in un cantuccio, e pare facciano qualcosa del genere anche gli elefanti (l’ho imparato sempre da Alberto Angela).

Ma allora il diritto alla felicità, contenuto nella costituzione americana, non è solo l’espediente retorico di un popolo vagamente euforico e naif – “wishful thinking”, come dicono loro – ma un precetto letteralmente morale, giustamente tradotto in lettera pubblica e istituzionale. Essere contenti, sani, in piena saluta fisica e spirituale, corrisponde infatti a una diversa e accogliente disposizione verso gli altri, non solo verso la vita.

Diversamente, il nostro mondo si fa sempre più piccino, angusto, egocentrico e compresso, e ci aggrappiamo al telecomando come al salvagente in un gorgo.