mercoledì 29 novembre 2023

Inno nazionale ombra

Negli anni Settanta essere italiani equivaleva a riconoscersi in una manciata di nomi, sempre gli stessi, di numero grossomodo equivalente a una squadra di calcio, con tanto di riserve e massaggiatori. La sua formazione si irradiava da minuscole radioline a transistor appese allo specchietto retrovisore di auto con i sedili ancora incellofanati (così quando le rivendevi sembravano nuove), e avrebbe potuto costituire un inno nazionale ombra, come il governo ombra realizzato dal PCI.

Avrebbe?

In realtà quell'inno esiste per davvero, si intitola Nuntereggae più e uscì nel 1978 per l'etichetta It, Rino Gaetano ne firmò musica e testi, prima di interpretarlo con la sua meravigliosa voce cartavetrata. Era il riflesso incarnato di un Italia che già sentiva di avere un piede fuori dagli anni di piombo – il discrimine non fu politico ma coincise con l'uscita nelle sale della Febbre del sabato sera – e composto dai seguenti giocatori, intonati nella strofa che precede il refrain:

"Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli, Susanna Agnelli, Monti, Pirelli dribbla Causio che passa a Tardelli, Musiello, Antognoni, Zaccarelli (nun te reggae più) Gianni Brera (nun te reggae più) Bearzot (nun te reggae più) Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio, Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno, Villaggio, Raffa, Guccini..."

Bene, proviamo a immaginare cosa ne sarebbe oggi di un inno nazionale per nomi e cognomi, che è anche un modo – confrontando le due formazioni – per fare un provvisorio bilancio di questi cinquant'anni, senza impegolarsi con i dati Istat e la sociologia. Basta guardare chi è uscito e chi è entrato in campo al suo posto:

Mauro Corona, Fabrizio Corona, birra Corona, Ilary Totti in tackle scivolato su Francesco Totti (nun te regghe più), Alfonso Signorini passa a Mughini, Morgan dribbla Mentana, Bobo Vieri fa la telecronaca sulla Bobo Tivù (nun te regghe più), Lilli Gruber accavalla le gambe, Marco Travaglio fa le faccine, Massimo Cacciari si incazza di brutto (nun te regghe più), batte Sinner su Mariotto che alza la paletta, Arisa mostra e non mostra le tette sulle notifiche dello smartphone (nun te regghe più), Oscar Farinetti e il made in Eataly, Carlo Cracco, Salvini spara la palla in tribuna contro tre marocchini, Meloni, Sallusti di testa a Maria De Filippi (nun te regghe più), Fedez crossa dal lato sinistro che indistinguibile dal destro, Fabio Volo prende la mira mentre gli altri scrittori fanno le corna e mormorano venduto (nun te regghe più), para di pugno Selvaggia Lucarelli, Fazio Fabio dichiara serafico importante che vinca lo sport, Platinette non pervenuta, Elly Schlein già arrivata al capolinea (nun te regghe più), Alba Parietti dibatte di geopolica con Rocco Siffredi, i virologi si scaldano a bordo campo in attesa della prossima pandemia, Ferragni dice la palla è mia non gioco più, Sgarbi, che era smarcato, le grida capra capra capra!

A me il risultato di questa ipotetica partita tra passato e futuro appare evidente, e mette il magone. Non c'è che da fare il tifo per una prossima realizzazione della macchina del tempo. Pazienza se ci toccherà mangiare nuovamente i ghiaccioli rossi rossi, ricolmi di ogni chimica schifezza.

lunedì 27 novembre 2023

Patriarcato

Il dibattito di questi giorni sul patriarcato mi ha ricordato una battuta pronunciata da Kant, che per una volta mostra di possedere non solo intelligenza ma anche senso dell'umorismo: c’è un genere di medici insinua il filosofo di Königsberg, i medici della mente, che pensano, ogni volta che trovano un nome, di aver trovato una malattia.

Ora quella frecciatina andrebbe forse ribaltata di segno, già che nel suo significato letterale – e cioè aderendo alle categorie antropologiche da cui proviene – il termine patriarcato è del tutto improprio a descrivere il presente: è una vecchia parola per definire una nuova malattia.

Il patriarcato, come ha ricordato Massimo Cacciari ospite da Lilli Gruber, può essere sintetizzato dal concetto di patria potestas, che prima delle parole latine che lo esprimono (in questo aveva ragione Kant: le parole arrivano quasi sempre dopo le cose, quando non le generano come nella buona novella cristiana) si manifesta in Occidente a partire dall'invasione dei Dori, intorno alla metà del secondo millennio a.C. Quindi si consolida nelle successive ondate ariane dall'Asia centrale, che dilagando nelle terre del tramonto importano il loro modello sociale fondato sulla tripartizione tra sacerdoti, guerrieri e contadini o piccoli artigiani. Tutti maschi, naturalmente.

L'organizzazione anteriore può essere solo ipotizzata – il matriarcato? – ma è certo che da quel momento in poi il padre ha un dominio totale sulla famiglia e l'uomo sulla comunità, con interessanti variazioni che però non ne stravolgono il modello. A Sparta, ad esempio, la donna aveva un ruolo molto più rilevante che ad Atene, dove ci si stupiva che Pericle compisse dei gesti pubblici di tenerezza verso la compagna Aspasia.

Poi il patriarcato entra in crisi, come è evidente, continua Cacciari, nelle tragedie shakespeariane: Otello, Macbeth e Lear sono tutti maschi la cui potestas vacilla, senza però crollare come avverrà a seguito della rivoluzione industriale con conseguente urbanizzazione, dando vita alla classe borghese che si accompagna alla fine del patriarcato. Un mondo ancora ampiamente sbilanciato verso il lato maschile, ma in cui l'eccezione alla regola si fa quantomeno licenza.

È di nuovo l'arte a testimoniare il cambiamento: tra Emma e Carlo Bovary, poniamo, chi guida e chi è guidato? A me sembra che si siano persi entrambi; con la differenza che Emma cerca nuove direzioni al suo malessere, finendo con l'essere travolta da quella bussola ingannevole che è il desiderio mediato, mai davvero suo, e Carlo si involve, ripiegando su sé stesso come un fiore senza acqua.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati concede al patriarcato un ulteriore secolo di sopravvivenza, anche se io sarei più propenso a chiamare quella fase di trapasso maschilismo – l'epoca dei vari fascismi lo fu al massimo grado, con significative differenze tra nord e sud, campagne e città – culminando comunque nel 1968. Da lì in poi nulla è stato come prima.

Carlo Bovary o Zeno Cosini o, ancora, i maschi inetti alla vita nelle opere di Cechov, divengono così l'emblema involontario del maggio francese, e la dolente involuzione del loro status virile non si discosta molto dal presente digitalizzato; mentre nelle donne il bovarismo si converte in rapporti sempre più saldi con il reale, emancipandosi dalla pappa di sogno romantica.

In una percentuale minoritaria di maschi, il progressivo svuotamento di potere sulla donna che smette di essere davvero propria, se non nei testi delle canzoni, si traduce in rabbia e rancore; ed è la probabile altra faccia della medaglia costituita dallo sconcerto provato da chi ha compiuto diciotto anni il 20 settembre del 1958, giorno in cui la legge Merlin imponeva la chiusura dei bordelli. E io…? avranno pensato i più focosi tra di essi, in un sentimento di espropriazione che è tutto il contrario dell’onnipotenza simbolica confezionata dal sistema patriarcale.

Dal punto di vista testosteronico, ossia limitato alla sola forza fisica e non biologica, gli uomini rimangono però potenzialmente dominanti, e così a qualcuno potrebbe venire la tentazione di infrangere la teca in cui lumeggia l'oggetto desiderato, guardare ma non toccare. No, io voglio dunque io posso, è la reazione di quei pochissimi alla perdita del regno. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli, ancora recita una preghiera rivolta a un maschio caucasico anziano e con la barba.

È questo il pensiero anche di Erri De Luca che, senza l'assertività spiccia di Cacciari o le volute intellettuali barocche di Recalcati, ma con la dolcezza partenopea che lo contraddistingue, parla di sentimento maschile della disgregazione. Quella disgregazione del maschio che nel cinema ha trovato forse la migliore sintesi nelle pellicole di Marco Ferreri; rispetto al languore romantico o alla vertigine primonovecentesca fotografano un elemento più attuale: la donna percepita come alterità ontologica assoluta, e non solo come subalterna emancipata.

Peccato che nel cinema contemporaneo non sia presente quell’acutezza di sguardo, sempre accompagnato da una poetica bizzarria, affettuoso sberleffo di chi non giudica ma apprende. Pensiamo alla pur apprezzabile pellicola di Paola Cortellesi: l'impegno civile è qui massimo, ma flette la coscienza analitica che dovrebbe fargli da sfondo, restituendo una vicenda particolare che non riesce guadagnare risonanza universale, farsi stemma di mondo. Si ha piuttosto l'impressione che cerchi di dare un vecchio nome alla confusione instabile del presente. E invece dovremmo fare ciò che Kant rimproverava a un genere di medici, i medici della mente: cercare nuovi nomi, nuove forme e ragionamenti. Più complessità, insomma.

Ma va bene partire anche da lì, Cortellesi, più che i fasti di un ormai inesistente patriarcato, ci ha mostrato gli strascichi di quella cultura sopravvissuta oltre due millenni; non un canto del cigno, ma l’ululato del lupo braccato dai cacciatori. Ora sarebbe bello che qualcuno ne afferrasse il testimone e sviluppasse il discorso, lo precisasse. A un tempo complesso parole e immagini complesse. Nuove.

giovedì 23 novembre 2023

Lo sfigato e la puttana, o su come le parole fanno mondo


I femminicidi stanno diventando un fenomeno simile ai monsoni nel subcontinente indiano: vengono vigliaccamente compiuti da un maschio, se ne parla molto e non di rado a sproposito, poi, per un poco, ce ne scordiamo in un'apparente quiete di vento, fino a che una nuova tempesta si abbatte. Una ricorsività priva di fantasia di cui sorprende solo la nostra memoria corta.

Giulia Cecchettin avrebbe potuto chiamarsi Concetta Scognamiglio o Anna Rossi, la sua morte era comunque attesa, come purtroppo la prossima vittima, speriamo il più tardi possibile. Ma proprio perché siamo una specie smemorata è tanto più forte la reazione emotiva, al punto che qualcuno si chiedeva in questi giorni quale fosse l'equivalente maschile di puttana, riferito a una donna con intento offensivo. Non ho dovuto pensarci molto prima di concludere: sfigato.

È interessante notare come i due termini coincidano nel giudizio di valore, che non potrebbe essere più sprezzante. Si pongono però in antitesi quanto al loro significato: da un lato, con puttana, abbiamo una sorta di eccesso – poco importa se l'esubero (di “figa”) venga spartito per noia, professione o come Bocca di rosa né uno né l'altro, lei lo faceva per passione – mentre lo sfigato sconta l'avvilente regime della penuria. Ma sei puttana anche se revochi l'offerta di ciò che è e rimane tuo a chi si illudeva di esserne monopolista, e sfigato se non fai valere questo illusorio diritto. Da qui il femminicidio.

Ancora più interessante è indagare l'uso accidentale dei termini. Se ad esempio troviamo l'auto lasciata in sosta con una lunga ammaccatura sulla fiancata, l'esclamazione che segue non sarà porco patriarcato, ma più verosimilmente porca puttana! Potremmo pensare a qualcosa di simile all'inconscio psicoanalitico – già Lacan poneva un'analogia tra linguaggio e inconscio –, ma a differenza di quello non si mostra nei sogni e negli atti mancati, ma attraverso imprecazioni che emergono quando rabbia e dolore prendono il sopravvento.

Pensiamo alla sequenza del film Berlinguer ti voglio bene, con Benigni, nel ruolo di Mario Cioni, che ha appena ricevuto la notizia della morte della madre; fortunatamente si rivelerà solo un macabro scherzo degli amici. Mentre attraversa i campi per raggiungere la casa di famiglia è tutto un gorgogliare di frasi sconce – “la merda della maiala degli stronzoli nel culo…” –, un vulcano che solo così riesce a eruttare il suo male.

Per comprendere il codice di ciò che fa tana sotto i discorsi nei talk show, dove si commenta forbitamente la tragedia del giorno, meglio sarebbe allora spegnere il televisore e andare in vacanza con Filini, quindi tenere in posizione verticale il picchetto della tenda mentre questi cerca di conficcarlo al suolo con un grosso martello. Non rivelerò cosa avviene dopo, essere italiani comporta la conoscenza di quest'altro film e delle memorabili sventure del suo protagonista, il rag. Ugo Fantozzi.

Se in condizioni estreme la donna, nell'immaginario maschile, si converte in puttana, e la puttana in porca, bisogna riconoscere che nella maggior parte dei casi il pregiudizio non viene replicato nei gesti. Nel nostro solo Paese si verificano ogni anno un centinaio di femminicidi, ma per ognuno di essi abbiamo migliaia di maschi gentili e premurosi verso le loro compagne. Le esclamazioni sessiste sono insomma solo modi di dire, come le donne dicono di quel tale ma l'hai visto, che sfigato!, conversando sotto il casco del parrucchiere.

Tutto bene dunque, tutto a posto? Sì e no. Perché tra la regola e l'eccezione si mostra un sottilissimo filo, costituito appunto dal linguaggio. Per reciderlo e fare volare il palloncino in cielo dovremmo imparare la difficile arte dello sdoppiamento vigile, ascoltarsi mentre una lingua ci parla (con l'illusione essere noi a parlarla) potrebbe essere una buona propedeutica.

Magari continueremo a dire porca puttana, porca troia, sfigato – succede mica niente, a catechismo venivano chiamati peccati veniali. Ma almeno avremo intuito da quali oscure profondità alfabetiche provengono i comportamenti che gli fanno da specchio, dove non esiste lo smaltimento dei rifiuti verbali. Si trasmettono da una generazione all'altra, saturano il cazzeggio negli spogliatoi, si accumulano alla maniera delle pile degli smartphone che prima o poi dovremo spedire sulla luna.

L'omicidio di una donna da parte di un uomo respinto rappresenterà pure un caso su un milione, come il legno con cui viene costruita una ghigliottina. Ma prima è stato un albero uguale a tutti gli altri, prima ancora un seme, che non a caso possiede lo stesso etimo di semantica. Una parola insomma, seppellita sotto la terra dissodata dal conversare distratto. Se le condizioni ambientali le sono propizie poi accade quel che accade. Mentre con il diserbante della consapevolezza, la si può forse stroncare prima che sbocci.

Inappropriate, o sull'ordine simbolico e la meraviglia

La differenza tra la vita e il cinema, ti dicono, è che nella prima il male accade, così, semplicemente e senza un senso, mentre nel secondo è un segno, rimanda quasi sempre a un'idea di mondo. Un mondo ammalorato, appunto, che grazie a quel segno lo spettatore si presume possa riconoscere, prendendone le distanze.

Eppure, a volte anche le storie della vita insinuano dei segni, ma per intenderli dobbiamo guardarli come se fosse un film, puntellato da reconditi messaggi creati ad arte dal regista, dallo sceneggiatore e perfino dal costumista.

Immaginiamo allora per un istante che la sorella della povera Giulia Cecchettin, Elena, sia un'attrice, e che l'orrenda felpa con la quale ha rilasciato le interviste fosse un abito di scena, si è addirittura parlato di satanismo. Il commento più ricorrente è però stato di inappropriatezza: non ci si presenta in pubblico conciate a quella maniera, a maggior ragione quando tua sorella è appena morta.

Nell'ipotetico film che interpreta, non si potrebbe trovare migliore aggettivo per commentare l'intera vicenda: inappropriata, che sta a significare di non proprietà, ciò che si porge non contiene l'ipoteca di nessuno, e perciò lo si può anche revocare.

Elena Cecchettin è dunque stata davvero inappropriata, almeno in senso letterale, come lo era la sorella Giulia: entrambe fuori dal possesso di un solo uomo o di un'intera benpensante comunità. Di più. Tutte le donne, ma in fondo tutti senza distinzione di genere, dovrebbero essere inappropriati, sia nel lasciare la persona che non si ama più, sia nell'indossare indumenti di discutibile gusto. O meglio: il proprio gusto.

L'unica proprietà che un'altra persona ha su di noi è quella di inviare segni, a cui, a nostra volta, abbiamo proprietà di corrispondere o meno. Quando si realizza la corrispondenza abbiamo amore, amicizia, comunità. Diversamente, quei tizi che stanno al bancone a bere da soli, nei pub inglesi li chiamano sad bastard.

Possiamo anche intendere l'ordine simbolico come il codice del gruppo, e la meraviglia un'inattesa singolarità che non nuoce, ma disorienta e fa pensare. Forse per questo Aristotele sosteneva che la filosofia proviene dalla meraviglia. L'abbigliamento di Elena Cecchettin diviene così un gesto filosofico meraviglioso, in cui l'abituale – andare in tivù compunti e contriti a esibire il lutto – viene rielaborato in nuova forma. E dopo il primo stordimento, le sono grato per avermi arruffato i pensieri.

lunedì 20 novembre 2023

Aggettivi, o sul nesso tra parole e mondo

 

Ho appena letto sul web un commento social che prende avvio dalle seguenti parole: "il punto è sempre l'analfabetismo emotivo dei maschi".

Ovviamente ci si riferisce alla terribile vicenda di Giulia Cecchettin. Ovviamente è scritto da una donna, con cui non ho alcuna intenzione di polemizzare. Solo, mi ha ricordato come nella lingua italiana, a differenza di quella inglese, gli aggettivi abbiano un ruolo spesso negletto, specie negli ultimi anni.

Ad esempio, la frase citata cambierebbe in traduzione, e per quel che mi riguarda diventerebbe anche più vera, perfino più bella. Traduzione non completamente fedele, ma aggiustata con uno di quegli aggettivi che gli anglosassoni non si fanno mai mancare: the point is always the emotional illiteracy of some males.

Meglio, no?

Nessuno ci vieta di fare lo stesso, è sufficiente l'introduzione del medesimo aggettivo, some, in italiano alcuni: il punto è sempre l'analfabetismo emotivo di alcuni maschi. Non c'è più l'effetto “auanagana” di Alberto Sordi in Un americano a Roma, ma mica male.

È solo una possibilità, intendiamoci. Non so se esistano statistiche a riguardo, verosimile che l'analfabetismo emotivo sia diffuso, e sebbene con grado diverso (e soprattutto effetti diversi) si declini in entrambi i sessi. Uno stanco cliché ci ricorda che, oltre a un padre, dietro a un ragazzo c'è sempre anche una madre, a trasmettere una pedagogia di mondo spesso allineata. Bastano semplici gesti, qual è la gerarchia nel servire la pastasciutta: prima il marito, poi il figlio maschio, quindi la femmina e in ultimo lei. 

Allora fuori alcuni e dentro l'aggettivo parecchi, come fa l'allenatore col giocatore inconcludente. Oppure tanti, molti, più ancora renderebbe la sua forma superlativa: moltissimi. Devoto Oli e Zanichelli alla mano, non c'è che l'imbarazzo della scelta.

Ma detta così, i maschi, un aggettivo comunque lo possiede, sebbene in forma implicita. È tutti: tutti i maschi sono degli analfabeti emotivi (anche Topo Gigio, sì, anche Papa Bergoglio e il Mago Zurlì) che è un'evidente sciocchezza.

In un altro film, Palombella rossa, Nanni Moretti si scaglia contro una giornalista che gli fa domande sconclusionate. "Chi parla male pensa male e vive male!" la rimbrotta stizzito. Io aggiungerei che, talvolta, chi parla male uccide la "propria" donna, non avendo compreso che le donne sono tutte improprie, non appartenendo a nessuno. Ed è così che si mostra un nesso non casuale tra analfabetismo emotivo e analfabetismo letterale.

Usiamoli dunque questi aggettivi, anzi questi benedetti aggettivi, che è pure un aggettivo. Soppesiamoli, ragioniamoci sopra prima di strillare il nostro sdegno. La perfida Albione non ne possiede il monopolio, al contrario dei cappelli in pelliccia d'orso canadese che svettano sul capo delle guardie reali.

domenica 19 novembre 2023

Relax

 

Una quindicina di anni fa si è suicidata la madre di un mio amico gettandosi nell'Adda, là dove il fiume si biforca prima del ponte che collega Sondrio ad Albosaggia. Aveva perso un figlio, Federico, il mio amico, in un incidente stradale. Da allora viveva in uno stato di dolente torpore, intervallato dai rari soprassalti che, al risveglio, le procurava l'ascolto dei nastri registrati mentre la dose notturna dei sonniferi faceva effetto, e in cui le pareva di riconoscere la voce di Federico. È questo il modo che hanno i morti di comunicare con noi, le aveva detto qualcuno.

Avrei dovuto essere in auto con lui quella notte del 1987, ma mi stavo annoiando al Vogue, la discoteca dove eravamo andati a bere un paio di Gin Tonic e vedere se riuscivamo a rimorchiare; peccato che le ragazze fossero già tutte accompagnate, nemmeno tanto belle a dirla tutta. Giudizio che, allora, si poteva pronunciare senza decorosi eufemismi, in una disposizione non troppo diversa dalla sosta di fronte alle vetrine dei negozi del centro. In quei momenti la forma è già sostanza, e a smontare il giocattolo il più delle volte si resta delusi. Poco male se, a nostra volta, finivamo con l'essere inclusi nella cornucopia degli anni Ottanta, dove l'occhio che ti scruta somiglia alla paletta dei giurati di Miss Italia.

Nonostante la base elettronica di Relax, la mia canzone preferita, stesse subentrando alla coda di It's a Sin dei Pet Shop Boys, ho così approfittato del passaggio offerto da un tizio robusto col ciuffo; quando gli cascava sui Ray-Ban lo ricacciava in alto soffiando con il labbro posto a balconcino, in un gesto che era poi diventato un tic. Potevi riconoscerlo perfino di spalle, magari mentre al bar giocavi a Pac-Land, versione aggiornata e peggiorata di Pac-Man, dal suono sibilato dell'aria che mitragliava ciuffi ormai del tutto ipotetici. Ciao Piero, gli dicevi senza girarti

Era infatti anche lui un amico, ma di quelli che vedi raramente e il più del tempo lo passi a dare e ricevere pacche sulle spalle, riproponendosi uscite poi sempre rimandate. Mentre declinavo il timbro sulla mano con cui il buttafuori  voleva marcarmi (no, non rientro) prima di varcare in senso inverso il portoncino blindato posto all'ingresso del Vogue, giusto il tempo di ascoltare: relax, don't do it / when you wanna go do it / relax, don't do it / when you wanna come...

Il giorno in cui la madre del mio primo amico ha fatto ciò che ha fatto, un terzo amico, appena terminato il lavoro, l'ha incrociata per strada. Il suo ufficio sta a un centinaio di metri dal ponte, l'acqua che scorre di sotto era quella gelida e scura dei mesi invernali, e a posteriori abbiamo intuito dove la donna fosse diretta. Pedalava con foga su una bicicletta di tipo Graziella, lo sguardo acceso fissato su un punto che vedeva solamente lei, esercitando la stessa attrazione della calamita con la limatura del ferro. Sembrava, come dire... e qui il mio amico ha un momento di esitazione – massì: sembrava finalmente felice.

Quel tipo di felicità di cui oggi colgo un prenatalizio bagliore. Lo sbaglio era stato nel collocarla all'inizio, nell'età dell'oro, nel tempo lieto delle felpe Stone Island e delle Vespe PX con l'adesivo di Radio Studio 105, dei Frankie Goes to Hollywood con la loro Relax. Invece stava alla fine, nel tempo della limatura del ferro, già si intravedono le prime tracce di ruggine. Dai Guido, una piccola pedalata ancora, il fiume è paziente, sa aspettare. Non come una madre che conta i minuti nell'attesa notturna del figlio, ma come fa il figlio con la madre. Basta cambiare solo una piccola parola nel refrain: relax, then do it...

sabato 11 novembre 2023

Don't You Want Me

Nel 1981 me ne ero andato di casa dopo l'ultimo pugno ricevuto da mio padre. Era appena terminato il Festival di Sanremo – Riccardo Fogli aveva vinto con Storie di tutti i giorni, ma il premio della critica era andato a Mia Martini  , e febbraio cominciava in una poco fantasiosa replica di gennaio, con la neve che sembrava non si sarebbe più sciolta. Da Natale grossi cumuli grigiastri trapuntati dalle cacche dei cani invadevano i marciapiedi, a qualche metro di distanza l'alone dorato dell'urina. Mai fare due cose contemporaneamente.

La prima notte l'ho trascorsa nella soffitta di non so chi, non mi pare di aver provato emozioni particolari, avevo solo quindici anni e vestiti troppo leggeri. La mattina seguente sono andato al bar per cercare di rialzare la temperatura del corpo, dove ho incontrato Igor che stava facendo colazione. Un ragazzo di qualche anno più vecchio di me, esattamente non so quanti, però almeno quattro. Aveva infatti già la patente e una Citroen GS color tabacco parcheggiata di fronte alla vetrata con la scritta Mach II. Di solito, lì, mette l'auto chi deve andare in ospedale, fortuna trovare il posto libero.

Non particolarmente alto, nemmeno basso, Igor era una persona normale, gentile e cordiale con tutti ma in fondo senza veri amici, quelli a cui affidi la lettera da consegnare alla ragazza che ti piace. Lo conoscevamo perché ogni tanto si fermava anche lui al Mach II per una partita a scala 40. "Non sei a scuola?" mi ha chiesto accendendosi una Marlboro. Per il poco che mi conosceva non sembrava sorpreso dall'incontro.

"Sono scappato di casa."

Una risposta che deve essergli apparsa normale, come tutto il resto, e convincente, tanto che per un po' non mi ha chiesto più nulla. Siamo così rimasti al bancone: lui ad aspirare e sbuffare il fumo e io a girare il cucchiaio nel cappuccino (ben caldo avevo aggiunto al momento dell'ordinazione) che nel frattempo mi aveva offerto dopo aver visto il colore delle mie mani; nella concitazione della fuga avevo dimenticato di prendere il portafogli. Poi ha ripreso: "Vuoi venire a Caspoggio con me, sto andando a sciare?"

Immagino di avergli risposto sì, la memoria mi restituisce un film ellittico, sensoriale. Nella scena successiva il rumore dei grani di sale sparsi sulla strada frantumati dagli pneumatici con le gomme chiodate, le sospensioni morbide della Citroen che ci cullano a ogni buca, e poi ancora sigarette e musica, ad alto volume. Le note sono quelle percussive di Don't You Want Me degli Human League.

Il fatto è che la stessa canzone – ne sono certo – ha continuato a uscire dalle casse conficcate nelle portiere al distributore, mentre un omone con un berrettino di lana turchese chiede se la benzina la vogliamo normale o super, durante i tornanti che portano in Valmalenco, nel parcheggio della seggiovia, perfino al ritorno verso giornate da inventare, come se fossi l'apripista di me stesso dopo che sono dileguati i paletti fino a ora posizionati dalla mia famiglia. Sempre e solo Don't You Want Me.

Non ci ho messo molto a capire che aveva registrato un'audiocassetta con quell'unico brano, lo faceva girare in loop sull'autoradio. All'inizio mi è apparsa una cosa un po' da scemi. Ma dico io si può, pensavo, ascoltare una sola canzone, quando ce ne stanno tante altre non meno belle? Ad esempio Bette Davis Eyes di Kim Carnes, era uscita pochi mesi prima e già in testa alle classifiche. Un'oltranza cocciuta e spensierata, una mania, la mosca che rimbalza sul vetro. Adesso capisco perché Igor non ha amici.

Poi però la musica ha preso il sopravvento e ho iniziato a canticchiare, storpiando le parole che non capivo: Don't. Don't you want me? / You know I can't believe it when I hear that you won't see me /Don't. Don't you want me? / You know I don't believe you when you say that you don't need me...

Anch'io ero entrato in loop, la ripetizione acefala sembrava contenere un codice, un enigma, irrisolvibile, da risolvere. Oppure un semplice dato di realtà: ti piace una cosa, ti fa felice? Bene, concentrati su quella cosa, e lascia perdere tutto il resto. Mica siamo fatti alla maniera dei mussulmani che hanno dieci mogli, e i gatti sette vite.

Ora non so se Igor mi abbia voluto impartire una lezione, e più in generale se esistano lezioni, se le sette vite dei gatti abbiano un senso o sia sempre la solita manfrina, basta e avanza il colpo singolo nel tamburo della pistola di Christopher Walken: One shot, one shot gli fa eco De Niro nel Cacciatore. So solamente che in una gelida mattina di febbraio, con Igor e la sua unica canzone, la sua unica moglie, il suo proiettile, sono stato colpito al cuore.

Forse era proprio quella cosa, massì, la felicità – se ne parlano tutti dovrà pur esistere... E ogni volta che ascolto Don't You Want Me mi vengono gli occhi lucidi, gli occhi dei vecchi quando ricordano i giorni in cui raggiungevano l'officina fischiettando in bicicletta, fermandosi a pisciare tra i campi di viole. Per la cacca, come i cani, ci sarà tempo.

giovedì 9 novembre 2023

Antisemitismo, una proposta omeopatica

Il termine antisemita, riflettevo, è composto dal prefisso anti e dal sostantivo semita. Ora, per essere antisemiti si deve come minimo credere che esistano degli uomini diversi dagli altri uomini – i semiti appunto, o ebrei –, e che questi uomini diversi abbiano (o dicano di avere) un rapporto privilegiato con Dio, un patto di alleanza proprio, e poi buffi cappellini, candelabri etc.

A tutto ciò evidentemente Hitler credeva, come ci crede Amichai Eliyahu, l'ex ministro della cultura israeliano dalla fervida immaginazione forgiata nel war gaming; di recente ha dichiarato che una bomba atomica sopra Gaza sarebbe una soluzione come un'altra, perché no? Con la PlayStation 5 è un attimo.

L'unica differenza tra i due è che Eliyahu non mette il prefisso anti, anzi lo mette ma ai palestinesi, è antipalestinese come Hitler era antisemita.

Se un semplice prefisso è stato in grado di mutare così profondamente la storia, tocca andare più a fondo, scavare, cercare di capire da dove proviene e cosa intende comunicarci.

Per fortuna è relativamente semplice: significato e forma sono rimasti quasi immutati nei secoli, muovendo dal sanscrito al latino passando per il greco, fino a giungere alle moderne lingue europee. Ma mentre per il sanscrito possiamo fare solo delle ipotesi, nel greco, con anti, ci si riferisce perlopiù a un elemento di contrasto (essere contro), che nella sua evoluzione latina in ante prende a significare anteriorità, sia temporale sia spaziale – in fondo, nell'attesa di muovere all'assalto gli eserciti stanno uno di fronte all'altro. Ed è così che prima davanti e contro si passano il testimone.

Ricapitolando. Se io fossi antisemita dovrei, come minimo, credere che esistano i semiti, quindi essergli contrario, giusto?

No, sbagliato. Nell'oscillazione semantica del termine starei, in tal caso, propendendo per la sua interpretazione prevalente, che però non è l'unica possibile. Ad esempio, potrei essere antisemita alla latina, e pensare che prima, ante, di Abramo, Isacco e Giacobbe, prima del tempio di Gerusalemme distrutto nel 587 a.C. da Nabucodonosor e poi nel 70 d.C. da Tito, prima dei prepuzi circoncisi e delle freddure di Woody Allen, prima anche di un dio inflessibile che iscrive le sue leggi sulla pietra e guai a trasgredirle, prima di ogni cosa visibile e invisibile esista un altro dio, da cui un'altra possibile storia.

L'altro dio si chiama Elohim ed è un tizio molto più simpatico di Jahvè, anzi si tratta forse di una moltitudine diffusa (il termine ebraico che lo designa è un plurale), la quale non ha mai imposto all'uomo alcun divieto, ma invitato a guardare alla vita come a un incessante processo tra il prima e il poi, in cui non solo il divino ma anche l'umano è parte attiva, cominciando dai nomi da assegnare alle cose. Cambiando nome o anche solo interpretazione, cambiano le cose.

Se ne ricava che esiste un approccio, per così dire, omeopatico all'antisemitismo, e consiste nell'essere a propria volta antisemiti, ma nell'accezione latina. Naturalmente non mi sfugge che perdurano tradizioni secolari  – le religioni ma pure, laicamente, le culture, i cui ministri a volte parlano a vanvera... – e io rispetto quelle tradizioni e chi vi aderisce, dove l'elemento oppositivo e identitario prevale sul fluire spaziale e temporale, a costituire un elemento di discontinuità tra diversi. Sono le cosiddette radici.

Sotto le radici, sotto la pianta, non c'è però il nulla, ma la terra, l'acqua, il fuoco. I soliti greci lo chiamavano archè. Ma nell'incertezza sulla sua natura possiamo accontentarci dell'umano, a cui accostarci quale pienezza generativa. Ecce homo!

Ogni volta che si è cercato di frazionare la totalità degli uomini e perfino degli animali, il mondo, il cosmo e il suo pulsare, si sono create le premesse dell'antitesi (insanabile contrasto tra opposte tesi), di cui il presente sembra fare da riflesso e mostrarci solo l'aspetto disgregato, privo di soluzioni in quanto insoluto. E per quanto le distinzioni sono importanti non sono tutto, o per meglio dire non sono il Tutto.

La soluzione sta così nel risvolto percepibile della totalità, the shining side of the moon. Ma se il re è nudo, al solito, solo un fanciullo se ne accorge. Basterebbe essere antisemiti non meno che antipalestinesi, antitaliani, antipugliesi, antimilanisti, antiqualsiasicosa. Ma non perché si intenda sbarazzarsi dell'oggetto anti-tetico, e piuttosto guardando a esso come a ciò che viene prima e sta davanti, o se si preferisce il prossimo tuo.

Solamente cogliendo l'ambivalenza semantica celata nel termine, l'altro smette gli abiti da oplita pronto a scagliarci in petto la sua lancia – magari, ci ha suonato alla porta perché ha finito lo zucchero, o perché si sentiva solo e aveva voglia di farsi una partitella a briscola.

Non arriverò a dire che siamo fratelli, abbracciamoci, porgiamo l'altra guancia e volemose bene; qualcuno l'ha già detto in un prima che si è trasformato in poi ugualmente divisivo, un anti alla greca. Ma almeno si potrebbe provare a essere cugini: ognuno a casa propria, va bene, ammesso e non concesso che tutti abbiano una casa, una terra. Ma anche se così fosse, la propria casa è nella migliore delle ipotesi una roulotte. E siamo solo all'inizio del viaggio. 

martedì 7 novembre 2023

Occidentali's Market

Essere in coda alla cassa di un supermercato e vederla chiudere all'improvviso. La lucina in alto, da verde, diventa rossa. Se hai posato le merci sul nastro trasportatore prima della conversione di stato, puoi rimanere. Altrimenti devi cambiare di cassa. Quando capita, e a me chissà come mai capita spesso, un po' scoccia. Ma in compenso gioisco quando all'altoparlante comunicano apriamo cassa tre, e da ultimo della fila, muovendo di lato con uno scatto felino, divento primo.

Un'esperienza comune, ma andiamo ancora più a fondo, estendiamone i margini con la fantasia. Supponiamo che io ora abbia il carrello strapieno (gorgonzola con mascarpone e noci, spinacine di pollo, gnocchetti tirolesi, zuppa toscana con cavolo nero, dentifricio ai microgranuli etc.), il mio turno è quasi arrivato quando arrossa il semaforo. Cacchio!

Va be', mi dirigo distrattamente verso la cassa accanto (intanto leggo un WhatsApp da mia madre, "vieni, dalla parrucchiera cinese si è liberato un posto", voleva inviarlo alla sua amica Luisa ma ha sbagliato) e però dopo pochi secondi avviene lo stesso. E così via fino ad accorgermi che ovunque vengo respinto: anche se non è ancora l'orario di chiusura – e infatti gli altri clienti continuano a riempire i loro carrelli, tastano le prugne per sentire se sono mature – non c'è verso di completare gli acquisti. Tutte le casse per me sono inibite: rossa, rossa, rossa; quella forse è aperta... No, rossa!

Immagino che un migrante ormai prossimo alla riva, il mare si fa più tiepido e calmo nello sciabordio notturno a poppavia del barcone, mentre la prua è rischiarata dai neon del supermarket occidentale, sperimenti una simile sensazione.

sabato 4 novembre 2023

Piccole gioie quotidiane

Bello quando lo smartphone ti invia notifiche di cui non intendi il senso, meno che mai i personaggi, a mala pena il contesto da integrare con i trasferelli dell’immaginazione, consegnandoti alla speranza che ancora esistano isole sperdute in cui accamparsi, e come il soldato giapponese Hiro Onoda perseverare in una guerra già perduta. 

Una guerra alla pervasività del presente, un presente semplificato, per slogan e figure, da incollare sull'albo delle figurine in cui gli spazi vuoti hanno smesso di suscitare il pungolo della ricerca. A differenza di Battiato, io mi accontento di queste piccole gioie quotidiane. L’ultima è la seguente:

"Grande Fratello, Beatrice Luzzi chiede aiuto a Giuseppe Garibaldi e smaschera Varrese."

Chi è Beatrice Luzzi? Chi è Giuseppe Garibaldi? Chi è Varrese e quali malefatte ha compiuto, prima di essere smascherato dagli altri due?

Non importa. Parole. Risaltano ai miei occhi come cacche di cane ai giardinetti dopo che ha appena nevicato. Suoni. Riecheggiano nelle orecchie come frasi smozzicate pronunciate dal chirurgo, mentre l'anestesia totale comincia a fare effetto. La semantica è solo un dettaglio, un quasi niente, il boccolo biondo che scivola sulla schiena alata del putto.

Ero al bar a giocare a bigliardo il giorno in cui l'insegnante di lettere ha spiegato il verso pape Satàn, pape Satàn aleppe. Una lacuna scolastica mai più colmata – cosa voleva dire Dante? Aleppe... pape... a Satàn forse ci arrivo. Sarà che un vuoto di sapere somiglia a un vuoto d'aria durante il volo, e non meno divino è l'atterraggio nella Commedia.

A maggior ragione, diventa irrilevante chi sia e cosa faccia tale Beatrice Luzzi; a parte chiedere aiuto a Varrese, un altro perfetto Carneade. Quanto a Giuseppe Garibaldi, sospetto non sia quel Garibaldi lì, la cui bronzea figura troneggia nella piazza principale della mia città.

A confortarmi è il fatto che la comunicazione venga inviata a me, proprio a me, il famigerato algoritmo l'ha stabilito con inequivocabile certezza, è la X che a battaglia navale dovrebbe colpire e affondare l'incrociatore; ad altri il siluro contenente la foto di Chiara Ferragni mentre dona il suo sangue, di certo più rosso del mio. L'algoritmo sa, ti dicono.

Ciò significa che, oltre a due Giuseppe Garibaldi, devono esistere anche due Grande Fratello (uno infatti è vip), entrambi un po' grulli. O perlomeno, quello che dovrebbe spiarci e ricavare cosa interessa e piace e quindi siamo disposti ad acquistare – versione 2.0 della Stasi, di Tom Ponzi – spara ancora nel mucchio; nel torneo di freccette in un pub inglese centrerebbe la svastica tatuata sul sedere di Paolo Di Canio.

Del sottoscritto, bene che vada, l'intelligenza artificiale ha compreso quanto i Testimoni di Geova; di tanto in tanto (ma sempre meno spesso) suonano al citofono per mettere in salvo la mia anima. Sì, lo so, la fine è vicina, li anticipo ogni volta io. E poi gli lancio il gavettone.

Limonate, o sul pudore come estrema trasgressione

Sulla tratta rossa del metrò o appoggiati al parafango sinuoso di un Maggiolino giallo elettrico, perfino camminando sveltamente, ovunque, di tanto in tanto, negli anni Settanta due giovani cominciavano a limonare.

Si trattava rigorosamente di un uomo e una donna, è importante sottolinearlo, io ancora bambino ne studiavo i gesti e pensavo che tra un niente di giorni – ma allora l'infanzia appariva un ergastolo, con fine pena mai  avrei cominciato a farlo anch'io e tutti mi avrebbero guardato, invidiato.

Poi però non è accaduto. Nel decennio successivo si limonava stravaccati sui divanetti di una discoteca (Tempio, Brick, Moia, quelle in cui limonavo io), o meglio ancora a casa propria o della lei turno, ascoltando l'audiocassetta registrata dalla radio di Un sabato italiano di Sergio Caputo; più spesso non si limonava affatto, in assenza di una controparte attiva da ricercare negli stessi luoghi (Tempio, Moia, Brick).

E adesso?

Al netto della retorica, in parte falsa e in parte vera come ogni retorica, per la quale i giovani coinciderebbero col display dello smartphone sui cui scorrono le notifiche, l'esibizione dell'intimità fisica di un bacio sembra essersi trasferita a coppie dello stesso sesso, che, vicendevolmente perlustrando i recessi orali con la lingua, ancora riescono a strappare un moto di disappunto ai benpensanti, come già avveniva alle coppie etero. Ciò a conferma del fatto che un piccolo elemento di infrazione è funzionale al piacere  se fosse troppo grande, non si potrebbe trasgredire.

Ma allora viene il dubbio che l'oblio della limonata, più che effetto della distrazione indotta dai numerosi device tecnologici, sia da mettere in conto alla sua imposizione: ama, godi, porta a casa la fidanzata e fate sesso nel lettone dei genitori, che tanto non gli dà mica fastidio e poi ci fanno pure uno status su Facebook: "il mio bambino è finalmente diventato grande!"

Licitazionimo lo chiama con un bel neologismo il filosofo e psicoanalista Romano Madera, da lecito, liceità. Quella che Dante rimprovera a Semiramide, per la quale già tutto, non solo, era possibile, ma il possibile decretato: "A vizio di lussuria fu sì rotta / che libito fé licito in sua legge / per tòrre il biasimo in cui era condotta".

Una licenza che i giovani sembrano restituire al mittente. Col cavolo che mettiamo in scena questo ennesimo show, il limite al godimento che non ci date – padri, madri, educatori – lo tracciamo da soli nel cielo, come facevano gli àuguri latini con il lituo. Pensiero ipotetico contenuto nella nuvoletta fumettistica di chi, non ancora ventenne, mi sta di fronte in metropolitana, senza sconfinare di un millimetro nella porzione frazionata della panca su cui siede composta l'amica, compagna, chi lo sa... prima di alzarsi entrambi e scendere a Pasteur.

Eppure un elemento di trasgressione ancora lo si può ipotizzare, ed è il pudore da opporre a un tempo spudorato.

venerdì 3 novembre 2023

Alternative

 

Le alternative sono due: o Aboubakar Soumahoro sapeva che la moglie e la suocera erano delle truffatrici, o non lo sapeva. Nel primo caso era complice, nel secondo, a sua volta, truffato.

Alternative che valevano al momento in cui sono emerse le accuse a carico delle due donne, quasi un anno fa, per la precisione undici mesi. Lasso di tempo in cui un uomo, un marito, un parlamentare della Repubblica italiana ha avuto tutto il tempo per fare alla moglie delle domande, e ottenere risposte precise e documentate. Chiarirsi, insomma, e quindi chiarire la sua posizione nella vicenda.

Se questo confronto è avvenuto è rimasto tra le mura della villetta di Casal Palocco, mentre l'uomo continuava a prendere posto sugli scranni di Montecitorio. E così le alternative iniziali ora sono sempre due, ma mutano di forma: o era complice già da subito, dunque doppiamente responsabile per essersi candidato, o lo è diventato con l'aggravante di non dimettersi. Anche nel caso si tratti di quella particolare forma di complicità chiamata scemenza, propria di chi viene ipnotizzato dalla lingerie griffata di una bella donna.

In entrambi i casi la considerazione nei suoi confronti non potrà che essere minima, e per esprimerla non abbiamo bisogno di attendere il giudizio della magistratura.

giovedì 2 novembre 2023

Riassunto di riassunti

Le immagini di Chiara Ferragni sono inevitabili, lo sono in senso letterale, dove guardi guardi appare sul web come la Madonna ai tre pastorelli di Lourdes, Lucia, Giacinta e Francesco. Questa volta replica la celebre sequenza di Basic Instinct in cui Sharon Stone scavalla e accavalla di nuovo le gambe dal lato opposto, sostando per un infinito secondo con le cosce divaricate. A poche ore dalla pubblicazione su Instagram già dilaga, si mostra anche a chi compia una ricerca sui conventi della Confraternita camaldolese dell'Ordine di San Benedetto, o sulla ricetta della bagna cauda.

Essendo una bella ragazza poco male, possiamo adeguarci alle regole che prova a imporci (riuscendoci) e dare una sbirciatina là sotto. Oppure potremmo fare come la piccola vedetta indiana, e innalzarci sulla collina dell'esperienza sensibile nel tentativo di guardare più lontano, trattando poi l'immagine alla maniera di un testo. In tal caso ciò che vi leggiamo non riguarda più solamente lei, ma anche noi.

È vero, l'abbiamo premesso, quella sequenza di Basic Instinct è celebre, ma ancora più celebre è la bionda influencer di Cremona, la copia sopravanza in numero l'originale. Un ribaltamento di prospettiva a cui la modernità ci aveva già introdotto; ad esempio attraverso la Monna Lisa con i baffetti disegnati da Duchamp, le cui riproduzioni hanno finito coll'attrarre più sguardi della versione di Leonardo.

Una circostanza però sempre interna al mondo dell'arte: Duchamp era un artista, scaltro fin che si vuole, ma comunque artista, e cioè persona che esercita un ars, un fare. Azione per la quale aveva dovuto acquisire delle specifiche competenze, abilità espressive frutto di studio, lavoro, paziente e dedito apprendistato. Lo stesso vale per Sharon Stone – scuole di recitazione, casting, copioni da imparare a memoria – prima di ottenere da Paul Verhoeven la parte di Catherine Tramell, la scrittrice e psicologa sospettata di avere ucciso l'amante con un punteruolo.

Chiara Ferragni invece no. Le è bastato indossare il corpetto bianco e dischiudere leggermente le gambe, ciak si gira, buona la prima, via subito con la pubblicazione sui social, passaparola, milioni di visualizzazioni, like, cuoricini.

Nessun moralismo, intendiamoci. Perché devo farmi il mazzo per imparare un contenuto o un modo per esprimerlo – dipingere, recitare, la tabellina del sette, il nome dei sette nani etc. – che nel giro di pochi anni verrà realizzato molto meglio dall'intelligenza artificiale?

Ferragni tutto ciò l'ha compreso con largo anticipo, a ricordarci Cristoforo Colombo nel suo navigare ormai scoraggiato, prima di intravedere un gabbiano con un rametto verde nel becco: noi siamo Colombo, Ferragni è il candido pennuto che ci porta primizie dal Nuovo Mondo.

Un tempo e un luogo dove saremo esonerati da ogni sforzo compreso quello creativo, il doppelgänger avrà sfrattato di casa il legittimo proprietario, i cosplayer dilagheranno come minuscoli virus al mercato del pesce di Wuhan, e finalmente potremmo reclamare con orgoglio di essere solo il riassunto di mille riassunti, ribaltando, anche qui, il senso di una bella canzone Samuele Bersani. Basterà aprire le gambe e il gioco è fatto.