mercoledì 27 maggio 2020

Il rimedio è la povertà


Ieri sera ho visto l'ultimo film di Ken Loach, Sorry, We Missed You. Non intendo avventurarmi in un discorso critico, anche se bisogna forse riconoscere che è meno riuscito di precedenti pellicole del regista, qui un po' schematico e prevedibile negli snodi narrativi. Ma quanto sono veri i suoi personaggi, quanto sono belli! Di quella bellezza che non può fare a meno del vero e viceversa, in una sintesi a cui darei il nome di dignità.
La dignità dei penultimi più che degli ultimi, quelli che provano a resistere alla lunga coda della ristrutturazione economica tacheriana, in un moderno affresco de Il quarto stato che Ken Loach va componendo da anni. A differenza che in Pelizza da Volpedo la marcia non è però univoca e serrata, ognuno cerca di salvarsi come può, salvare sé stesso ma soprattutto i legami affettivi in cui si riflette e infine riconosce, quando il fuori ha assunto sembianze ormai totalmente aliene. In questo caso si tratta della propria famiglia, quella di un quarantenne di Manchester che si indebita per acquistare un furgone, con cui reinventarsi una vita come Pony Express. Rick è il suo nome, Rick Turner. 
Nel suo calvario lavorativo Rick è sempre sostenuto da Abby, la moglie, lei fa la badante mentre il figlio adolescente Seb ha la passione per i graffiti, ma della sua età sconta anche i conflitti che la piccolina della famiglia, Lisa Jane, sembra una deliziosa miniatura di Vermeer, cerca di ricomporre peggiorando a volte le cose. Seguendo le vicende travagliate dei Turner, c'è sempre un pittore di mezzo, il realismo della messa in scena finisce con l'indurre in più occasioni il desiderio di soccorrerli, come quando vedi un bicchiere a bordo tavola sul punto di cascare. Una finzione filmica talmente credibile da ingannare anche sé stessa, o perlomeno è la sensazione: dopo aver trovato i personaggi l'artista si fa da loro condurre, mentre la camera ne pedina con una discrezione quasi documentaria la più minuta quotidianità. È stato così altrettanto naturale ritrovarmi a pensare a un vecchio articolo di Goffredo Parise, fu pubblicato sul Corriere della Sera il 30 giugno 1974, gli intenti dello scrittore vicentino sono chiari già a partire dal titolo: il rimedio è la povertà.
Se c’è un rimedio ci sarà dunque anche un problema, un vulnus. Rispetto a quasi cinquant’anni fa le cose non sembrano cambiate troppo, per quanto la povertà che si augurava Parise appare molto più vicina, pervasiva. Ma il suo utilizzo del termine non era strettamente economico, tantomeno ideologico come potrebbe ora apparire, sviati da una politica che, anche se non soprattutto a sinistra, ha fatto propria la confusione tra sviluppo e progresso già denunciata da Pasolini, il cui pensiero viene esplicitamente ricordato nel testo. Il problema, il male, la ferita, prima ancora che morali sono per entrambi gli scrittori di natura estetica: l'estetica dell'accumulo e dell'ingordigia, in cui la quantità ottunde per definizione l'esperienza qualitativa. La povertà, più che una semplice condizione materiale, diviene allora una disposizione maggiormente ricettiva, attraverso cui fare emergere un ordine formale (la bellezza del mondo) svilito dalla nuova civiltà dei consumi. Nuova per allora, naturalmente. E per noi così abituale da non farci nemmeno più caso.
Non accorgersi di qualcosa non significa però che abbia smesso di esistere. Per ridestare la consapevolezza basterebbe leggere il seguente passaggio, in cui l’anticomunista Parise ricorda le divise rivoluzionarie sovietiche: “la divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria.”
La bellezza che traluce dal cappottone grigioverde dell’Armata Rossa, si rivela così quella particolare bellezza che, passando attraverso gli impedimenti concreti, la misura a decretarne il valore, ritrova la capacità di discrimine tra le cose suggerita dalla necessità. Quando hai necessità di proteggerti dal freddo, impari a distinguere tra nylon e lana e cotone, quando hai necessità di nutrirti e non solo di ingozzarti, impari quanto siano diversi al palato il gusto del manzo e del vitello, da riservare ai giorni di festa e letizia. Un apprendistato a piaceri gastronomici, ma, più un generale, alla complessità della vita, che ritroviamo nel film i Ken Loach quando Rick porta alla bocca una pietanza particolarmente piccante, spiegando al figlio che rappresenta il discrimine tra giovani e adulti; salvo poi tossire e bere una lunga sorsata di birra, a ridimensionare ironicamente la sua pretesa autorità paterna, simbolo di tutti i poteri che non contemplano la capacità di correggersi.
Retrocedendo ancora nei riferimenti, non si può non menzionare il celebre incipit di Anna Karenina in cui si dice che tutte le famiglie felici si somigliamo; ogni famiglia sventurata lo è invece a proprio modo. E mi rendo conto che può sembrare presuntuoso emendare Tolstoj, ma il sospetto è che quando scriveva di felicità, schast'ye in russo, forse pensava alla ricchezza, tutte le famiglie ricche si somigliano, sì, torna decisamente di più, forse perché la povertà del suo tempo davvero coincideva con la miseria, dunque con l'infelicità.
Eppure perfino nella miseria, nella necessità fisica più disattesa, l'apprendistato alla vita è tanto più carico di attenzione alla dimensione discreta delle cose, la loro infinita varietà e funzione. La ricchezza si mostra allora come una cataratta precoce a velare il mondo e il suo manifestarsi ai sensi, che, solo in un secondo tempo, si traduce in incrinatura morale, insipienza civile. Il cinema di Ken Loach, anche nelle sue prove meno riuscite, si rivela così non tanto una critica al sistema tardo capitalista e alle politiche che gli fanno da premessa – e c’è anche questo, intendiamoci – ma una ripulitura dello sguardo dalle incrostazioni che una lunga consuetudine con la ricchezza ci ha lasciato, anche quando quella ricchezza appartiene a modelli esterni introiettati attraverso processi di identificazione immaginale, ossia fasulli.
Abbiamo infine i poveri, ma belli, di una fortunata pellicola di Dino Risi, fortunata almeno per il botteghino. Fu infatti un passo falso nel percorso altrimenti acuto del regista milanese. Qui i suoi poveri bivaccano su un barcone sul lungo Tevere, senza però possedere la neghittosa disperazione dei sottoproletari pasoliniani quanto l’orgoglio e la dignità di quelli di Ken Loach. Sono solo dei ricchi mancati, dei piccolo borghesi che si accontentano di una lavatrice nuova, o di un bacetto e una gazzosa e un giro in Lambretta con la fidanzata. L’errore è grammaticale. Non poveri ma belli, ma belli perché poveri.

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