mercoledì 31 gennaio 2024

Pinocchio

Seguendo la recente intervista televisiva ad Alessandro Baricco ho pensato: Pinocchio. Non che Baricco racconti balle, o le raccontasse, ma in tutto ciò che fa ho sempre avvertito un elemento artificioso; per paradosso, nel suo caso mette in scena un più di naturalità. Con grande consapevolezza dei propri mezzi espressivi lui la chiama narrazione – la narrazione unita ai fatti va a comporre la realtà, non esiste realtà senza narrazione ci ricorda nell’intervista. E ha ragione. Ma i fatti, quando narrati in quel modo lì, tutto suo, contengono appunto un retrogusto un po’ pinocchiesco. Se il modo di parlare, meglio, di narrare di Baricco non è mutato, ora però si avverte un altro elemento proprio della narrativa chiamato “arco di trasformazione del personaggio”. Quale probabile conseguenza della malattia – è lui a confessarlo senza apparente imbarazzo – il burattino è infatti diventato un uomo di mezza età, il naso ha smesso di crescere. E quanto è più bello ora, anche se sotto il cappello a bombetta indossato nello studio televisivo di Fazio probabilmente non ci stanno più i folti boccoli castani, al posto della camicia bianca arrotolata ai gomiti dei guantini da pilota che lasciano le dita scoperte, a ripararlo dalla fragilità della nuova condizione. Se dunque Abel fosse pure il suo romanzo più bello, come in molti, tra cui lui stesso, lasciano intendere, il capolavoro realizzato da Baricco va ricercato altrove. L'opera maggiore di un essere umano, suggeriva Jung, sta nella propria vita. E qui Baricco ha davvero fatto centro, e quasi commovente è stato assistere al suo disarmato e finalmente sincero ecce homo.

domenica 28 gennaio 2024

Un uomo e una donna

Trovo il volto di quest'uomo di una struggente disperata bellezza. Se fossi stato una giovane donna e avessi vissuto a Ostrava a cavallo del millennio, avrei cercato di consolarlo, di amarlo, chi se ne frega se lui avrebbe o meno amato me. Noi donne immaginarie siamo fatte così, come le eroine romantiche che si trovano nelle pagine dei romanzi. Lui, Jan Balabán, di romanzi ne ha scritti un paio, entrambi notevolissimi, più svariate raccolte di racconti. Con la letteratura ceca sembra non avere niente in comune: tanto abili sono i suoi colleghi in ariose ironiche digressioni, tanto lui è determinato nell'andare dritto al punto. Si muore, questo il punto, che non si trasforma mai in due punti, principio di una nuova frase della vita. Ogni respiro contiene così quell'ipoteca finale, continuata a sondare con le sue parole non meno che con il suo volto, il corpo massiccio, da metalmeccanico, quasi un ossimoro rispetto a una sensibilità accesa e rarefatta. Fare cambiare idea a un uomo così è difficile, ma la donna che non sono ci avrebbe comunque provato, sapendo che l'amicizia tra maschi non risana certe ferite: "Dai Jan, andiamo a farci due birre" gli avrei detto, "due caraffe belle grandi con molta schiuma. Poi lasciamola depositare sulle labbra come i baffi di Babbo Natale, prima di baciarci mescolando barba e saliva." Lui forse avrebbe piegato le labbra in qualcosa che ricorda un sorriso, ma il taglio degli occhi sarebbe rimasto rivolto verso il basso, verso terra, verso la terra da cui viene e ritorna il figlio dell'uomo. Non sappiamo se davvero si sia tolto la vita come si mormora, certo è che era il 23 aprile del 2010, il giorno in cui Lubiana diventava capitale mondiale del libro e a Dubai veniva inaugurato il grattacielo più alto del mondo. Aveva quarantanove anni.

venerdì 26 gennaio 2024

Patriarcato

 

È tornato l'Uomo dell'inverno. Viene chiamato così perché nessuno ne conosce l'identità, da quarant'anni compare solo nei mesi invernali – oggi si è manifestato di fronte all'Ufficio postale di Sondrio  – indossando abiti che appaiono incongrui sia al luogo sia alla stagione, sempre gli stessi come le maschere della commedia dell'arte: cappellaccio da cowboy, stivali texani, gilè nero in pelle e camicia di flanella a stampa scozzese, con i primi due bottoni schiusi. Mentre percorreva il marciapiedi leggermente proteso in avanti imprecava contro il donnino (in senso puramente letterale, fisico) che da uguale tempo lo segue. Lei tre o quattro passi dietro, capo chino, gravata di pesi alla maniera di un mulo. Con la mano destra sorregge un sacchetto della spesa e sulla stessa spalla ha un borsone ricolmo, a tratti ne fanno vacillare il passo, ma con uno sforzo caparbio subito ritrova la verticalità, si rimette in scia come nello sci d'acqua, dove non si può sfuggire alla schiuma bianca del motoscafo. Lui si guarda bene dall'aiutarla o attenderla per camminare al suo fianco, sarebbe l'infrazione di una regola probabilmente mai detta, una prossemica nella quale non sono ammesse varianti, quasi un rituale, si mormora di buon auspicio per chi li incroci per caso. Nemmeno i corpi sembrano mutare al passare dei decenni, si potrebbe pensarli congelati in un eterno presente, a conferma della natura invernale di entrambi. Ma perché invece di andare a vedere l'ultimo film della Cortellesi non venite a farvi un giro dalle mie parti? Se volete capire cosa significa il termine patriarcato, qui c'è l'arrosto e non il fumo.

martedì 23 gennaio 2024

Che cazzo volete? o sull'enigma della gioventù

Shultz è impazzito, ha cambiato ventimila lire in monetine e ora li sta dilapidando a Pac-Man! Non so chi diffuse la voce, ma fatto sta che montammo immediatamente sulle Vespe suddivise, più o meno equamente, tra ET3 e PX (io avevo un PX 125 bianco con l'adesivo di Radio Studio 105) e ci precipitammo al Bar Sole per salvare Shultz dalla sua follia. Quando arrivammo Shultz era seduto su uno sgabello di fronte al bancone sorseggiando una Stella Artois alla spina. È vero, prima si era fatto tre o quattro partite a Pac-Man, ma al momento guardava alle nostre felpe Stone Island come la ragazza rapita dai Comanche guarda all'arrivo di John Wayne. Poi disse in unico suono che non conteneva nessuna erre, dunque senza il suo consueto rotacismo, non sembrava nemmeno lui, poi disse quasi ridacchiando: "Ma che cazzo volete?" Una domanda che perfora i decenni producendo eco – che cazzo volete ete ete... – ripresentandosi ora in forma di enigma da risolvere: cosa volevamo, già, in quel pomeriggio di giugno del 1982, cosa pensavamo di poter/dover fare per Shultz, da dove questa idea romantica e anche un po' equivoca per cui il tutto incorpora le parti, se ne prende cura secondo logiche da formicaio, o alveare? Un enigma a cui, per comodità, diamo il nome di gioventù.

giovedì 11 gennaio 2024

L’agenda Draghi, o sul giorno della marmotta politica

Quando leggo che Giorgia Meloni non fa che riproporre l’agenda Draghi, mi viene da pensare a quanto distratto deve essere stato Draghi: ha seminato agende ovunque – Letta ne aveva trovata a sua volta una, Macron un’altra, Scholz un’altra ancora e così via. Il fatto è che ciò che per comodità chiamiamo agenda Draghi non è altro che la formalizzazione economico-politica, non politico-economica, attenzione, del sistema liberale e capitalistico con guida statunitense, a cui pare non esistere alternativa; non il comunismo almeno, non più.

L’idea che mi sono fatta è che per potere sfogliare un’agenda diversa da quella di Draghi dovrebbero esistere come minimo sei condizioni: 1) sovranità monetaria; 2) un esercito degno di questo nome (Vannacci non fa testo, dunque); 3) mercato interno sufficiente a coprire la produzione; 4) forza lavoro per sostenerla; 5) autonomia energetica; 6) autonomia alimentare.

Di queste condizioni l’Italia non ne possiede nemmeno una, e la stessa Europa è messa piuttosto maluccio. Dei sei punti summenzionati riesce a soddisfarne solamente due, l'1 e il 6; con un po' di buona volontà anche il 4, ma unicamente per via della forte immigrazione che la ripopola. Non esiste alcuna realistica possibilità di un'uscita dalla Nato e di una agenda diversa da quella che il prodigio Draghi distribuisce, come facevano un tempo gli istituti bancari all'approssimarsi del Natale: agenda e calendario e panettone, ma solo ai correntisti più capienti.

L’unica maniera per restituire alla politica europea un ruolo disciplinare sull’economia suona vagamente fantascientifica, di certo utopica, almeno nel presente. Consiste in ciò che i tedeschi chiamano Ostpolitik, e cioè includere la Russia in uno spazio geopolitico integrato – non lo “spazio vitale” auspicato da Hitler, ovviamente, ma una dimensione di scambio armonico, democratico e sociale. Potremmo anche chiamarlo socialista... altrimenti si tradurrebbe in una controfigurazione del liberal-capitalismo.

Possibilità che, con Putin al comando e la guerra in Ucraina, non è ovviamente praticabile, quindi è una possibilità impossibile, un ossimoro che ci condanna a un infinito giorno della marmotta di agende Draghi; anche Elly Schlein ha già in tasca la sua agenda Draghi bella e pronta: basta aggiungere un po’ di maquillage green e queer e il gioco e fatto. Per il resto, non cambierebbe nulla.

Ma ve lo ricordate come finiva quel film? Per rompere l’incantesimo che condanna a ripetere il giorno della marmotta è necessario innamorarsi: di una donna, di un cane, di un’idea politica... Di qualsiasi cosa. Innamorarsi del sogno che da qualche parte esista una tipografia piccola e sperduta, nella quale non vengono stampate unicamente agende Draghi.

venerdì 5 gennaio 2024

La bambina e la panchina


Il mio rapporto con le donne? Prima o poi qualcuno me l'avrebbe chiesto, qualcuna più facilmente, quel genere di domande che si fa alla prima uscita una volta arrivati sazi e un po' ebbri al caffè; per recuperare la virilità perduta con la richiesta di orzo in tazza grande, io lo faccio correggere con la grappa. Oppure uno strizzacervelli, e allora tanto vale prepararmi la risposta: sperimentale, il mio rapporto con le donne lo definirei sperimentale, almeno fino ai vent'anni compiuti. Non che non avessi avuto occasioni, da quando l'apparecchio ortodontico aveva concluso la sua futuristica oppressione (mai un sorriso, aria da esistenzialista imbronciato) ero stato riammesso nei canoni dell'estetica, secondo le compagne di scuola delle medie addirittura il più carino della classe. Ma quella nuova attenzione nei miei confronti mi rendeva sospettoso, la sindrome del tenente Colombo a ogni ciao come ti chiami? I primi baci veri, con la lingua intendo, insomma le limonate, arrivarono tardissimo, in prima superiore. C'è da dire che poi ci ho preso gusto, e a ogni festa a cui venivo invitato o più che altro mi imbucavo – rispetto alle medie erano cambiate solo le bevande: da Fanta e Coca-Cola a Ceres e Moskovskaya – riuscivo quasi sempre a rimediare una ragazza. Il momento giusto per provarci era quando sul mangianastri partivano le basi campionate e zuccherose di Reality, brano che nel Tempo delle mele il tipetto in cravatta fa ascoltare in cuffia a Sophie Marceau, mentre tutti gli altri si dimenano sulle note di Swingin' Around. Come a dire che l'amore somiglia a Enrico Ghezzi: è un fuori sincrono. Solo a ventidue anni, di nuovo tardissimo, la prima fidanzata, o almeno così pensavo, scoprendo solo in seguito che lei era già sposata. Ma amore era amore, eravamo finiti entrambi in fuori sincrono rispetto al mondo; il luogo rimaneva lo stesso, diversa la musica in cuffia. Da una città lontana, dove viveva con il marito, mi spediva regolarmente lettere su cartoncino rosa e profumato, a cui io rispondevo indirizzando a casa di una sua amica, che furtivamente poi le passava il tutto. Il fatto di essere più vecchia di me di sette anni, dunque quasi trentenne, la imbarazzava, ma per me non era un problema, anzi mi vantavo con gli amici di stare assieme a una donna matura, non a delle ragazzine come loro. Probabilmente per compensare quella lieve asimmetria, nella busta che conteneva l'ennesima letterina rosa trovai un giorno anche un plico di fotografie. La ritraevano da piccola, una bambina dagli occhi neri e vispi, i capelli, del medesimo colore, con la frangetta e il carrè: il mio amore in miniatura conficcata in una terra straniera, dove si era trasferita con la famiglia in un moto che si chiamava allora emigrazione, non turismo. Quindi di nuovo nella sua Toscana, ora è adolescente e il seno inizia a intravedersi sotto un camicione bianco, da poeta bohemien, sta in un giardino e annusa il fiore che pende dal ramo di una pianta, in un'altra indossa un bikini giallo e sorride, anzi ride proprio allo scherzo di qualcuno, e via di foto in foto a colmare il tempo prima di noi. Un desiderio molto umano, credo chiunque, innamorato, l'abbia fatto almeno una volta. Solo che le immagini vengono adesso inviate con WhatsApp, per un po' fanno tana dentro smartphone che cascano e si rompono, i computer si cambiano. La memoria digitale è piuttosto distratta. Quelle foto invece ci sono ancora, le ho trovate oggi, per caso. Stavano in una scatola da scarpe, delle Adidas taglia 10 e 1/2 in cui le avevo riposte trentacinque anni fa. Ho iniziato a scorrerle come fa Meryl Streep nella scena finale dei Ponti di Madison County. Immagini dai colori po' sbiaditi, specie nelle Polaroid, che ritraggono le mutazioni di un corpo, il bruco che si fa farfalla. Ma allora era bellissima? No, non lo era, era semplicemente bella, senza il suffisso superlativo. Quello l'aggiungeva un filtro ottico – le lenti dell’amore – che così la facevano apparire. Quando ci siamo conosciuti, in una discoteca vicino a Sondrio, ha perfino dovuto ingegnarsi per attirare la mia attenzione, distratta da altri corpi femminili; riuscì a stornare su di lei lo sguardo con i cubetti di ghiaccio rimasti al fondo del Cuba Libre, è bastato scorrerli piano sulle labbra. Piccole normali astuzie di femmina a cui i giovani maschi abboccano sempre. Normalità, gioventù, sono queste le parole che adesso mi ronzano in testa, più un'altra che non ho tanto voglia di scrivere, mentre le palpebre si fanno umide. Non che sia la prima volta che ripenso a lei, anzi mi capita spesso da una decina di anni a questa parte. Stavo parlando con un amico, salta fuori Arezzo, lui voleva andarci a vedere gli affreschi di Piero Della Francesca o ad acquistare una motocicletta usata, ora non ricordo e per farla breve butto lì: "Ad Arezzo avevo un'amante." Con un tono che all'orecchio di qualsiasi donna sarebbe apparso odioso, e in effetti lo è, mi vergogno di ciò che ho detto, e però l'ho detto: "Fammi vedere come si è fatta vecchia nel frattempo..." e dopo avere estratto lo smartphone sono andato di Google. Così scopro che a essere vecchio sono invece io. Lei è morta. A cinquant'anni. Di infarto. Lo squilibrio di sette anni si è invertito, ora ho sette anni più di quanti ne aveva lei al momento in cui l'alogenuro d'argento o i pixel digitali hanno smesso di registrarne la presenza, il suo essere stata lingua e abbracci è certificato solo dalla manciata di foto riversate sul tavolo di cucina. Non sono state duplicate, sono gli originali, e mi viene in mente che potrei forse farle avere alla figlia; non dovrebbe essere troppo difficile scovarla, basta di nuovo affidarsi a Google: ok Google mi dici questo o quest'altro, io lo faccio spesso con i titoli delle canzoni. Ogni coppia ha la sua, di canzone, serve forse a ricordarci di essere uguali ma diversi, come recita Nanni Moretti in un altro film che avevamo visto assieme al cinema Excelsior di Sondrio; non so cosa raccontasse al marito per tornare qui ogni paio di mesi, si fermava in genere per un weekend a cui agganciare una festività. Con fidanzate successive si è trattato di Leonard Cohen, Paolo Conte, Sergio Endrigo; ho avuto anche una fidanzata compositrice, ci pensava lei alla colonna sonora del nostro amore. In questo caso era una canzone di Grazia De Michele, le radio private la facevano passare spesso in quei giorni in cui si spegneva l'euforia degli anni Ottanta, aprendo le porte a una nuova stagione che avrei osservavo dalle finestre troppo grandi di un ospedale. Sono andato a riascoltarla, scoprendo che non era quel gioiellino che ricordavo, qualche luogo comune di troppo, e anche la melodia non spicca per originalità. Eppure è lei, specie nei versi iniziali: "Chi avrà nel cuore la bambina / che sogna sopra una panchina / forse una vita a cinque stelle /o solo pattini a rotelle." È lei, cazzo, è lei è lei è lei! La panchina dovrebbe trovarsi in un parco pubblico di Losanna, di lato e più vicino all'obiettivo si intravede il padre che la chiama con la mano, vieni qui tesoro, e lei ricambia l'invito con lo sguardo, si muove rimanendo ferma, inchiodata alla panchina come l'astronauta sulla rampa di lancio verso una vita a cinque stelle, o magari solo pattini a rotelle. Clic. Chissà se l'uomo era ancora vivo quando la sua bambina è morta, il 27 settembre 2009... Ora probabilmente non lo è più, sarebbe troppo vecchio, di certo stanco a furia di chiamare qualcuno che ha smesso di rispondere; ma non sarebbe l'unico vecchio a parlare con una panchina vuota. Forse la madre, un poco più giovane, oltre alla sorella, grossomodo mia coetanea. Quindi la figlia che ha avuto tardi, intorno ai quarant'anni, e il marito, uno nuovo, non il mio rivale. Loro l'avranno sicuramente nel cuore, ognuno una sua propria fotografia, film diversi, canzoni che non intonano. Segni insomma, tessere di un mosaico impossibile da ricomporre, se non per scorci soggettivi. Tra queste rappresentazioni parziali c'è naturalmente anche la mia, il primo amore  il PRIMO AMORE!  è una pianta che nemmeno la morte può sradicare, le radici rimangono. Meglio dunque, concludo, che la figlia non abbia ciò che ho, che non sappia di me: l'amante della mamma, la mamma ha avuto un amante. In fondo quel senso che cerco e mi sfugge non sta nel contenuto della scatola, ma nella scatola stessa; minimo spazio di possibilità che prima ha ospitato le mie Adidas e poi le sue fotografie e ora è vuoto. Continua la nostra canzone: “Chi avrà nel cuore quella donna / che a casa forse più non torna / (...) qualcuno sciolga le sue mani / che anche per lei ci sia un domani." Ripongo con cura tutte le fotografie. Chiudo la scatola. Il suo posto è in un cantuccio dello scaffale dietro al divano, in basso, dove è rimasta impolverata per anni, accanto ai vecchi albo di Zagor. Sarà anche un luogo comune, ma mi piace l'immagine di qualcuno che ti scioglie le mani; lo faceva Giucas Casella al termine delle sue induzioni ipnotiche. Non so se io sia stato capace di compiere la stessa magia, sciogliere anche solo per un attimo le mani di... nemmeno il nome ho tanto voglia di scrivere, una residua forma di pudore mi induce a tacerlo, ma davvero erano mani di neve, bianchissime; tutto in lei era bianco tranne i capezzoli e il pube, che non era ancora di moda rasare. E ovviamente i capelli: avevano mantenuto il taglio a caschetto di quando era una piccola emigrante, emigrante al seguito come si dice delle truppe di complemento, la guerra quella per sopravvivere combattuta da milioni di italiani. Non solo per l'aspetto fisico mi faceva pensare a un'altra canzone di Claudio Lolli; a lei però non piaceva, diceva che le metteva tristezza. Così l'ascoltavo da solo, immaginando la sua figura pallida – sorge dall'acqua, è una creatura degli abissi – mentre il cantautore bolognese confessa di credere di avere "provato l'amore almeno una volta / con una donna travolta da correnti di fiume / bianca e moribonda come una prima comunione." Una donna per cui un domani non ci sarà, la fa più semplice Grazia De Michele. Ma per noi che siamo ancora qui… la vita a cinque stelle, i pattini a rotelle – che fine hanno fatto?