domenica 30 gennaio 2011

Ancora sulla bellezza (e sulla patria, la tosse, lo sci alpino, le polene, le dita lunghe e affusolate di un pianista ucraino)


Opel Corsa Enjoy TD, 130 km all'ora di media, strada statale 36. Solo qualche Suv Mercedes che mi supera dopo avermi minacciato con il lampeggiio degli abbaglianti; sul tetto gli sci ancora incrostati di neve che trafiggono l'aria gelida, come una polena.
Il tratto di superstrada è quello tra Colico e Lecco, disseminato da gallerie e improvvisi squarci pittorici di lago, lo stesso che fa alzare il culo miliardario di George Clooney e prenotare un biglietto aereo per l'Italia. Ora è però calato un velo scuro e avvolgente di foschia. Somiglia alla nebbia padana che incontrerò tra pochi chilometri, ma qui sono semplicemente nuvole basse che si afflosciano come palloncini obesi. Tra una quarantina di minuti, prima di mezzanotte, dovrei essere arrivato a Cinisello Balsamo dove immettermi sulla bretella Milano-Meda, con cui raggiungere finalmente la mia abitazione in Bovisa.
Dal contenitore in cui si ammassano i cd, pesco a caso una raccolta di musica classica offerta in allegato con la Repubblica, e dopo averla imboccata all'autoradio partono le prime note del Preludio e Fuga n° 1 BWV 846 dal “Clavicembalo ben temperato” di Johan Sebastian Bach, con Svjatoslav Richter al piano. Bach è Bach, ok. E anche Richter. Se poi ci aggiungi la foschia, le nuvole basse, l'andirivieni ipnotico dei faretti gialli delle gallerie, in un tempo e in un luogo che non sono ancora nessun luogo e nessun tempo... Beh, io a questa sensazione riesco a dare un solo nome: bellezza.
All'inizio della passeggiata delle dita lunghe affusolate del pianista ucraino sulla tastiera, ecco però come un'incrinatura, la polena che cigola all'urto di un'onda più forte delle altre. Ma si tratta solamente, me ne accorgo in seguito, dell'accidentale colpo di tosse di una persona presente tra il pubblico. Il primo colpo di tosse, meglio. A cui dopo pochi secondi ne segue un altro e un altro ancora. Un produttore e un editore seri, anche se tu sei Bach, tu sei Richter, è chiaro che buttano via l'incisione, quando qualcuno tra i presenti inizi e continui ostinatamente a tossicchiare, per tutta la durata dell'esecuzione. Non la Repubblica, evidentemente.
Ma chi se ne importa, non è questo il punto, e io provo a mettermi in scia all'ennesima Mercedes continuando ad ascoltare, se è possibile con maggiore urgenza e piacere di prima. Come se ogni intrusione della laringe infiammata sottolineasse, per contrasto, la potenza espressiva e incantatrice della melodia, che in tal modo viene accresciuta della qualità preziosa e rara della consapevolezza.
Un piccolo e ripetuto incidente che mi suggerisce come la bellezza, per raggiungere la piacevole e universalmente sperimentata sensazione di benevola naturalità, sia spesso, e al contrario, un gesto sottilmente "anti-naturale". Ossia l'impegno umano nel sottrarsi al baricentro gravitazionale del caso, dell'incuria, degli infiniti accidenti quotidiani che senza sforzo o intenzione o coscienza sbocciano nel parco della vita alla rinfusa, con la grazia sghemba di un colpo di tosse durante un'esecuzione di Bach.
Questo tratto di resistenza al caso e, potremmo dire con un'espressione vagamente altisonante, all'entropia, che caratterizza la bellezza urticata dai continui assalti della tosse, mi sembra poi una struggente metafora di quel che siamo diventati, della direzione in cui stiamo andando con il piede spensieratamente pigiato sull'acceleratore.
Ma un secondo, scusate l'interruzione: "Massì massì, ho capito: piantala di farmi gli abbaglianti e passa pure tu! Con la tua Mercedes scalpitante e innevata, la fretta matta dei funghi che vogliono raggiungere la statura della quercia in una sola notte, mentre la punta degli sci mira al cuore pulsante di un qualche demone moderno, che dilaga per le strade."
Perché cos'è diventata l'Italia, il nostro paese, la stessa idea di patria, se non una sublime melodia continuamente infestata dagli assalti rauchi della tosse, che provengono da quello sterminato e disattento pubblico che sono ormai gli italiani in gita?

venerdì 28 gennaio 2011

Wittgenstein


Wittgenstein è il nome
di un gattino bianco
Wittgenstein è il nome
di un gattino nero
quando tu lo chiami
arrivano in due
e in due miagolando
attestano il vero

mercoledì 26 gennaio 2011

Bellezza & Bizzarria


E' solo un dettaglio, una lieve increspatura sulla superficie mobile e frusciante del reale. Ma forse, invece, già un sintomo. Mi riferisco al diffondersi di suonerie elettroniche sempre più bizzarre e stravaganti, non necessariamente belle ma tanto tanto originali, con cui carichiamo il colpo in canna ai nostri telefonini: certi dell'effetto ilare e seducente del suo BUM, quando qualcuno ci chiami in mezzo a una folla affaccendata o distratta.

Addirittura, da qualche tempo, ai ritornelli televisivi nostalgici come Heidi, Goldrake od Orzowei, si stanno affiancando veri e propri dialoghi espunti da film famosi; tanto da non essere poi in grado di distinguere la telefonata dal chiacchierio circostante, confondendola con l'ordinazione di un cappuccino – “con molta schiuma, mi raccomando” - della nostra vicina trafelata di bancone.

Eppure, nonostante la funzione di richiamo si renda così sempre più incerta, la bizzarria di queste brevi clip sonore deve procurarci una qualche forma di piacere, non se ne spiegherebbe diversamente la diffusione. E' come se ogni volta che parte la vocina di Topo Gigio dal nostro Nokia, pensassimo tra noi: adesso li stendo, li stupisco, mostrando a tutti quando è ganza la mia suoneria, quanto è singolare.

Il termine chiave di questo meccanismo psicologico mi sembra dunque proprio quello di singolarità. A significare quell'elemento discreto e particolare – la qualità che ci distingue dagli altri, che ci rende riconoscibili e unici – con cui scontorniamo il profilo della nostra sagoma dalla folla, la nostra esclusività di persona. Ma ancora i conti non tornano completamente: in che modo riusciamo a individualizzarci in Provolino, o sovrapponendo la nostra irripetibile impronta sulla sabbia a quella di Furia cavallo del West, che beve troppo caffè e poi fa il pieno di fieno...?

Ecco, il cortocircuito davvero inquietante è che l'identità è tale – cioè appunto singolare, distinta dal brusio di fondo dell'umano – se quel tratto di diversità che esibiamo comunica un aspetto davvero decisivo di noi; altrimenti è una forma di conformismo che ci rende ancora più simili agli altri, uniformati all'andazzo generale. Se io penso di denotarmi per il semplice fatto che mi appello a un'idea astratta e generica di diversità, quando anche il mio vicino si riferisse a categorie come bizzarro, eccentrico, caratteristico e appunto singolare - o come dicono gli anglosassoni: cool -, saremmo perfettamente omologhi nella nostra presunzione di distinguerci. Per quanto dal suo telefonino squillassero le note di Raffaella Carrà che canta il Tuca Tuca e dal mio il dialogo grottesco di un film di Quentin Tarantino, l'esibizione congiunta della nostra volontà di distinguerci, che è ben diversa dalla distinzione, ci renderebbe infatti perfettamente identici, speculari.

Questi stessi caratteri, che sono ovviamente estendibili - e anzi vanno estesi - a qualsiasi campo dell'esperienza e non solo alla telefonia, dovevano già covare dentro un'epoca di poco trascorsa, o forse sono addirittura un tratto distintivo e costante nel nostro paese. Si ritrovano così anche tra le righe di una breve e bellissima poesia di Sandro Penna, descrittiva quanto profetica:

Beato chi è diverso

essendo egli diverso,
ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.

Ne ricaviamo che un'autentica diversità, per Sandro Penna, non si manifesta nell'esibizione formale di una variazione di superficie, ma in qualcosa come un'essenza, l'intima comunione con se stessi. Intuizione che ha saputo poi precisare dentro altre poesie e riassumibile quale condizione vagamente febbrile, in cui si venga come trasportati in una dimensione dai confini incerti e non più definiti dal perimetro dell'identità, che senza esitazione io mi sentirei di chiamare “bellezza”.

Cos'è infatti la bellezza se non l'essere agganciati da una forza superiore, l'orbita di un pianeta invisibile a cui non siamo in grado di resistere, ne diventiamo satelliti, fino al progressivo sgretolarsi dei bastioni delle nostre minime certezze che si traduce in piacere vago, sperdimento dentro qualcosa che avvertiamo come altro, ma allo stesso tempo anche proprio. Per una sorta di paradosso questa sensazione, simile a un'epifania, alla manifestazione di una novità radicale in un orizzonte quotidiano, ci rende infatti anche intimi (gli psicologi lo chiamerebbero forse un “insight”) a quel nucleo emozionale che avvertiamo come realmente e definitivamente personale: non bizzarro o caratteristico ma semplicemente diverso, nostro.

Bellezza e bizzarria non solo non sono termini equivalenti, ma, allora, polarità antitetiche entro cui oscilla il pendolo estetico della modernità, che dalla bellezza e verso la bizzarria sembra dirigersi anche nei piccoli comportamenti senza apparente significato, come rispondere a una chiamata sul telefonino. La bizzarria come contrario della bellezza, è questo che ci raccontano dunque i nostri gesti. E i nostri gesti sono il tableau vivant della nostra storia.

Per libere associazioni potremmo perfino arrivare a sospettare che è proprio la bellezza, con il suo più immediato correlativo che è l'amore, la qualità che consente di perdersi affinché ci si possa ritrovare, come suggeriscono numerosi passaggi delle Scritture. O se preferiamo, perdersi nel mondo per ritrovarsi in Dio non significa forse altro che abbandonare l'ostinata e rassicurante sensazione di veder riflesso il volto in una canzoncina eccentrica e vezzosa, per incontrarsi finalmente dentro un'immagine dai contorni ancora inauditi e lontani, che non è me ma allo stesso tempo parla sempre e solo di me. Tanto che perfino Nietzsche, il filosofo probabilmente più frainteso, anche da se stesso, aveva intuito che si deve diventare e non già essere quel che si è.

Ma fino a quando rimarremo aggrappati allo scoglio roccioso dei nostri minuscoli piaceri singolari - “una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salva restando la salute” - non incontreremo mail la bellezza, non diventeremo mai quel che siamo, compiacendoci unicamente di come gli altri si girano incuriositi al trillo di vecchie e buffe canzoncine della nostra infanzia. Beandoci di essere diversi, sì, quando siamo invece soli e così disperatamente comuni...

giovedì 13 gennaio 2011

Generazione paròl


Ma quanto sono ganzo, quanto sono bravo! A volte ci frulla dentro la testa questa idea, perlopiù sconfitta da bancomat che non riusciamo a far funzionare, distributori automatici, videoregistratori e macchinette del caffè da cui non otteniamo nulla, nemmeno una goccetta nera nera e bollente, come la scrollatina di una divinità imperscrutabile e dispettosa. Ma quanto sono stronzo, pensiamo allora in questi altri e numerosi casi.

Oggi però tocca festeggiare: l'ottimismo, l'autostima hanno provvisoriamente sconfitto il malumore. Quanto sono ganzo, sì. Sono riuscito a individuare quella che a me appare come la definitiva tara della mia generazione, che ho appena deciso di battezzare “generazione paròl”.

Avete presente il gioco del poker? Dopo aver distribuito le carte e lanciato il cip nel piatto, quindi aperto con una manciata di fiches, cambiato le carte loffie dal mazziere, esistono diverse opzioni. E' possibile proseguire nella partita rilanciando, oppure vedere il gioco degli avversari o semplicemente mollare il colpo, ritirarsi per la consapevolezza dei propri limiti, rifiutandosi di mettere la posta richiesta per continuare la sfida.

In alternativa, si può chiamare paròl.

Che significa che tutto quanto maturato fino a quel momento, se c'è un accordo tra i giocatori, viene tenuto lì come sospeso, ibernato, affidando alla mano successiva il compito di decretare un vincitore. Le carte vengono allora deposte come i guantoni alla fine del round, se ne riparla al giro successivo.

Generazione paròl significa dunque che c'è una generazione – la mia generazione – che ha rinunciato alla partita, preservando il proprio soldo di bellezza e verità da quel pericoloso azzardo che è la vita, dove sempre tocca rilanciare in moneta di sogno sulle generazioni che ci hanno preceduto.

O meglio: abbiamo differito il momento presente, delegato al futuro tanto gli inciampi che le possibilità.

Con ciò abbiamo naturalmente anche risparmiato in errori, velleità mal risposte, smottamenti al culmine della piramide dei gettoni colorati, che come sono arrivati possono sempre scappare via. Non c'è insomma il rischio di incappare nel Marsigliese con gli occhi di ghiaccio che ti spenna fino all'ultimo quattrino, con l'aiuto magari di un asse di troppo nel risvolto della giacca. No, non è una minaccia che corriamo noi, che ha corso la mia generazione ormai già lontana cento mutui e assicurazioni sulla vita dal tavolo da gioco, con le sue nebbie dense di Marlboro.

Noi abbiamo smesso di giocare e siamo rientrati a casa prima del gong finale, dove ci aspettavano mogli e figli ancora alzati davanti un vecchio film di John Wayne: lui che avanza nell'ombra opprimente di una casa, si gira un'ultima volta a osservare gli altri dalla cornice pittorica della soglia, la sua famiglia finalmente riunita, felice...

Ma infine si rigira e incammina verso la luce abbagliante della prateria. Titoli di coda.

Saranno dunque Loro a proseguire nel gioco, i nostri figli, di cui siamo entusiasti al limite della nevrosi, euforici e orgogliosi come nessun'altra generazione mai. E sì che fare un figlio è per un maschio così semplice: basta scopare, una rapida sveltina. Ma è quel che serve perché compaiano finalmente Loro, come il Settimo cavalleria, Loro che giustamente fanno rima con oro: a riprendere le carte in mano o rimontare a cavallo, il cappellaccio di tre quarti.

E' dunque alle generazioni future, contraltare radioso di ogni negligenza presente, che la mia ha demandato l'azzardo di una qualche idea di mondo, la scommessa della forma; perfino la vertigine inebriante del male o il ratto delle squaw. A noi è apparso sensato credere che per essere padri è sufficiente generare dei figli, da accudire poi come madri premurose e care.

Quindi abbiamo chiamato paròl.

domenica 9 gennaio 2011

Apprendistato



Hanno un odore buono i tedeschi al lago –
e sono, pare, le creme da sole
al cocco con alto filtraggio, o peggio
taluni unguenti in uso ai contadini
bavaresi per le mammelle
delle mucche. Ma chiara
la carnagione tedesca dei tedeschi
al lago, ugualmente arrossa:
da principio le spalle
e poi via via a gonfiare palloncini
di siero, si sfoglia, ecco che casca
come casca l’abito nel camerino
e la commessa, da fuori, che chiede:
“Allora, come va?”

Ma non c’è davvero qualcosa
che non va, del nuovo abito è giusto il taglio
e anche il colore, buono il tessuto – eppure...
Qualcosa, sì, come un presentimento
da un tempo ulteriore che potrebbe
diventare presente con un niente,
con un gesto rapido e brusco
della mano che ti troverebbe
certo in mutande, curvo, abbattuto
mentre stai infilando i pantaloni
e lei, di nuovo, con identico tono
distratto e la tendina schiusa
e la più feroce tra le domande:
“Allora, eh, come va:
ha trovato ciò che cercava?”

I tedeschi al lago poi richiamano
bambini tedeschi dal lago
e loro corrono, corrono
fuori con una risata argentina
che non è esattamente una risata
ma, di quella, intendi, l’apprendistato.

venerdì 7 gennaio 2011

Ballerine


Davanti a Ballerine alla sbarra di Degas, mettiamo.
Il luogo è il British Museum,
la tecnica compositiva il disegno;
siamo nel 1873, non sappiano altro,
con le due ragazze, due ballerine
appena sbozzate e tutto intorno e fin dentro loro:
l’azzurro.
La struttura del quadro è semplice.
Le due ragazze stanno l’una in fronte all’altra;
quella di destra è di spalle, un poco più definita
e un poco più grande anche, per via della prospettiva;
entrambe hanno una gamba tesa sulla sbarra,
provano una figura di danza, sembra.
Questa cosa mi ha sempre affascinato: le figure
della danza classica – la prima, la seconda, la terza...
Ma di preciso, quante sono?
Mettiamo che non lo si sappia.
Che nessuno sappia quante figure
si debba imparare per avere accesso
finalmente a una danza vera.
Mettiamo questo azzurro, e queste figure.
Stanno alla sbarra e provano: due ballerine
alzano la gamba destra, poi la sinistra,
si flettono, si inarcano; ritte sulle punte
stanno per giorni e giorni, mesi, anni
come aspettando qualcosa...
Ma cosa?
E continuano così a muoversi piano,

nell’azzurro, sempre più piano;
 
qualcosa, sì, chi dice un segno
e ognuna fa uguali i movimenti dell’altra,
proprio gli stessi, attenzione,
ma piano, piano,
nell’azzurro,
forse un segno,
facendo e rifacendo le figure...

Poi qualcuno entra all’improvviso e dice a una
- a una soltanto, attenzione ancora: "Ecco
sono finite le tue figure, puoi iniziare a danzare."
E mettiamo che in quel preciso esatto momento
si delinei un profilo, prenda un suo proprio colore.

martedì 4 gennaio 2011

Fuckin Anne, o sull'intransitività del duale


Stavo guardando un vecchio filmato su YouTube in cui Anne Sexton legge una sua poesia. E pensavo: bella. Non la poesia, intendo, che il mio grado di comprensione dell'inglese parlato afferrava solo per brevi e improvvise schegge sonore, come se una grande nuvola nera lasciasse filtrare i raggi del sole secondo l'estro del vento, i singhiozzi del caso. Ad essere bella era dunque lei, Anne Sexton. Di quella bellezza, però, di solito non attribuita agli artisti e ai poeti – non era la bellezza del vento, della nuvola – ma conficcata dentro la polpa viva e pulsante del sole; una bellezza che ti fa socchiudere gli occhi, se la fissi troppo a lungo.
Avevo già provato una simile sensazione con Ingeborg Bachmann, o con Sylvia Plath. Anche Alda Merini, che onestamente non era proprio bella, bella come lo è invece in modo flagrante e quasi teatrale la Sexton - gli occhi chiari e affilati fissano l'obiettivo che la riprende, prima di fare l'occhiolino allo spettatore - mi provocava a volte lo stesso leggero capogiro, mescolato a un inquieto senso di stupore e d'attesa. Io non sono un consumatore abituale di poesia, lo confesso. E a maggior ragione nella poesia femminile avverto una distanza che non sempre ho voglia di colmare con sforzo e intenzione. E' il corpo stesso delle poetesse, specie quelle vissute tra il dopoguerra e gli anni settanta, con biografie complesse e tormentate, a procurarmi questo turbamento dei sensi. Mi appaiono come la propaggine estrema di un continente perduto, sommerso dagli anni ottanta e poi dall'arguzia ermeneutica, quando non del tutto cialtrona, poco importa, del presente letterario.
Ancora più che negli scrittori maschi, nelle poetesse “perdute” si percepisce invece lo stigma di una risoluta serietà, riflesso di una totale e perfino scandalosa coerenza tra esito formale e proposito emotivo. Che non ha nulla, tra parentesi, di manieristico o sperimentale, ma quasi il tratto evangelico di chi dica sì il suo sì, e no il suo no. Così se Anne Sexton, con una voce dalla tonalità ruvida, quasi teppistica nell'intonarsi sornione e dilatato, pronuncia la parola love, tu avverti che sta parlando proprio d'amore, quella roba lì, la senti crescere tra la pancia e il plesso solare e poi salire ancora, a bagnarti gli occhi. Lo stesso per death, avverti la morte, il fiato sul collo della morte, che nel suo caso aveva la consistenza densa e opaca del monossido di carbonio, a saturare prima le pareti del piccolo garage e poi i polmoni ed il cuore. E infine fuck, lo capisci che vuole dire proprio scopare, fottere, cif ciaf di corpi che si incastrano senza il filtro di qualche romantica nuvoletta e viceversa la cosa in sé, che non è forse nemmeno una cosa ma la parola che ad essa rimanda, in un continuo richiamarsi con l'esperienza, mai concluso.
Ecco, questo assurdo cortocircuito tra parole e mondo io ormai riesco ad avvertirlo solo nelle poetesse, prima ancora che nei poeti; e poi nei matti, gli ammalati, gli ossessi ed i mistici. E naturalmente anche nel sesso, to fuck again. Scopare non vuole infatti dire fuggire il mondo e le parole dentro un altro corpo, protettivo e tiepido come la coperta di Linus – per quello basta un corso molto soft di meditazione New Age, o ancora meglio una domenica pomeriggio davanti alla televisione. Nel sesso si percepisce piuttosto l'assoluta divaricazione che, tanto tra una parola e il suo simulacro quanto tra un cazzo e una fica, si spalanca tra di noi senza possibilità di una vera e definitiva sintesi. Uno spazio che nemmeno il gesto riesce a ricolmare: si scopa per riscopare, almeno quando le forze lo consentono. Ed è un cerchio che non si chiude mai, se non al prezzo del cerchio stesso.
Scrivere poesie allora non significa forse altro che il medesimo gesto, sempre sconfitto sul nascere, di chi provi a prendere sul serio questa impossibilità, e con la corrucciata fede di un bambino che si traveste da indiano pronunci anch'egli il suo "facciamo come se": come se il mondo fosse ricomponibile in sillabe, sapendo perfettamente che non lo è. L'intransitività del duale, potremmo dire così, che per quanto impossibile va condotta fino alle estreme conseguenze di una lingua. O se preferiamo, ma che poi è lo stesso, di una vita. Perché vivere significa in fondo anche scoparsi Anne Sexton, con trentasette anni di ritardo in uno sgranato bianco e nero su YouTube.

lunedì 3 gennaio 2011

Seminari di studio sulle principali tradizioni spirituali, a Milano

Pensare l'impensabile

Seminari di studio e comparazione delle tradizioni spirituali

prof. Gianfranco Bertagni

L'associazione culturale Fontana con soldino, in accordo con il filosofo delle religioni Gianfranco Bertagni, organizza un ciclo di incontri sulle maggiori tradizioni spirituali, sia orientali sia occidentali. Lo scopo dell'iniziativa è quello di dissipare la quantità di dubbi, incrostazioni spurie, inesattezze e superstizioni che si accompagnano alla crescente diffusione delle tematiche spirituali. Senza volersi limitare a una prospettiva storica e antropologica, il “fatto” religioso viene quindi accostato e comparato, oltre che geograficamente e cronologicamente, anche alle recenti acquisizioni che provengono dalla ricerca scientifica e dalla psicologia del profondo; in particolare di quella corrente, inaugurata da Carl Gustav Jung, che è stata chiamata transpersonale. In altre parole viene preso come specifico oggetto di studio ciò che nel Novecento è stato chiamato “fenomenologia del sacro”, a cui approcciarsi con i molteplici strumenti della cultura e della sensibilità.

Gli incontri hanno cadenza mensile e durata giornaliera - dalle 10 del mattino fino alle 18 circa, con una pausa per il pranzo - e si tengono a Milano la domenica, a partire da gennaio 2011.

Grazie a una fortunata serie di combinazioni, si è riuscito a limitare il costo dell'intera giornata a 35 euro, nei quali è compresa una breve dispensa didattica. Ricordiamo che è possibile partecipare anche a un singolo incontro, senza aderire all'intero ciclo.

Di seguito il tema e il calendario dei seminari previsti:

23 gennaio - Filosofia Indiana

20 febbraio - Buddhismo

20 marzo - Zen

17 aprile - Taoismo e filosofia cinese

22 maggio - Islam e Sufismo

Per la ripresa autunnale, in data e luogo ancora da stabilire, sono previsti i seguenti incontri:

- Sciamanesimo

- Kabbalah ebraica

- Tantrismo

- Mistica cristiana

- Ermetismo e Gnosticismo

- Psicologia transpersonale (Ken Wilber e Stanislav Grof)

- Alchimia occidentale

- Alchimia orientale

- Teosofia e Antroposofia (da madame Blavatsky a Rudolf Steiner)

- Il Sistema di Gurdjieff

- Paganesimo e neopaganesimo

- Cos'è la Tradizione? (Eliade, Guenon e Zolla)

- I Ching

- La fisica delle particelle e la spiritualità orientale (la proposta di Fritjof Capra)

- Mito e simbolo

- Etica ed estetica

- Maestri moderni (Aurobindo, Osho e Krishnamurti)

- Raimon Panikkar, un teologo a cavallo di tre religioni

Gianfranco Bertagni nasce il 2 dicembre del 1971 a Palermo, vive a Bologna. Laureato in filosofia e specializzato in storia delle religioni, ha frequentato la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa di Rimini, lo Studio Teologico Accademico di Bologna, il Centro Studi Bhaktivedanta di Pisa e il Centro di Terapia Strategica. Ha goduto di una Borsa di studio dell'Accademia dei Lincei per la specializzazione negli studi storico-religiosi. Già docente all'interno della cattedra di Storia delle Religioni dell'Università di Bologna e professore di Filosofia delle Religioni e Fenomenologia del Sacro presso l'IFST di Modena, svolge attività di docenza e formazione in diverse realtà aziendali italiane. Autore e conduttore della trasmissione settimanale radiofonica Dharma (sul buddhismo e le filosofie orientali in genere) a Radio K Centrale di Bologna, coordina la sezione "Filosofie orientali" del portale internet Supereva. Collabora inoltre con il Centro Natura di Bologna, presso il quale tiene regolarmente i corsi di meditazione ed è docente per i corsi della Scuola di Filosofia Orientale, con la Fondazione Istud (Stresa), con Aghape (Imola), con l'Associazione Senzanome (Modena) e il Centro del Cerchio (Ravenna). Fa parte del comitato scientifico del Centro Interculturale Raimon Panikkar e della Redazione di Filosofia e Teologia. (Sito Internet personale: http://www.gianfrancobertagni.it).

Per informazioni e adesioni ai seminari, scrivere a: fontanaconsoldino@gmail.com

Oppure telefonare al numero: 393.2941746

Gli incontri si svolgeranno nella saletta riservata della Trattoria l'Antica, via Bovisasca 85, Milano, aperta in esclusiva per il seminario nella giornata di domenica. Nel locale, durante la pausa meridiana, sarà anche possibile pranzare a un prezzo concordato di 15 euro, tutto compreso.

(Si richiede cortesemente una conferma, non vincolante, almeno un paio di giorni prima di ogni incontro. Anche perché la classe del seminario, per favorire l'interazione col docente, ha un limite massimo di 30 persone, e un minino di 10 iscritti per la sua attivazione. Si ricorda inoltre che dalla ripresa autunnale verranno attivati anche dei nuovi corsi, tenuti dallo psicanalista Roberto Maria Sassone e dal ricercatore indipendente Carlo Dorofatti).