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martedì 1 luglio 2025

Il processo Grillo, o sulle irragionevoli ragioni del pisello

Non entro nel merito del processo al figlio di Beppe Grillo, Ciro, accusato dello stupro di una studentessa diciannovenne insieme a tre amici, tutti più o meno della stessa età della vittima oltre che rampolli della buona borghesia genovese; particolare che non me li rende troppo simpatici, confesso. La mia antipatia, a pelle, per gli imputati, mi renderebbe poco attendibile; a ciò si aggiunga la scarsa conoscenza della vicenda avvenuta nell’estate del 2019, e più in generale del Codice di procedura penale.

Proviamo allora a guardare alla materia da una prospettiva diversa. Il procuratore capo del Tribunale di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha appena richiesto una pena detentiva di nove anni, che oltre ad apparire particolarmente consistente solleva una questione filosofica. La ricaviamo dalle motivazioni: le condizioni (verosimilmente alcoliche) della vittima le impedivano di esprimere il proprio consenso; detto in altre parole, non era cosciente di cosa stava facendo. E quattro figli di papà che scopano a turno una ragazza incosciente fanno schifo. Questo possiamo anche dirlo, la condanna estetica non ha bisogno di tre gradi di giudizio.

Però l'accusa rilancia questioni antiche e mai risolte – lo stesso la difesa, beninteso –, e mi chiedo se la specie a cui apparteniamo disponga di qualcosa come un rilevatore di coscienza… Intendo: come faccio a sapere se un'altra persona, in quel preciso momento, è davvero cosciente oppure no? A ben vedere, è lo stesso dubbio etico che si sta dischiudendo con l’intelligenza artificiale.

Certo, nel caso di una ragazza ubriaca degli indicatori esistono eccome (andatura pencolante, voce strascicata etc.), ma il punto esatto di confine è sempre discrezionale; per altro, se è discrezionale nella vittima deve esserlo anche negli accusati, tanto che nel diritto ciò rappresenta un’attenuante alla pena, fino al suo completo stralcio perché non in grado di intendere e di volere.

Ma anche questa formula, che abbiamo sentito centinaia di volte, sottende una visione fin troppo ottimistica delle competenze psichiatriche, che dovrebbero dirimere la materia. E ciò perché non esiste una teoria generale della coscienza – in realtà ne esistono molte, ma in conflitto tra loro.

L’unico modo per uscirne sarebbe quello di fare sottoscrivere un’autocertificazione di coscienza; un modulo da compilare prima di ogni transazione umana, non necessariamente sessuale: “Io, Tal dei Tali, sono cosciente delle mie azioni, anche tu lo sei e intendi ricambiare il bacio che sto per darti?” Non vi fa venire in mente qualcosa… Massì, la frase rituale pronunciata dagli sposi sull’altare. Un modo di procedere nemmeno tanto estremo, nei college americani già si stanno attrezzando.

Certamente utile nelle controversie giudiziarie, questa eventuale dichiarazione non ci direbbe però ancora nulla sulla natura della coscienza, dal momento che oltre a esistere la menzogna una persona incosciente, per definizione, non è cosciente nemmeno della propria incoscienza, e in tal caso potrebbe sottoscrivere qualsiasi cosa.

Per tornare alla filosofia, ricorda il celebre paradosso di Epimenide, nato a Cnosso nel VI secolo a.C. Il quale affermava: Tutti i cretesi mentono. Ma se mentono, mentirà anche Epimenide, e questa frase è falsa. Allo stesso modo, se le persone incoscienti pensano di essere coscienti, chi ci dice che una persona che si dichiara cosciente non sia invece incosciente? 

Si dovrebbe allora concludere, con Pascal, che il cuore possiede delle ragioni che la ragione non conosce. Per non dire il pisello, organo ampiamente mutevole nelle dimensioni quanto nelle intenzioni.

giovedì 9 aprile 2020

Tina


Con un messaggio WhatsApp mi avvertono che è morta Tina. Ma non si chiamava Tiziana? No no, Tina, mi conferma l'amico che mi comunica la notizia, senza aggiungere altro. Solo un’icona che forse significa buona fortuna, un quadrifoglio verde.
Io non ho mai conosciuto Tiziana, ops, Tina, nemmeno intravista di sfuggita, anche se viveva nel mio stesso palazzo. Ne sbaglio come si vede ancora il nome, e forse potrei essere più preciso anche sul suo stato. Non è proprio morta – ma questo l’ho scoperto in seguito –, è in coma vegetativo irreversibile, i medici stanno cercando di salvare almeno il feto che da sei mesi portava in grembo, prima di lasciarla andare all'abbraccio tiepido degli antenati.
Tina non è italiana, nemmeno caucasica, una parola che mi ha sempre fatto ridere, non so perché. È africana, ma di nuovo non sono a conoscenza del luogo esatto da cui proviene. Solo che è arrivata seguendo la solita trafila: scafisti, mare, onde, freddo, caldo, sete e infine centri di accoglienza che più inaccoglienti non potrebbero essere. Il bello degli ossimori. Ma non scherza neppure il termine invasione, con cui la chiamano riprendendo il linguaggio militare. Quando è un esodo inerme e disperato come la Caporetto di un intero continente. 
Tra le tante incognite, anche quella su quando sia approdata proprio qui, in via Parolo 10, a Sondrio, quanto abbia attesto prima di essere presa in carico da una cooperativa che ha affittato un appartamento nel mio condominio, non se lo pigliava nessuno (un piano terra in cui ti guardano in casa) e se lo sono presi loro, per stipare la loro merce come vitelli in una stalla – sei o sette persone in settanta metri quadrati scarsi, impianto elettrico non a norma, rate condominiali non pagate, biciclette fai da te dimenticate in garage a ogni passaggio di quindicina, come si fa nei night club con le entreneuse per offrire ai clienti carne fresca. Business is business, insomma.
Sapere di una tale promiscuità durante un'epidemia, beh, non è proprio rassicurante. Tanto più che una sera, portando il cane a fare pipì, sento delle voci provenire da quell’appartamento, il volume è alto ma la lingua irriconoscibile. Strano, di solito non vola una mosca e perfino le tapparelle sono abbassate. Poi passi concitati – staranno mica ballando? , bambini che piangono, gente che entra e esce dal portone di ingresso lasciato spalancato. Una festa, penso.
Appena rientrato in casa telefono alla capo casa. Anche lei ha sentito i rumori, e concludiamo che non si possono fare delle feste in momenti come questi. D'altronde è gente diversa da noi, hanno altre abitudini, magari sarà qualche ricorrenza voodoo, rituali animisti. Eh no, il troppo è troppo: chiamiamo la Polizia? Chiamiamo la Polizia.
La chiama lei, la capo casa, una signora gentilissima che tutte le estati mi porta le mandorle e l’origano dalla Sicilia, è rimasta vedova da poco. Ma dopo alcuni minuti, invece della volante, compare un'ambulanza. A quel punto mando un WhatsApp al mio amico di prima, che so essere a sua volta amico del presidente della cooperativa d'aiuto. Aiuto per modo di dire, ma lasciamo andare…
A stretto giro mi risponde: è stata male Tiziana, una ragazza di ventiquattro anni che aspetta un figlio, forse un'emorragia. Tiziana, l'ha chiamata proprio così. O magari sono io ad aver capito male. Tiziana, Tina, in fondo iniziano sempre con la ti, cosa vuoi che cambi. Piuttosto po' mi vergogno, ma non tanto, di aver pensato in prima battuta a una festa, ma di questi tempi la confusione è il lievito con cui impastiamo i giorni, senza che la torta sia mai pronta.
Nel frattempo arriva anche la volante, la legge che abbiamo invocato come una spada dal cielo, a riportare ordine e disciplina dove sentivamo puzza di abuso. Avranno fatto dei controlli, che ne so. E fino al messaggio di ieri mi sono scordato di tutto, tra cui il suo nome. Ci hanno sempre insegnato che le cose sono più importanti dei nomi che gli diamo.
E invece bisognerebbe ricordarsi dei nomi, delle facce, non genericamente del fatto che gli altri sono persone, anche quando possiamo solamente immaginare di loro, perché ci divide una manciata di metri oppure un mare pieno di acciughe e relitti, non importa.
Poco prima di pranzo ho così provato a contarli, i gradini che mi separano dalla porta con cui TINA si chiudeva in casa tutto il santo giorno, come le avevano detto di fare e lei obbediva con scrupolo. Settantadue, sono settantadue gradini. La distanza tra un signore caucasico di cinquantatré anni con i capelli bianchi, uno di quelli che da giovani chiamavamo matusa, e una ragazza nera di ventiquattro appena morta di parto, quasi morta.
Come nella canzone di Guccini intitolata Venezia, è però rimasto un bambino, meglio un feto, anche lui è ancora nella dimensione del quasi: quasi vita, quasi respiro, quasi pomodori da raccogliere a tre euro l'ora se ti va di culo. Ma soprattutto quasi un nome, per il quale sta lottando con tutta la forza che solo il futuro possiede: Modupe, Abasi, Labaan... O forse si tratta di una bambina, Lisimba, Bikika, deciderà il padre come chiamarla, sempre che un padre ce l'abbia.
A me ho fatto solo una promessa, di ricordarmi di quel nome, non confonderlo con quello di nessun altro. Il nome del mio nuovo vicino di casa. Della mia vicina. Il nome.

martedì 14 gennaio 2020

Didim, o sulla vita altrove


Questa mattina intorno alle dieci, a essere più precisi saranno state le dieci e un quarto, ricordo l’orario con esattezza perché avevo appena terminato una seduta di agopuntura, questa mattina Didim ha cercato di uccidere sua madre.
Aiuto aiuto si sentiva gridare da una finestra che dà sul vialetto di accesso al garage, dove si erano radunati alcuni passanti preoccupati non meno che intabarrati; la nuvoletta bianca della condensa e le mani ficcate nei tasconi del piumino. Aiuto, mio figlio è impazzito!
Io non ho sentito nulla, ma, parcheggiata l’auto e riferitami la frase, ho immediatamente chiamato la Polizia, con quel vago senso di compiaciuto protagonismo che conferisce un’autorità del tutto presunta, mentre la voce assume il tono di De Falco quando incalza Schettino a tornare sulla nave: Una volante, ha capito, mandi immediatamente una volante in via Parolo 10!
Perché l’hai fatto, perché hai preso tua madre per il collo? chiedeva pochi minuti dopo una poliziotta piccolina e tutta riccia, l’accento meridionale, forse pugliese. Ma al contrario dei film americani, il modo di porgere la domanda era pacato, quasi dolce, alla Tenente Colombo. Ho anche controllato se portasse la vera al dito già che un poco mi piaceva.
Didim non diceva nulla, se ne stava in piedi col suo metro e novanta di statura e lo sguardo fisso alle piastrelle di graniglia. Anche Arina, la madre, non parlava, e dalla parte opposta del piccolo salottino arredato con sobrio non gusto si limitava a mostrare i segni sul collo. Poi però ha sussurrato, con quella cadenza con cui nei film di Peppone e Don Camillo doppiano i compagni russi: Ma non è cattivo, non fategli del male…
Quando la domanda della poliziotta sembrava ormai sfumata, come la nuvoletta dei fumetti che appartiene alla pagina precedente, anche Didim ha aperto bocca: Non voleva lasciarmi andare da Cinzia, ha detto con una voce da uomo fatto che contrastava col suo aspetto infantile; una voce, al contrario della madre, ormai completamente italiana, quasi lombarda.
Bruno ha lasciato Cinzia, ha aggiunto dopo una pausa ugualmente lunga, che rendeva il suo modo di parlare più simile alla poesia che non alla prosa. Sta male Cinzia, Bruno non la vuole più e qualcuno doveva consolarla. Io devo consolarla. La mamma però mi ha detto che se andavo da lei non mi dava più da mangiare.
Didim ha diciannove anni ma qualche “problemino”, come si usa dire nel condominio La Gioiosa (il nome, in omaggio alla Ca' Zoiosa di Vittorino da Feltre, è stato scelto dalla cooperativa di maestri elementari che l’ha costruito nei tardi anni cinquanta, tra cui i miei genitori), si accenna al fatto con tono elusivo, quasi eufemistico.
Pare che da piccolo, Arina, al tempo lavorava come entraineuse in un night club valtellinese, l’avesse lasciato in consegna alla propria madre in Russia, un paesino fatto di niente, tuberi e betulle a trecento chilometri da Mosca; una pratica molto comune tra chi fa quella professione, ma anche tra badanti e migranti slave in genere. E’ come il gioco delle tre sedie, in cui si occupa sempre quella di qualcun altro: le nonne fanno le mamme, le mamme inseguono la vita e la vita è per definizione altrove, dove mandare i figli.
Didim, detto Dim, aveva al tempo tre o quattro anni, e la nonna forse una sessantina. Babushka, prosnis' prosnis'! deve averle detto Dim una mattina che possiamo immaginare altrettanto gelida, se non altro per gusto della coloritura. Ma la nonna continuava a dormire. Per quattro giorni. Quattro giorni in cui Dim è rimasto in casa con la nonna morta, la stufa ormai spenta, prima che qualcuno se ne accorgesse.
Si sussurra, sempre tra le scale e l'androne di ingresso del condominio La Gioiosa, che sia questa la ragione per cui Didim sia rimasto un po’ così. Devono essersene accorti anche Cinzia e Bruno, che l’hanno eletto a loro zimbello. Didim fai questo, Didim fai quest’altro, e lui che annuisce con la stessa espressione priva di espressione con cui risponde alla poliziotta, di cui dopo accurata ispezione ho finalmente scorto l'anello d'oro rilucere all’anulare sinistro. Peccato.
Da principio i tre ragazzi si davano convegno sulle scale, perché la madre di Didim impediva ai due nuovi amici di entrare nell'appartamento – dovete lasciare in pace mio figlio! le ho sentito un giorno gridare mentre ero sdraiato sul divano a vedere una vecchia puntata di Starsky & Hutch –, ma poi si sono trasferiti nei solai, dove oltre a confabulare facevano piccoli atti di vandalismo, tipo bruciare le targhette delle porte.
Niente di gravissimo, insomma, ma nel condominio stava diventando un problema, oltre che il tema del giorno per cui scambiarsi l’ultima notizia, spesso ingigantita dal piacere narrativo: Fumano la droga, io dico che vanno lì a fumare la droga. Qui bisogna fare qualcosa, avvertiamo il capo casa, l'amministratore, la Digos!
Nel frattempo, Didim continuava a vedere i suoi amici, i suoi due soli amici nelle parti comuni del palazzo, ciondolando smarrito quanto questi tardavano ad arrivare. Sembrava l'unico essere umano rimasto a vagare in una Mosca spettrale prima dell'ingresso della Grande Armée.
Va detto che ogni tanto provava a opporsi alle loro scorribande, come la volta in cui mia madre l’ha visto piangere di fronte alle ante scorrevoli dell'ascensore. Cos'hai Didim, c'è qualche problema?
Gliel'ho detto, ha risposto lui trattenendo a stento i singhiozzi, gliel'ho detto che non si può continure ad andare su e giù, e mentre parlava si sentiva sghignazzare da dentro la cabina. Io gli dico le cose ma loro non mi ascoltano.
Più tardi è arrivata anche l’ambulanza. Porteranno Dim al "repartino", come chiamano da queste parti la psichiatria. Lì gli faranno una bella puntura. I nervi delle mani che si rilassano, il collo si rilassa, le mascelle si rilassano. A volte scappa fuori anche qualche goccia di pipì, ma gli infermieri sono abituati e nessuno ci fa caso.
Sei innamorato di Cinzia, vero? gli ha chiesto all’improvviso la poliziotta con i ricci mentre i barellieri gli stavano infilando una specie di corpetto, non una camicia di forza ma qualcosa di simile. Sì, ha risposto Dim con la testa ancora più bassa.
E da grande cosa ti piacerebbe fare?
Mi piacerebbe parlare durante le partite di calcio in tivù. Quello che chiama i giocatori per nome, li riconosce dai numeri sulla maglietta, e quando fanno goal lui urla GOAL! E sarà stata un’impressione, ma, per la prima volta, i suoi occhioni azzurri si sono aperti come il cielo sopra la steppa dopo un temporale brutto.

venerdì 7 settembre 2018

200, o sui popoli e le parole

L’italiano è una lingua che comprende circa 250.000 vocaboli. Tanti, pochi… Beh, il francese arriva a malapena a 100.000 e l’inglese a quasi 500.000; senza naturalmente contare il linguaggio tecnico, difficilmente quantificabile. Stiamo insomma in una condizione intermedia, che non tiene però conto della presenza, nella nostra lingua, dei diminutivi e dei vezzeggiativi, i quali incrementano il lessico in modo significativo e l’inglese non contempla. Ad esempio casa, casina, casetta, casupola, casotto, casona, casaccia… E siamo già a sette, per una sola radice.
Ma ci serviranno poi davvero, tutte queste parole?
Nel 1976 deve esserselo chiesto anche Tullio de Mauro, e ha così indagato la competenza linguistica di un ventenne tipo; non di un bracciante lucano, per intendersi, un ragazzo che ha seguito studi regolari, senza magari brillare. Dopo aver campionato oltre 50.000 giovani italiani, ha concluso che il numero di vocaboli padroneggiati si aggirava intorno a 1600. E sembrano pochissimi, lo 0,6% del totale, al punto che dopo vent’anni a Tullio de Mauro sorse probabilmente qualche dubbio – mi sarò sbagliato? – e rifece l'indagine. Con suo stupore, il numero era però sceso a 640. Ma poco prima di morire, nel 2017, il famoso linguista si mostrò ancora più pessimista, e a un intervistatore dichiarò che il capitale lessicale dei ragazzi si era a suo avviso ridotto ulteriormente, lo stimava ora attorno ai 200 vocaboli. Duecento, ho riletto bene, non ci credevo, e cosa ci fai con duecento vocaboli?!
Ordini un panino da McDonald's, d’accordo, ma mi raccomando non gli si chieda se desidera salsa tartara oppure tabasco, già che il ventenne 2.0 conoscerà al massimo la parola maionese o se va di lusso ketchup; non ci scommetterei però, probabile che chiami quest’ultima salsa rossa. Quindi avrà in memoria qualche termine elementare, quelli che ti fanno studiare alle prime lezioni dei corsi di lingue – il cane è sotto il tavolo, il libro è sopra il tavolo – e davvero poco altro. Di leggere un giornale, con duecento vocaboli, non se ne parla proprio, tutt'al più ci fai un cappellino di carta. A stento riesci a comprendere il telegiornale, ma giusto perché ti aiutano le espressioni del viso del conduttore e il suo tono di voce, oltre alle immagini del servizio. Poi basta, finita qui.
Dunque totale incapacità di dar forma verbale alle proprie emozioni, e a maggior ragione di sviluppare un pensiero civile, collegando fatti concreti a principi etici astratti e generali; ma bisognerebbe conoscerlo l’aggettivo etico, anche in forma di sostantivo, che dubito essere presente nel minimo corredo lessicale dei nostri cuccioli. Allo stesso modo della parola afasia, la cui a privativa impedisce alla voce di articolarsi in forma, e quindi in senso. Quel che rimane è il suono introverso e gorgogliante di certi frigoriferi nel cuore nella notte, che sembra vogliano dirci qualcosa. Ma quando infine ti alzi, li raggiungi, ok, dimmi, cosa c'è, ci trovi solo il Tetra Pack di un succo di frutta aperto, da cui prendi una sorsata prima di tornare a letto ciabattando.
Un filosofo austriaco del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein, avrebbe chiosato il tutto con un suo celebre motto: the borders of my language are the borders of my world. Sì, i confini della mia lingua sono i confini del mio mondo. Il problema è che i confini della lingua dei ragazzi che incontri quando prendi l’autobus, il tram, o in ascensore come quel tipetto col ciuffo che scende sempre al terzo piano e ti sfila davanti ascoltando musica con le cuffiette del telefonino, i confini linguistici anche di tuo figlio e di tuo nipote sono diventati piccoli, ormai ben più piccoli di quelli geografici, tanto che non riescono neppure ad avventurarsi oltre la soglia del proprio gruppo su un social network. Mi spiegava un amico che ora Instagram sta spodestando Facebook, già che non c’è nemmeno più bisogno di scrivere “ehi raga come butta”, basta postare una foto con espressione tra il languido e il corrucciato e attendere il fiorire dei consensi.
Fosse anche solo per questa ragione, se ne ricava che l’immigrazione da altri paesi non è più arrestabile, perfino quella cosiddetta selvaggia. Ma siamo sicuri che sia una brutta notizia, e non ci convenga invece fare come i banditori dei circhi che spuntano in provincia a primavera, insieme ai primi giaggioli? Massì, venghino siori, venghino, le gabbie sono aperte ma pochissimi gli animali autoctoni che abbiano il sacrosanto impulso della fuga. Lo sapete, ad esempio, quanti caratteri, non vocaboli, dico proprio caratteri, contiene la lingua cinese? Ve lo dico io: 56.000. Certo, anche loro non li conoscono tutti, ma è stato stimato che un bambino cinese di sei anni padroneggia già 2.500 caratteri, che salgono a circa 3.500 nell’adolescenza, e cioè a un’età equivalente a quella in cui i somari italiani arrivano a stento a 200 parole. Per non dire degli africani che sbarcano qui già parlando due o tre lingue (francese, inglese e quella del paese di provenienza), a cui si aggiunge in breve tempo l’italiano, con una quantità di termini che di certo supera la taglia nostrana. Un'extra small, naturalmente.
Nella sequenza di un film dei primi anni sessanta, Pasolini faceva pronunciare a Orson Wels una desolata considerazione sullo stato deisuoi connazionali – “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” –, ma cosa dovremmo dire adesso? La contrazione linguistica in corso ci porta a dover appaltare ad altre voci il nostro Paese. Qualcuno, magari proprio quell’Ali dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli che invocava lo stesso Pasolini in una lirica tardiva, qualcuno che sappia ancora dire mare, costa, chiesa, basalto, tripode, bellezza. Soprattutto bellezza.
Uomini e donne dunque, che insieme fanno bambini 
 non solo figli unici  e i bambini parole. Non importa chi e quale sarà il colore della loro pelle, ma bisogna fare presto. Dai navi allora, gommoni, remi, presto! A sbarcate altri popoli alle prime luci dell’alba, gente ossuta intrisa di salsedine, in quel silenzio che non è fine ma principio, inizio di ogni vocabolario. Perché prima di parlare, prima della voce, vengono i denti, per mangiare oppure per mordere. Non importa. Nemmeno se saranno barbari, cinesi, guerrieri masai o arcieri ostrogoti. Venga chiunque abbia ancora parole per nominare le cose, già che i nostri figli, le stesse facce ottuse delle madri,  quando escono rilassate e sempre più belle dal corso di yoga, la stessa Fred Perry dal collo rialzato presa dall’armadio di papà, non le sanno più dire.


domenica 4 agosto 2013

Tito, o sulla bellezza e la caduta


La scrittrice veronese Federica Sgaggio, nel suo blog, ha recentemente postato un intervento di cui raccomando la lettura. Si parla della scomparsa di Tito, il dodicenne (già famoso per il suo precoce talento nell'arrampicare) precipitato in Francia durante un allenamento di free climbing. Al rigoroso procedere per dubbiose e brevi lasse narrative, la Sgaggio accompagna un singolare puntiglio morale, oltre che linguistico, assai poco frequentato dal giornalismo contemporaneo. Tema sui cui lei stessa ha pubblicato un volume che pure raccomando, per la collana Indi dell'editore minimum fax.

Qui il suo intervento. Di seguito, come già in passato, un mio commento.


Lo psicologo analitico James Hillman, da qualche parte, scriveva che “compito di un genitore è quello di farsi delle fantasie sui propri figli". Cioè una rappresentazione, un'immagine o meglio una narrazione, si direbbe ora.

Potremmo magari riassumere lo stesso processo cognitivo con il termine idolo: il padre e la madre che realizzano un sostituto simbolico di loro stessi, e però perfezionato, assoluto e indipendente come un Golem. Il desiderio è quello fin troppo umano di potersi infine rispecchiare, un giorno, al compimento dell'attesa.

Eppure noi proveniamo da una tradizione spirituale che da sempre ci mette in guardia da questa ingannevole tentazione. Viene scritto in Esodo 20, 4: 

"Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra."

Credo dunque che l'invito di Hillman, più che a un progetto pedagogico, consenta a un moto naturale dello spirito, in cui sono già compresi errore, fallimento e caduta. Quasi che il terribile esito dell'ultima arrampicata del piccolo Tito, "promessa italiana del free climbing”, titolano con la consueta superficialità i giornali, fosse anche una metafora.

E infatti il grande studioso pensava che l'immagine-seme, da incuneare nella terra smossa dal nostro aratro, non servisse tanto a rigenerarla nelle fattezze di un desiderio compiuto (ma anche estraneo) che un giorno sarebbe sbocciato a coronamento degli sforzi educativi. Piuttosto a suscitare una risposta difensiva o comunque una re-azione, letteralmente.

Il figlio, proprio perché violato dall'immaginazione familiare, da una fantasia che è tanto più insinuante quanto più avulsa se imposta da una cattedra affettiva, verrebbe insomma stimolato a rintracciare un'immagine autentica dentro di sé. Riprendendo il mito di Er contenuto nel libro X della Repubblica di Platone, tale nucleo intimo e irriducibile, simile alla ghianda per la quercia, è stato chiamato "daimon":

l’unico e originario e impellente progetto di vita di ciascuno, o più comunemente la propria strada.

Ora io non so se arrampicare sia stato un modo per trovare la propria strada, il proprio daimon oppure per compiacere a quello dei genitori, i genitori di Tito, differendo di continuo l'incontro con lo specchio. Allo stesso modo Federica Sgaggio non sa darsi una risposta sull'inglese: sarà un giorno la lingua-demone di suo figlio, a cui lo prescrive fin da piccolo, o l'ennesimo idolo con cui rivestiamo i nostri desideri incompiuti...?

Trovo però sensata la prospettiva di James Hillman, che considera lecite le intrusioni familiari: non solo perché tanto diffuse ma anche giuste, in quanto inevitabili e produttive di ciò che lo stesso Hillman chiama "individuazione", riprendendo la più celebre teoria del suo maestro Jung.

Ma a volte a me sembra perfino bella, questa situazione instabile tra sogno del tramonto e necessità dell'aurora. Un'altalena che infinitamente pencola tra io e altro, io e altro, io e altro... Dove la vera collocazione del soggetto sta forse proprio nello slancio, nello iato – chiamiamolo pure anche viaggio – che separa la meta dall'abbrivio.

E per quanto, nella circostanza, il termine bellezza mi appaia quasi blasfemo, di certo scandaloso oltre che vagamente importuno. Scandalosamente bello è l'andare tra le cose del mondo, ecco. Da cui anche i più capaci ogni tanto cascano giù.

(Ps - Con un piccolo fiore per Tito – una stella alpina, naturalmente.)