lunedì 2 settembre 2013

Pausa di riflessione



Fontana con soldino chiude il suo rubinetto fino al primo gennaio 2014. O se preferite il logoro linguaggio degli amanti, mi prendo una pausa di riflessione. Frase che reclama un corollario altrettanto fiacco: ragioni personali come se davvero esistessero ragioni che non stiano nel palpitare di un corpo, a cui sempre si ritorna alla maniera di ligie pecorelle, quando il pastore spalanca la porta dell'ovile con un calcio... Mi riservo dunque di decidere la sorte dell'agnello a quella data: forse tornerò a mungere qualche parola di tanto in tanto, oppure, zac, un bel taglio all'altezza della carotide, e sarà davvero finita qui.  Intanto, e semplicemente, saluti.

mercoledì 28 agosto 2013

Carburatore, o sulle asimmetrie (omo)sessuali



Una cosa, me la sono sempre chiesta: come mai gli omosessuali maschi vivono, di norma, un’ipervalutazione del sesso opposto: coltivando amicizie femminili, confidanandosi più volentieri con le donne e come se fossero tra donne, in quella fluida intimità da gineceo che rende lieve e giocoso ogni discorso, mentre, e siamo al polo opposto della biglia levigata del moderno, le lesbiche sembrano muoversi (con passi sicuri e felpati) in una bolla spaziotemporale dove il maschile è messo al bando, e gli uomini, ma nemmeno tutti, e me la sono davvero sempre chiesta, questa cosa: come mai gli uomini sono buoni solo per compilare il 740, o riparare un carburatore?

mercoledì 21 agosto 2013

Ora c’è, ora non c’è più, ora ecco c’è di nuovo… o sulla strana matematica del lutto


Oggi sono venuto a sapere della morte di una persona conosciuta, anche se non propriamente cara. La notizia mi ha ovviamente rattristato molto: era un uomo sposato, uno o due figli ancora piccoli, credo avesse poco più di quarant’anni.

L’ultima volta che l’ho visto, ho subito rievocato con naturale mestizia, stavamo entrambi dal ciclista e abbiamo scambiato due veloci battute sul concerto di Mark Knoplfer, a cui il mio conoscente aveva appena assistito da qualche parte che mi ha detto, aspetta, ce l’ho sulla punta della lingua… E così ora mi sembra una cosa brutta perfino questa: essermi scordato le sue ultime parole, che intollerabile disattenzione, proprio vero che il cielo si prende sempre i migliori…

Dopo poche ore, però, come Lazzaro, il mio conoscente sbuca all’improvviso da un incrocio, anche la bicicletta su cui sgambetta è la stessa che gli avevo visto ritirare dal ciclista. E quasi non sono io a completare la frittata, mettendolo sotto con l’automobile.

Si è trattato ovviamente di un semplice caso di omonimia, la città in fondo è piccola, facile incontrarsi, lui che gira sempre con quell’accidenti di bicicletta e la testa tra le nuvole. Nulla insomma di speciale, un’esperienza che immagino sia capitata a molti: scambiare semplicemente di persona. Quindi rivestire la morte con un abito diverso, che dal nostro minimo pulpito ci appare, a posteriori, come "fortunato".

Ma non so se anche ad altri sia capitato di verificare come il dolore, per altro mescolato allo strano gusto di rovistare nella cantina dei ricordi, tanto più appetibili quando ci vedono in un rapporto di privilegiata intimità con lo scomparso (immagino che se mi fossi trovato con qualcuno che non lo conosceva affatto, mi sarei atteggiato a Grande Vedova, e l’incontro occasionale dal ciclista sarebbe divenuto un Tour de France nella stessa scuderia), il dolore è di gran lunga superiore alla gioia per la reviviscenza.

Nel caso, dovremmo concludere che siamo una specie con una matematica ben strana: se togli uno a uno, infatti, e poi lo rimetti, il totale fa nuovamente uno. Aritmetica, nemmeno matematica. E invece no, in questo caso il risultato fa uno meno qualche cosa, ciò che viene restituito non è mai l'intero, gli dèi si tengono sempre un po' di fumo. O se preferite: meglio una zuppa di lacrime oggi che un bel piatto di riso domani. E dando per acquisito che di quel povero cristo omonimo del mio conoscente ciclofilo, che c’ha lasciato la ghirba per davvero, come si dice da queste parti, ce ne importa davvero poco…


domenica 18 agosto 2013

Luisa, una storia a colori


(Ho ritrovato, come nella miglior tradizione, questo mio vecchio racconto in un cassetto. La data riportata è il 1998, quindi, a norma, non si può nemmeno parlare di "opera giovanile". Ho comunque fatto una rapida revisione. Per il resto, che dire... Avevo dimenticato l'esistenza di Luisa, un personaggio che vi ripropongo con piacere, ma anche con un certo enigmatico imbarazzo.)



Due sono gli animali che procurano maggiori problemi allo zoo comunale di una città di medie dimensioni che chiameremo Città, una robusta recinzione di cemento ne delimita il perimetro come il puntino nero del Tao e, a sua volta, in un gioco insiemistico a incasso, la Città è il puntino sulla superficie di un paese che chiameremo Paese. Si tratta delle zebre e dei gorilla.
Le zebre perché scalciano, da dietro ma anche da davanti, si issano senza alcun preavviso sui garretti per poi ricadere a peso morto sugli inservienti, che altre volte cercano di mordere quando gli vengono somministrati i pasti. I gorilla per la malinconia, o così almeno sta scritto sulla rivista posata nella sala d'attesa del Dottore.
Luisa viene accompagnata spesso dal Dottore, è ormai un amico di famiglia, quando termina la visita i gentitori gli dicono ciao mentre Luisa dice buongiorno, arrivederci o più di frequente non dice nulla, incamminandosi per il corridoio trapuntato dalle cornici voluminose che contengono i diplomi, l'attestato di laurea, i numerosi corsi di aggiornamento.
 Luisa viene accompagnata spesso dal Dottore ma non è mai stata allo zoo.
"Ehi, Luisa, guarda qui!"
Luisa guarda il Nonno, lo scruta per un tempo dilatato con lo stesso sguardo con cui i giocatori di poker schiudono le carte  fante di cuori, donna di picche, asso di fiori... , ma poi torna ad abbassare lo sguardo, mentre lui continua a sventolare in aria due biglietti gialli.
Oggi il Nonno ha deciso di accompagnare Luisa allo zoo. I genitori sono d'accordo, ne hanno parlato a lungo anche con il Dottore che ormai è un'amico di famiglia, gli dicono ciao e lui risponde con uno svelto cenno del capo. Però non si tratta di un giorno festivo. I compagni di Luisa sono a scuola, è regolare in questo periodo, la Maestra dice: “Aprite il libro di geografia a pagina…” e i compagni di Luisa aprono il libro a pagina…
“Ecco, quella è l’Africa.”
Con l’indice dall’unghia laccata d'azzurro, la Maestra mostra un’ampia zona sulla cartina appesa vicino alla lavagna, la sagoma dei diversi stati come le toppe dell'abito di Arlecchino, i confini sono le cuciture, e ancora scandisce: “A-F-R-I-C-A.”
Luisa è più di un mese che non va a scuola.
La Maestra è preoccupata per Luisa. Telefona a casa. Parla con la Madre. Il Padre chiede: “Chi è?”
“E’ la Maestra, per Luisa…”
Il Padre annuisce.
Il Nonno consegna i due biglietti gialli all'ingresso e poi, con la stessa mano grande e ruvida, impugna forte quella della bambina. Entrano allo zoo. Alle loro spalle si richiude il cancello di ferro battuto. Piccole punte, sembrano lance, alla sommità.
I primi animali che incontrano sono proprio le zebre. Stanno correndo dentro un ampio spazio di terra battuta, nessuna traccia vegetale, devono aver già brucato tutto, c'è solo qualche cumulo di cacca scura qui e là; non è informe e puzzolente come quella delle mucche, somiglia piuttosto a palline di gelato.
Ogni tanto una zebra si inarca e comincia a scalciare, prende di mira qualcosa nell’aria, la vede solamente lei, qualcosa di nemico. I gorilla stanno fermi.
I gorilla stanno fermi e zitti e seduti stretti stretti dentro un recinto molto più piccolo di quello delle zebre. Il Nonno e Luisa lo raggiungono camminando in silenzio, solo il rumore dei passi sul sentiero ricoperto di foglie secche. Un recinto chiuso anche in alto da una gabbia. "Per impedire che i gorilla si arrampichino e scappino fuori" dice finalmente il Nonno. Luisa fa sì con la testa, e subito torna a guardare in terra.
Il Padre afferra il Dottore per un braccio: “Ma cos’ha, cos’ha?!”
"L’Africa è più grande della Svizzera e dell’Italia e perfino della Francia” esclama la Maestra con trasporto. “Molto più grande!” E una volta raggiunto il banco vuoto di Luisa, continua: “Fatemi un esempio di due cose della stessa natura ma con diverse dimensioni”.
"Dio e gli uomini" ripete ogni volta il Parroco durante l'ora di religione. "Il Figlio è generato, non creato, della stessa sostanza del Padre", e intanto si ravviva il riporto con un gesto furtivo. O magari gli uomini e gli animali, come affermava, sicuro di quel che stava dicendo, il Dottore discutendo animatamente con una giovane collega dai capelli rossicci, ai tempi lontani dell’università.
"Chissà che fine ha fatto... un giorno o l'altro devo telefonarle" si ripromette il Dottore mentre osserva un quadro alla parete del suo studio: un filo quasi invisibile sorregge delle lenzuola rosa, viola e marrone appena smosse dal vento. Che strano quadro, ha pensato il Dottore la prima volta che l'ha visto in un mercatino. Non costava nemmeno molto. Lo pensava e lo pensa ancora.
Poi il Dottore posa una mano sulla spalla del padre di Luisa, ma non dice nulla.
Un gorilla sta seduto un po' in disparte. Al passaggio dell'ennesimo aeroplano (la Città di medie dimensioni ha un importante aeroporto) il Gorilla alza il capo, strizza le pupille verso quel puntino lassù. Dopo qualche secondo arriva il rombo attutito, come il rumore delle monete quando si allineano tre ciliegie sullo schermo delle macchinette mangia soldi.
Il Gorilla continua a fissare il puntino mentre corruga la fronte pelosa, segue la scia graffiata dalle turbine sopra a un bel cielo cobalto, il cielo fa diventare puntino anche il Paese, dentro il Paese la Città, lo zoo, il Nonno, Luisa e il Gorilla che continua a fissare il suo puntino, ognuno forse deve possederne uno proprio.
Lo vede diventare soffice e bianco e filamentoso, come il cotone quando viene passato sulle ginocchia sbucciate. Dopo qualche minuto sparisce e tutto ritorna il Tutto. 
Il gorilla sembra sorridere, ma forse è solo un’impressione.
Luisa si siede, poi si alza, poi si siede nuovamente e guarda la nuvola candida dello zucchero filato impugnata dal Nonno con delicatezza, nel porgere lo stecco lui le fa uno scherzoso inchino: “Tenga Principessa, è per Lei!” 
Anche il Nonno è convinto che Luisa stia sorridendo, ma forse è solo un’impressione.
“Quando torna Luisa?” chiede qualcuno, uno scolaro un po’ più piccolino e magro degli altri, si sente solo la voce che spunta da un librone blu con le immagini di mari e monti e deserti, ripete la domanda una seconda volta da dietro l'atlante: “Torna, per Natale torna?”
A Natale quasi sicuramente nevicherà, di solito nevica. Ma non certo in Africa. Lì normalmente fa caldo ed è per questo che ci abitano le zebre e i gorilla e altri animali spesso feroci, come le tigri – "Che però stanno in Asia!" aggiunge la Maestra con lo sguardo furbo che doveva avere da bambina, quando rubava lo smalto delle unghie alla sorella maggiore.
In Città, una città né troppo grande né troppo piccola, sta all'interno di un paese che non è difficile, ma neppure facile, individuare sopra alla carta geografica appesa accanto alla lavagna, abitano invece gli inservienti dello zoo, il Nonno, il Parroco, il Padre e la Madre e i compagni di classe di Luisa. La Nonna è morta l'anno scorso. Anche la Maestra abita qui, non distante dalla scuola. Al Direttore piace il colore dello smalto che la Maestra distende con cura sulle unghie. E’ azzurro, azzurro turchino.
Il Direttore non si sa dove abiti il Direttore.
Lo zoo chiude alla diciassette e trenta, ma la gente ha tempo fino alle diciotto per uscire con calma, oppure in fretta, ognuno con il suo passo. Quello di Luisa è sempre più lento, il rumore delle scarpine come il ciabattare nei corridoi degli ospedali.
Se alla chiusura rimane dello zucchero filato viene regalato alla figlia del custode, che ringrazia mostrando denti grandi e scheggiati. Il Dottore ha detto una volta al Nonno che troppo glucosio (glucosio? "Sì, i dolcetti che ti cucinava la nonna", ha suggerito la Madre sottovoce) fa male alla salute. Aggiungendo: “Mi raccomando!”
D'inverno lo zoo chiude prima e adesso è quasi inverno. E' anche normale che chiuda prima, viene buio presto, tutto in inverno finisce con anticipo e così non si vedono più i colori delle cose, il cielo li riassorbe come fa con i palloncini che si sono liberati ai comizi elettorali. Per questo, chiude prima lo zoo.
Da giovane il Nonno aveva un’automobile convertibile e tantissimi capelli in testa, si muovevano come il grano insieme all'automobile scapottata del Nonno, al vento, al cielo, tutto si muoveva e si teneva quando il Nonno era ancora giovane. Poi ha conosciuto la Nonna e i suoi dolcetti, ha aggiunto un paio di buchi alla cintura di pelle nocciola e ha venduto l'automobile, che era rosso vermiglio.
I colori delle zebre sono invece il bianco e il nero.
"Non mescolati insieme, attenzione ragazzi! Il bianco è bianco e il nero è nero" dice la Maestra,"intervallandosi in fasce ben distinte, come quelle stampate sulla maglietta di una famosa squadra di calcio. Vediamo se qualcuno sa dirmi di che squadra si tratta..."
Tanto tempo fa un aeroplano è cascato a terra, trasportava un’intera squadra di calcio, riserve, massaggiatori, tutti. Era una squadra della stessa città, ma con una maglia differente da quella a strisce bianche e nere come il manto fitto e corto delle zebre.
La moglie del Direttore ha le unghie del colore della maglia della squadra che è cascata giù dal cielo, ma a lui non piace tanto quel colore, lo trova smunto, fiacco, privo di personalità. Lo trova triste.
 Al Nonno, al contrario, piace: il colore ma soprattutto la squadra, è la sua squadra del cuore. Così gli piace anche raccontarne la storia, e però quando arriva al punto dell'aeroplano che perde quota, la collina sempre più vicina, i giocatori ancora ignari che si scambiano anedotti sulla partita appena terminata, mentre i regali per le amanti si strusciano nel borsone a quelli, più piccoli, per le mogli, a quel punto la voce del Nonno diventa tremula e la Madre lo interrompe: “Ti si fredda la minestra, mangia.”
Allora lui alza gli occhi al cielo, come se lì, nel cielo e non tra le macerie della terra, ci fosse il finale della storia, prima di affondare il cucchiaio dentro la fondina.
 Ora il Nonno e Luisa stanno rientrando. Si muovono al rallentatore sul marciaiedi che porta alla fermata del tram. Al suo arrivo saliranno sul predellino senza pronunciare parola, obliteranno, una parola che Luisa ha imparato dalla Maestra, obliteranno due biglietti dal colore diverso di quelli dello zoo; un verde chiaro, quasi grigio. E' probabile che qualcuno lascerà il posto al Nonno, e lui lo lascerà a Luisa.
"Prego Principessa..." e accompagnando la frase con un nuovo inchino, ma questa volta solo mimato con il capo, per non urtare gli altri passeggeri, "si accomodi sul suo trono."
 Dopo otto starnuti del conducente scenderanno da quella scatola arancione sferragliante, affiancheranno i loro corpi sproprozionati su una panca griffata da molti stilisti ("negri di merda", "Anna ti amo", "ho un cazzo enorme, se vuoi assaggiarlo 349 5756343") sormontata da una pensilina trasparente, dove aspetteranno sotto un cielo smerdato dai piccioni fino a quando dal fondo della via comparirà un nuovo puntino che, diventato sempre più grande, si trasformerà nell'autobus ocra che li porterà finalmente a casa.
“Buongiorno Luisa.”
"..."
“Buongiorno Nonno.”
"Ehilà!"
La pastasciutta calda appena servita in tavola, la televisione accessa da cui giunge la voce di quel comico che fa tanto ridere, una bambola nuova sul divano: in fondo la vita non è complicata, a volta basta solo un po’ di calore umano e di gentilezza.
Non ricorda chi ha detto questa frase, ma la Madre è certa di non essersela inventata. Forse l'hanno detta alla tivù, l'ha pronunciata quel comico che la fa tanto ridere, ma storpiando l'ultima parola in gengivezza, come chi vuol segnalare che ha smesso di credere in ciò che afferma, figurati se me la bevo! 
“Ma allora cos’ha, cos’ha che non va…” continua a rimuginare il padre di Luisa anche di notte. La bambola nuova è rimasta sul divano, la figlia non l'ha nemmeno guardata: le ciglia curve come artigli, gli occhi di vetro enormi, verdi, spalancati nel buio della stanza. Sembra fissare la TV spenta e continuare a ridere di gusto. Gengivezza, e giù risate.
Per fortuna il Dottore ("Ricordagli la ricetta delle pastiglie per il Nonno!") ha promesso che domani mattina ritornerà a fare una visita. La notte porta consiglio ma è la mattina, sì, vedrai che domattina... gli sussurra la sua sposa da sotto la trapunta pesante, glielo ripete ogni sera quando lo raggiunge nel letto già tiepido, terminato il programma della sera alla tivù. Hanno sostituito il comico con un programma di cucina, pare che non facesse ridere più nessuno. 
La Sposa?
Lui si gira e le restituisce il bacio della buonanotte. Non alla Sposa, alla Madre. La madre di Luisa. 
Al risveglio il Direttore pensa che una sera sarebbe bello invitare la Maestra a bere qualcosa, un caffè, un Sanbitter, un acqua e menta o quello che le pare, non è tanto importante. Qualcosa, semplicemente. Meglio se con tante bollicine che si precipitano fuori come gli scolari quando suona la campanella. 
In quell'occasione potrebbe chiederle dove trova lo smalto turchese – "Lo sa che è un colore bellissimo, signorina!" – e poi magari riaccompagnala a casa in Vespa, sentire il suo profumo che si mescola a quello della benzina, i caschi ogni tanto si urtano e fanno toc, nella nebbia la processione gialla dei lampioni, altri pu7/*ni, infiniti puntini sopra i loro corpi ormai quasi congiunti, le mani di lei che gli stringono i fianchi prima delle curve e... 
Quando ha di questi pensieri anche il Direttore guarda il cielo, apre la finestra dell'ufficio e poi rimane lì per un tempo indefinito a fissarlo, il cielo: chissà perché non ha mai lo stesso colore, perché l'aeroplano vuole fargli continuamente del male...
Assume quella posizione, quale posizione?, nemmeno questo importa, ma è sempre la stessa immobile posizione, mentre guarda il cielo. Ma prima o poi il telefono o la voce della segretaria o il ricordo delle unghie tristi della Moglie lo fanno tornare al lavoro.
Le ferite sulla pelle del cielo si cicatrizzano in fretta pensa il Direttore, o forse è il Medico a pensarlo, lui sì che se ne intende di ferite, c'è scritto anche su uno dei suoi molti diplomi di specializzazione, ma l’aeroplano è sempre lì, pronto, scattante, per farne immediatamente di nuove.
Nuove ferite.
“Dio è un concetto astratto e per questo tanto più vero”, spiega il Parroco. "Luisa, se Dio vuole, torna lunedì, anzi è già tornata, la vedete bambini?" dice la maestra dopo riconsegnato al mondo un lungo respiro, un soffio, un niente del colore delle sue unghie laccate.
 

Ma perché mi sono cacciato in questo inferno?! ovvero un primo indizio positivo a favore di Facebook



Dopo pochi giorni dall’inizio delle riprese di Giungla d’asfalto, John Huston dichiarò: “Ma perché mi sono cacciato in questo inferno?!” Si riferiva al comportamento sul set di Marilyn Monroe, vera prima donna intrattabile e capricciosa. Un’espressione, magari un poco attenuata, che sfugge spesso anche a noi, specie quando facciamo reale esperienza di persone o situazioni su cui in precedenza avevamo proiettato le nostre fantasie.

Da questo punto di vista – anche solo da questo – bisogna allora riconoscere ai social network un ruolo di fondamentale importanza. Tra i miei contatti su Facebook ho ad esempio alcuni scrittori, poeti, attori o in ogni caso personaggi pubblici, a cui ho richiesto “l’amicizia” per l’umana curiosità di spiare dentro i tinelli. Ed è incredibile quanto riesca a essere priva di alcun fascino una donna bellissima e famosa, non sempre, ma spesso. Basta solo auscultarne il borbottio: l’esibizione degli scarponcini con cui ha appena terminato una passeggiata in montagna, gli slogan perbenisti in favore di questo o contro quello, la confusione tra arguzie e ovvietà, il link che rimanda a un vecchio successo musicale "che non potete perdervi", dovete vedere per forza o comunque: l’incessante volontà di far presa sul pubblico anche quando si svestono i panni della scena, in un infinito gioco a rubarsi la sedia dell’attenzione che è appunto la condizione comune ai social network. A volte, basta alzare un pollicione.

Se ne può però uscire rigenerati, come John Huston che alla sua domanda retorica, come Marzullo seppe anche darsi una riposta: “Mi sono cacciato in questo inferno perché quando si accende la lucina rossa della macchina da presa… Marilyn diventa meravigliosa!” E così pure le nostre donne con la sciatica, la ricrescita bianca dei capelli, un leggero ritardo al ciclo diventano meravigliose, ma davvero meravigliose quando le confrontiamo alla prolissa bellezza dei vip su Facebook.

sabato 17 agosto 2013

Solimano



Solimano, magnifico sultano ottomano
Ad anni ventisei – più venti e hai miei, suppergiù
Intero il mondo appreso teneva nella mano.
Lo spiego alla commessa, ma insiste a darmi il “tu”.

Una questione di stile, o sulla disgrazia delle questioni di stile



Cattive notizie per chi pensava che il Sessantotto ne avesse tramato la sorte, armato la mano con la controcultura e la fantasia al potere avesse finalmente commesso l’omicidio, sgombrando il campo della storia da uno dei suoi miti più tenaci: quello dello stile. Al contrario, guardandoci in giro con un minimo di attenzione ci accorgiamo che erano solo dei travestimenti, gli abili stratagemmi con cui Arlecchino continua a servire infiniti padroni, e la chioccia a covare uova di batteria. Ed è così che ritorna in auge il vecchio mito dello stile.

Dalla modestissima specula sociologica che è la mia esperienza quotidiana, mi capita sempre più spesso di sbatterci le corna. Se ad esempio chiedo a una donna cosa apprezza e ricerca maggiormente in uomo, la risposta giunge puntuale: “Un minimo di stile”. Se lo chiedo a una donna italiana, almeno. Mi sto infatti convincendo che questo caparbio ossequio verso lo stile risenta di alcune discriminanti geografiche. In generale, ne sono più sensibili gli europei; e tra gli europei direi senz’altro francesi, spagnoli e appunto italiani. Ma anche in Italia la mappa dello stile è suscettibile a varianti regionali, con Toscana, Piemonte e Lombardia che fanno da locomotive di cartapesta.

Vivo dunque in uno dei comparti umani dove lo stile è tenuto in maggiore considerazione. Per familiarizzarmi a un luogo e a un tempo che, anche in questo, così poco mi appartengono, provo a ricercare il termine su un dizionario, meglio se provvisto di etimologia. Come previsto, i significati e gli ambiti semantici sono numerosi, ma direi che quello più pertinente alle risposte femminili che ricevo è forse il seguente:

“Stile - L’insieme delle caratteristiche comportamentali che concorrano a costituire l’immagine sociale di una persona - Eleganza, signorilità di comportamento” (Devoto Oli).

E’ utile inoltre ricordare la discendenza dal latino stilus, letteralmente lo stilo con cui venivano incisi i segni grafici sulle pergamene; ugualmente, il vocabolo qualificava un pugnale sottile e appuntito, quello con cui viene compiuto l’attentato a Cesare da parte dei congiurati. Coincidenza che è sempre utile tenere a mente, almeno per chi scrive…

Ma torniamo a bomba alle donne, e alla loro predilezione per lo stile. No, non belli, muscolosi o colti o intelligenti neppure, ricchi quanto basta e famosi magari... ma soprattutto con stile: così viene ricercato il maschio alpha versione 2.0. Canta Ivano Fossati in una bella canzone di alcuni anni fa:

“per certe donne è una questione di stile \ ah che disgrazia le questioni di stile…”

Una “questione di stile”, vediamo… Sarà magari la forma peculiare che viene ad assumere il soggetto in rapporto agli altri: tanto più quella forma è conforme, per così dire, a un’immagine sociale riconoscibile ed apprezzata (“eleganza, signorilità di comportamento”) tanto più sarà lecito utilizzare il termine. Mentre se ci allontaniamo dal modello, anzi, meglio, dai modelli dello stile, dovremmo scomodare altre espressioni: eccentricità, bizzarria, ad esempio e in particolare quando quei tratti siano scarsamente diffusi, e dunque singolari. Se invece i riferimenti sono comuni, ma invisi allo schema gerarchico del valore, e cioè alle elite che determinano il gusto per imitazione, parleremo senz’altro di volgarità.

Detta così, ci accorgiamo però che volgarità e stile sono le diverse facce di una medesima medaglia, quella del conformismo sociale. E’ infatti la personalità, intesa come irriducibile tratto del soggetto umano, la vera antagonista dello stile, non certo la volgarità. Potremmo vedere lo stile come una volgarità circoscritta, ossia come il modo prevalente di una casta sociale minoritaria ma influente, che solo in apparenza si oppone alla maggioranza dei volgari.

Con il consueto acume intuitivo, è stato proprio il mezzo di comunicazione più massificato ad aver colto con anticipo tale dialettica complementare degli opposti. In una versione aggiornata del suo programma Uomini e donne, Maria de Filippi invita alcune persone attempate – uomini e donne over, per l'appunto – a sfilare a turno in passerella, ricevendo dagli altri un voto sulla "qualità" della loro prestazione. Prima però è necessario agghindarsi alla bisogna, e cioè scegliere un look, uno stile, o se preferite lo scafandro con cui sprofondare negli abissi estremi della modernità.

Ed è così che possiamo assistere al dinoccolato incedere di un ex carburatorista di Torpignattara, che nelle impeccabili vesti di golfista scozzese procede verso l’inevitabile applauso del pubblico: sì, tocca riconoscere che quell’uomo ha ora stile, l’abito ha finalmente redento il monaco. Ma se lo stile rappresenta l’involucro pubblico e riconoscibile della personalità (che come abbiamo visto viene in tal modo negata, o comunque subordinata alle esigenze della rappresentazione) dovremmo concludere che lo stile è l’equivalente dei generi nella figurazione artistica.

Pensiamo ad esempio al western. Cos’è il western, se non un particolare stile narrativo con cui viene codificato un discorso sull’umano, il tempo, la storia e insomma: l’universale. L’universale, per poter essere accostato, nel cinema ha infatti bisogno di essere ridotto in contenitori particolari. Ma una particolarità, quando viene resa omogenea nelle sue caratteristiche – ora si direbbe che viene normalizzata – cessa in effetti di essere particolare, muovendo il pendolo del significato verso il dominio del conforme.

La diffusione, l’ossessione perfino dello stile come categoria del discorso che ogni tempo svolge su se stesso, mi sembra risentire di tale paradosso. Se da una parte si ricerca la singolarità come valore – non a caso si parla tanto di valore distintivo – d’altro canto una differenza radicale viene vissuta come pericolosa e sovversiva, e subito rubricata dentro stilemi discorsivi ugualmente conformi. Al pensiero affilato dell’intellettuale che infilza il ventre molle dell’ovvio (sì, proprio come gli antichi romani con il loro stiletto), ne verrà dunque sostituito il corpo o il pettegolezzo sulla biografia – che sarà quella di drogato, omosessuale, comunista… Pensiamo al caso emblematico di Pasolini! In ogni caso, sempre e comunque narrazioni con cui si cerca di ricomprendere l’inaudito dentro le categorie addomesticate dallo stile, stilizzando ogni tentativo di sostanziale difformità.

Ma allora cosa ci rimane, di tanto fervore per lo stile: davvero è solo un arzillo pensionato in abiti da golfista, con il grasso dei carburatori ancora incistato tra le unghie? No, io credo che a tale interpretazione decisamente regressiva possa accompagnarsene una più cautamente ottimistica, o perlomeno problematica.

Lo stile rappresenta anche un sottile esercizio per ciascuno, una figura da tratteggiare. Quella che risulta dal delicato equilibrio tra io e mondo, tra soggetto e comunità. Pensarsi come entità assolute e impregiudicate è infatti altrettanto ingenuo e pericoloso – delirium, lo chiamano gli psichiatri –  che smettere di fare muro, lasciandosi invadere dal brusio indistinto del presente. Ma poi chi davvero invade chi… quando una personalità compiuta non è un oggetto, un totem, ma l’effetto di un infinito e sempre precario compromesso tra esperienza e vocazione, tra fuori e dentro. Così lo stile, quando non è semplice moda o biacca con cui intonare il volto alla scena, sarà la cicatrice esposta di quest’eterna battaglia tra mondi incompatibili, ma che devono essere ricomposti.


martedì 13 agosto 2013

Don’t feed the troll, ovvero ragioniam pur di loro (e di noi), ma guardando e passando





Don’t feed the troll! Non nutrire il troll, alla lettera. Un’espressione (un’esortazione, meglio) anglosassone dal significato alquanto vago, enigmatica già a partire dalla natura del suo oggetto. Il dizionario Devoto Oli prova a spiegarlo a questo modo: “Nelle leggende scandinave, abitante demoniaco di boschi, montagne, luoghi solitari: corrisponde all’orco di altre tradizioni popolari europee. [Dal norreno troll].”

Esiste però anche un significato estensivo, con una sua attualità e perfino urgenza in rapporto alla comunicazione sul web: forum, social network, spazi pubblici di discussione. Il troll, all’interno dei nuovi contesti tecnologici, si riconfigura come una sorta di orchetto polemico e impertinente, che gode nel suscitare contese e battibecchi. Ma per riconoscere la presenza attiva del troll tra i nodi della grande rete, l’unità di misura fondamentale diviene quella del tempo: quanto tempo siamo riusciti a perdere incollati a un monitor baluginante, quante parole abbiamo osservato comparire e subito smarrirsi nella foga del momento, arguzie, sarcasmi, insulti che poi scivolando lentamente dalle palpebre, come magma sulle pendici arroventate del vulcano? Una voragine, e però chiassosa e molesta, una continua friabile dissipazione di noi stessi, che conduce al buco nero in cui viene inghiottita la preziosa radianza dell’attimo, insieme alla lunga catena del significare.

Il suggerimento di non nutrire l'agente segreto dal gran regno di Zizzania  – don’t feed the troll! – diventa dunque la messa in guardia da un meccanismo automatico quanto sterile, sempre in agguato e sempre puntualmente verificato. Già che il mezzo, in questo caso, è realmente il messaggio. E’ il messaggio consiste nello smisurato appetito del troll.

Provo a darne un esempio recente, copiando – se non altro come memento personale a non ricascarci – una discussione su Facebook, che mi vede nell'incauto ruolo di  coprotagonista.

1) Premessa. 

Ricevo un messaggio dalla brava attrice Alessandra G. Non ci conosciamo personalmente, non abbiamo insomma mai incrociato sguardi e bicchieri in quel gran carrozzone che chiamiamo vita vera (come se esistesse una "vita falsa", e non fosse invece solo una diversa e più vigile forma d'apparenza...), non ci conosciamo ma fa parte dei miei virgolettati "amici" su Fb. Il messaggio così recita:

Alessandra G. ti ha invitato a cliccare “Mi piace” sulla sua pagina Alessandra G.

2) Dopo averlo letto,

mi rimane una strana sensazione tra la lingua e il palato... E' una formulazione standard, d’accordo, non è la prima volta che ricevo comunicazioni di questo tipo. Ma ogni volta quella sensazione amarognola si riproduce, puntuale come il vecchio slogan di un dentifricio: "Ti spunta un fiore in bocca". Solo che, in questo caso, è un topo a spuntarmi in bocca. Trovo quindi che ci sia materia per qualche considerazione di carattere generale, che provo ad abbozzare in un breve intervento sul blog (questo). In seguito, sotto forma di web link, ripropongo l’intervento anche sulla bacheca di Alessandra G. Aggiungendo le seguenti parole:

ok Alessandra, ho cliccato "mi piace" sulla tua pagina fb. poi, però, di getto, ho scritto questa cosa qui, che ti posto forse con la stessa spregiudicata speranza di piacere a qualcuno, un giorno, forse, chissà...

3) In data 8 agosto alle ore 14.14, Alessandra G. così risponde:

Mi pare che la fai un po' drammatica. Io ho coltivato conoscenze di vari tipi e parlato eccetera. Quando poi si fa una pagina per far vedere le proprie o attività o passioni o quello che sia sia ci sono delle procedure un po' automatiche e sì burocratiche talvolta. Ma nessuno è obbligato a mettere "mi piace" su niente. Si presume che se già la persona si è interessata all'altra persona in sé e per sé possa essere interessata anche alle sue attività. Qua è solo una raccolta più concentrata specificatamente indirizzata mentre nel profilo generico si disperdono tante informazioni per via di post altrui o di commenti più generalisti. IO personalmente se conosco qualcuno in piscina con cui mi fa piacere parlare ci parlo già in piscina e magari se vi voglio uscire a bere un drink gli dò il numero di telefono e non certo il profilo fb (che al momento attuale considero né più né meno di un indirizzario o una vecchia rubrica telefonica con qualche immagine e info in più). Cosa uno sogni o speri quando chiede un contatto fb sta nella sua testa. Lecito sognare, sperare, immaginare ma prendiamo le cose per quello che sono.. Io i like li metto dove vedo qualcosa che veramente mi piace (a parte di default ad amici stretti che se no che amici siamo). Se non mi piace non li metto. Qua è un luogo di scambio di informazioni, non di amici per la pelle i quali non hanno bisogno di fb (o twitter o pinterest o quel che sia) per parlarti, vederti eccetera. Non vedo di cosa bisognerebbe rimanere male. Anche con i vecchi metodi si creavano alcuni contatti chepoi non si sviluppavano mentre altri sì. Sta nella logica delle cose

4) Replica di Guido Hauser, 23 ore fa:

Alessandra, ringraziandoti per l’attenzione, ti rispondo con un piccolo ritardo, di cui mi scuso. e dunque: io non penso (e non ho scritto nell'intervento sul mio blog, che riscriverei parola per parola) che ci sia qualcosa di male nel richiedere il gradimento ad "amici" e conoscenti su facebook. piuttosto qualcosa di strano, ecco, di stonato; ho usato forse anche il termine “volgare”, che continua ad apparirmi appropriato. ma soprattutto non penso (e non ho scritto) nulla di male o di malevolo su di te, limitando il mio sguardo a una pratica a cui hai evidentemente aderito senza farti troppe domande, come si aderisce a una forma di comunicazione virale, potremmo ormai definirlo un galateo. il fatto è che a me interessano proprio i galatei, la comunicazione quando si fa automatica, meccanica e dunque tanto più carica di significato. in questo modo, infatti, è il significato a parlarci, e trascendendo la voce che dice io è “lui” a diventare il vero soggetto del discorso. per usare un tono vagamente pomposo e fingere di conoscere il tedesco, potremmo definirlo l’eco dello “zeitgeist”, quello spiritello beffardo che trova sempre il modo di fare breccia, tanto più quando abbassiamo la guardia vigile dell’attenzione. lo spirito dei tempi si rivelerà allora tanto più facilmente (e visibilmente) proprio su internet, tra le pieghe di forum e social network, di cui facebook rappresenta il peso massimo. ma dal momento in cui, per provare a parlare dell’universale ho tirato in ballo il particolare, e guarda a caso quel particolare era rappresentato proprio dal tuo invito a esprimere il gradimento alla tua pagina fb, provo a riformularti la domanda iniziale. e però da una diversa prospettiva: quella della immaginazione. immaginiamo dunque, non ci vuol molto, che molti uomini già ti abbiano rivolto la più disarmata (ma anche interessata) della dichiarazioni, dicendoti con più o meno giri di parole: “Alessandra, mi piaci.” ma immagino anche che non sia mai successo che tu sia andata da un uomo, gli abbia tirato la giacchetta, per richiamarne l’attenzione, chiedendogli infine non se tu piacessi a lui (anche questo, in fondo, è umano) ma di affermarlo semplicemente, e ciò indipendentemente dal grado di verità dell’affermazione, che in questo modo finisce con l’essere implicita, scontata e triste come la sottiletta distesa dentro al toast. prova dunque a immaginare anche questa seconda scena: Alessandra che va da un uomo, mettiamo per comodità che sia sempre il sottoscritto, e poi gli domandi candidamente: “scusa signor guido hauser, puoi dire, anzi scrivere, così che lo sappia il mondo intero, che io ti piaccio? grazie tante e arrivederci”. lo senti come è strana e stonata questa situazione immaginaria, com’è “volgare”. e perché allora non dovremmo trovare strano e stonato (e volgare) anche il suo equivalente su fb, con l'assurda pratica di mendicare il gradimento - quasi fosse un voto alle elezioni politiche - ad amici e conoscenti. certo, la risposta è quella che già ci siamo dati all'inizio: perché lo fanno tutti. come quelli che ti rispondono che ci si sarà pure una ragione, se milioni di mosche mangiano merda. e così l'ultima domanda che ti faccio e poi, giuro, non rompo più le scatole, diventa: ma sei proprio sicura, Alessandra, di essere una mosca...?

5) Alberto L., 22 ore fa, alza il pollice e poi aggiunge:

cuiapa un mi piace...

6) Alessandra G., 4 ore fa: 

c'è un errore nella premessa di fondo. IO non chiedo a un uomo (perché lo chiedo anche alle donne) se gli piaccio in quanto io se gli piaccio come persona come se dovesse dire a tutti che p interessato e vuole uscire con me. Io gli chiedo (e se vedi la pagina si capisce) se gli piacciono le cose che faccio e cioè la recitazione e gli scritti. Non ho istituito una pagina di rimorchi. Se parti da questo presupposto vedi che tutte le tue considerazioni cadono. Non vado oltre per non essere inutilmente prolissa quanto te.

7) Guido Hauser, 1 ora fa:

Alessandra, io sono stato prolisso per timore di essere frainteso, cosa che infatti è puntualmente accaduta. il dizionario italiano contempla una parola, una sola, piccola piccola, si scrive e pronuncia così: "paragone". ecco, il mio era un paragone, un paragone soltanto, neppure tanto complicato. prendo comunque atto che tu non vedi alcuna relazione significativa tra chiedere, attenzione, NON di uscire con te (di "rimorchiare"), ma di affermare pubblicamente un piacere, che nel caso del paragone era per la persona, mentre nella fattispecie per la sua evidenza sociale. si tratta cioè di due forme nemmeno troppo diverse di “questua estetica” – dove il paragone non sta dunque nella forma, ma nel sostanziale accattonaggio di quel bene prezioso che è l’insindacabilità del gusto. ti ricordo comunque – ci sta pure il caso che tu non lo sappia – che quando tu invii su fb ciò che hai chiamato una richiesta a valutare “se gli piacciono le cose che faccio e cioè la recitazione e gli scritti”, in realtà la formulazione linguistica è ben diversa, ossia la seguente: “Alessandra G. ti ha invitato a cliccare “Mi piace” sulla sua pagina Alessandra G.”. e se a te potrà pure sembrare un garbato invito a conoscere e discriminare, per il resto del mondo si chiama marketing. ossia il modo in cui i moderni hanno deciso di chiamare gli impiccioni e le varie rotture di cazzo… (aggiungo che questa risposta è pubblica e all’interno di uno spazio pubblico di discussione. diversamente, sarebbero in effetti bastate tre parole: “buon per te...”)

8) Conclusione.

Non so se Alessandra G. risponderà mai alle mie ultime parole, sgorgate direttamente dalla gola del troll. Ma già da questo brevissimo scambio dovrebbe essere chiaro il modo di procedere dell’orchetto: per rapidi e quasi invisibili spostamenti semantici, impercettibile come la biscia tra le ninfee, ricollocando la ragione nei territori melmosi dell’emozione, da dove può infine balzare l'ottuso guizzo della polemica.

9) Cosa dunque ricavarne?

Nella circostanza io continuo a credere di aver avuto qualche buon argomento – penso insomma che la ragione stia dalla mia parte, come ogni bravo contendente. Ma se limitassi il pensiero al solo dettato verbale, davvero non avrei capito nulla di come funziona il web. Le caratteristiche del mezzo riducono infatti i meriti teorici, rendendo il tutto simile a un contesto che pure per certi versi gli rassomiglia: la televisione, con Sgarbi che si alza in piedi e comincia a salmodiare il suo mantra: "Capra capra capra..." Se anche avessi guadagnato la ragione astratta, concretamente, in quel diverso gioco linguistico a cui stiamo qui aderendo, ho quindi mancato qualcosa di ben più importante. Ma il guaio è che questo qualcosa non l’ha guadagnato neppure Alessandra, avendo insieme a me perso del tempo, oltre al doveroso controllo sulle parole e soprattutto un minimo di sacrosanta tranquillità.

10) Ma allora chi ha vinto?

Il troll, of course.   
   

mercoledì 7 agosto 2013

Mad Men, o su dove (eternamente) vada il fumo dei nostri arrosti



Ne ho viste solo tre puntate, scaricate da internet e su suggerimento della mia amica Alessandra, ancora convinta che prendersi cura dei libri sia cosa buona e giusta. Alessandra, al rientro o forse era l’andata verso la sua libreria al cuore del Flaminio, il telefono che prendeva a strappi, mi ha detto semplicemente: “Guardala, lo so che le serie televisive di norma ti scorrono addosso, finendo in un tombino zuppo di sbadigli e torpore. Ma guardala, siediti e versati se vuoi un po’ del tuo orrendo whisky irlandese, aggiungi piano il Ginger Ale – e poi guardala!”

Così dopo aver guardato Mad Men, solo tre puntate, d'accordo, ma già mi viene da rispondere, ad Alessandra e a tutti voi. Capolavoro! Tutto quello che siamo diventati e che sogniamo la notte ma soprattutto durante il giorno, gli occhi spalancati e accesi di una luce simile a quella lampeggiante del presepe, mentre la cometa indica un punto che si fa sempre più vicino, tutto ma proprio tutto si mostra come il lucidissimo esperimento genetico di una cricca di pubblicitari newyorkesi, primi anni sessanta o giù di lì. Un cocktail, se preferite.

Storia alchemica di apprendisti stregoni, dunque, non solo la nostalgica rievocazione televisiva delle scaramucce sentimentali di un gruppo di giovani uomini e donne, pantaloni e gonne che si accorciano, mocassini, sempre più smilze anche le cravatte. Si gonfiano però i portafogli e gli occhiali in celluloide scura. E poi drink, jazz, rock, locali fumosi e ancora e sempre sigarette e drink, in qualsiasi luogo e a qualsiasi strampalato orario, ma con un contegno esteriore non inferiore a quello lustro dei capelli. Grease, brillantina si chiamava, eredità di un tempo appena trascorso. Ecco la divisa di quei maghi che già avevano previsto tutto questo, dati cause e pretesto… Tutto. Previsto perché seminato.

Ad esempio La febbre del sabato sera, il riflusso, il piacere come dovere e la felicità come un’araldica, da appuntarsi alla giacchetta. Mentre ciò che scorre come documentata campitura cronologica – la grande rivoluzione sociale del decennio, Nixon contro Kennedy, la pillola abortiva vero motore occulto del movimento beat, con la fantasia al potere quale suo radioso e vuoto proclama – è in fondo solo un epifenomeno del loro progetto mercantile, una scossa di assestamento dopo il sisma principale. Previsti anche i mulini che diventano sempre più bianchi, mentre si fa nero il cielo sopra alle nostre teste.

Nella serie ideata da Matthew Weiner e messa in onda da AMC, a partire dal 19 luglio 2007, le figure sorgive della tarda modernità vengono quindi ritagliate e messe in forma (dialoghi perfetti, inquadrature avvolgenti dai colori saturi), lasciando però trasparire anche l’oscura intenzione che le sorregge. A coincidere certamente con il vantaggio di pochi (leggi capitalismo, affari, interesse), ma al contempo con uno schema che, più dei rapporti economici, riflette quelli indagati dall’antropologia culturale con le sue ritualità, se non addirittura da una metafisica non meno eccentrica che sarcastica; al di qua dell’oceano si sarebbe detto nichilista. 

Con quella lingua scattante ma ugualmente ricca di anse e tornanti, chiamiamolo pure un new order. Ordine di segni prima ancora che di senso, robusta architrave che sorregge l’intero edificio sociale – architettura, discorso, emozione e gesto che infinitamente ricapitola se stesso: fare comunità è questo e molto altro, e però assieme, accordati a un'unica lunghissima nota di fondo.

Ma non è facile scorgere l'intima coerenza tra le cose, specie quando, per paradosso, la porta della dispensa è aperta e la marmellata in tavola, con i segreti messi in piazza a sussurrare a Pulcinella. Perciò sarà per definizione uno straniero a rivelare l'enigma della Sfinge, già che l'abitudine oscura i sottilissimi fili che tramano la realtà, e in cui è facile inciampare. La narrazione pubblicitaria riassume magnificamente tale misteriosa costellazione di cose e sentimenti, persone e oggetti, dentifrici e denti che fanno male. E' il bimbo che scopre la nudità del re, ma poi lo riveste di abiti firmati Yves Saint Laurent.

In un tempo immediatamente anteriore, e per lunghi secoli, la stessa radianza significativa che ora si trova esposta in superficie e a portata di Visa, MasterCard, bancomat o qualsiasi altro surrogato del valore, purché infine si passi dalla cassa, poteva essere reperita solo a un livello di densa ed enigmatica concentrazione: ed era il Sacro, inteso come alfabeto simbolico che sottende a ogni comunità fortemente strutturata. E' stato dunque grazie ai “mad men”, alla pubblicità e ai nuovi stili di vita e di consumo che il sacro ha cominciato a cedere la maiuscola e fare breccia tra le cose, irraggiandole dell'aura che prende congedo dagli antichi mosaici bizantini, fa bye-bye alle pale d'altare e pervade le merci di nuovo vigore espressivo.

Potremmo figurarcela come una sorta di kenosis laica, che, all'afflosciarsi della sfera dell'universale incalzata dall'ago delle scienze e tecniche umane, corrisponde con una saturazione del particolare, in un movimento subito intuito e descritto da Roland Barthes. A latitudini assai più basse e confortevoli, ma non per questo meno acute, si muove però anche la bacchetta rabdomantica della grande arte, quella ad esempio di Lucio Battisti e del suo mentore Pasquale Panella. In una bellissima canzone del 1986 con cui davano inizio alla loro collaborazione, così infatti ci ammonivano:

“Sono le cose che pensano \ ed hanno di te sentimento…”

E cosa pensino le cose, di quale sentimento si facciano portatrici a partire dal laboratorio immaginale dei Cinquanta\Sessanta, ce lo dice ancora Mad Men. Non già perché le cose davvero abbiano un’anima, o peggio un cuore, ma perché i loro “sentimenti” vengono insufflati proprio dai pubblicitari, come un vecchio dio biblico che dona il soffio vitale alla sua creatura. O se preferite, come il ventriloquo spagnolo José Luis Moreno, quando a Domenica In dava vita e voce a un malizioso corvo di nome Rockfeller.

Ed è dunque con tale disposizione di pensiero, voce e sentimento che ancora oggi ci accostiamo alle cose del mondo, dopo esser stati da esse accostati, blanditi, alle brutte adescati e presi. Uno spettacolo che molto ricorda i traffici antichi tra uomini e dèi, culminanti nella promiscuità sessuale, nella ierogamia come compendio tra ordini spirituali differenti. La pubblicità e Mad Men che ne è il suo canto più alto e riassuntivo, sono dunque anche questo: il segno dell’estrema combutta tra uomini e dèi, tra organico e inorganico, alto e basso, cielo e terra. Ma anche il piacere voyeuristico di guardare a tutto ciò.

Già, perché le divinità vogliono essere rimirate, non solo corrisposte. E Coccolino, Apple, United Colors of Benetton e Mastrolindo, sono solo alcuni dei nomi che hanno preso i vecchi dèi dell’Olimpo greco. A cui continuiamo a offrire il fumo e a tenerci ben stretto l’arrosto.

martedì 6 agosto 2013

Mi piace, o sulla nuova burocrazia del gusto



Ma perché, di tanto in tanto, su Facebook, qualcuno di cui nemmeno pensavi che fosse scemo o bislacco – magari l’hai conosciuto in piscina, entrambi aggrappati alle piccole boe che separano le corsie, a prender fiato tra una vasca e l’altra; o se invece è una donna, le hai inviato la richiesta di “amicizia” dopo aver curiosato tra le foto presenti sul profilo, confidando in una teoria fisiognomica tutta tua – perché queste persone in cui pure riponevi una certa vaga fiducia, un giorno ti contattano (vedi il simbolo rosso della notifica, cosa avranno di bello da raccontarti… come la sorpresa dentro l’ovetto Kinder, se non proprio quello di Pasqua) ma scopri infine che era solo per dirti:

“Pinco Pallino ti ha invitato a cliccare “Mi piace” sulla sua pagina Pinco Pallino”.

E in piscina non li hai visti più, e altri visi, altrettanto fisiognomici, si sono nel frattempo accalcati al tuo magazzino dei sogni, quando da un'altra persona ricevi nuovamente quella comunicazione che non potrebbe essere più indiretta, più burocratica e nel fondo anche volgare, non rivolgendosi a te dalla latitudine simmetrica di uno sguardo ma utilizzando la sponda impersonale di Facebook. Eppure si trattava semplicemente di riscuotere quel minimo segno di consenso che è il becchime delle nostre vite, anche quando, sdegnosissimi, fingiamo di stare aggrappati al nostro trespolo.

Ma oltre al come, è il cosa che proprio non capisci, suggerendoti un gesto che dovrebbe essere il più umano, totalmente impregiudicato e cercando di indirizzare (sbrigativamente perfino: i pubblicitari ci mettono un po' di sforzo allusivo, almeno) il tuo bene forse più prezioso: il piacere, lo sporgersi spontaneo e curioso verso il mondo. Come la mamma quando voleva convincerti che la minestra è più buona delle patatine, vero che è buona la minestra, che ti piace, ancora un bel cucchiaione allora… Uguale uguale i nuovi "amici" di Facebook, che se si siedono alla tua tavola è solo per estorcerti una confessione, l'oscuro segreto del gusto: “Ti piaccio, vero che ti piaccio, guarda come sono bella, come sono ganzo, bravo, smart… E allora scrivilo per favore, urlalo al mondo intero: MI PIACEEEE!"

Simmetria, o sulla democrazia del tempo

C’è un innegabile vantaggio che si accompagna al trascorrere degli anni. Donne che in gioventù ci apparivano come inarrivabili muse – ed erano consce di esserlo, questo il guaio... – sembrano ora appena ruzzolate giù dal monte Parnaso, finendo, punf, con il sedere in mezzo ai rovi. Ma anche quelle a cui noi siamo piaciuti, perché pure questo è successo: piacere senza alcuno sforzo e intenzione, piacere come una bicicletta in discesa (solo che noi eravamo troppo occupati a guardare il panorama, per accorgercene), a quelle donne nostre coetanee ormai facciamo la stessa malinconica impressione: una Graziella d'oro purissimo accasciata tra vecchi elettrodomestici nel garage, le ruote sgonfie, il carter arrugginito, tra le pieghe del sellino logoro puoi vedere la gommapiuma, mentre sguscia fuori una molla se solo provi a montarci sopra. C'è un innegabile vantaggio, sì, che si nasconde tra calici mezzi vuoti con all'orlo le tracce squillanti del rossetto, mani che si sfiorano pietose prima di scattare su quel che rimane del banchetto. E' la democrazia del tempo: simmetria finalmente ripristinata!

lunedì 5 agosto 2013

"O mia munda mundis", ovvero come si semina si raccoglie...



Nel pomeriggio ho dato un’occhiata al programma di rilevamento statistico del mio blog, ShinyStat. Ho quindi verificato le chiavi di accesso con cui, nell’ultimo mese, attraverso i motori di ricerca è stato raggiunto questo sito. Insomma, la frasetta che scriviamo dentro la barra di Google, prima di dare l’ok. Si fanno delle interessanti scoperte, lo consiglio a tutti quelli che hanno la convinzione che le proprie parole servano a redimere il mondo, o perlomeno a renderlo un poco meno confuso. Ad esempio io ho finalmente compreso ciò che i miei affezionati lettori – inchino e ringraziamenti di prammatica, ci mancherebbe – vengono qui a cercare. E cioè, nell’ordine, dal primo agosto a oggi:

Chiave cercata
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www.fontanaconsoldino,blogspot.com
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rosa fumetto
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baricco opinioni
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donne nude dove gli si vedono le tette senza vestiti
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donne senza niente addosso
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film porno estremo gay
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filosofia sulla cacca
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fontana con soldino
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fontana medusa di gericault
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fontane da esterno
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foto nuda rosa fumetto
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girello neonati vecchi modelli foto
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lavandino con colonna
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luna stilizzata
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marina occhiena
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nonno porno
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o mia munda mundis
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occhiali cèbè anni 70' 80'
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rosa fumetto wikipedia
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scarpa con suola altissima uomo
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scarpe scoglio anni ottanta
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soldino fontana
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vecchioni famiglia
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Totale
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