Visualizzazione post con etichetta giornalismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta giornalismo. Mostra tutti i post

mercoledì 3 luglio 2024

Cameriere di Catanzaro, o sull'immaginazione e l'Ombra

L'associazione tra Ilaria Salis e una cameriera di Catanzaro possiede una volontà denigratoria, almeno quando a pronunciare la frase è Vittorio Feltri alla Zanzara. Anche perché ha poi aggiunto: "La cosa più bassa che si possa immaginare." Ma un conto è la volontà un conto la sostanza. Vediamo.

Per cominciare, non sorprende l'antimeridionalismo estetico del giornalista di Bergamo – è una forma già nota di bullismo al taleggio – ma il fatto che in molti vi abbiano abboccato, reagendo con un' indignazione decisamente sproporzionata. Il paragone non è infatti in sé squalificante: io non frequento spesso i ristoranti di Catanzaro, ma, a differenza sua, immagino le cameriere di quel luogo elegantissime.

Il punto è tutto qui. Non solo la bellezza sta negli occhi di chi guarda, ma anche l'immaginazione sta nella privata sartoria dove si ritagliano figure dal tessuto della fantasia. Se deleghiamo Feltri a immaginare per noi, non possiamo poi lamentarci che immagini male, addirittura offenda l'intero Meridione, con il sindaco di Catanzaro che l'ha subito denunciato.

Fossi stato al suo posto avrei replicato: È vero, Ilaria Salis era vestita molto bene, proprio come una cameriera di Catanzaro. Ma così non è stato e se ne deducono due possibilità:

1) anche lui pensava che l'abito della Salis fosse brutto, e allora lo dica chiaramente. In fondo se, da quest'anno, vengono rivestiti gli scrittori da stilisti di fama al Premio Strega, tutto lascia intendere che tra poco sarà il turno dei parlamentari della Repubblica... 

2) ha agito al suo interno ciò che Jung chiama Ombra, e da qualche parte della mente del sindaco c'è una vocina a sussurrare che, in effetti, Vittorio Feltri ci ha sgamato, le cameriere di Bergamo sono più eleganti di quelle di Catanzaro. Possiamo anche chiamarlo complesso di inferiorità.

sabato 12 agosto 2023

Imbecille, o sul linguaggio politicamente corretto III

Christian Raimo, uno degli scrittori più attivi e popolari sui social, ha di recente condiviso attraverso Facebook un intervento di Vanessa Roghi, dove la storica di Orbetello criticava (come noi tutti da giorni) l'infelicissimo articolo di Concita De Gregorio su Repubblica, in cui per stigmatizzare comportamenti incivili gli artefici venivano accostati a cerebrolesi cui pulire la bocca. Al suo attivo ha già 234 like, 62 commenti e 35 condivisioni, che a loro volta macinano like come chilometri un camionista. Raimo non sbaglia un colpo.

Premetto che non ho nessuna intenzione di polemizzare con Roghi e Raimo, ma ho trovato curioso il seguente passaggio nel testo:

"...abbiamo imparato a convivere con le tante diversità e la scuola e la società sono diventate un posto migliore e nessuno si è più sognato di dare del mongoloide a qualcuno per dirgli che è un imbecille. Gli si dice imbecille e stop."

Si procede poi con argomenti in buona parte condivisibili, ma torniamo al passo citato. Analizziamolo. Mongoloide è un termine altamente offensivo, così venivano definite le persone con sindrome down. La ragione è nota e sta nella somiglianza con gli abitanti della Mongolia, in particolare la forma degli zigomi, pronunciata e tonda, e il taglio orientale degli occhi.

C'è qualcosa di sconveniente nel provenire dalla Mongolia e avere questi tratti somatici? Assolutamente no.

Imbecille deriva invece dal latino imbecillis, variante del più comune imbecillus con significato di debole fisicamente o mentalmente.

C'è qualcosa di sconveniente nell'essere deboli fisicamente o mentalmente? Direi proprio di sì.

Se ne ricava che mongoloide è un eufemismo, ossia una formula attenuativa per indicare una deviazione da ciò che ora viene chiamato abilismo e un tempo normalità, mentre con imbecille la lingua viene usata in forma diretta, denotativa.

Se volessimo essere pignoli, il ragionamento di Vanessa Roghi andrebbe invertito di segno: per rispetto nei confronti di tutte le persone fisicamente o mentalmente deboli dovremmo stralciare il termine imbecille e ripristinare mongoloide, secondo il principio comunemente accettato per cui, quando parliamo di un male, è meglio alludere che dichiarare, tanto da trasformare un cieco in non vedente e un eunuco in diversamente sessuato.

Eppure qualcosa nelle viscere mi porta a resistere alla logica, affidandomi alle consuetudini d'uso della lingua. Non darei così nemmeno io del mongoloide a chi mi schizza una bustina di ketchup, come feci io, oltre vent'anni fa, sull'abito nuovo del mio sconosciuto vicino di tavolo in un fast food, ma opterei per imbecille, che è appunto quanto egli esclamò. Con piena ragione, tocca aggiungere.

Se dunque io sono un imbecille e non un mongoloide è perché il primo termine mostra meno, è più tecnico. E per un processo noto ai linguisti sono proprio le parole dal significato più stringente che da esso possono congedarsi, in una deriva semantica che prende il nome di connotatività.

In altre parole, ciò che in origine denotava ora connota, e viceversa. Sembra un paradosso ma è un'inversione più frequente di quanto si possa credere, già che i linguaggi tecnici sono appannaggio degli specialisti e di latino e greco ce ne stiamo scordando, con eccezione del liceo classico a scuola non vengono più insegnati, mentre il volto tondeggiante che proviene da una steppa asiatica è più difficile da obliare.

Ne ricaviamo che il linguaggio supera in complessità la virtù che per suo tramite viene proclama, di cui il politically correct rappresenta l'estrema semplificazione, e non è infrequente che siano proprio i termini più distanti dal loro significato letterale a cogliere maggiormente nel segno, facendo male.

Quindi benissimo al tabù verso l'orrenda espressione mongoloide, a fronte della libera circolazione di imbecille, cretino, idiota. Tutte gravi patologie mentali che occhio non vede e cuor non duole, mentre bocca pronuncia. Ma sapendo che stiamo difendendo noi stessi, le nostre emozioni, rappresentazioni. Non gli altri, i deboli nel corpo o nella mente.

lunedì 7 agosto 2023

Lei è un cretino, si informi!

A integrazione di quanto ho già scritto sull'affaire Concita De Gregorio, sento di avere ancora un sassolino nella scarpa, e lo condivido nello spirito un po' vigliacchetto del mal comune mezzo gaudio. Nella discussione, particolarmente accesa, io distinguerei infatti tra un piano linguistico e uno etico.

Nel secondo caso lo svarione di De Gregorio c'è obiettivamente stato, per quanto involontario. Alcuni passaggi del suo testo sono davvero disturbanti. Ma l'aspetto linguistico si fa più ambiguo e sdrucciolevole, rendendo per certo verso esemplare il suo articolo. Aggettivo che non utilizzo, naturalmente, in senso elogiativo, ma perché se ne ricorderanno per anni nelle scuole di giornalismo, in cui verrà utilizzato come caso di studio.

Tradotto in forma interrogativa e tecnica: quand'è che un termine (o un costrutto verbale) perde la sua funzione denotativa e ne assume una connotativa?

Con cretino non c'è dubbio che sia avvenuta una sorta di diluizione, quasi tutti ci siamo dimenticati che si trattava in origine di una grave forma di handicap cognitivo, al punto che alcuni dizionari ancora riportano: "cretino, uomo gozzuto della Valtellina"; patologia probabilmente indotta da uno scarso apporto di iodio in questi luoghi, dove ho avuto la ventura di nascere.

Eppure, negli stessi anni in cui i dizionari venivano stampati, Totò poteva tranquillamente dire "lei è un cretino, si informi!" Il termine è qui chiaramente connotativo, di più, estensivo e ormai quasi indipendente dal suo significato letterale.

Se però parli di cerebrolesi a cui pulire la bocca, ecco che ritorna la denotatività della sofferenza psichica, unita all'ideologia fasulla del ma no, scherzavo, "i cerebrolesi sono persone meravigliose".

Qual è dunque il confine tra denotatività e connotatività in ciò che scriviamo?

Una possibile provvisoria risposta sta nella distinzione tra lingua narrativa e comunicativa. Per paradosso, è proprio la scrittura narrativa che si approssima alla sostanza delle cose, secondo il proverbiale slogan, con cui aprono tutti i manuali di scrittura creativa, show, don't tell.

Se rileggiamo, per quanto malvolentieri, quanto pubblicato sulla pagina dei commenti di Repubblica, ci accorgiamo così che si trattava a tutti gli effetti di un racconto:

"Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca."

Ci sembra davvero di vedere la scena. Sembra di vederla a noi come ai genitori, parenti, amici di persone a cui quotidianamente viene pulita la bava dalla bocca perché non riescono a farlo da sole, o non ne hanno percezione. E utilizzare l'immagine come insulto è emotivamente intollerabile.

Ma ecco che torniamo al punto: l'immagine è intollerabile, non la parola. Le immagini, anche quando espresse verbalmente, scavano molto più delle parole, tanto da trovare facezie da politically correct tutte le menate sulla schwa o Presidente piuttosto che Presidentessa del Consiglio. Mentre nel leggere l'articolo siamo turbati, e ciò malgrado il riferimento metaforico è a persone "normali".

Forse perché qui abbiamo visto e là solamente udito?

Non so, è solo un'ipotesi. Ma il doppiamente maldestro esercizio narrativo di Concita De Gregorio ha se non altro il merito di aver posto il dilemma con chiarezza.

domenica 6 agosto 2023

Corsiva l'handicappato, elzevira il cerebroleso

Dell'ennesima polemica social sull'infelice articolo di Concita De Gregorio, ciò che trovo incomprensibile da entrambi i fronti  chi la critica e chi la insulta, già che la sua difesa è il proverbiale tertium non datur  è l'assenza di determinazione singolare.

De Gregorio si burla degli handicappati. Ebbene? De Gregorio, nelle sue pubbliche scuse, ora celebra gli handicappati, scrive che i "cerebrolesi sono persone meravigliose". Ebbene? 

Ebbene gli handicappati sono e non sono entrambe le cose, nel senso che l'handicap cognitivo, e anche quello fisico, esistono, e tanto vale nominarli senza eufemismi; evitando ovviamente di scadere nell'insulto implicito in certe vecchie odiose formule ("mon*oloidi").

Ma questa nominazione non può contenere alcun giudizio - neppure positivo -, già che l'handicap si offre al discorso pubblico solo come condizione universale di inciampo, non disposizione aggettivabile su una scala progressiva di biasimo/virtù. Quei "cerebrolesi meravigliosi", oggetto della pezza peggiore dello strappo, infatti ci sono certamente, ma ne esistono altri per cui il rispetto dovuto non si accompagna ad altro merito.

De Gregorio ha dunque sbagliato due volte.

Sbaglia però anche chi la prende alla lettera - la sua gaffe andrebbe contestualizzata, in fondo maldestramente cercava di stigmatizzare dei "normali" - ribaltando di segno le sue parole; operazione per altro già tentata da lei, come qui ricordato. Ma forse è più chiaro con un esempio.

Alle medie avevo un compagno di scuola handicappato. Il suo passatempo preferito era chiedere passaggi in motorino alle ragazze, fingendo di essere stato scordato dagli assistenti sociali. Una volta montato in sella, con una mano cingeva la vita della conducente e con l'altra cominciava a masturbarsi, venendole dopo qualche centinaia di metri sulla schiena.

Lo faceva perché era handicappato?

No, lo faceva perché era una grandissima testa di cazzo: egoista, meschino, paraculo con i professori e ricattatorio nella sua sventura, di cui nessuno di noi compagni si è mai sognato di rallegrarsi.

Per fortuna in classe c'era Bettina, handicappata pure lei; soffriva di sindrome down. In questo caso l'aggettivo ripescato da Concita De Gregorio calza alla perfezione: meravigliosa, sì.

Lo era nei gesti, nell'espressione a volte stentata ma sempre piena di garbo; in alcuni casi sapeva perfino essere preveggente, sembrava leggerti nel pensiero e anticipava le tue reazioni, per evitarti ogni attrito e imbarazzo. Meravigliosa, punto.

Preconizzava Dino Risi che "il razzismo sarà superato solo quando si potrà dire di un negro che è uno stronzo". Mentre Freak Antoni invitava a calpestare "il paralitico, molesta il paraplegico, danneggia lo psicotico, travolgi il catatonico..."

Il paralitico, attenzione, non i paralitici, il paraplegico, lo psicotico, il catatonico. Tutte terze persone singolari, in una canzone che è ovviamente una critica satirica alla retorica dei buoni falsi sentimenti.

La stessa che leggo ora a sostegno di TUTTI i cerebrolesi, da parte di chi non ha mai conosciuto (o più colpevolmente voluto conoscere) quello spara seghe a tradimento con cui andavo a scuola io.

mercoledì 4 gennaio 2023

A Vittorio Feltri e Lidia Ravera preferisco il cavolfiore


“La scrittrice Murgia non mi piace non per quello che dice o scrive ma perché è brutta come l’orco”. Lo scrive Vittorio Feltri sui social, venendo immediatamente – e giustamente – ripreso da migliaia di uomini e donne, soprattutto donne.

Tra di esse una tra le più pronte e frementi è Lidia Ravera, che inizia la sua invettiva con la precisazione: “Vittorio Feltri, a cui nessuno ha mai imputato di essere vecchio e racchio, a prescindere dalle cose che dice o scrive, benché sia nato nel 1943 e non brilli per avvenenza.” Più avanti aggiunge che “fa paura la mancanza di rispetto per il pensiero quando a pensare è una donna. Fa paura che invece di confutare si insulti. Fa paura che l’insulto sia sempre sei brutta. O sei vecchia. O sei vecchia e brutta. Come se le donne fossero innanzitutto graziosi trastulli per sua maestà il maschio, con cui si può essere in accordo o in disaccordo, ma mai ti verrebbe in mente di inchiodarlo al suo aspetto.”

Devo dire che condivido quasi tutto ciò che qui scrive Lidia Ravera; Feltri, nella circostanza, è davvero indifendibile. Eppure c’è quel quasi, una sfumatura, un niente, su cui sto rimuginando da un po’. Si tratta dell’avverbio di frequenza sempre: fa paura che l'insulto sia SEMPRE sei brutta. O sei vecchia. Ma siamo proprio sicuri?

Io penso, al contrario, che viviamo un'epoca storica mai così cauta nell'esprimere giudizi fisici sulle donne, oppure giudizi etnici, critiche su culture minoritarie come quella degli indiani Cicorioni, per cui in Ecce Bombo Nanni Moretti partecipava a virtuosi sit-in; insomma, quello che ora viene chiamiamo politically correct, e un tempo buona educazione.

Ci sarebbe molto da dire al riguardo – io ci vedo aspetti sia positivi sia negativi; gli ultimi, e come sempre accade, nei suoi estremismi – ma la vicenda mi sembra che possa essere meglio inquadrata al singolare: Vittorio Feltri è un gran cafone, non è la prima volta che si lascia andare a commenti del genere, pensando forse di essere anticonformista. Invece è solo un pirla. Ma ricordarne l'età accompagnata da una dichiarazione di scarsa avvenenza, mi ricorda una formula infantile – "specchio riflesso" si diceva all’amico chi ti canzonava – per restituire pan per focaccia.

Una replica al peggiore maschilismo, ma, anche, in questo caso, del peggiore maschilismo. Di segno solo invertito. E nemmeno Lidia Ravera è nuova a questa inversione matematica, almeno se vogliamo dare credito alla quarta di copertina di un suo recente pamphlet: “Avete mai provato a guardare gli uomini come se fossero donne? A valutarli in base alla loro avvenenza, all'età, alla freschezza, al sex appeal? Lidia Ravera l'ha fatto, tre volte alla settimana, in novecento battute, dal marzo del 2009, sul quotidiano L'Unità. Ha applicato uno sguardo implacabilmente maschile ai protagonisti della vita politica italiana.”

Ebbene, se questo è il gioco, perché stupirsi? In fondo è vero che Michela Murgia è meno bella di, mettiamo, Belen Rodriguez, così come Feltri sfigura al cospetto di Brad Pitt. E adesso? Chi ha vinto? Come possiamo andare avanti in quella che Leopardi chiamava conversazione, e altro non è che il medesimo umano procedere nel verso che conduce alla morte: uomini, donne, animali? Dobbiamo forse incendiare le scoregge, vedere chi, tra i generi sessuali e post sessuali, le spara più forti e tonanti?

O magari si può fare un passo indietro e dire che Vittorio Feltri è un maschio, o se si preferisce e per maggiore completezza un giornalista maschio. Non tutti i giornalisti e tutti i maschi, o, peggio ancora, il soggetto che fa da antonomasia al suo genere e alla sua professione. Solo quel maschio giornalista lì. E poco importa se sia bello, brutto, vecchio o se abbia sex appeal, una formula linguistica che si usava cinquant’anni fa.

Ugualmente, mi vergogno perfino a doverlo aggiungere, l'ovvio andrebbe sanzionato, la singolarità a cui dà voce Feltri non deve permettersi di commentare pubblicamente l’aspetto di Michela Murgia; che lo faccia dal parrucchiere se proprio ne sente l’esigenza, in quella che è considerata un’enclave protetta dalla correttezza politica, dove il pettegolezzo estetico può ancora allungare i suoi spilli.n

Un giornalista maschio che ha insultato una femmina prima ancora che una scrittrice, anche lei portatrice di virtù e vizi del tutto particolari. La situazione è questa e ha certamente riflessi collettivi, politici. Ma lasciamo perdere la dimensione astratta che vedrebbe contrapposti maschi a femmine. Già che altri maschi, la maggior parte, giornalisti o meno, si esprime diversamente.

 

domenica 14 marzo 2021

Si muore un po' per poter vivere

 


Baricco ha scritto un bell'articolo su la Repubblica del 9 marzo. Si fa sempre un torto a riassumere gli articoli di Baricco: oltre a raccontarci delle cose ci racconta del suo saperle raccontare bene; che è diverso dal raccontarle bene e basta, bisogna accorgersi di come le parole vengono scelte e concatenate, e poi pensare: capperi, ma come scrive bene Baricco!

Qualità che gli riconosco di buon grado. Sono proprio le cose che dice e non la sua capacità di narratore, a lasciarmi perplesso. Ad esempio il fatto che, “per timore di morire, abbiamo rinunciato a vivere”.

In parte è vero naturalmente, ma la frase andrebbe completata: per timore di morire ma soprattutto di causare la morte (contagiando gli altri, magari un anziano familiare) abbiamo rinunciato a fare ciò che facevamo prima, e che solo per convenzione Baricco fa coincidere con la vita.

Il primo si chiama principio del piacere e il secondo principio di responsabilità, di cui ci parla Max Weber distinguendolo dallo slancio volontaristico al bene, da lui denominato etica dell’intenzione. Stiamo dalla parti di Sant Agostino, per intenderci.

Andrebbe quindi aggiunto che l'equivalenza tra morte (da Covid) e non vita (per prevenire il Covid) possiede qualcosa di forzoso. Dalla prima si può infatti resuscitare solo con un atto di fede, mentre dalla seconda con uno dei tanti vaccini ormai approvati, bisogna solo pazientare un altro po'.

Ma ciò che nelle parole di Baricco ha davvero smosso i miei pensieri – e qui parlo veramente solo a titolo personale – è l'idea che prima vivessimo davvero, mentre ora non lo facciamo più.

Per convincerci cita degli esempi, ne riporto alcuni: dividere il pane; abbracciarsi; incontrare gli artisti capaci di generare emozione e bellezza; ascoltare musica raffinatissima; andare lontano; urlare; insegnare girando tra i banchi; limonare con qualcuno per la prima volta; andare dai nonni; suonare uno strumento per un pubblico; ballare; fare una valigia; sposarsi; giocare a bowling; scambiarsi il segno di pace a Messa; tenere la mano a qualcuno che muore.

Non so voi, ma io non faccio più nessuna di queste cose da anni, e alcune non le ho fatte mai. Non era insomma, la mia vita, costituita da quei gesti che Baricco fa coincidere con la vita stessa – ne sono per lui il correlativo universale –, ma di altri che lui omette non so se per distrazione o perché neppure li concepisce, non concependo esistenze in cui la colonna sonora sia composta da musica meno che raffinatissima.

Gesti come allungare la mano verso le olivette dell’happy hour; fare il pieno di gpl in un piazzale sterrato dove gironzola un vecchio cane semi cieco; chiedere al cassiere della banca a cosa si riferisce quella voce non prevista tra i passivi, e a una ragazza ucraina seminuda che batte i denti nel gelo notturno della statale dei Giovi (finestrino che si abbassa lentamente) quanto vuole per quella cosa lì, no non quell’altra più faticosa, quella per cui deve fare tutto lei, a te basta slacciare la fibbia della cintura che ti ha regalato la moglie per Natale.

O ancora: ritirare i pacchi Amazon da corrieri sempre più trafelati; fermarsi di fronte alle vetrine delle agenzie immobiliari e scorrere gli annunci di case “imperdibili” – lago di Como, villa prestigiosa con torretta e posto barca! – che non avrai mai i soldi per acquistare; guardare vecchi incontri di pugilato su YouTube e le sborrate sulle tette su YouPorn; sfregare con una moneta le caselle dorate del Gratta e Vinci; consultare l’urologo; andare in un centro commerciale con la famiglia il sabato pomeriggio, confondendosi con migliaia di altre famiglie che sfilano in silenzio, un cono di gelato in mano da cui cola verde il pistacchio, cola sulle dita e poi raggiunge il polsino della camicia; lavare l’auto il giorno successivo in giardino, mi raccomando (dici a tuo figlio) anche i cerchioni in lega leggera.

Perché è vita anche questa, Baricco, e non solo musica raffinatissima, artisti capaci di suscitare emozione e bellezza, o limonare una donna, un uomo, un cavolo di qualcuno purché sia la prima volta.

E così questo lungo anno in cui non ho vissuto per non morire, acquista, almeno per me e per chi mi rassomiglia, anche un valore diverso. Potremmo dirla una sorta di ricapitolazione, consentita da quella distanza dalle cose che affina e focalizza lo sguardo, e da cui infine si può vedere, vedersi ed eventualmente cambiare.

In fondo, quando gli alchimisti rinascimentali parlavano della fase della nigredo, in cui il vecchio mondo si consuma nelle tenebre per lasciare spazio all’oro successivo, esprimevano, con un linguaggio evocativo e allegorico, un concetto molto simile al ben più volgare termine di lockdown. Ma anche i quaranta giorni in cui Gesù si ritira nel deserto con la sola compagnia delle più infide tentazioni (ad esempio quella di uscire di casa per andare a fare jogging senza mascherina), furono il suo personale lockdown.

Eh sì, di questo tempo di clausura ne avevo proprio bisogno, e me lo ricorderò con gratitudine. Come in quella canzone di Caterina Caselli, dove, da principio, si vedono le nuvole lassù, ma sempre più lontane, fino a lasciare spazio a torrenti di acqua chiara e vallate col sole. Perché si deve morire, almeno un poco e senza lagnarsi troppo come fa Baricco. Si muore un po’ per poter vivere.

domenica 18 ottobre 2020

Giornalismo

 


La Ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina continua a insistere sul fatto che “le scuole sono sicure”, aggiungendo: “la Campania deve ripensarci”.

L’affermazione non so se sconti una rielaborazione sintetica da parte della stampa, ma detta così mi sembra ambigua. Una sua versione estesa mi appare più corretta: l'apertura degli istituti scolastici non genera nuovi contagi da Covid-19, e, quindi, il Presidente della Regione Campania De Luca dovrebbe ritirare l'ordinanza che prevede la sospensione (non la chiusura) della didattica in presenza, con contestuale implementazione di quella a distanza.

Molto più chiaro, no? Peccato sia anche falso.

Da studi documentati e documentabili del Comitato Tecnico Scientifico, risulta che la didattica in presenza incrementi l’indice di trasmissione del contagio, il famigerato RT0, nella misura di 0,4 punti.

Un valore significativo ma non drammatico, generato – ma è solo una mia supposizione – più dagli spostamenti per raggiungere gli edifici scolastici che non dalla permanenza sui banchi. Rimane in ogni caso il dato: 0,4. Che viene incorporato nel valore di 1,45 raggiunto a oggi sul territorio italiano, con leggere variazioni su scala regionale; ma non più marcate come a marzo.

Gli epidemiologi spiegano però che la cifra, se non verranno attuate misure immediate di contenimento, è destinata crescere, fino a raggiungere un RT0 di 1,75 nel corso delle prossime due settimane. Che tradotto in posti letto nelle terapie intensive e morti: una sconfitta!

La mia critica non è dunque rivolta solo alla Ministra Azzolina – in fondo, come tutti i pentastellati, ha una cultura scientifica approssimativa, se non una cultura approssimativa tout court –, ma ai giornalisti che la intervistano.

Negli Stati Uniti, un’affermazione palesemente falsa come la sua avrebbe ottenuto l’immediata risposta del giornalista: “Mi scusi, ma ciò che dice non corrisponde a verità. La didattica in presenza contribuisce per un valore di 0,4 all’indice di contagio. Se vuole mantenere le scuole aperte, mi spieghi allora come intende arginarlo, già che l’RT0 va al più presto riportato sotto il valore 1.”

L’assenza di capacità interlocutoria (ovviamente puntuale e motivata) da parte della stampa è una vecchia tara del nostro Paese. Che purtroppo contribuisce alla crisi sanitaria, economica e umana che stiamo vivendo.

giovedì 29 novembre 2018

Tutta colpa di mucche e lattai, o sullo squallore delle polemiche post mortem


Vediamo, se ho capito bene: uno stupro che viene simulato, non agito, SIMULATO dentro un film dopo che la stessa scena era stata presentata all’attrice in sceneggiatura e da lei evidentemente accolta, diviene un intollerabile affronto alla dignità, non solo, della donna prima che dell'attrice in questione, ma di tutte le donne del mondo, anzi anche di quelle fuori dal mondo o come si dice dell’eterno femminino, con il regista, appena scomparso, visto quale emblema di maschilismo per avere aggiunto a sua insaputa – a insaputa dell’attrice, non dell’attore che interpreta l'amante stupratore, a sua volta e per questo mostrificato – un dettaglio a lei ignoto; e per inciso l’attrice (a posteriori) avrebbe potuto rifiutare il girato e pretendere che la scena venisse nuovamente ripetuta, in totale corrispondenza al copione sottoscritto.
Questo è ciò che ho capito leggendo i commenti internazionali sulla morte di Bernardo Bertolucci, la cui onda di acredine e appassionate difese a oltranza, come spesso accade, fa risacca sulla spiaggia di Facebook, dove va a cumulare assieme a ogni altra deiezione della blatera mondana. O detta in altre parole, e sempre se ho capito bene, a essere oscena non è la sequenza di totale finzione e neppure l'espediente registico più furbetto che proditorio (tutt'al più possiamo rubricarlo alla voce goliardia, certamente grossolana, e per favore non tiratemi in ballo Stanislavskij e il suo famigerato Metodo), ma quella sostanza ricavata dalla parte grassa del latte, separata dal latticello tramite un processo di inversione di fase, derivante dalla panna ed utilizzata per rendere più scabrosa e memorabile la scena; senza però riverlarlo all'attrice che si chiamava Maria Schneider e un poco ci rimase male, così forse accentuando, come sperato da regista e attore protagonista, Marlon Brando, quella sua espressione bellissima ma sempre un poco dolente, che ne segnò il destino tragico anche fuori dal set. Il risultato del procedimento è un'emulsione, principalmente di acqua e grassi, in cui sono disciolti zuccheri e proteine, nella cui fase fluida cristallizzano solo in parte.
Ok ok, lo dico facile: l’oscenità sta nel burro, e che cavolo, non potevano dirlo subito! Si vergognino dunque e abbassino il capo tutti i lattai, ma anche le mucche che, oltre a essere artefici della materia prima, figurano quali probabili complici della malefatta, e secondo me hanno preso del fieno sotto banco per tacere...

giovedì 7 luglio 2016

Qui tutto bene, bellissimo, c'è il sole, o sulla differenza tra giornalismo e letteratura



Poche ore prima dell’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi a calci e pugni e forse anche con una spranga, divelta dalla segnaletica stradale di via XX Settembre a Fermo, intravedo un messaggio sul WhatsApp di un mio familiare, che mi aveva passato il telefono per risolvere un problema tecnico: “Qui tutto bene, bellissimo, c’è il sole. Ma è pieno di extracomunita...”  Non leggo la prosecuzione, ma non è difficile da intuire.

Emmanuel Chidi Namdi era più che un extracomunitario, era nigeriano, dunque nero, dunque “negher”, e aveva semplicemente difeso la sua nuova compagna Chinyery, chiamata “scimmia” da due ultrà della squadra locale. L'uomo e la donna erano in Italia da meno di un anno, dopo che il gruppo terroristico di Boko Haram aveva ucciso i genitori e la figlia di lui nell'attacco a una chiesa cattolica. Prima di raggiungere Palermo erano già stati picchiati e derubati in Libia. 

Ora io penso che sul fatto, e sul suo giudizio implicito, ci sia poco d’aggiungere. Ma forse uno scrittore non dovrebbe arrestare lo sguardo all'involucro dei fatti, ma spingerlo verso gli invisibili nodi che ci legano a cose, persone, situazioni e premesse ideali, la cui somma finale sta in una parolina tanto piccola quanto vaga, su cui tutti saremmo però disposti a scommettere. La parola “io”. 

Un io che ci appare oggettivo, solido, perfino reale quando tutti i nodi sono allineati. In questo caso non serve la letteratura, basta il giornalismo: una narrazione coerente in cui è semplice riconoscere le vittime dai carnefici, i buoni dai cattivi, come nella circostanza attuale. Marco Travaglio, per intenderci. Ma se nella tela appare una smagliatura, un filo che balza fuori dalla trama, allora è segno che c’è un conflitto, una doppia lealtà da smascherare. Ed è qui, che inizia finalmente la letteratura.

Ecco, io somiglio allora a un personaggio letterario che ama moltissimo quel suo familiare, lo ama pur sapendolo in sintonia con i messaggi che riceve, e che forse ogni tanto invia - “bene anche qui, se non fosse per questi extracomunita…” -, ma allo stesso tempo sta piangendo l’ennesima, innocente vittima di Caino. Perchè lo spazio della letteratura è l'ambiguità, il paradosso. 

Domanda. Invece di risolverci ogni volta per Antigone o per Creonte, con la stolida cocciuta convinzione di un ultrà della Fermana nel suo branco, non dovremmo, ogni tanto, domandarci anche come abbiamo potuto tenere dentro di noi sia Antigone sia Creonte, e come continuiamo a farlo, ci viene perfino naturale, come quando con l'autoradio passiamo dall'Isola dei morti di Rachmaninoff a Canzuncella degli Alunni del sole? E però antipatico, se qualcuno ce lo fa notare. 

Credo che sia questo il motivo per cui la letteratura sarà sempre una faccenda per pochi, una coperta che lascia trasparire qualcosa, una nudità oscena che sarebbe meglio celare, mentre il giornalismo è un immenso confortevole lenzuolo, che ricopre il cadavere in ogni sua parte.

martedì 30 ottobre 2012

Sepolcri imbiancati, o sulla tinteggiatura giornalistica del reale



Sulla pagina web del quotidiano la Repubblica, il prestigioso quotidiano, come si dice, del 30 novembre 2012, compare la notizia di un bambino di dieci anni trovato impiccato nell'appartamento dei nonni, quartiere romano di San Giovanni. Era da poco rientrato da scuola, ha mangiato tranquillamente, poi si è chiuso in bagno. Il nonno l'ha trovato con la sciarpa annodata collo e legata al sifone dello scarico. "E' sgomento a Roma!", esclama l'editorialista. Quindi aggiunge, con volgare insinuazione causale, che "i genitori si stavano separando". La notizia è impaginata a pochi centimetri e con la stessa dimensione di una ricetta per una torta salata con broccoli e salsiccia ("pasta sfoglia, ricotta, salsiccia, broccoli, uova e altri aromi per un piacevole antipasto") e a un simile riquadro in cui un certo Philip Osenton, sommelier inglese di stanza a Pechino, viene immortalato mentre tiene in mano cinquantuno calici da vino. "E' il record", commenta euforica la versione on-line del quotidiano, certamente prestigioso. Seguono altre "notizie" dello stesso tenore, tra cui quella in cui un giovane tuffatore "idolo delle teenagers", si dice sempre nella didascalia, viene mostrato senza indumenti ma con i genitali ricoperti da un foglio di formato a4, da lui stesso impugnato con un sorrisetto sornione. Sul foglio campeggia la seguente scritta: "Follow me on Keek". Viene dunque spiegato che "la foto, diffusa sul suo profilo Facebook e sul sito di microblogging, ha conquistato il popolo della rete con oltre 50 mila 'mi piace' in pochissime ore".

Ora, secondo me, la selezione dei testi, il tono e soprattutto la composizione editoriale, meritano almeno una domanda preliminare, con due conclusioni alternative. La domanda è: il mondo e i suoi fatti dispongono ancora di una gerarchia di senso, oppure l'hanno perduta definitivamente?

Se decidiamo di rispondere di no, se pensiamo cioè che l'esperienza della contemporaneità può essere restituita solamente attraverso una replica stocastica – e dunque speculare – della confusione priva di alcuna collocazione prospettica e intrinseco contenuto in cui l'accadere, per definizione, accade, bene: se ne siamo davvero convinti perché ancora un giornale, perché un sito web in cui si cerca maldestramente di ricompone la polvere sottilissima dell'universo, e non invece e solo il brusio spontaneo dei social network, quel "popolo della rete" che così bene ha imparato a suonare e a cantarsela da solo, senza il diapason di alcun mediatore culturale? In fondo, il postmoderno è questa roba qui: bambini appesi come pupazzetti inermi a un albero della cuccagna grondante salsicce, qualche broccolo per fare "colore", bicchieri pieni e bicchieri vuoti, record cretini, Twitter, Facebook, bicchieri rotti e uomini nudi che sussurrano il loro ammiccante "come on", alla maniera di un'istallazione di Maurizio Cattelan. Ma allora si dovrebbe avere l'onestà intellettuale di essere fino in fondo conseguenti, riconsegnando agli strumenti tecnologici della postmodernità il compito di autorappresentarsi, e alle migliaia di fan del giovane e prestante tuffatore quello di stilare i prontuari di educazione civica, la geometria semplificata del reale. Non ci sarebbe insomma più bisogno di libri, di giornali, di riviste, di studio, di filosofia, di sociologia... No, solo "il popolo della rete" e i suoi "50 mila 'mi piace' in pochissime ore". 

Ma se al contrario decidiamo di rispondere di sì al primo quesito, decidendo dunque che il mondo, per essere interpretato ma prima ancora per essere vissuto, continua ad aver bisogno di scelte discrezionali che ne istituiscano codici di senso e valore, gerarchie estetiche e semantiche e in ultima istanza una trama morale con cui rapportarci per tentare di dirigere l'esperienza, a me sembra che non si possa evitare una conclusione necessaria. Quella che vede nell'impaginazione e nello stile di Repubblica, nei suoi aggettivi stracotti, i titoli roboanti e occhiuti che si uniscono a un pettegolezzo da bottega degli orrori, non la traccia di un esibito e in fondo unanimemente accettato moralismo, ma piuttosto l'eterna distorsione di ogni pretesa virtù nella sua cinica opposizione, e ciò ogni qualvolta si cerchi di farsi sistema autosufficiente e astratto. O se preferite "partito", che è appunto una parte per il tutto, una parte con vocazione alla sineddoche, come affermano sprezzanti i suoi numerosi e altrettanto parziali detrattori.

Detta più cautamente, da qualche anno i giornali italiani, e in specie Repubblica nella sua versione telematica, è come se si fossero trovati in debito cromatico verso una realtà che ha assunto un'accelerazione impressionante e caotica –  immaginiamo un quadro di Mondrian che, nel corso della notte, si converta in uno di Jackson Pollock. Non disponendo di una tavolozza di colori sufficientemente ampia, articolata e complessa, i giornali hanno così cominciato a ridipingere il presente in figure stilizzate, completando il ritratto con la vernice candida e soffusa del Mulino Bianco. Ma nonostante tutto il suo prestigio, a Repubblica deve essere sfuggito che anche il più tragico degli avvenimenti – un bambino che si impicca – quando decostruito nella promiscuità pittorica di una tela composta con una sola tinta, non è più un fatto (ciò che è in quanto "è", con incontrovertibile evidenza) ma neppure racconto, narrazione. Da ciò l'uniformarsi di ogni cosa all'imperativo frivolo e interessato del consenso, i dati di vendita infilzati sulle stecche dell'abaco che misura le nostre vite. Possiamo riassumere tutto ciò nell'estetica dello stuporoso: quel gesto che buca l'indifferenza in quanto gesto, come fa il petardo con il cbiacchericcio trapuntato di clacson e marmitte di una grande città, ma al netto di qualsiasi significato ulteriore che non sia il proprio tautologico boato.

Ed è così che la realtà non solo non viene più descritta con semplice e ingenua referenzialità – una notizia in fondo è un fatto che si autopromuove per intima forza, ossia per la rottura di un ordine comunemente percepito, che è esattamente ciò che sta venendo a mancare – ma nemmeno generata, istituita attraverso l'atto volontario e libero dell'interpretazione, che da Nietzsche in poi è il solo rapporto che possiamo intrattenere con una realtà senza più maiuscola: assumendocene la responsabilità costitutiva, selezionando fatti e parole secondo un principio umano troppo umano. Detta in altre parole, la realtà, privata del suo scheletro interno e intangibile che è la Verità, ha smesso di accadere. Piuttosto succede, un po' qui, un po' là, senza una direzione e una gerarchia apparenti. Come è sempre stato, sì, certo. Ma prima veniva guardata con il filtro ordinatore dell'ideologia, mentre questo filtro, che rende disponibile il reale allo sguardo, ora si è frantumato in migliaia di vetrini. E dunque oggi la "si crea", la realtà. Ma quando non c'è questa consapevolezza del dotto, o viceversa l'umiltà dell'artigiano che semplicemente si china sul mondo, confidando in esso come la mucca nel fieno, realtà e verità vengono eluse, liquidate, seppellite. Divenendo tutt'al più dei sepolcri imbiancati, appunto...


Ps - Se interessati all'argomento, suggerisco un magnifico libro di Federica Sgaggio. Che oltre a dire delle cose sacrosante, e a dirle chiaramente e con numerosi esempi, è anche una bravissima scrittrice. Il libro è questo: Federica Sgaggio - Il paese dei buoni e dei cattivi - Minimum Fax, 2011 (euro 15)

domenica 14 ottobre 2012

Gastòn, o sul paradosso artistico



Il cane che si vede nella foto si chiama Gastòn. No, non Gastone come il cugino fortunato di Paperino, ma proprio Gastòn, alla francese, con la pronuncia tronca e l’elisione dell’ultima vocale. L’uomo su cui posa le lunghe zampe e guarda dritto negli occhi si chiama invece Sergio, Sergio Ucciero, dagli amici detto Bubu. O almeno io l’ho sempre chiamato a questo modo, Bubu, da ciò ricavando che era mio amico.

Forse non amico-amico, d’accordo: comunque una persona con cui ogni volta che ci si incontrava era una sosta festosa, l’occasione anche solo per uno scherzo o una battuta veloce e arguta. Peccato che capitasse sempre più raramente. Negli ultimi anni si era infatti trasferito fuori dalla Valtellina – prima a Bergamo, poi Bologna e infine Jesi, dove viveva con la moglie Giuliana e naturalmente Gastone, anzi Gastòn – si era trasferito per via del suo lavoro come agente della casa editrice Einaudi.

La prima libreria l’aveva aperta a Sondrio nel 1975. Solo un bugigattolo, a dire il vero, così piccino che quando d'inverno accendeva la stufa a gas ogni tanto bisognava uscire ad acciuffare un po' d'ossigeno, come i pescatori polinesiani di coralli. Anche il nome rifletteva le dimensioni, Ced, ma, vai tu a sapere come, riusciva a tenerci anche dischi, più che altro dischi. “Consci questo gruppo?” mi chiedeva sornione un Bubu poco più che ventenne, sollevando una copertina variopinta dal mucchio. E io, che di anni ne avevo – e continuo ad averne – nove meno di lui, io preadolescente impacciato e guascone facevo finta di pensare… “Mmm, no, temo di no”. Allora Bubu si avvicinava al suo giradischi Technics, sfilava con dita delicate quello che allora si chiamava un long play, e strizzandomi l'occhio aggiungeva: “Ascolta, va’… Poi mi dici, se riesci ancora a parlare.”

Roba che davvero le parole mi si inceppavano in gola. E quando finalmente rispuntavano, era per pronunciare nomi come Genesis, Led Zeppelin, Doors, Jimi Hendrix, Pink Floyd, Crosby Stills Nash & Young, Jackson Brown, King Crimson. Quindi il suo favorito: Bob Dylan! Così ogni sabato, con i soldi risparmiati sulle mancette dei nonni, gonfio di aspettative mi presentavo alla Ced, da cui uscivo con la benedizione di Bubu e un disco di purissimo vinile, che era la mia eucarestia laica da assaporare durante i giorni successivi. Un disco a settimana, una scoperta, azzarderei perfino a dire un’iniziazione.

Ma come in tutti i culti, c’erano peccati che io dovevo assolutamente sottacere, il più ignominioso dei quali era ascoltare quei gruppi che Bubu liquidava con un aggettivo che vibrava sulle note dell'infamia: “commerciale”. E tra le eresie messe all'indice ci stavano purtroppo anche i Queen (ogni tanto anche i profeti sbagliano...), che erano il mio credo segreto ma, come Pietro a ogni chicchirio del gallo, finivo anch'io col rinnegare: “Non ti piaceranno mica i Queen, vero?" E la mia testa che si muoveva veloce a sinistra, destra, ancora sinistra; per poi fermarsi e chinarsi verso il basso. "Guarda che quella è merda commerciale per piccolo-borghesi con l’otite purulenta!”

“No No, a me piacciono solamente i dischi che mi consigli tu, Bubu, i dischi pregressivi”. “Progressive, Guido, si scrive pro-gres-si-ve ma si pronuncia progressiv…” (Sempre stato un poco pedante, tocca ammetterlo, Bubu.) “Ma ora ascolta questo album appena uscito”, continuava il mio mentore dopo la bonaria reprimenda, da cui uscivo assolto come da una confessione mai fatta, ma da lui sempre intuita. “Si intitola Born To Run ed è di un giovane cantautore americano, uno che si farà. Ah, si chiama Bruce Springsteen.” Ecco, questo era Bubu.

Ma Bubu è anche quest’altro, scopro pochi minuti fa da un titolo sparato su internet:  ”Omicidio in stazione a Bologna: Sergio Ucciero uccide a coltellate Alessandro Porrovecchio”. E così continua l’articolo: “Omicidio in pieno giorno, ieri mattina, nella stazione di Bologna, dove un marito accecato dalla gelosia, l’agente di commercio Sergio Ucciero, 55 anni, ha ucciso a coltellate il nuovo compagno della moglie, l’informatico Alessandro Porrovecchio, 53enne residente a Torino.”

O detta diversamente, la persona che per me ha socchiuso la porta della musica, della bellezza, dell’arte e perfino della gioia, aspettando come ogni buon Maestro che fossi io a spalancarla con un calcio, si rivela ora uno spietato omicida che elimina il rivale in amore con dieci coltellate, otto delle quali vibrate al bersaglio del cuore, una di striscio sulla spalla e l'ultima alla schiena, l'eterno sigillo dei vili. E lo fa con premeditazione, seguendo di nascosto la moglie con un lungo coltello da cucina infilato in un quotidiano, lo fa di fronte a una folla sgomenta con la simmetrica precisione di chi stia sgozzando un maiale, lo fa come se semplicemente fosse una cosa da fare, come testimoniano le sue uniche parole:

"Fuggire, non fuggo. Quello che dovevo fare l'ho fatto."

Ma siamo proprio sicuri che, alla maniera della scienza empirica e del mercato azionario, anche nella vita degli uomini ogni nuova informazione sostituisca la precedente, rendendola obsoleta se non del tutto falsa? No, io non ne sono più certo. Allo stesso modo per cui non sono più sicuro che Bubu fosse solo quel bravo Maestro che ho conosciuto, la battuta pronta e il sorriso indulgente di chi prima ti avvita le rotelle alla bicicletta, ma al momento giusto, zac, le sfila a tradimento e ti ritrovi a pedalare da solo e in equilibrio. Ma allora da dove salta fuori, chi è, Sergio Ucciero detto Bubu dagli amici?

Non lo so, ecco.

Ed è così che una vicenda tanto terribile da inceppare le parole e stringere l'aria nei polmoni – la vittima della furia di Bubu aveva due giovani figlie, due belle ragazze già orfane di madre, due intere famiglie distrutte – si trasforma in una traccia diversa da quella che cercavo: non chi è Bubu, che a questo punto resterà un enigma anche per sé stesso, ma che cos’è l'arte, la letteratura, cosa sono tutte quelle pratiche virtuose che hanno occupato più di trent’anni della vita di chi ha scoperto suo malgrado di essere l’assassino, alla penultima pagina del romanzo.

Perché la grande arte è questo e quello, non sintesi ma paradosso, corda tesa sull’abisso. Se tutti i giornali fanno ora a gara per contendersi il mostro da piazzare in prima pagina, certi della turpe verità dei fatti, a me viene da dire che sarei una persona diversa e peggiore, una camera senza porte né finestre se non avessi conosciuto Bubu e accolto i suoi consigli letterari e musicali, che hanno contribuito a far diventare casa la mia tiepida tana di bambino. Ma diversa e peggiore è adesso anche la vita di molte persone, a cui si aggiunge quella di un bel cagnolone maculato, un Grand Bleu de Gascogne che immagino seduto di fronte alla porta, lo sguardo basso e la coda riposta tra le cosce muscolose.

Sì, è un’immagine vagamente patetica che forse non fa buon servizio alla causa, ma c’è un momento in cui l’esistenza di ognuno viene contesa dentro una biforcazione dolorosa: da una parte i buoni, i belli, i giusti, mentre dall’altra ci stanno i brutti, sporchi e cattivi. È dunque questa la vera immagine del mondo? A leggere il verbale dei Carabinieri, sembrerebbe proprio di sì: c'è un carnefice, c'è una vittima e c'è un intero coro tragico, che punta l'indice. Eppure da qualche parte ci sono anche quelli che non capiscono, che stanno lì e continuano a farsi le domande, non credendo che le cose e le persone si possano separare con un coltello, come ha cercato di fare Bubu alla stazione di Bologna.

E allora se la parola verità diviene puro balbettio nella cronaca giornalistica e vertigine retorica nell’arrampicata concettuale dei filosofi, chissà che non vada ricercata proprio nella figura del dubbio letterario, in cui la responsabilità penale non fa sconti a nessuno ma quello che viene sospeso è il giudizio umano, riflettendosi infine negli occhi acquosi di Gastone, da pronunciarsi mi raccomando alla francese. Che è ancora lì di fronte al portone serrato, Gastòn è li che aspetta e forse si domanda: “Ma quando torna Bubu, quand’è che mi porta la zuppa, quando andiamo al parco a giocare a barattolo e pallina, quando…?”


(Ps - Sono andato su Facebook è ho ricercato anche il profilo della vittima. Sembra una persona per bene, a cui piacciono le cose belle: la buona musica, il jazz in particolare, e dispiacciono le cose brutte. I riferimenti umani e culturali - "il pedigree" dei social network - è incredibilmente simile a quello di Bubu, come se avesse scagliato la lama contro uno specchio in cui non ha riconosciuto il proprio volto. Ma Facebook è uno specchio opaco che non seppellisce i suoi morti, e Alessandro Porrovecchio è ancori lì che ci guarda da sotto le lenti impenetrabili e scure, mentre sulla sua bacheca compare questa scritta: "La voglia di sorridere, su tutto e nonostante tutto...")