venerdì 30 novembre 2018

Manichini, o sugli abiti culturali con cui rivestire i generi sessuali


In uno scambio di battute a seguito di un mio post pubblicato su Facebook, è emersa, soprattutto grazie all’intervento dello scrittore Vitaliano Trevisan, una questione che io trovo decisiva per questo tempo, e che riguarda le complesse relazioni tra i generi.
Nel dialogo era presente anche una donna, che argomentava da una prospettiva diversa da quella dell’autore vicentino, facendo proprie, con toni devo aggiungere molto equilibrati e non radicali, un argomento cardine di quella che è stata la riflessione femminile, sviluppata in particolare nella seconda metà del Novecento.
Il succo era grossomodo questo. Il motivo per cui molte donne, si potrebbe pensare masochisticamente, assumono comportamenti compiacenti verso il genere maschile e i suoi interessi più deteriori, arrivando addirittura a non denunciare le violenze subite (ma ci sono violenze anche da parte delle donne sugli uomini, ricordava Trevisan), deriva da una vera e propria introiezione del modello patriarcale, che per quanto patito esse continuano ad alimentare senza averne consapevolezza. Ad esempio le madri che dicono ai figli: “Non devi piangere, sei un ometto!”
Essendo entrambi estremamente abili con le parole – Trevisan e la donna intervenuta a commentare, intendo – eviterò di riassumerne lo scambio con quella paternalistica presupposizione di chi intenda essere super partes, ma riporto qui, cercando di svilupparla, soltanto la mia opinione al riguardo.
E dunque vediamo: le donne hanno introiettato inconsciamente il modello patriarcale ad esse ostile, al contrario degli uomini che lo vivono con perfida consapevolezza. Ma questo sapere strumentale, per non essere rivelato alle donne 
– in fin dei conti si tratta di un imbroglio, uno sfruttamento su larga scala – deve essere anche occulto, dunque una strategia. Tutto ciò a rigor di logica, almeno. 
Beh, a me questo sembra un assunto non solo ideologico, e cioè privo di alcuna evidenza sperimentale, ma anche fuori da ogni buon senso.Viene infatti parimenti assunto che esista un soggetto collettivo – l’interezza degli uomini, e che diamine! – il quale condivide un segreto senza che sia mai venuto a galla nei secoli, se non per via induttiva. Nessun uomo ha insomma mai confessato, magari sul letto di morte, o sotto tortura di una scatenata tribù di amazzoni, questo complotto maschile ai danni delle donne.
Un modo di ragionare già screditato da Umberto Eco parlando delle teorie complottiste in generale. I complotti infatti esistono, per carità, per il grande intellettuale scomparso, ma non si dà alcun complotto su ampia scala (e per ampia scala lui intendeva qualche centinaia di persone) che nel giro di un paio di decenni, o poco più, non mostri una crepa, un pentito, una gola profonda. Figurati quando il soggetto complottante dovesse coincidere con TUTTI gli uomini di TUTTI i tempi, dai…
Ugualmente, assumere che TUTTE le donne con eccezione di pochissime illuminate – nella fattispecie le femministe – abbiano vissuto obnubilate rispetto alla propria reale condizione, e addirittura assimilando la struttura portante dell'apparato cognitivo-militare del “nemico” (l’introiezione simbolica di cui sopra), mi sembra non rendere onore all’intelligenza femminile.
Se ci sbarazziamo dunque del concetto di macrocoscienza complottistica maschile, quanto di subcoscienza mimetica femminile, abbiamo un modello sistemico molto più attendibile. E cioè una relazione tra uomini e donne certamente interessata – interessata in senso proprio intendo, interessata da fattori economici e di potere in cui l’uomo è certamente più forte sul piano fisico, ma anche interessata sessualmente (e la facoltà di generare la vita è un formidabile capitale, in questo caso a vantaggio delle donne), interessata esteticamente, emotivamente e in ultima analisi coinvolta nelle dinamiche di uno scambio necessario, già che altrimenti avremmo quale unico mediatore lo stupro. Tutto ciò, nel tempo, ha portato a equilibri precari chiamati cultura, in un senso ovviamente non accademico e piuttosto sociale, antropologico.
Se le cose stanno così come io credo – equilibri dinamici tra generi, che progressivamente si consolidano in strutture sociali e modelli relazionali –, è verosimile che questi modelli vengano tramandati, un po’ pigramente, oltre all’attualità del contesto in cui si sono formati. E' la staffetta tra le generazioni, dove oltre alle scoperte scientifiche ci si bisbiglia all'orecchio anche qualche altra dritta su come tirare avanti.
Pensiamo alla costruzione dell’ideale femminile della donna angelicata, nato al semplice scopo di colmare il deficit emotivo ed erotico delle corti provenzali tra il nono e l’undicesimo secolo, tra cui quello di molti poeti (di sesso quasi esclusivamente maschile) che vagheggiavano le virtù di donne che assai poco conoscevano, e perciò in larga misura idealizzavano. 

Secondo 
Denis de Rougement, che ha analizzato la genesi e lo sviluppo del fenomeno nel suo fortunato saggio L’amour et l’Occident, tale modello si è riprodotto con variazioni minime fino al ventesimo secolo inoltrato, soprattutto ad opera dei canoni letterari e spettacolari. Quindi ha influito molto meno nelle classi non scolarizzate, quali ad esempio il mondo contadino e il sottoproletato urbano, assai più concrete e schiette in certe faccende dalla cintola in giù.
Il modello è un semplice facilitatore dunque, non sei obbligato a seguirlo ma diciamo che è meglio se lo fai, è più comodo e meno conflittuale, come la sagoma del manichino su cui imbastire il tessuto di una biografia. Ma alcuni manichini sono più allineati con le esigenze biologiche e segnatamente riproduttive, sessuali, mentre altri se ne distanziano maggiormente. La nevrosi psicanalitica sarà allora il metro con cui viene misurata la distanza. E quello della donna angelicata era un modello particolarmente strabico e nevrotico, al punto da aver ispirato a Lacan il suo celebre motto beffardo: “la femme n’existe pas”.
Per tale ragione, aggiornare il guardaroba dei generi, da entrambi i fronti, mi sembra doveroso. Storia, economia e innovazione tecnologica nell’ultimo secolo hanno infatti trottato con gran velocità, specie negli ultimi decenni. La cultura di genere è però rimasta un manchino abbigliato con i soliti vecchi stracci.
Si potrebbe obiettare che il re è finalmente nudo, ma questa non sarebbe affatto una buona notizia. Vivere l’identità di genere nella spoglia verità del desiderio è infatti impossibile. Il principio di civiltà, è ancora Freud a ricordarcelo, ha bisogno che si baratti un po’ di felicità per una maggiore sicurezza. E per essere più sicuri le pulsioni vanno contenute, servono abiti e modelli culturali, mediazioni civili. Tale rapporto dialettico tra desiderio e sicurezza è chiarito molto bene dalle parole di Raffaele Alberto Ventura, di cui segnalo un breve estratto dalla sua pagina web
"Si potrebbe credere che lo stupro sia l'effetto di un rapporto di forza; e invece sono i rapporti di forza a discendere dallo stupro. La sua sola possibilità ha fondato nei secoli la dominazione maschile come più efficace sistema di protezione dalla minaccia dello stupro. Il male e il rimedio procedono dallo stesso dato antropologico, fondandosi reciprocamente."
Se ne ricava la ragione per cui Doniso e le sue baccanti, anche anticamente, potevano denudarsi solamente un giorno all’anno, in cui fare festa e concedersi al godimento più sfrenato. Ma gli altri 364 giorni erano ricoperti dagli attillati abiti di Apollo. O detta con le parole di un celebre filosofo: la trasgressione è la glorificazione del limite.
Se però si vuole aggiornarne i costumi partendo dall'idea che gli uomini abbiano sempre cercato (lucidamente) di fregare le donne, a loro volta complici per averne introiettato la simbolica e ora è dunque venuto il momento della vendetta, vendetta tremenda vendetta, secondo me non si va molto lontano. Anche perché sarebbe una nuova veste tagliata dal tessuto del rancore, che, come il celebre abitino rosso di Marilyn Monroe, al minimo sbuffo di vento vola via…

giovedì 29 novembre 2018

Tutta colpa di mucche e lattai, o sullo squallore delle polemiche post mortem


Vediamo, se ho capito bene: uno stupro che viene simulato, non agito, SIMULATO dentro un film dopo che la stessa scena era stata presentata all’attrice in sceneggiatura e da lei evidentemente accolta, diviene un intollerabile affronto alla dignità, non solo, della donna prima che dell'attrice in questione, ma di tutte le donne del mondo, anzi anche di quelle fuori dal mondo o come si dice dell’eterno femminino, con il regista, appena scomparso, visto quale emblema di maschilismo per avere aggiunto a sua insaputa – a insaputa dell’attrice, non dell’attore che interpreta l'amante stupratore, a sua volta e per questo mostrificato – un dettaglio a lei ignoto; e per inciso l’attrice (a posteriori) avrebbe potuto rifiutare il girato e pretendere che la scena venisse nuovamente ripetuta, in totale corrispondenza al copione sottoscritto.
Questo è ciò che ho capito leggendo i commenti internazionali sulla morte di Bernardo Bertolucci, la cui onda di acredine e appassionate difese a oltranza, come spesso accade, fa risacca sulla spiaggia di Facebook, dove va a cumulare assieme a ogni altra deiezione della blatera mondana. O detta in altre parole, e sempre se ho capito bene, a essere oscena non è la sequenza di totale finzione e neppure l'espediente registico più furbetto che proditorio (tutt'al più possiamo rubricarlo alla voce goliardia, certamente grossolana, e per favore non tiratemi in ballo Stanislavskij e il suo famigerato Metodo), ma quella sostanza ricavata dalla parte grassa del latte, separata dal latticello tramite un processo di inversione di fase, derivante dalla panna ed utilizzata per rendere più scabrosa e memorabile la scena; senza però riverlarlo all'attrice che si chiamava Maria Schneider e un poco ci rimase male, così forse accentuando, come sperato da regista e attore protagonista, Marlon Brando, quella sua espressione bellissima ma sempre un poco dolente, che ne segnò il destino tragico anche fuori dal set. Il risultato del procedimento è un'emulsione, principalmente di acqua e grassi, in cui sono disciolti zuccheri e proteine, nella cui fase fluida cristallizzano solo in parte.
Ok ok, lo dico facile: l’oscenità sta nel burro, e che cavolo, non potevano dirlo subito! Si vergognino dunque e abbassino il capo tutti i lattai, ma anche le mucche che, oltre a essere artefici della materia prima, figurano quali probabili complici della malefatta, e secondo me hanno preso del fieno sotto banco per tacere...

domenica 25 novembre 2018

Istinti basici, o sul perché con la cultura non si mangia ma con il sesso ci si ingozza (di parole)

Trovo tristi e patetiche le persone che lamentano lo scarso appeal della cultura sui social network, specie quella che vorrebbero diffondere con le loro parole. Due giorni fa ho pubblicato sul mio blog, quindi come d'abitudine anche su Facebook, un intervento in cui parlavo dei rapporti tra religione e filosofia, intuendo una curiosa proporzione tra le due. 
Era un buon testo "culturale", lo dico senza falsa modestia. Una delle cose migliori che scrivevo da mesi. Nonostante ciò ho ricevuto il minimo sindacale di like, insuccesso assoluto.
Ma va bene così, fa parte del gioco e non me ne lamento. Con le debite proporzioni, credete forse che Socrate 
 oh, ho detto Socrate, mica Fusaro! , Socrate quando ciabattava per Atene incalzando i passanti di domande, avesse più riscontro di un qualsiasi atleta al ritorno dai giochi di Olimpia? 
No di certo. E anche Alcibiade, con la sua bellezza scultorea e le spacconate alla Fabrizio Corona, come la decapitazione delle erme, calamitava molti più sguardi ammirati di quelli che guadagnava l'arte maieutica del grande filosofo. Ed erano i like del tempo, a premiare, anche allora, qualità diverse dalla cultura. Che se ne facciano dunque una ragione, quelli che danno ai loro figli i nomi Einaudi ed Adelphi. 
L'elemento di differenza storica mi sembra dunque un altro. Il sesso. L'invadenza del sesso. Parlato, rappresentato, adombrato con ammiccamenti e manfrine. Raramente agito, però. Specie quando immesso sulla scena pubblica, di cui guandagna immediatamente il centro e smette così di essere osceno. Viene addirittura premiato dagli applausi scroscianti del pubblico.
 Un esempio? 
Una donna, perché alla fine questi giochetti di seduzione prevalgono ancora tra le donne, per quando si stiano estendendo anche ai maschi, una giovane donna che su Facebook esorta: Chiedetemi cosa volete sapere, dai, anche particolari intimi… Risponderò a tutti in privato, non siate timidi! 
Ecco, questo nell'Atene di Socrate e Pericle non sarebbe stato concepibile. Il sesso si faceva, e anche di frequente e anche con uomini, donne, spose, amanti, etere, pornai, meteci, giovinetti, era tutto un continuo accoppiarsi. Ma dopo aver fatto quel che da sempre si fa, si tornava a parlare d'altro.
Non sempre di filosofia, d'accordo, e magari di quanto fosse bravo quel lottatore di Corinto, o esilarante una commedia di Aristofane, incerta e appassionante una corsa di bighe. Cose così, che adesso starebbero volentieri su La Gazzetta dello Sport. 
Ma inciampare nelle parole appena scritte 
– le ho inventate, d'accordo, ma tra i miei contatti sono numerosissimi i post sulla falsariga  mi fa provare disagio nel viaggiare sullo stesso mezzo, appartenere a questo tempo.
Un tempo morboso, pansessuale, senza eroi che incrociano le spade alle prime luci dell'alba, il riverbero del sole sulle corazze di bronzo istoriato, nitrire di muli e cavalli sullo sfondo. Intanto, il fantasma di Ares sprona rabbioso all'azione, quello di Dioniso danza nelle pozze già ricolme di sangue. 
Macché. Ora solo pallide lusinghe erotiche, che rimangono sospese nell'aria alla maniera dei fumetti di Qui Quo Qua, dove non c'è più un soggetto distinto ma un confuso brusio collettivo. E sono così parole intercambiabili, azzeramento della fantasia, pura ricorsività nel seguente sotto testo: 
Ti piaccio, eh... Mi vorresti, eh... Ti piaccio, eh... Mi vo...
Nel frattempo, una selva di segni lievita in numero e consenso, si alza glorioso verso l'alto il pollicione blu, punta il cielo da cui sono scomparse le divinità dei greci. Come un esercito di nani in perenne stato d'erezione.

sabato 24 novembre 2018

Dio è morto, o sulle proporzioni matematiche tra religione e filosofia

Da qualche tempo, quando mi accosto a un testo religioso, provo il senso di una curiosa proporzione matematica. Mi sembra infatti che Cristo e Buddha stiano all'ambiente culturale da cui provengono (e almeno in parte incorporano) come Socrate sta ai filosofi cosiddetti presocratici; e penso in particolare a Pitagora e Parmenide.
Da ciò ricavo che il cristianesimo non è un "più" della tradizione giudaica, portandola, come molti ancora vorrebbero, a compimento e quindi esorbitandola. Allo stesso modo il buddhismo non supera la parola iscritta nello sterminato canone induista, né Socrate è il punto più alto del pensiero del suo tempo. Semplicemente parlano di cose diverse: i primi, cronologicamente, si concentrano sulla natura, Dio, l'Essere; i secondi introducono la riflessione sull'uomo e la sua sofferta condizione, ma ora, e per la prima volta, in rapporto a una salvezza (la buona novella) di cui intravedono la possibilità.
La differenza con la filosofia sta forse tutta qui. Dopo la parentesi socratica,  che si estese a stoicismo ed epicureismo a monopolizzare la scena romana successiva, in cui la soggettività mantiene un ruolo preminente e i comportamenti morali ne sono il riflesso, la filosofia, più baldanzosa che mai, è tornata a interrogare la reticente dimensione che va oltre il sipario della "physis", con Andronico da Rodi divenuta nel frattempo metafisicaMentre in campo religioso, almeno in Occidente, la tensione allo spazio dell'ulteriore è progressivamente andata sfumando, fino a essere confinata in quel secondo piano che sono i monasteri, fisicamente espunti dai luoghi pubblici della cristianità.
Quando si è tentato di riparlarne – di Dio, delle cose che da sempre sono senza essersi mostrate mai  si è così dovuto farlo con le parole della stessa filosofia; parole di ragione e non più di visione e profezia, che hanno preso il nome di teologia. Un verbosissimo e inesausto borbottio che cercava di cucire un abito su misura al Padre, al Figlio e perfino allo Spirito Santo, ritornando immancabilmente ai sarti che con più fortuna avevano rivestito questi concetti. Aristotele e Platone, i Dolce & Gabbana della filosofia.
Tutto ciò, nel corso dei secoli, ha fatto sì che la narrazione religiosa smarrisse un lessico proprio anche se non esclusivo, possedendo la forma analogica del mito e del simbolo e dell'emozione, con cui sapeva rendere presente e quasi palpabile quel che eccede la cornice dei fatti. Si è in tal modo spezzato il cavo di una sorta di funivia, percorribile e percorsa da tutti coloro che intendevano fare esperienza anche dell’altro, del numinoso e dell'inaudito che si dischiudevano nel corso del viaggio. E che viaggi!
Rimanevano, al ritorno, delle testimonianze magari un poco esagerate, come quelle dei turisti in una vacanza esotica e avventurosa; e vai tu a sapere il confine tra ciò che hanno realmente visto e il piacere del narrare. Eppure, quei racconti incerti e poco plausibili avevano il potere di fare mondo, lo estendevano, non solo metaforicamente, oltre il limitare dei sensi, per confondersi infine con le nuvole di polvere sollevate dagli zoccoli dei cavalli. In pratica: da storie diventavano Storia, con la esse maiuscola e il sangue di chi ci ruzzolava al centro.
La Chiesa di Francesco, benemerita sul piano etico, compassionevole verso i diseredati e in ultima analisi politica – nel senso migliore e più alto del termine, sia chiaro – è la sintesi postrema di tale svolta socratica del cristianesimo: umano troppo umano, ma senza più alcuna sfumata ombra di Dio. Già che un Dio senza storie leggendarie, un Dio ricondotto alla taglia del buon senso (una extra small), è davvero e definitivamente morto. Ma per risorgere, dopo tre giorni o trecento anni, poco importa, sotto i veli gonfi dell'Islam.

venerdì 16 novembre 2018

In cielo e in terra, o sulla meteorologia sentimentale

Gli amori sono decisi “su nel cielo” scrive la ragazza dalle pagine di un sito web per incontri sentimentali. Poi aggiunge un nome, una sigla, un brand che per molti è una garanzia. Paulo Coelho. Chi si riconosce in quel piccolo mondo di certezze spirituali sarà così portato ad annuire, e magari a pensare di essere proprio lui l'amore destinato (su nel cielo, bada bene su nel cielo) alla ragazza del sito web.
Ma ci saranno anche quelli che invece storcono il naso. Quale ingenuità, che pensiero naif! Riprendendo a compulsare le centinaia pagine di un saggio Adelphi sulla filosofia della Grecia antica, è firmato da Emanuele Severino e i caratteri sono piccoli piccoli. Arrivati al capitolo su Platone troveranno però un argomento molto simile. Solo scritto meglio, con parole più precise e vibranti.
"Però, lo dice Platone... Mica Coelho: Platone!"
Gli appartenenti a questa seconda e certamente squisita categoria, concluderanno, a quel punto, che da qualche parte su nel cielo che loro però chiameranno Iperuranio, è già deciso. Prima o poi entreranno in una libreria. E in quella libreria andranno allo scaffale dei libri Adelphi. E allo scaffale dei libri Adelphi troveranno una donna, o un uomo, qualcuno che sarà comunque bellissimo. E nella sua rarefatta bellezza starà sfogliando le pagine dello stesso libro di Severino. Bum! 
Dopo essersi riconosciuti, i lettori Adelphi, come quelli di Paulo Coelho (ma non diteglielo, se non volete prendervi un volume della Treccani in testa) si ameranno per tutta la vita. È il cielo, pardon, l'Iperuranio, ad averlo impresso nella sua soffice biblioteca di nuvole. 
Infine ci sono altri che ascoltano una vecchia canzone di Paolo Conte. Il titolo non se lo ricordano più ma solo quel verso, dopo l'introduzione di pianoforte e vari parapapà e zum zum zum, in cui l'inconfondibile voce roca intona con un velato accento astigiano: "non vedo, tra parentesi, nessuno partito da lontano per esistere con me… "
Sotto sotto però anche loro sperano, o meglio sanno, che come le conchiglie da cui si ode il sommesso lamento del mare, anche l'eco di quella canzone sta toccando altri padiglioni auricolari. Appartengono a qualcuno che forse ancora non cononoscono, magari non ha mai letto un libro di Severino, ma in questo caso non lo considerano un peccato mortale.

Qualcuno che non crede quasi più a nulla, se non al presente in cui si espandono le note della canzone che si trasforma col passare del tempo in una verde milonga, a invadere lo spazio di una cameretta con i poster che si appendono alle pareti da ragazzi; dimenticando però di sostituirli, ora che ragazzi non sono più, con qualcosa di più adulto.
Quando il totale disincanto dell'uno incontrerà i passi dubbiosi dell'altra, qualcosa dovrà pur succedere. No, non è stampato nella tipografia del cielo ma, giorno dopo giorno, sono le persone a scriverlo sulla superficie della terra, o almeno è quanto pensano i due che stanno ascoltando Paolo Conte. Il problema è che in caso di pioggia le bozze del romanzo della loro vita diventano fango, e devono ricominciare da capo. 
Beh, se non si fosse capito, io sarei la controparte maschile al terzo tipo. L'amante senza cieli né ombrelli.
Per questo mi arrabatto con fatica alla voce amore. Mi sono sempre chiesto il motivo, ma forse ora l'ho compreso: non ci sono più le mezze stagioni, ecco la ragione dei miei affanni sentimentali. E piove così stramaledettamente tanto, i fiumi si gonfiano e ruggiscono, straripano i tombini, continua a piovere che dio la manda! Piove piove piove, sul nostro amor...

giovedì 15 novembre 2018

Buongiorno, buonasera, o sui mattoncini Lego con cui si costruiscono le civiltà

Purtroppo esistono i luoghi comuni. E purtroppo, talvolta, i luoghi comuni si dimostrano veri. Accade quando l’oggetto del discorso coinvolge temi di interesse, per l’appunto, comune, che semplificando possiamo chiamare civili: modi e forme in cui la nostra specie ha saputo integrare il proprio vitale egoismo, “barattando parte della felicità per un po’ di sicurezza”.
Questo, almeno, è quanto pensava Freud, ma esiste anche la versione di Benjamin Franklin, dove a essere barattata è piuttosto la libertà. Nella sostanza cambia comunque poco: meno io e più noi, con una certa discrezionalità sulle percentuali dello scambio.
Esiste un collaudo piuttosto semplice per verificare se la transazione stia dando buoni frutti. Addirittura una contabilità, da iscrivere nel libro mastro dei profitti e delle perdite. Metteremo allora una X quando qualcuno si mostra gentile e riconoscente, basta un cenno del capo, uno sguardo, un niente del corpo che dia conto dell'intenzione. Le occasioni sono quelle solite.
Il concedere il passo in un frangente automobilistico dalle regole incerte, ad esempio, oppure a un pedone la cui precedenza non sia prevista dalle norme stradali. Lui si gira verso di noi semplicemente dicendo: grazie. Lo stesso, una bella X, quando un estraneo si comporta con uguale attenzione nei nostri confronti, apre la porta invitandoci a entrare per primi, accompagnando il tutto con un sorriso, o un gesto cordiale e non ruffiano di pura gratuità. Nei casi di interazione mancata o aggressiva, invece una pallina nera.
Un collaudo che io ho fatto per davvero, la mia agenda è piena di X e pallini. E posso assicurare che ci sono differenze enormi tra le diverse comunità, e non solo tra tipi umani. Quelli col suv, è forse pleonastico ricordalo, si prendono infatti anche ciò che non gli spetta, con le lancette del Rolex come dardi scagliati verso i peones in utilitaria. E suggerisco al riguardo il buon vecchio metodo del cacciavite, con cui accarezzare la fiancata lustra della Range Rover parcheggiata in seconda fila; ma mi raccomando solo all’imbrunire, a confondere i contorni del graffio… 
In ogni caso, in molte circostanze i barbari siamo noi, ma in altre sono certamente loro o meglio alcuni di loro: sotto comunità particolari, gruppi etnici, minime tribù sociali, con cui la convivenza si mostra sempre più difficile. E volutamente utilizzo gli odiosi pronomi personali “loro” e “noi”, a sottolineare il divaricarsi del processo di integrazione, che non c'entra davvero nulla con una malintesa idea di razza.
Ad esempio nessuna donna araba – e dico nessuna in senso letterale, non traslato – offrirà mai un segno di riconoscimento a chi si mostri disponibile nei suoi riguardi, e ciò per ragioni che esulano totalmente dal proprio animo. Non stiamo insomma parlando di buoni e di cattivi, ma di culture convergenti e divergenti. 
Per tale ragione non sono minimamente interessato a chi sia meglio di chi altro, ma agli effetti del baratto di cui sopra, per capire se a fronte di quel che perdo io stia effettivamente guadagnando altrettanto in termini di armonia sociale e sicurezza. Ma anche di bellezza, per quanto sia un po' retorico a dirsi.
La mia risposta alla conclusione del collaudo, contando i segni impressi, è no. No di certo, la bilancia pende pericolosamente dal lato dei pallini, pochissime le X, sono saltati gli equilibri tra le persone. E non è, di nuovo, un no di matrice razzista o come si dice ora sovranista – “ognuno a casa propria!" –, ma l’invito a ripensare lo stare assieme dei popoli, a partire delle politiche sociali.
La prima tra queste dovrebbe essere l’immediato ripristino, a tutti i livelli scolari, di ciò che ai tempi delle mie scuole medie veniva chiamata educazione civica. Ma non un’oretta stiracchiata da fare ogni tanto e facoltativamente, come avveniva quando ero ragazzino. Piuttosto tre, quattro, massì abbondiamo: cinque ore a settimana e per tutti! Finché nella zucca di ogni futuro cittadino italiano (compreso gli italiani-italiani, che sono non di rado i più cafoni) non entri l’automatismo che a un buon giorno si risponde con buon giorno a Lei, grazie.
Cose così, semplice galateo si dirà. Sì, semplice galateo. La convivenza civile è infatti come un grande Lego, il cui primo mattoncino è costituito dal galateo, ossia dalla formalità dei gesti prima ancora che dalla purezza del cuore. Tutto il resto viene di conseguenza, quando viene. E quando non viene non starà a noi occuparcene, già che risiede in quel residuo di liberà che la contrattualità sociale ancora prevede.
Tra le pareti di casa si potrà dunque continuare a ruttare, a scoreggiare, persino a prendere a schiaffoni (non troppo forti) la propria moglie. E però a condizione che lei sia compiacente e quasi fiera – cosa più frequente di quanto si creda; “se mi mena vuol dire che mi ama” pensano ancora certe donne...
Ma per quel sano egoismo che ci ha portato a barattare un po’ della nostra libertà e molta, forse troppa felicità, tenderemo in questi casi a girare canale col telecomando. Già che l'Occidente è anche questo: un grande televisore dove c'è posto per ogni show, purché vengano rispettati i tempi e gli spazi della pubblicità.

mercoledì 14 novembre 2018

E la nave va, o sui nomi e l'amore


Un sogno. Una città forse di mare. Il mare non si vede ma nelle narici penetra a ondate discontinue l'odore della salsedine, mentre aspetto di salpare su un traghetto di cui non conosco la destinazione. Che non arriva mai.
Per ingannare l'attesa mi siedo, anzi sono già seduto, chissà da quanto tempo sono lì, al tavolo esterno di un bar di una città che forse è di mare, dalla quale sto aspettando di partire. 
La via su cui si trova il bar è stretta e lunga e piena di gente, come la veranda dove sono accostati i tavolini. Pochi centimetri li dividono, ci dividono, separando i nostri corpi sudati. Mi domando se anche gli altri clienti hanno in tasca un biglietto per il traghetto che continua a non arrivare, nell'odore di salsedine e tartine...
Ho il piede destro che mi fa male, se provo ad alzarmi zoppico e infatti resto seduto, meglio non muovermi penso guardando le piaghe che si allungano fino quasi al ginocchio. Tanto non riuscirei comunque a camminare, concludo.
Odore di salsedine, tartine e carne insaccata a macerare al sole. 
Una mia compagna di scuola delle medie, che sorpresa, c'è anche lei, non la vedevo da anni. Ma la sua reazione non sembra stupita, come se fosse il giorno prima che le scarabocchiavo la foto di Miguel Bosè incollata sul diario, mentre mi dice di conoscere un rimedio a miei problemi. "Miracoloso", aggiunge.

Mi invita quindi ad aspettarla – e dove vuoi che vada… – avviandosi alla ricerca di una farmacia dove acquistare la pozione magica che mi salverà. La vedo perdersi nell'intricato dedalo di una città che è certamente di mare. 
Odore di salsedine e tintura di iodio. 
Dalla parte opposta della viuzza c'è un altro bar, ma senza tavolini all'esterno. Arriva una motoretta a gran velocità. È condotta da un uomo, sembra giovane, un ragazzo, ma non si capisce bene perché ha il volto coperto da un foulard. Il tessuto e stampato a piccole losanghe bianche e nere.

Sfrecciandoci davanti lancia qualcosa nell'ingresso del bar di fronte. È una bomba, grida qualcuno. Una bomba!
Odore di salsedine e paura. 
E poi e subito e nel frastuono generale gente che scappa, tavolini che si ribaltano. I cocktail colorati si mescolano in terra con la schiuma soffice dei cappuccini. Io però non riesco a muovermi, per via del piede. Oddio il mio piede, la bomba, oddio! Mi porto così le mani alla testa e aspetto...
Odore di salsedine e polvere da sparo. 
Ed eccolo: il botto. Bum! La deflagrazione. Fiamme e schegge di vetro che mi raggiungono da tutte le parti, crolli, grida disperate. Poi silenzio.
Sono ancora vivo?
Pare di sì. Mi tasto, verifico la presenza di tutti gli arti, il loro funzionamento, non trovando nulla di alterato. Posso perfino camminare.

Odore di salsedine e grano maturo.
Ma fatti pochi passi vedo il mio cane disteso al suolo. Lo tocco, lo scuoto. Ne invoco l'attenzione come quando cerco di farmi riportare la pallina: Mela, Mela!
Niente da fare, è lei a essere morta. Non io, lei. C'è sempre qualcuno che prende il posto di qualcun'altro. Come Salvo d'Acquisto, penso. Co
me gli imbroglioni che fanno il gioco delle tre carte nei mercatini.
Sapore di ruggine nelle lacrime che mi scorrono sulle guance, ruggine e salgemma, prima di raggiungere la bocca. Dove c'è ancora un pezzo di tartina. 
Il mio pianto disperato sembra non arrestarsi mai, ma qui la scena cambia all'improvviso. Una specie di stacco cinematografico, un'ellissi. Il montatore è stato bravo e tutto avviene con naturalezza.

Vapori salmastri e nuvole che corrono sospinte dal vento, sempre più veloci. Un video di Philip Glass in cui il fiume dei giorni viene distallato in un bicchiere.  
Mi ritrovo così sul traghetto con la mia vecchia compagna delle medie. Simona, si chiama. Ai nostri piedi, mentre lo scafo oscilla dolcemente sulle onde, un cane che scodinzola. È un Hovawart di colore scuro e l'espressione mite e amichevole.

Odore di biscottini al burro, ma al posto dello zucchero il sale.  
Sei contento? mi chiede Simona.
Ci penso un momento.
Non è il mio cane, dico io.
Sì ma è uguale, facci caso, è davvero identico. Ha anche le focature marroni ai bordi della bocca. Guarda che carino… 
Non è il mio cane, ripeto io. Ha un nome diverso. Io non voglio un cane con un nome diverso. Voglio il mio cane!

Odore di salsedine e vecchi vocabolari. 
Poi mi sveglio all'improvviso e inizio a raccontare il sogno a un piccolo dittafono da tasca. Quando ho finito, mi viene in mente una cosa che ripeteva Lacan: "dell'altro, si ama sempre il nome". 
Dalle tapparelle abbassate filtrano intanto le prime luci dell'alba. Ma nella camera, ancora buia, è scomparso l'odore del mare. Provo a riaddormentarmi.

lunedì 12 novembre 2018

Puttane, o sull'amore al tempo del Movimento 5 Stelle

Con l'espressione "puttane" riferita ai giornalisti, Alessandro Di Battista, nei giorni scorsi, non è inciampato nell'ennesima buccia di banana verbale, ma per una volta ha manifestato con chiarezza il pensiero del movimento politico a cui appartiene. Non poteva esserci metafora più calzante. 
Al netto dello sfondo sessuale che non credo possa ancora scandalizzare qualcuno – e nel caso questi sappia che il sesso è ormai cosa pubblica, i selfie di Salvini nel talamo amoroso ne danno ampia testimonianza –, della prostituzione l'attivista pentastellato coglie l'elemento di artificio erotico, la simulazione del piacere che la caratterizza.
Per traslato, quella simulazione da fisica diviene cognitiva, andando a colpire l'intera categoria dei giornalisti. Non un insulto generico e vagamente perbenistico, ma tecnico. 
Se ne ricava che un giornalista è una persona impegnata a simulare un pensiero non proprio, e ciò per compiacenza a interessi personali quanto altrui – poteri come si dice forti, che gli assicurano lo stipendio a fine mese.
A questa prima lettura se ne affianca una ancora più profonda e conseguente. Se infatti i giornalisti possono esprimere solo un pensiero capzioso, un pensiero interessato come gli apprezzamenti sessuali di una donna a ore ("ma che bel fusto, oh, sì, dai… "), ciò significa che da qualche parte debba esistere un pensiero genuino.
Il luogo dell'autenticità coincide naturalmente con il movimento in cui milita Di Battista, le cui stelle, come quella che contraddistingue il salame Negroni, diventano sinonimo di qualità. Di più: di verità!
Ed è così che quando si realizza il flirt politico non è inscenato con astuzia, e, al posto dei mugolii posticci con cui vengono doppiati i film porno, abbiamo un vero amplesso. Quello del Movimento 5 Stelle con il popolo che lo sostiene. Un atto d'amore, arriverei perfino a dire. 
Tra godimento unico e pensiero unico, il passo è però breve…

venerdì 9 novembre 2018

Più io o meno io? Fondamentali quesiti in attesa dell'ispettore Derrick

Ho notato che le persone che frequentano certi corsi su cui sono sempre un po' elusivi, e a che a un'eventuale insistenza al riguardo ti liquidano con la sigla anglosassone di "self improvement"  sviluppare il proprio potenziale individuale, se ho capito bene , sono le stesse che si dichiarano convintamente spirituali, o comunque si cimentano con le tradizioni che provengono dall'oriente mistico e rituale; dottrine, come il buddhismo, in cui l'identità soggettiva è vissuta quale fastidioso intralcio da cui liberarsi al più presto, alla maniera di un cappottino troppo stretto ai primi caldi di marzo.
Se ho sempre capito bene, con una mano è allora come se lavorassero di forbice per sfibrare quell'inutile indumento, ma con l'altra, moderne Penelopi, lanciano la spola del telaio con cui ricompattare i tessuti appena sciolti. Fare e disfare, fare e disfare… 
Di giorno finiscono così col somigliare a supereroi che danno l'assalto al mondo seguendo un unico imperativo: "don't limit your challenges, challenge your limits!" Ma di notte Batman torna a essere un semplice pipistrello, un topo volante indistinguibile da decine di altri topi ugualmente grigi, che sbattono le ali un po' a casaccio mentre ronzano attorno a un lampione che fa le bizze.
Più io o meno io, dunque?
Mi consola il sospetto che siano entrambi innocui passatempi  tessere la propria identità a misura di un glorioso arazzo, per poi usarlo come zerbino 
– come una partita a Burraco quando in tivù non c'è nulla d'interessante da vedere, tipo l'ispettore Derrick o Paperissima.

giovedì 8 novembre 2018

Mee maybe, o sulle carte dell'amore


Una postilla alla mia recente riflessione su Asia Argento. L’editore e filosofo Andrea Colamedici, molto attivo sul web con interventi vagamente paternalistici, ma di solido impianto e scrittura nitida ed efficace, ha appena fatto sentire su Facebook anche la sua voce al riguardo. La tesi è semplice e chiara. Le recenti disavventure e, quindi, avventure di Asia Argento con Fabrizio Corona, lungi dal delegittimarne la posizione all’interno del movimento del #MeeToo (e per estensione l’autorevolezza dello stesso movimento), ne inverano la causa in una prospettiva di assoluta modernità.
E’ cioè troppo facile, continua Colamedici, difendere solamente le povere Desiree, da intendersi quali agnelli sacrificali in quei casi in cui la distinzione tra buoni e cattivi sia chiara come in un film di Sylvester Stallone. Più difficile, ma altrettanto doveroso, è rivendicare il sacrosanto diritto di una stronza a non essere comunque oggetto di molestie, che è poi il senso più vero e profondo della legge a distinguerla dall'empatia. E come nel precetto biblico nessuno tocchi Caino, nessuno tocchi (quella stronza) di Asia Argento!
Bravo Andrea, sono totalmente d’accordo. Anzi, meglio, lo sarei, a una condizione che viene qui data come implicita, rendendo l'intero ragionamento vagamente subdolo e arrischiato. E cioè che sia ormai certa – e non lo è da nessun punto di vista, tanto meno penale – la violenza subita da parte dell’Argento. L’assunzione preventiva di un atteggiamento censorio verso qualsiasi comportamento maschile denunciato da una donna, rischia così di alimentare un clima di paranoia verso quelle che potrebbero rivelarsi delle semplici avance, magari un po’ rozze e volgari.
Il desiderio ha infatti bisogno di uno spazio di ambiguità entro cui oscillare senza essere mai interamente colto, un codice elusivo in cui si possano scagliare sassi o, perlomeno, sassolini e non certo pietre, nascondendo successivamente la mano. E quale sia la differenza tra un sassolino e una pietra acuminata lo deve decidere una comunità nel suo insieme, sentendo i pareri delle donne – tutte le donne, non solo di Asia Argento – ma anche degli uomini. E con "sentire" intendo elaborare un processo di revisione culturale, che può prendere avvio nelle aule di giustizia ma deve poi radicarsi nel sentimento diffuso, farsi racconto, mito, narrazione spettacolare.
Deve insomma cambiare il mondo, e come noto ciò avviene spesso per rapidi balzi, di cui dobbiamo ringraziare anche il movimento del #MeeToo se la libertà femminile, 
in ogni rapporto e non solo sessuale, sta guadagnando in considerazione. Ma le denunce di quelle donne, oltre che ascoltate, valutate penalmente, integrate socialmente, da sole non possono farsi codice etico per i tempi a venire. Già che l’amore, per dirla con le parole di Ivano Fossati, è rimane carte da decifrare.


Asia, i' vorrei che tu Fabrizio ed io... non ci incontrassimo più

Due parole a proposito del flirt tra Asia Argento e Fabrizio Corona, che già dalle prime indiscrezioni ha suscitato commenti particolarmente aspri, sia sul web sia sui media tradizionali.
Per come la vedo io, il problema non consiste in ciò che fanno queste due persone di mezza età con la felpa da ragazzetti, come li ha definiti su Twitter Daria Nicolodi, madre dell'Argento, ma in ciò che non fanno.
All'attivo, nel caso di lui, troviamo infatti solo reati in fondo minori, per cui ha scontato le pene previste; pene gonfiate da atteggiamenti insolenti e smargiassi, è utile ricordarlo.
Quanto a lei, oltre alla gran buriana scatenata dalla vicenda delle molestie attive e passive (un minestrone in cui è fatto salvo il rispetto umano, ma molte le perplessità per così dire "tecniche"), rimane una declinante carriera recitativa affiancata da numerose apparizioni televisive, ugualmente trascurabili. 
Che poi vengano colti in baci appassionati da un teleobiettivo che è nemesi della precedente attività di Corona, non mi pare una stranezza. L'affinità caratteriale e l'aspetto fisico, in entrambi i casi gradevole, sono più che sufficienti a giustificare l'attrazione. Si assomigliano e si pigliano, bon, o se si preferisce dirla con le parole di Gramellini: dio li fa e poi li accoppa.
Ciò che imbarazza è dunque tutto il resto, ossia null'altro 
 ed è davvero un niente di niente, per quanto chiassoso e pervicacemente intrusivo  rispetto a quanto appena menzionato.
La vera domanda mi sembra così spostarsi su di noi, e non perché il gossip sia in sé qualcosa di disdicevole, è anzi una forma elementare di koinè, una con-versazione l'avrebbe chiamata Leopardi con uguale indulgenza, in cui si rinsaldano i vincoli comunitari.
Nel passato riguardava però personaggi di rilievo, che per meriti o per censo guadagnavano il centro della scena pubblica, calamitando le invidie e le più minute proiezioni. Vorrei essere nei loro panni, il sotto testo a ogni insistito sguardo dal basso. 
È inutile negarlo, non siamo solamente nell'immagine riflessa la mattina quando ci laviamo i denti, ma anche nelle brame evocate dalla regina Grimilde: specchio specchio… 
Ma il motivo per cui delle cospicue porzioni della nostra vita emotiva e psichica vengano trasferite su questi due buoni a nulla, divenuti fosforescenti grazie a quel corto circuito che la notorietà, ora, autoalimenta senza altro attributo, ecco questa sì che è una buona domanda. 
La risposta, o perlomeno l'unica risposta che io riesco a darmi, sta probabilmente nel buon senso del Poeta: non ragioniam di lor, ma guarda e passa...

sabato 3 novembre 2018

Le parole e le rose, o sulla frustrazione ai tempi di Facebook

Trovo che Facebook sia un formidabile indicatore per misurare il grado di appagamento sociale e professionale. Quanto più una persona è soddisfatta della propria vita, quanto più rilascerà dei post in linea con gli intenti originari del social network: condividere momenti privati e, possibilmente, belli della più minuta quotidianità. Come le copertine dei dischi che si sono amati in gioventù, le rose che sbocciano sul balcone della casa di villeggiatura, il gattino addormentato sulle ginocchia o i figli che crescono, si sposano, fanno a loro volta dei figli e i padri diventano nonni; così ci sarà spazio anche per le fotografie dei nipotini, il primo bagnetto o un triciclo tutto rosso, su cui scorrazzano trionfali.
Banalità piccolo borghesi, dirà qualcuno. Una lettura molto parziale e snob. Vita, piuttosto, vita al suo livello elementare e non ancora setacciata dal pensiero, incrinata dal dubbio o graffiata da un'attenzione vigile al dettaglio che si fa bandiera, ma bada bene pirata. Ed è quanto fanno invece le persone che avvertono la sabbia sfuggire dalle mani, pensando di costruire qui il loro castello. Ed è così che approfittano di una socialità surrogata per esibire il loro talento, ovviamente misconosciuto, non sempre per un reale demerito va detto. La strategia più praticata è quella di interrogare i casi politici o personali con ragionamenti da cui risalti la propria arguzia, sensibilità, competenza verbale, prontamente riversate sul web nella speranza di ottenere quel riconoscimento che ancora gli manca. È assente là fuori, intendo. Dove i mulini non sono bianchi o i pollicioni blu. 
Ne è un chiaro esempio questo testo, presentato in prima battuta su Facebook e che contiene un altissimo grado di frustrazione; e infatti più che un post è microsaggistica sociologica, antropologia massmediale, giornalismo culturale o come diavolo volete chiamarlo; avendo ostruito i canali ufficiali, trova però qui l'unico sbocco. Le idee e toni possono a volte essere anche giusti, per quanto l'effetto somigli a quello di certi omini grigi e dimessi, l'impermeabile crema e la postura del tenente Colombo quando si gira per un'ultima domanda, che sarà fatale all’assassino. E sempre inizia con: "Dimenticavo..."
Ma che succede, appena sale sullo Speakers' Corner di Hyde Park, una schiarita alla voce, al nostro omino grigio subito si accendono gli occhi, i gesti si fanno vorticanti e teatrali come Hitler quando arringava le folle dalla terrazza del Reichstag! Parole, pensieri, analisi, considerazioni a ruota libera. Sembra sappia tutto lui. Ma siamo sicuri che la gente radunata intorno sia lì per sentirlo, e non in attesa della fidanzata? 
Se dunque provo simpatia per chi ha l'impudenza di mostrare con orgoglio i propri gioielli – "haec ornamenta mea", il sotto testo implicito a molte delle immagini condivise sui social – mi suscita una tenerezza anche maggiore chi, come me, è convinto che il mondo possa diventare diverso e migliore attraverso il linguaggio, nella fattispecie il proprio. Basta seguirci con attenzione, leggerci, amarci. E se non è sufficiente la voce, abbiamo ora quello straordinario megafono che si chiama internet, da cui strillare il nostro “vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio la Trippa!”
Ingenuità? Sì e no. 
Per quanto sia presente una cospicua schiera di velleitari, ad analizzarli con il rispetto che sempre merita l'impegno profuso, i testi dei commentatori seriali risultano non di rado ricchi di spunti interessanti, pensati con cura prima di venire alla luce, per dileguare poi nell'arco di poche ore con una manciata di like a provvisorio balsamo per la nostra frustrazione. Quella di abitare un mondo che ci confonde sempre con qualcun'altro, mentre una rosa è una rosa è una rosa. E se prima o poi anche lei sfiorisce, è per rinascere, più bella e rigogliosa, a ogni nuova primavera. Quindi essere fotografata e finire su Facebook.

venerdì 2 novembre 2018

Io mi ricordo, o sulla figura retorica dell'ossimoro

Ricordo, sarà stata la fine degli anni ottanta e io stavo camminando su Strada Nuova, proprio di fronte alle vetrine di Annabella, ricordo che era autunno inoltrato e avevano organizzato una manifestazione politica, una di quelle manifestazioni politiche che a vent'anni sono un'occasione ghiotta per conoscere delle ragazze. Ricordo inoltre che quando si venne a sapere della manifestazione politica, a Pavia erano piuttosto frequenti nei chiostri settecenteschi dell'università - un'ottima occasione anche per conoscere dei ragazzi, non siamo sessisti -, ricordo che le ragazze che ancora non conoscevo sorridevano, sorridevano i ragazzi che avrebbe conosciuto qualcun'altro, sorridevano tutti o meglio ancora ridacchiavano cercando gli occhi del vicino con sguardo complice, come a una barzelletta di cui il finale fosse noto ma facesse tanto più ridere per questo, già pregustandolo con impazienza. E però la ragione, continuo a ricordare, perché si sorrideva o meglio ancora ridacchiava in quel nebbioso autunno pavese senza che nessuno avesse raccontato una barzelletta, era che a organizzare la manifestazione politica erano stati i giovani liberali di Zanone e Altissimo, che a noi sembrava non si potesse essere giovani e liberali allo stesso tempo, era un ossimoro pensavo io insieme ai ragazzi e alle ragazze mentre osservavo un colbacco in pelliccia di castoro o, forse, non me ne intendo troppo, di marmotta da Annabella, se sei giovane non puoi essere liberale e viceversa, un ossimoro come ghiaccio bollente e illustre sconosciuta. Ma non avrei mai creduto che avrei riso dello stesso riso più di trent'anni dopo, guardando ai giovani del PD.

giovedì 1 novembre 2018

Anima mia, o sull'etica dell'irresponsabilità

Che cos’è il bene? Il bene è la volontà di fare il bene si è pensato per molti secoli con Agostino, quarto secolo dopo Cristo, che ha letteralmente inventato l’etica dell’intenzione. Prima di lui le idee al riguardo erano varie e confuse, e l'indecisione era grande sugli atti che dovessero essere rubricati come virtuosi. Non importano i risultati dei miei comportamenti, ci dice invece Agostino, ma la loro essenza psichica, e cioè lo scopo da cui sono originati. Dunque non sono le strade dell'inferno e piuttosto quelle del paradiso, a essere lastricate di buone intenzioni... 
Si è dovuto aspettare la fine del diciannovesimo secolo perché si facesse largo la consapevolezza che, sì, insomma, avrai anche voluto mostrarmi quanto è bello il tuo elefante, ma magari potevi evitare di introdurlo nella mia cristalleria… E adesso chi paga i vasi rotti?
Allo stesso modo, l’idraulico che allaga una casa rifonderà il cliente dei danni procurati, per quanto stesse cercando, tutta la buona volontà, nessuno lo mette in dubbio, di riparare lo sciacquone del water. E così il parrucchiere che ha tagliato un orecchio, la sua intenzione sarà pure stata quella di scolpire un bel carré, ma che ora cacci fuori un nuovo orecchio, come la maestra
 che per distrazione infila una matita nell’occhio dell’alunno. Ognuno si assuma le proprie responsabilità, e infatti la nuova idea di bene, che ha dato forma alla modernità occidentale, si chiama etica della responsabilità, portando la firma di Max Weber. Non più le buone intenzioni insomma, ma ciò che le azioni, per quanto benintenzionate, producono. Ossia i loro effetti. Al limite ci sarà l'attenuante giuridica della preterintenzionalità. 
Esiste solo una categoria che attualmente ne è immune, e quando rompe non paga: psicologi, psicanalisti e vari artigiani dell’anima, tra cui guaritori olistici con miracolose promesse di palingenesi. Niente, per questo nutrito gruppo di persone è come se le lancette della storia si fossero fermate alle carrozze trainate da una pariglia di cavalli bai, con il cocchiere dalle lucenti galosce. Pura etica dell’intenzione, nessuna assunzione di responsabilità. Nessuna modernità morale. 
Un paziente può andare in analisi per dieci anni – lettino, sogni, padre orco e madre desiderata, non facciamoci mancare nulla del breviario freudiano – e stare peggio di prima. Sarà comunque colpa sua, delle resistenze interne che hanno impedito di portare a buon fine la terapia. Mi dispiace. Auguri e omaggi alla sua signora, sono i soliti novanta euro per l'ultima seduta.
Mah, può anche essere, non voglio forzare verso una critica qualunquistica, per quanto a me sembra una spiegazione un po' di comodo. Oltre duemila anni fa, i medici cinesi venivano decapitati se non mantenevano in salute l’imperatore. Una forma particolarmente radicale di etica delle responsabilità. Ma almeno un calcetto nel culo, al tuo psicanalista che ti prende nella merda e ti rilascia nella cacca, non vogliamo darglielo?