sabato 29 aprile 2023

Pic Indolor, o sulla rimozione del conflitto

Pic Indolor! Finalmente l'ho trovata, è da un po' che ci giravo attorno. Pic Indolor è la metafora definitiva, quella che fa rientrare nel perimetro dello sguardo il debordare sfranto del nostro tempo; alle coordinate geografiche in cui mi trovo, perlomeno. Altrove il male fa ancora male.

Con Pic Indolor, invece, bene e male divaricano definitivamente: per guarire non devi più soffrire al modo dei bambini nati prima dell'epifania di Sandokan in tivù, e perforati nelle natiche da enormi aghi a ogni mal di gola stagionale. Regolare come i treni quando c'era Lui, caro Lei, le tonsille si ingrossavano dopo la prima battaglia a palle di neve.

Ma il vero supplizio era quello domestico che veniva dopo, con l'acme preventivo alla vista della minacciosa siringa: "La puntura no, la puntura NOOO!"

Eppure scopro adesso che avrebbe potuto esserci evitato, tra quei bambini col febbrone e il nonno che accorre con il Corrierino dei piccoli c'ero anch'io. L'ago indolore monouso fu inventato dal Cavalier Boglietti nel 1963, ma si diffuse nelle famiglie italiane – complici le nostre madri diffidenti o sparagnine – solo a partire dalla fine dei '70.

Da quasi mezzo secolo siamo dunque entrati nell'evo dell'iniezione spettrale. Qualsiasi cosa si insinua nelle nostre carni in punta di piedi, anche il vaccino per il Covid, può andare ci dice l'infermiere, come posso andare, già fatto?, che non a caso era il claim pubblicitario dell'ago Pic Indolor.

Solo dopo qualche ora la spalla comincia a dolere, ma tra causa ed effetto ha smesso di esserci un nesso percepito. Il tutto nell'Occidente pacificato da una guerra consegnata a margini ugualmente vaghi. Quando ti cade una bomba sul tetto di casa, il dubbio sulla ragione per cui non c'è più la parete tra te e il vicino di solito ti viene. Se siete ancora vivi potete abbracciarvi, rimuovere i calcinacci, mettere in salvo vecchie fotografie. Oppure lo puoi rimproverare perché ascolta sempre musica klezmer a palla.

La relazione tra dolore e agente che lo procura potremmo anche chiamarla conflitto: Pic Indolor non confligge con l'epidermide, la perfora dolcemente. Eppure non abbiamo smesso di stare male – io ad esempio sto malissimo, non so voi... – ma è un dolore al netto di conflitto, causa, nemico. Stiamo male e basta.

Per questa ragione propongo la messa al bando di Pic Indolor, ritorniamo agli aghi che ti spaccavano il culo. Dopo avere stramaledetto la mamma, la zia o una conoscente che millantava di avere frequentato un corso di primo soccorso, quel dolore che possedeva una provenienza puntuale (e puntuta) poteva produrre i suoi benefici effetti – AHIA! Però il mal di gola dopo due o tre giorni passava, e potevi riprendere il lancio delle palle di neve.

Ora invece rimane, è una sofferenza senza conflitto, se non come eco remota nelle trasmissioni televisive; le monumentali labbra di Lilli Gruber lo pronunciano ma noi non lo vediamo, non lo proviamo. Così come Telefo ci mettiamo allora in ricerca del medicamento per quella ferita che non rimargina; lui lo scopre coincidere con l'origine traumatica, del conflitto è quasi sempre la premessa. L'eroe greco, dopo molte peripezie, ritrova infatti la rugginosa lancia di Achille, che ad anni di distanza converte in bene il male inflitto.

Per quanto mi riguarda, dove devo cercare, quali mari in tempesta solcare, prove iniziatiche superare per essere infine benedetto dal principio di un dolore che non ha trauma, o se ce l'ha si nasconde talmente bene da non potergli fare toppa a nascondino?

Datemi un conflitto, un trauma, un nemico con cui fare pace; ma un nemico vero, non quella caricatura che sono i tifosi di una squadra diversa dagli undici milionari che abusano del più prezioso tra i pronomi: noi. Offrite anche a me una lancia che laceri e quindi guarisca le carni. Non chiedo tanto, mi basta una versione miniaturizzata e pop, una vecchia siringa che sobbolle sui fornelli di cucina. E prendetevi indietro l'invenzione che avrebbe dovuto redimere il mondo, ma ha solo confinato il male sotto al tappeto. 

Facciamo così: a me un unico acutissimo strillo, e a voi la foresta di aghi in acciaio Inox sterile e a triplice affilatura. Pic Indolor, a mai più!

mercoledì 26 aprile 2023

Sostituzione etnica

La sostituzione etnica di cui ha parlato il Ministro Lollobrigida è un concetto del tutto legittimo, perfino elegante nel suo aplomb tra il professorale e il paraculo (le oscene teorie della razza in ogni caso non c'entrano nulla), e semmai possiede l’unico limite di non essere abbastanza netto: siamo una candela quasi completamente liquefatta, facciamocene una ragione.

Il punto divisivo è il giudizio morale che soggiace all'affermazione – a destra totalmente negativo, a sinistra si nicchia negando l'evidenza – che in sé rappresenta solo una fotografia sfocata ma non meno veritiera del presente.

Infatti anch'io, che di destra certamente non sono, non ho difficoltà a riconoscermi in quelle poche parole: sostituzione etnica, a cui si accompagna il fenomeno contiguo e sempre esistito dell’integrazione etnica; ma percentualmente è meno incisivo: il divario nella crescita demografica, da associare alla scarsa e reciproca propensione alla mescolanza di culture obiettivamente distanti, ne limitano l'impatto.

Ciò che mi distingue, e pure di molto, da Lollobrigida, è l'assenza di nostalgie patriottiche: ah le belle mascelle emiliane e le gambe tornite delle donne di pianura, gli affilati nasi toscani, lo sguardo schivo dei genovesi… Dunque non ho timori di sorta, me la auguro addirittura, faccio il tifo per la sostituzione etnica.

In ciò mi sorregge un vecchio articolo di Pasolini, non ricordo l'esatto anno di pubblicazione ma dovrebbe essere stato scritto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, su quel Corriere della Sera a cui adesso sono subentrati i corsivi di Gramellini. Un'altra sostituzione su cui riflettere…

Pasolini aveva parole di fastidio, di più, disgusto, per la gioventù prevalente del suo tempo, divisa tra "capelloni" (i giovani appartenenti al movimento beat) e piccolo borghesi in odore di neofascismo; quel fascismo, per l'appunto nuovo, costituito dalla società dei consumi.

Quindi fu sempre Pasolini a parlare di un Alì dagli occhi azzurri. In una bellissima orazione civile vaticinava l'avvento, quasi messianico, di un giovane uomo proveniente da una delle infinite periferie del mondo, a salvare l'Occidente dalla sua inarrestabile decadenza. Un Cristo laico che si manifesta nell’umile e nel remoto, i gommoni dei migranti come il somaro su cui Gesù entra a Gerusalemme.

Ma cos'è quest'ultima immagine se non il correlativo poetico della sostituzione etnica di cui parla Lollobrigida. Certo, i giovani italiani ora non sono più capelloni, per quanto il fascismo sia un ever green nel guardaroba patrio. D'altronde i loro padri e madri, noi, insomma, hanno proseguito e raffinato quella sottocultura dell'uomo medio (uno uguale a uno, la Lega ce l'ha duro, aiutiamoli a casa loro...) stigmatizzata dal poeta nel cortometraggio La ricotta.

"Lei è un uomo medio" fa dire a Orson Wells, suo sostituto simbolico nella pellicola, rivolto a un goffo giornalista giunto sul set per intervistarlo. "Sa cos'è un uomo medio?" E vista l'esitazione dell'altro, offre una risposta che è una lama che ancora pende sulle nostre teste: "Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste…"

Ma se nemmeno noi esistiamo se non come simulacri su qualche social network, se i nostri figli possiedono una competenza linguistica più che dimezzata negli ultimi anni, se infine è vero che “i confini del mio linguaggio sono in confini del mio mondo”, come suggeriva Wittgenstein, perché paventare e non augurarsi la sostituzione etnica?

Aggiunge Umberto Galimberti che un giovane proveniente, mettiamo, dal Mali, per raggiunge le coste italiane deve compiere una vera e propria odissea: attraversamento di deserti, carceri libiche, denaro per il viaggio da procurarsi in forme avventurose, sfruttamento, fame, sete, imbarcazioni stipate oltre la soglia di galleggiamento e infinite altre peripezie. Da ciò ricava che deve possedere non solo un capitale di desiderio superiore al nostro, ma perfino biologico.

Gli fanno da sponda, sul piano scientifico, inquietanti studi sulla fertilità, nei quali viene dimostrato che gli spermatozoi dei migranti sono in rapporto di cento a uno rispetto a quelli che sonnecchiano nei tuboli semiferi occidentali. Ricordiamocelo. Quando si dice non abbiamo più i coglioni non stiamo utilizzando una metafora.

Ciò che dobbiamo temere non è dunque l'avvento di quei barbari che soli possono vivificare una società esausta, ma una sostituzione assai più insidiosa e non meno improbabile: la sostituzione tecnologica, il mondo nuovo dischiuso dall'intelligenza artificiale che potrebbe fare piazza pulita dell'umano.

Non che questa sia un'ipotesi peggiore di altre per l'ambiente, per i gufi reali, i delfini, la foresta amazzonica e il giaggiolo bianco, meglio noto come giglio fiorentino; in fondo, un coacervo di connessioni in silicio difficilmente potrebbe fare di peggio al circostante. Ma come Lollobrigida qui mostro anch'io dei limiti culturali - che posso farci, all'imperfezione umana ho finito con l'affezionarmi, sono un giudice coinvolto da conflitto di interesse.

Dunque meglio, meglio per me intendo, una giovane donna senegalese che cammina con un cesto colmo di abiti appena lavati al fiume: la schiena ritta e il culo a sbalzo, i colori sgargianti delle vesti, le pupille nere fisse a un poi in rapporto circolare col prima... Sì meglio lei alle lucine rosse verdi di un elaboratore di dati quantizzati.

Per il resto fatevi avanti, sostituitemi pure con pezzi di ricambio più efficienti.

martedì 25 aprile 2023

Non drammatizziamo, è solamente un film

Non drammatizziamo, è solo una questione di corna. Così la peggiore traduzione di un titolo cinematografico francese, Domicile conjugal, lo girò Francois Truffaut nel 1970. Ma forse anche in uno svarione può nascondersi saggezza: prima ancora che una questione di corna era infatti un film, per il quale i distributori italiani mettevano le mani avanti. A cinema, ci sussurravano tra le righe, si va per mille ragioni, tra cui trascorrere serenamente un paio di ore scarse.

Mi viene da commentare allo stesso modo, non drammatizziamo, in fondo è solamente un film, quello controverso di Nanni Moretti, da pochi giorni nelle sale. Ah, allora l'hai visto: com'era com'era... Dai, aggiungi anche tu qualche palata di merda ai giudizi che ne fanno strame!

No, non l'ho visto. Per quanto tutto questo scrivere, commentare, liquidare o cercare il pelo nell'uovo me l'hanno reso familiare. È il brusio secondario di cui parlava George Steiner, che non di rado finisce col sostituirsi all'opera facendo da velo a una visione disposta alla meraviglia, come avviene nei bambini.

Eppure devo riconoscere che molti di questi giudizi sono attendibili, analisi puntuali scritte da persone di cui ho stima e affinità di gusto; ad esempio Stefano Cappellini con il suo lungo articolo su Repubblica, oppure Marco Giusti. Così finisco con l'arrendermi al pregiudizio: probabilmente hanno ragione loro, si tratterà certamente dell'ennesimo film minore a cui il regista romano ci ha abituato negli ultimi anni.

Ora a scrivere è dunque il mio io pregiudizievole. È deluso, di più, incavolato dal fatto che molte delle sue opere precedenti (specie le prime) non erano solamente dei film. Al di là del valore estetico – qualcuna era più riuscita, addirittura in stato di grazia come Caro diario e Palombella rossa, altre meno – al di là del bello o del brutto erano esperienze, e cioè un corpo che esperisce e quindi restituisce con vividezza di resa l'ambiente in cui si muove, con tutti i limiti di questa focalizzazione individuale.

Quel corpo appartiene al doppio cinematografico di Moretti, come lui è un borghese romano acculturato che prende il nome di Michele Apicella, lo stesso cognome della madre da nubile; ma in alcune pellicole rinuncia anche al filtro di finzione: Ecce Bombo ci dice già a partire dal titolo del suo secondo film, versione ironica e aggiornata dell'ecce homo evangelico.

Un uomo spigoloso, lambiccato, che non nasconde idiosincrasie, vezzi e fragilità. Ed è un borghese saputo come abbiamo già visto, quindi i poveri e gli incolti restano ai margini di quel che vede e che prova. Eppure è proprio mostrando il particolare biografico (scrivi del tuo villaggio se vuoi essere universale, ammoniva Cechov) che Moretti è riuscito a restituirci parti di noi. Ci interpellava nel profondo, ci metteva a nudo di fronte a un enorme barattolo di Nutella.

Il dispositivo occulto era quello dei gruppi di condivisione maschile da lui parodiati; una giocosa psicanalisi collettiva, che negli anni si è però divaricata: il suo vespone blu ha preso una direzione, la mia Seat Ibiza a GPL un'altra. Lo vedrò comunque, l'ultimo divisivo film di Nanni Moretti; tutto preso dall'euforia censoria del branco ne ho perfino scordato il titolo.

Forse mi piacerà pure, o così dirò, per anticonformistica posa, aggiungendo un sacco, mi è piaciuto un sacco. Non necessariamente un sacco vuoto, ma neppure la calza della Befana. Un film, appunto. Solamente un film. Come Zorro, come Giovannona coscia lunga, Altrimenti ci arrabbiamo, Francis, il mulo parlante e non uno specchio da interrogare: "Specchio specchio delle mie brame, chi sono io e quale insidie nasconde il reame?"

In quello specchio è rimasto infatti solo il monumento che Nanni ha edificato a Nanni, finendo, come molti di noi con l'avanzare dell'età, a credere al simulacro, quindi ammiccare a una particolare categoria di spettatore più simile al tifoso: “A’ Morè, daje, facce er numero der pasticcere trockista" gli urla questo spettatore dalla curva dove stanno assiepati gli ultras morettiani, "incazzate con le espradrillas!” E come un moderno Don Chisciotte lui si scaglia contro mulini a vento ricoperti da espadrillas, calzature non più indossate da almeno quarant'anni.

O forse no, forse mi sto pigliando una cantonata, pisciando contro vento, accordando a un coro stonato... Speriamo. In fondo sto parlando di qualcosa che non conosco, in quella prassi diffusa dove prima ci si esprime e dopo, solo dopo ed eventualmente, se si ha voglia, tempo e non altro da dire all'immaginario pubblico di un social network, si imprime la conoscenza. Prendetelo dunque come esperimento di critica cinematografica 2.0, dove chi sa possiede pari autorità discorsiva di chi ignora.

domenica 16 aprile 2023

Ora e sempre resistenza!

Se penso, e mi capita spesso, a un claim con cui titolare la svendita politica di questi anni, mi viene in mente resilienza: sia per sua la sua diffusione nei discorsi pubblici dove ha perlopiù funzione ornamentale (guarda che dotta parola conosco, il sotto testo) sia per il corrispondere a un elemento nuovo della società.

Ma facciamo un passo indietro alla definizione del termine, che prima di essere assunto dalla psicologia e generare inflazione mediatica va a definire un preciso concetto fisico: l’attitudine di un materiale a riprendere l’aspetto originario, dopo una deformazione indotta dall'esterno.

Con un esempio è ancora più chiaro. Se mi siedo su una panchina di marmo questa non si deforma, e semmai sarà il sedere ad appiattirsi un poco; mentre se mi siedo sul cofano di un’automobile è probabile che si verifichi un lieve incurvamento, in genere scompare – ma meglio non fare la prova sulla propria auto, consiglio un suv tedesco a caso (Mercedes, Audi, Bmw) parcheggiato in seconda fila – scompare quando ci si rialza per recuperare l’aspetto iniziale. Se ne ricava che la panchina resiste e il cofano resilie.

Ma perché una proprietà fisica è all’improvviso divenuta tanto popolare?

Anche qui può forse aiutarci un’immagine, la prendiamo a prestito dalle vignette da Altan, dove spesso troviamo un uomo a cui hanno infilato un ombrello nel sedere. La cosa buffa, ci fa infatti sorridere amaramente, è che il deflorato non fa una piega, sorride addirittura, parla come se niente fosse: i suoi sfinteri paiono di burro e non oppongono alcuna resistenza, il puntale entra ricordando una celebre sequenza di Ultimo tango a Parigi. Possiamo mettere e togliere l’ombrello all’infinito, ma l'uomo avrà sempre la stessa espressione. La sua diviene così una perfetta rappresentazione di resilienza.

Eppure nei decenni precedenti le cose sarebbero andate in modo diverso. Immaginiamo gli anni Settanta, un periodo storico in cui nessuno ancora elogiava la resilienza. Gianni Agnelli, continuo a immaginare, mette in cassa integrazione centinaia di operai a Mirafiori (centinaia di ombrelli nel culo) e gli operai scendono giustamente in piazza, protestano, marciano sventolando bandiere e gridando il loro diritto al lavoro. Resistono, insomma. Non resiliano.

Se ne ricava che agire un’azione traumatica e invitare la vittima a recuperare il buonumore è gesto sommamente reazionario. Non mi stupisce che siano proprio gli psicologi a raccomandarlo, una categoria di persone del tutto omogenea alla macchina produttiva capitalista; ottanta, cento euro per chiacchierare una cinquantina di minuti, la differenza con un dermatologo è che l'effetto della seduta terapeutica dovrebbe avvenire dentro; quindi se non funziona non puoi contestare il permanere della verruca. Che poi a parlare in genere sei solamente tu, loro annuiscono. E muovere il capo è un’attività notoriamente dispendiosa.

Per le ragioni che ho provato a sintetizzate mi sono convinto che si dovrebbe espungere il termine resilienza dai nostri vocabolari civili; tra parentesi, è orrendo anche foneticamente. Non resiliere, ma resistere agli ombrelli che mani invisibili cercano continuamente di infilarci nel sedere. E quando non ce la facciamo – purtroppo non sempre resistere è possibile – vivere il trauma, piangere se ne siamo capaci, abbracciare gli amici e scagliarci contro i nemici.

Quindi concentrarci sull’ammaccatura. Perché, a guardare bene, neppure il cofano sarà mai come prima, il passato mantiene sempre una traccia nel presente, specie quando si accompagna a una sofferenza. Nell’arte giapponese del kintsugi il trauma viene addirittura esibito come una medaglia al valore, perciò tinteggiano d’oro i vasi di ceramica nei punti dove sono stati riparati.

E se i vasi non sono di gomma, a maggior ragione non lo sono le donne e gli uomini su cui altri esseri umani si siedono sopra. Impariamo allora a benedire e tingere d’oro anche le nostre cicatrici. Rimandando al mittente gli ombrelli di tutti quei giornalisti, psicologi, politici, ormai perfino i compagni di squadra a calcetto ti vogliono convincere della bontà di un vecchio slogan, solo appena appena aggiornato: ora e sempre resilienza, ci sussurrano con tono affabile e complice.

Dillo anche tu, dai, non provare dolore, tanto tutto prima o poi torna come prima. E se qualcosa pure dovesse cambiare, il futuro è un brand registrato. Futuro SPA si chiama. Ma quelli come noi non ne possiedono neppure una quota azionaria.

Eh no, col cazzo che ci sto: ora e sempre RESISTENZA!.

giovedì 13 aprile 2023

Un preghiera sbagliata

L’inconscio collettivo, chi almeno una volta non si è lasciato sfuggire l’espressione alzi la mano. Un concetto che ci fa sentire più alti di qualche centimetro nel pronunciarlo, come Giorgio Gaber quando legge Hegel e si concentra ed è tutto preso; “non per Hegel naturalmente, ma per mio fascino da studioso”.

Eppure mi sto convincendo che oltre a questo benedetto inconscio collettivo – ci sarà… non ci sarà… decidete voi – esiste un inconscio domestico che ci costruiamo da bambini come un castello davanti al mare, ma nessuna successiva ondata riesce a spazzarlo via – occhio dunque a scrivere t'amo sulla sabbia, perché, contrariamente alla canzone, poi resta.

Morale di un post che mi sta scappando di mano, la consapevolezza di un numero limitato di metafore elementari (se non proprio sciocche) che mi porto appresso da quando ne ho memoria, mi induce a diffidare dei cosiddetti percorsi spirituali, dove si mescola Buddha a Ganesh con un pizzico di teosofia.

Per carità, ci sono dei pensieri vertiginosi in quei racconti, sogni, segni, tracce che sarebbe bello provare a seguire, frutto della disposizione alla visione e all’ascolto di uomini e donne come me; forse anche più di me, per quanto non sia una gara.

Ma non sono i miei sogni, le mie tracce, fatico a percepirne la collocazione. Staranno pure nell’inconscio collettivo, sempre lui, ma non nel mio inconscio domestico, che conosce solo una stella non necessariamente polare; era infatti il lucore del televisore in cui guardavo Carosello prima di andare a letto.

Le immagini che nel tempo della sabbia e dei castelli ho associato al sacro sono dunque altre. Gesù bambino, non posso che cominciare da lui, se fosse un film sarebbe il primo attore in cartellone. È sdraiato sulla paglia della mangiatoia, la statuetta mi era stata acquistata dalla nonna nel reparto giocattoli della Standa; da lì l'associazione tra religione e gioco. L'incarnato è di un bel rosa pallido, con il proto pannolone bianco a coprire i genitali, la cui mostra è sconveniente nel figlio di Dio – avrà il cazzo più grande o più piccolo del celebre genitore... Guai a domandarlo a don Gino, il prete dell'oratorio con la passione di Giuseppe Verdi.

Per il Padre ci si deve così attenere alla barba lunga e alla stipsi; diversamente non si comprende quell'espressione sempre un po' incazzata, e sì che basterebbe una pastiglia Falqui per recuperare il sorriso. Ma soprattutto l'angelo custode, a cui prima di addormentarmi chiedevo di tenermi tra le sue mani, angelo mio tienimi stretto stretto fino a domani.

Solo anni dopo ho scoperto di avere sbagliato il testo della preghiera, ma ormai la frittata era fatta ed era l’angelo custode, non il caro Gesù invocato da tutti gli altri bambini, a vegliare le mie notti, ci fosse mai stato qualcosa di prezioso da rubare.

Magari adesso dovrei lavorarci un po' sopra, so però che devo ripartire da un fanciullo con le ali, è tanto che non lo frequento ma so che ancora si nasconde da qualche parte. E quale migliore nascondiglio per gli occhiali che la punta del naso, stare in superficie per non essere visti, dentro quando ti cercano fuori. D'altronde gli altri cosa se ne potrebbero fare, e il fatto che sia frutto di un errore non rappresenta un limite ma una sorta di marchio di fabbrica, di brand che non sono disposto a cedere.

Non mi sfugge la natura di paradosso, ma è all'esserino partorito da una immaginazione ingenua che devo guardare se voglio poi dare una sbirciatina a quel che, invece, sono io ad appartenere, è tanto più grande di me come lo era il direttore della Standa.

Anche lui, il direttore intendo, in quell’epoca remota in cui le auto si chiamavano con nomi di ragazza, aveva un barbone scuro e la stipsi. E il timore che ogni volta mi avrebbe chiesto lo scontrino prima di uscire dalla Standa, rovisto nelle tasche e non lo trovo, giuro che l’avevo messo qui, diglielo anche tu nonna, la nonna è sparita, cerca meglio ragazzino… Alla fine il direttore mi mette al collo un cartello con la scritta: LADRO!

Perciò ho acquistato le statuette del presepe una alla volta. Pensavo che tante statuette corrispondessero a tanti scontrini diversi, più facili da smarrire, con l’unica eccezione dei tre magi: Gasparre, lo stesso nome del mio veterinario, e poi Melchiorre e Baldassarre. Mi sembrava di fargli un torto nel separarli.

 

domenica 9 aprile 2023

Me lo merito Alberto Sordi!


Tre giorni fa ho scritto un post in cui confessavo il distacco della retina dell'occhio sinistro; evento purtroppo diffuso, mica sono stato bravo a farmelo venire. Bilancio: 101 tra like e cuoricini, quanti i dalmata dell'omonimo cartoon della Disney.

Ieri ho scritto un intervento più articolato, sempre su Facebook. Partendo dall'episodio della maestra che imponeva la preghiera a scuola, provavo a ragionare sul complesso rapporto tra interpretazione ed espressione, da cui l'insegnamento quale versante pubblico e civile di tale nesso. Bilancio: 11 like, una squadretta di calcio senza riserve.

Non mi sto lamentando, attenzione! Va benissimo così. Ma immagino che sia un’esperienza diffusa sui social: se scriviamo da core a core, come nella celebre canzone, o ancora meglio da pancia a pancia otteniamo consenso, partecipazione manifesta. L’unità di misura è ovviamente costituita dagli emoticon di gradimento. Il cui paniere rimane semivuoto se, invece, la testa cerca il dialogo con altre teste.

Quando ci stupiamo per il successo dei partiti politici che chiamiamo populisti (ma chi li voterà ci chiediamo? Non di certo noi che ascoltiamo Radio3 e leggiamo Bolano) dovremmo provare a risponderci a partire dalla nostra esperienza, il nostro modo di entrare in una semplice relazione all’interno di una comunità virtuale. Dove pancia si sposa con cuore ed entrambi fanno piazza pulita di testa. Risultato finale 101 a 11.

100 è sempre stato un numero speciale, di discrimine e status. Quando superi 100 ottieni il bonus, e come a flipper si accendono le lucette, a intermittenza, e vinci una nuova pallina.
È difficile interrompere il gioco quando tutto fila liscio, basta non dimenarsi troppo (scrivere troppo, approfondire troppo, l’imperativo è rimanere in superficie e ammiccare o commuovere il lettore) per evitare il tilt.

Non fingiamo di non badare alla ricezione di un testo: chi scrive per sé tiene un diario privato, caro diario oggi è successo questo o quest'altro, non spiattella su un social la prima rogna che gli capita, come ho fatto io con il mio occhio malandato.

In altre parole, Donald Trump, Berlusconi, Grillo, Orbán, Bolsonaro, Meloni... sono già tutti dentro le nostre dita quando componiamo uno status su Facebook, scoreggiamo un tweet oppure piazziamo (la stessa radice di piazzista) un selfie su Instagram.

O per dirla con la battuta di un film di Nanni Moretti: "Te lo meriti Alberto Sordi!" Io di certo me lo sono meritato, forse ce lo meritiamo tutti. Alberto Sordi e ogni altra forma di conformismo, tutta denti e sentimenti.

sabato 8 aprile 2023

Forma e sostanza

La scrittrice Fulvia Degl'Innocenti ha da poco pubblicato un post sulla vicenda della maestra di San Vero Milis, in provincia di Oristano, che faceva recitare l’Ave Maria a scuola, e perciò giustamente punita con venti giorni di sospensione. Aggiunge delle considerazioni discutibili ma interessanti, provo a sintetizzarle con le sue stesse parole:

“Se passa il principio che un docente debba subire punizioni severe quando trasmette i suoi credo (siano essi religiosi, ideologici, partitici) poi però il principio dovrebbe valere anche per chi condanna il fascismo, simpatizza per il comunismo, condanna l'atteggiamento del governo sugli sbarchi ecc... sono solo degli esempi tratti dalla cronaca recente, con docenti richiamati per avere espresso posizioni su questi temi. Ma allora la levata di scudi era unanime contro i provvedimenti e i richiami. Non c'è che per caso in una società sempre più laica e antireligiosa si stanno creando crociate al contrario? Prendetela come una provocazione o uno spunto di riflessione, ma please, non lapidatemi."

No, nessuna lapidazione. Trovo anzi che nelle parole di Degl'Innocenti sia presente un fondo di verità, nel senso di un orizzonte culturale (si sarebbe detto un sentiment prima del bando di ogni anglicismo) da lei osservato da un punto di vista alternativo e decentrato; e a me piacciono i punti di vista alternativi e decentrati, le direzioni ostinate e contrarie.

Rimane però un problema. Un grosso problema logico, che storpia la sua visione come in una maculopatia; ne so qualcosa, purtroppo...

Promuovere l'antifascismo (che è incluso nei valori costituzionali, per inciso) anche quando vissuto con personale partecipazione e non solo didascalico resoconto dei fatti, è altro da imporre agli alunni una preghiera religiosa, genuflettendosi a una vergine del tutto ipotetica. Ma sarebbe lo stesso, quasi lo stesso, meglio, anche con una preghiera laica, come è il canto di Bella ciao: da un lato ti invito a pensarla come me attraverso la persuasione degli argomenti, dall'altra assumo che tu già la pensi come me, nessun pensiero o dio alternativo alle note della canzone. E guai a chi stecca!

Intendiamoci, ciò vale per tutto, non solo per la preghiera o il canto partigiano. A scuola non si intonano inni, laici o religiosi poco importa, politicamente corretti o scorretti (se la maestra avesse fatto cantare Faccetta nera immagino provvedimenti ancora più severi) ma si propongono idee. Quindi le se si argomenta, un buon insegnante è prima di ogni altra cosa un collaudatore.

Alcune di queste idee non supereranno il collaudo, si sfalderanno a una semplice verifica razionale, altre invece la spunteranno e come si dice faranno mondo. Ma tutte saranno necessariamente di parte, perché parziale, ossia situata in uno spazio biografico circoscritto, è la collocazione di chi enuncia un qualsiasi pensiero; e ciò vale anche per le identità collettive, le civiltà, la cui biografia prende il nome di cultura, ed è il prodotto di vittorie e sconfitte per il tramite di armi e parole, che finiscono col fare da filtro allo sguardo che proiettiamo sul tempo presente e soprattutto quello trascorso.

Se ne ricava che non esiste un insegnamento neutro, ma, come voleva un filosofo amante dei cavalli e molto meno delle persone, solo interpretazioni più o memo allineate ai fatti – per quel filosofo i fatti proprio non esisterebbero, io sarei per una minore radicalità.

Ma è presente un necessario limite anche all’interpretazione implicita a ogni insegnamento che consegue; potremmo guardarlo come a un ubi maior tra interpretazione soggettiva e interpretazione collettiva, che già abbiamo incontrato dandogli il nome di cultura.

Bene, se le cose stanno a questo modo nelle scuole pubbliche italiane l’interpretazione ultima e dirimente starà allora alla lettera costituzionale, prima ancora che ai programmi ministeriali. Anch’essa è un’interpretazione, sì, non Verità con la V maiuscola; e questo tratto storico e intimamente umano della Costituzione dovrebbe essere rammentato sempre, sia quando si intenda difenderla sia nel caso di possibili emendamenti. Ma a un qualche punto il gioco delle interpretazioni deve pure arrestarsi, ammettere un principio superiore, un'autorità civile, da cui discendere la legalità intellettuale a cui improntare l'insegnamento.

La Costituzione italiana non è compatibile con alcune interpretazioni della vita di una comunità a cui la scuola deve preparare – razzismo, fascismo, antisemitismo, stalinismo ecc. – ma con altre sì, pur non coincidendo con le ideologie in cui confluiscono andando a costituire un sistema chiuso. Il pensiero religioso cristiano, nella sua dogmatica confessionale, si oppone a una pedagogia che per definizione deve essere laica e dunque aperta, ma contiene molti spunti ampiamente compatibili con la cultura secolare, la quale si è formata in un rapporto per buona parte dialettico e non solamente oppositivo ("Non possiamo non dirci cristiani" ammoniva il laico Benedetto Croce).

Certo, nessuna compatibilità con la preghiera a Maria imposta agli alunni di San Vero Milis, ma se la maestra avesse detto loro che vestire gli ignudi e dare da mangiare agli affamati sono cose buone e giuste, sarebbe stata anche lei una buona e giusta insegnante. Così non è stato, e mai come in questo caso si mostra come la forma fa sostanza.

domenica 2 aprile 2023

Lo schiaffo del soldato

Distaccamento improvviso della retina. Operato ieri d'urgenza, con il chirurgo che ci provava con l'infermiera durante l'intervento – "Conosco un ristorantino dove fanno una frittura di pesce deliziosa, per niente unta, devi assolutamente provare! Anzi facciamo così, un giorno ti ci porto..." le diceva mentre mi bombardava l'occhio con il laser. Il resto è ordinaria sciatteria da sanità pubblica. Se la vita non è un atto unico ma un sequel come Rocky, voglio rinascere ricco: solo cliniche private con infermiere in minigonna e medici allergici alla frittura di pesce. Ricco, un poco scemo (come tutti i ricchi) e con una vista da aquilotto. Ecco il mio Rocky II. Oppure intonato, un vero usignolo; quando canto anche i fucili dei cacciatori si commuovono, sparano fiori come in una canzone degli anni Sessanta. Nella condizione in cui mi trovo sono invece un Bocelli che non imbrocca una nota. Ma vattelo a immaginare che quel futuro che, nei temi assegnati dalla maestra Maccarone, ci procurava un brivido di impazienza nella schiena, si sarebbe presentato in forma di schiaffo del soldato, in cui a essere sotto sei sempre tu. E a ogni sberla che ti arriva da dietro, Dio, gli angeli, Gesù bambino, Buddha, tutti a girare l'indice con un ghigno di sfida: Chi è stato, dai, indovina chi è stato... Quando sbagli – e sbagli sempre, mai una volta che riesci a individuare lo stronzo – giù di nuovo mazzate. Se rinasco vorrei non rinascere più, ecco.

sabato 1 aprile 2023

So long


La penultima volta che ho pianto è stata nell'aprile del 1974, da poco compiuti gli anni con otto candeline sulla torta. Mio nonno Alfredo, detto Pinin, mi aveva accompagnato al cinema della parrocchia a vedere L’ultima neve di primavera. Ho pianto come il bambino che ero quando il bambino sullo schermo sale sulla ruota delle giostre – non ricordo se nevicasse nella circostanza, ma il titolo me lo suggerisce – ormai condannato da quello che veniva allora chiamato un brutto male; "Papà sono stanco, sono tanto stanco" sussurra al genitore mentre la platea di ottenni scoppia in lacrime, e i nonni porgono fazzoletti all'odore di lavanda. Per consolarmi, al termine della proiezione, Pinin mi prese uno spumone con la panna montata nella stessa pasticceria dove era stata ordinata la torta di compleanno, la proprietaria era uguale uguale a Moira Orfei. L’ultima volta che ho pianto è stato invece ieri sera. Ho pianto ancora più forte che al cinema, con singhiozzi, lacrimoni, naso che cola e insomma tutto quanto fa di un pianto una rappresentazione di successo. Peccato che non ci fosse lì nessuno a guardarmi, un frignone fa sempre la sua porca figura. Ero da solo a letto e stavo guardano un altro film, o più precisamente il bel documentario di Nick Broomfield intitolato Marianne & Leonard, Words of Love, che racconta la storia d’amore tra Leonard Cohen e Marianne Ihlen nata sull’isola greca di Hydra. Lui parola inquieta, voce da abissi di Lucky Strike, principio maschile che feconda. Lei placida biondità immersa nelle acque calme dell’Egeo, mano che ogni mattina, domeniche incluse, posa un geranio sulla scrivania dove Leonard compone le sue opere, prima di tornare all’ombra di un vecchio fico. Ma a ben vedere faceva moltissimo: accoglieva, conteneva e offriva un argine a quel fiume in piena, consentendo all’impeto creativo del grande poeta di ricomporre il caos del mondo, quindi trasmutarlo in canto. Un momento, non premete subito il grilletto! Non sto dicendo che così deve essere, che il ruolo della donna è di angelo del focolare e non di Presidente o Presidentessa del Consiglio, fate voi. Semplicemente, a Hydra, nell’estate del 1960, questo accadeva. Ma simile a un sogno, di quelli che piacevano tanto a Carl Gustav Jung: l’animus incontra la sua anima e la incorpora, prima di avventurarsi alla conquista dell'ignoto; Hydra come Itaca da cui partire e ritornare di continuo, Marianne come Penelope. Un sogno in cui possiamo leggervi il simbolo anche a ruoli invertiti, secondo il luogo comune (comune, in questo caso, in quanto accomuna, prima ancora che stereotipo svigorito dall'uso) che vede una parte maschile e una femminile in ciascuno di noi. Ho però il sospetto che Leonard Cohen non ne fosse ancora del tutto consapevole, lui di solito così abile a maneggiare i simboli. Perciò, dopo l'iniziale idillio, cerca di smarcarsi, per consegnarsi completamento alla sua arte, senza realizzare che le due cose si riflettono, e più cerchi di allontanarti più ritrovi il vecchio schema con nuovi travestimenti. Una ragnatela, vi fa riferimento nella canzone dedicata alla donna, So Long, Marianne, interna a lui ma che a lei, qualsiasi lei a questo punto, lo conduce, in un'ostinazione che ricorda l'indirizzo di casa. Se ne accorge dopo cinquant’anni, sei dei quali trascorsi in un monastero buddhista, e un altro matrimonio alle spalle oltre a infinite relazioni, quando viene a sapere che Marianne sta morendo consumata da una leucemia, la stessa malattia che condanna il giovane protagonista dell'Ultima neve di primavera. È alla propria anima che allora si rivolge con una lettera giustamente divenuta famosa. "Beh, Marianne" le dice scrivendo alla donna ma, in fondo, chiudendo il cerchio di quel dialogo aperto tra sé e sé, "beh, siamo giunti al tempo in cui siamo talmente vecchi che i nostri corpi cadono a pezzi e penso che molto presto ti seguirò. Sappi che ti sono alle spalle, così vicino che se tendi una mano riuscirai a prendere la mia. E tu sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non ho bisogno di dire altro in proposito perché di questo sai già tutto. Ora però voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore eterno. Ci si vede più in là…" Un che va preso alla lettera: non cronologicamente, non dopo, ma oltre, in uno spazio accessibile con un po’ di sforzo. Quello, ad esempio, dove un uomo di mezza età incontra un bambino di otto anni. Anche lui ha qualcosa da dirgli: "Beh, giovanotto" attacca con un'ironia che cela imbarazzo ", il nostro pianto ce lo siamo fatti entrambi. Come era lo spumone di Moira Orfei, sempre buono? No, non dirmelo, lo so già. Vedrai quante cose saprai anche tu alla mia età, e saranno più spesso quelle che stanno sotto il naso a sfuggirti. Ma non aspettare un film su Netflix per accorgerti di Marianne, o se preferisci puoi darle un altro nome, quello che più ti piace. Accorgiti. Non cercarla. Lei è già qui, è sempre stata qui. Così vicino che se tendi una mano riuscirai a prendere la mia." "Ma allora Marianne sei tu..." risponde il bambino con gli occhi sgranati. "O forse sono io, siamo noi, la stessa persona dentro infiniti specchi?!" "Non lo so. Non chiederti troppo, l'ho già fatto io e non ha portato a molto. Uno scaffale per ogni cosa, cataloghi, biblioteche. Ogni i con il suo bel puntino sopra, da infilare in un carrello colmo di ciò che chiamavo esperienza, ed era invece solamente consumo. Allunga piuttosto la mano, allunga quella piccola mano, dai... E adesso stringi forte!"