lunedì 20 dicembre 2021

Il punto zero della narrazione


In uno spettacolo teatrale di alcuni fa, il trio formato da Aldo, Giovanni e Giacomo si interrogava sui meccanismi che dischiudono le labbra al riso, andando a ricercare ciò che veniva chiamato zero comico assoluto; sorta di numero primo non più divisibile in frazioni, da cui la risata scaturisce come lava dal cratere di un vulcano.

Tale luogo quasi metafisico, idea platonica della comicità, nella loro interpretazione prende la forma di Tafazzi; un omino vestito tutto di nero (la tutina attillata ricorda quella di Diabolik) che con una bottiglia di plastica vuota si percuote le parti intime, ricoperte da un sospensorio bianco.

È impossibile trattenersi alla sua vista, Tafazzi, che accompagna il movimento della mano con una cantilena da curva sud (oh oh oh oh oh!), è davvero travolgente, un’araldica del ridicolo a cui ogni aggiunta sarebbe di troppo. E chissà che non sia possibile fare qualcosa del genere anche per la narrazione, individuando un’immagine che racchiuda il senso del raccontare una storia e il piacere di leggerla, ascoltarla, guardarla scorrere sul grande schermo. Non necessariamente una metafora, un gesto soltanto: può rimandare a qualcosa ma anche a nulla, al Nulla.

Mi è allora tornata in mente una pagina di Verso la foce, un reportage in cui Gianni Celati, accompagnato da un amico fotografo, si avventura tra le marane da cui è composto il delta del Po, a confluire nei robusti contrafforti con cui si cerca di arginare il grande fiume. Sopra uno di essi Celati scorge un ragazzino che pedala su una bicicletta del genere chiamato Graziella. Si china prima in avanti e poi, con un colpo sincronizzato di braccia e reni, il giovane solleva la ruota anteriore continuando a muovere i pedali, in un gioco d'equilibrio che tutti conosciamo con il nome d'impennata.

Da una parte abbiamo così il fiume largo, fondo e limaccioso, dall’altro il ripido pendio dell’argine e in mezzo una sottile striscia su cui corre il ragazzino con la bicicletta, sempre intento nella sua impennata. Piano piano comincia però a inclinare da una parte – non c’è un momento esatto, non un motivo apparente –, ecco sta per cadere; ma riesce ad arrestarsi proprio a un passo dal precipizio, metà della ruota è sospesa nell'aria umida e tiepida del tramonto.

A quel punto il ragazzino si volta indietro, non si capisce se abbia intravisto lo scrittore e il fotografo, la sua espressione è ambigua, come cantava Giorgio Gaber sembra non sapere se ridere o piangere e allora battono le mani, i bambini della canzone, fanno finta di essere sani.

Il ragazzino sull’argine del Po invece non fa niente, come in Aldo, Giovanni e Giacomo anche Celati agisce per sottrazione, ci consegna solo un’istantanea del suo volto che somiglia (mi figuro io) a quello di Antoine Doinel nel finale de Les Quatre Cents Coups, quando raggiunge correndo il mare, i piedi sollevano i primi spruzzi, la sua fuga dal collegio è andata a buon fine. Ma poi si gira, in questo caso non solo con la testa ma è tutto il corpo a mutare direzione, sembra cominciare a dubitare che il suo obiettivo sia un approdo e non nuovo punto di partenza, e fissa lo spettatore dritto negli occhi. Clic.

domenica 19 dicembre 2021

Lo specchio di io



Strano che nessuno abbia ancora detto che "È stata la mano di Dio" è un film di Pupi Avati. Si è parlato di omaggio a Fellini, se ne ode a un tratto anche l'inconfondibile voce dietro a una porta socchiusa, ma a me ha ricordato il sentimento nostalgico di Pupi Avati, quel monumento alla gioventù perduta che sfocia nelle parole del camorrista di cui diviene amico Fabietto, alter ego di Sorrentino: "Io nun so pazzo, io so giovane!" Però Pupi Avati e più bravo a fare Pupi Avati, così come De Luca è più bravo a fare De Luca – fa più ridere – che non Crozza quando imita De Luca.

Non che il film di Sorrentino sia brutto, al contrario, a me è piaciuto molto, pur continuando ad avere la sensazione che sia stato girato da qualun altro; e ciò nonostante sia presente un nucleo narrativo forte, la voglia o, come si usa dire adesso, l'urgenza di raccontare una storia che cerca di farsi voce dal profondo, non eco d'infinite altre storie che rimbalzano come sulla superficie di uno specchio, uno dei tanti di cui sono piene le sue pellicole. Sarebbe bello, invece, se su quei riflessi il regista napoletano sostasse, per scoprire finalmente il suo volto che finora non è quello di Narciso, ma di Proteo.

E chissà che lo specchio smetta di ripetergli che è il più fico del reame, glielo dicono già tutti e glielo dico anch'io, ma fosse uno specchio magico, una porta attraverso cui si viene introdotti alla radice psichica sfiorata da questo film, a mostrarci come il continuo desiderio di approvazione coincide con l'unica approvazione mai davvero arrivata: quella di un padre nel caso morto prematuramente – ma l'assenza morale non è meno devastante di quella fisica , un padre anche in forma traslata e cioè un Maestro qui identificato in Capuano, un padre che ti dica va bene, non ostinarti a cercare di essere ogni volta il più bravo della classe, va bene così, non servono le frasi a effetto, puoi acquietare quella smania di redenzione della vita in forma ("La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema"), vai bene e soprattutto ti voglio bene.

A quel punto, Paolo Sorrentino e non uno che gli somiglia, o a cui lui cerca ostinatamente di somigliare, potrà girare il suo primo "vero" film. Di cui questo rappresenta solo un prologo, il trailer carico di promettenti aspettative. Dai che ci siamo quasi!

venerdì 17 dicembre 2021

Amicus veritatis, sed magis amicus Fabius Volo



Oggi, su Linkiesta, ho letto per la prima volta un articolo di Guia Soncini, e devo dire che l’ho trovato bello. Argomentato, ben scritto, le stilettate sarcastiche (per le quali è amata\odiata) non eccessive e infilate al punto giusto. Il tema viene ripreso in forma anaforica per tutta la durata del testo, e coincide con la formula: “la televisione ha senso solo se è orrenda.” Nulla di orrendo, al contrario, nella scrittura della Soncini, che però continuerò a non leggere. Perché?

Ci ho pensato un momento, per quanto già conoscessi la risposta. Perché Guia Soncini mi è antipatica – la voce proprio, la faccia che non trovo per nulla brutta, lo dico a scanso di quel sessissismo a cui si viene crocefissi per un nulla, come il sorriso vagamente sornione… Ma in fondo che ne so: l’antipatia, il più delle volte, non possiede un motivo definito. Mi è antipatica. Punto.

Ho poi provato a leggere qualche pagina da un libro di Fabio Volo, scaricato dal web in forma di ebook. In questo caso non c’è però stato il ribaltamento prospettico: Fabio Volo, ai miei occhi, è rimasto uno scrittore della domenica, come si diceva un tempo per qualificare i pittori dilettanti, inebriati da un gesto su cui non possiedono un controllo pieno e smaliziato, forse per il troppo amore che li muove. Uno scrittore della domenica che scrive per un pubblico della domenica. E fin qui nulla di male.

Ma che succede, anche una volta formulato lo sbrigativo giudizio – snob come chiunque attribuisca al proprio gusto una misura universale –, continuo a leggere, una pagina tira l’altra e va a finire che il libro di Fabio Volo me lo leggo fino in fondo, lo divoro, ascolto prima ancora di leggere sentendo risuonare la voce dello scrittore a ogni capoverso, come avviene quando si porta una conchiglia all’orecchio. Eppure non posso ancora dire che tutto ciò mi sia piaciuto.

Il fatto è che mi piace lui, al contrario di Guia Soncini mi è simpatico, vorrei essergli amico e andare a mangiare la pizza con le mogli – in realtà io non sono sposato e neppure fidanzato, ma forse la moglie di Fabio Volo ha un’amica da presentarmi, ancora meglio se islandese come lei continuo a crogiolarmi in una pappa di sogno. Fino a che arriva a ridestarmi una vecchia memoria scolastica: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”, sono amico di Platone ma ancor di più della verità.

La frase viene attribuita ad Aristotele, anche se è dubbio che l’abbia davvero pronunciata. Gianni Vattimo, già una trentina di anni fa, ragionava su di essa come snodo fondamentale della cultura occidentale, in cui la verità viene dapprima avvertita come oggettiva e separata da chi la esprime, ma in seguito si indebolisce sempre più fino a che il soggetto prende il sopravvento sull’oggetto, o ancora più precisamente il senso va a confluire nella relazione: soggetto\oggetto\interlocutore.

La sintesi del suo pensiero che, per l’appunto, viene chiamato debole, ricalca tale ribaltamento: sono amico della verità, ma non esiste verità senza amicizia, o ancora più radicalmente la verità è già nella mia amicizia con Platone. L’uscita dalla metafisica di cui parlava Heidegger sta in fondo tutta qui, nella rivalutazione dell’amicizia come elemento costitutivo della verità.

Mmm… dunque vuoi dirmi che Fabio Volo scrive meglio di Guia Soncini? No, non lo dico né lo penso. Ugualmente, continuerò a leggere scrittori che mi sono sim-patici; e, in un tempo in cui la simpatia non è più consegnata unicamente alla pagina, ciò implica una sorta di regressione del mio status di lettore a livello delle scuole medie, in cui il mondo veniva diviso tra amici e rompicoglioni. Non posso infatti prescindere dall’immagine pubblica che un autore offre di sé, non posso essere oggettivo, la filologia si fa strumento sempre più spuntato, e la sovraesposizione mediatica (che avviene principalmente attraverso i social) finisce col diventare un elemento fondante nel giudizio su un’opera. Da qui il successo di opere biografiche o para-biografiche, altrimenti dette d'autofiction.

La scelta di esporsi per uno scrittore andrebbe dunque valutata con molta attenzione, sospendendo provvisoriamente anche le querimonie sul fatto che Fabio Volo sia in testa alle classifiche, proprio lui, un comico! Quando tu giovane scrittore così bravo, tu che e hai speso 15.000 euro per frequentare la Holden (dove hai imparato le tecniche del cut-up e dello stream of consciousness), tu con trentaquattro libri venduti più uno regalato a una tipa che ti attizza, tu questi argomenti vedi sbriciolare tra le dita, accorgendoti di essere solo la simpatia che sei riuscito a stabilire con il lettore, fuori e dentro al testo.

Possiamo così scegliere di eclissarci e lasciare parlare solo la pagina – ma l’assenza ha comunque un valore evocativo, come testimonia la battuta di un vecchio film di Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” – oppure aprire un profilo Facebook dove sparare battute a raffica, nella speranza che qualcuno ci prenda in simpatia e poi acquisti i nostri libri. Ma qualsiasi scelta si decida di fare, è utile avere consapevolezza che abitiamo un tempo in cui il sentimento illusorio di amicizia per Fabio Volo supera quello per la verità. Anche letteraria.

mercoledì 15 dicembre 2021

Il grande romanzo sul Covid, perché non è ancora stato scritto


La sensazione, diffusa, è che in questi due anni sia accaduto qualcosa di enorme, inaudito. Nei secoli scorsi ci furono epidemie anche più gravi, un dato generalmente ricordato per minimizzare la situazione e criticare le politiche governative, offrendo una risposta giusta a una domanda sbagliata. Ma è un fatto che nella memorialistica del periodo non vi è quasi traccia di ciò che avveniva all'interno dei corpi, la parola era riservata a questioni considerate più importanti.

Nel solo Ottocento si contano in Italia sei ondate di colera, che provocarono 600.000 morti. Chi si è preso la masochistica briga di leggersi per intero gli epistolari di Manzoni, oppure di Leopardi che di colera morì a Napoli nell'epidemia del 1837, o ancora di Benedetto Croce, Cavour, Mazzini, assicura che non vi fanno mai riferimento, non una sola riga in cui si nomini la terribile malattia.

Da ciò si ricava che i nostri antenati non badassero troppo alla salute (e in parte è probabilmente vero, si facevano molti figli anche come "scorta”, distribuendo il rischio che qualcuno morisse prima di raggiungere la maggiore età), e anzi fosse bello vivere mentre scorrazzava un virus, vestirsi con le galosce e farsi cavare i denti con una tenaglia arrugginita.

Eppure nelle narrazioni pubbliche questa memoria è ben presente, sebbene trasfigurata attraverso lo specchio concavo dell'arte – la peste del Seicento, descritta con dovizia di particolari nei Promessi sposi, è certamente un modo per accostarsi a ciò che i contemporanei di Manzoni stavano vivendo con angoscia, così come il Decameron di Boccaccio che innalza il presente a emblema, da cui la sua natura di classico.

Nella nostra epoca i rapporti si sono invece invertiti: dilaga l'aneddotica sul Covid, ma manca il grande romanzo, oppure la pellicola, lo spettacolo teatrale, manca una mediazione artistica che dal particolare emotivo muova all’elemento universale. Se i nostri giorni fossero un film, sarebbe tutto girato in soggettiva, mai un campo lungo, un dolly dall'alto.

Forse questa narrazione onnicomprensiva ha bisogno di tempi di decantazione – Der Tod in Venedig di Thomas Mann fu scritto nel 1921, a dieci anni dall’ultima ondata di colera –, ma il dubbio è legittimo. In un'opera che si pretenda artistica, l’elemento discriminate, ci viene di continuo ripetuto, viene fatto risalire alla forma e alla complessità dell'oggetto indagato, in cui torti, ragioni e virtù sono spesso confusi e paradossali, come lo è l'animo umano.

Non sarà allora un caso che molti scrittori amassero pescare (Hemingway, Carver, London, Melville ecc.), che dello sprofondamento negli abissi del senso si fa chiara metafora. Riflettiamo ora su cosa pesca il nostro sguardo quando si immerge nel presente; non è richiesta un'attenzione particolarmente vigile, basta sintonizzarsi su un talk show televisivo oppure entrare in un social network, e poi confrontare ciò che si legge con il libro della memoria, pensare ai nostri vecchi compagni di scuola.

Fatelo anche voi, cercate di ricordare lo scemo della classe, a volte sono più d'uno; in una bella canzone di Vinicio Capossela questa figura archetipica prende il nome di Spessotto, colui che durante le interrogazioni fa scena muta e "se non funziona vuol dire che è rotto, se non lo capisci allora lo spacchi". Bene, nel mio caso tutti gli scemi della classe, tutti gli Spessotto che ho incrociato sono ora contrari ai vaccini; o detta diversamente: conosco molti scemi vaccinati, ma nessuna persona davvero intelligente che sia diventata no vax.

Questo però è un problema per ogni tentativo di trasfigurazione artistica. La divisione manichea inibisce il gesto creativo, lo riduce a forme bozzettistiche minori, satira sociale tutt'al più. È come se il galleggiante di sughero a cui è appesa la lenza dei nostri scrittori, invece di sprofondare perché il leggendario pesce d'oro ha abboccato e tira giù, giù, sempre più giù dove il mondo si fa indistinto e inquietante, balzasse in superficie per restarvi, come se il mare si riempisse di galleggianti colorati e tutto fosse visibile e a portata di sguardo.

Il significato originario del termine apocalisse coincide con una simile condizione; i veli che nascondono la realtà cadono spontaneamente, e non è più necessario ricercare (con parole, trame, figure retoriche e personaggi) una verità che già si offre con pornografico ghigno, in un movimento che ricorda il maniaco sessuale quando dischiude l’impermeabile crema di fronte a una bambina che gioca nel parco. E se in un romanzo gotico bambina e maniaco, alla fine, si scoprono essere la stessa persona, a noi non viene offerta alcuna sintesi dialettica: gli Spessotto continuano a marciare imperterriti per la loro ottusa via, mentre i primi della classe, con il fiocco azzurro appuntato sul grembiule, stanno vagamente tronfi sull’altro lato del marciapiede.

Per questa ragione dubito che venga mai scritto il grande romanzo sul Covid, le cui pagine sono già squadernate davanti ai nostri occhi, tutto è già oscenamente chiaro e diviso per squadre; Milan e Inter, guelfi e ghibellini, Stanlio e Ollio. E così preferiamo andare su Netflix a cercare qualcosa di più vitale della vita.

domenica 5 dicembre 2021

Understatement, o sul canto finale dei corpi



Conosco persone che spendono un sacco di soldi per acquistare qualcosa, qualsiasi cosa, mettiamo un'automobile, ma che appaia umile, modesta, discreta. Per restare all’esempio, con gli stessi soldi di un macchinone magniloquente e vistoso loro si prendono una Mini.

È il concetto di understatement, che non significa una ricerca dell'umile, del modesto, il discreto, ma del suo involucro. Deve infatti lasciare trasparire uno status superiore, secondo una dinamica di sotto testi comunicativi da far girare la testa; io voglio mostrarti che sono ricco, sembrano dirti, anzi sussurrarti le persone understated, ma nel farlo utilizzo un segno in cui non deflagri la mia condizione, anzi venga come occultata – ma non del tutto. Si deve cioè intravedere che (col cavolo!) io sono davvero umile, modesto e soprattutto povero. Nell’arte retorica corrisponde alla struttura semantica dell’antifrasi: dire una cosa per comunicare il suo opposto.

Riflettendo sulle dinamiche vagamente perverse dell'understatement, mi sono accorto che, prima di diventare un vezzo diffuso nelle classi economicamente più elevate (pensiamo a Bill Gates e ai suoi maglioncini tortora, uguali a quelli impilati sugli scaffali dell’OVS), è stato il modello universalmente accettato per la bellezza femminile. Lo mostra, al solito, meglio di tutti Dante, in quello che potremmo vedere come un manifesto ante litteram di tale disposizione: "tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand'ella altrui saluta"; e da notare anche qui il verbo della reggente, parere, e cioè sembrare, in luogo di un forse più congruo essere.

Ma Dante non si sbagliava mai, e selezionava i verbi con grande cura. Per molti secoli l'Occidente, ma in fondo anche l'Oriente, ha imposto alle proprie donne una sorta di schizofrenia psichica, in cui la virtù (principalmente estetica) era pretesa ma allo stesso tempo negata nella sua piena manifestazione, forse intuendo che la libera circolazione della bellezza femminile poteva compromettere l'ordine sociale; molti miti parlano di questo rischio, a partire da quello del Pomo della discordia, le cui conseguenze condussero alla guerra di Troia. Ecco allora che le forme sensuali e pericolose del corpo vengono ammantate di gentilezza e di modestia, o perlomeno così appare.

Una struttura portante della cultura a cui apparteniamo – il femminile deve essere contenuto, pena lo scatenarsi del caos – entrata in crisi in tempi recenti, quando si è come ribaltata di segno: sono gli uomini, i manager, i vincenti che hanno fatto proprio il modesto travestimento dell'understatement, mentre i velami si sono progressivamente sciolti nella controparte di genere. Basta farsi un giro su qualsiasi social network, dove incontriamo donne anche colte e non più giovanissime, intellettuali spesso, laureate in discipline ardue di cui si mostrano giustamente orgogliose, le vediamo cambiare ogni pochi giorni la propria immagine di status, inserendo fotografie non di rado ammiccanti, un tempo le si sarebbe definite sexy.

Non fa eccezione la politica, che anche in questo si dimostra specchio del Paese. Proviamo a immaginare le donne della Prima Repubblica (Nilde Iotti, Tina Anselmi, Franca Falcucci) nei panni di Mara Carfagna o Maria Elena Boschi, Nunzia De Girolamo, Giorgia Meloni. È cambiata la moda, si ribatterà. Sì e no. La moda femminile si apre infatti al corpo a partire dagli anni sessanta con le minigonne di Mary Quant, ma secondo uno schema fatto proprio dal titolo di un celebre film del periodo: “Poveri ma belli”; quando il potere, che in buona parte già coincideva con il denaro, continuava a proteggersi con un solido carapace dalla penetrazione dello sguardo, come i drappi e le foglie di fico che Daniele da Volterra, meglio noto come il Braghettone, dipinse sopra i genitali negli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, su commissione di Pio IV.

Ciò che contraddistingue i tempi nuovi non è dunque la circolazione del corpo in quanto tale, ma del corpo del potere, il corpo che come i lingotti d'oro nelle banche centrali doveva rimanere occultato per generare valore, secondo il felice parallelismo suggerito da Bataille. Lo squadernamento del corpo non solo femminile (in questo Mussolini fu profeta) segna dunque uno scarto simbolico nella rappresentazione del potere, che al fondo è sempre un potere seduttivo, almeno se vuole essere riconosciuto e non solo subito.

Nelle società tradizionali il corpo del potere coincideva con la maschera, ossia con un "altro” numinoso che ne legittimava lo statuto, e di cui il sovrano veniva rivestito per ipostasi. Era in un certo senso una maschera anche il potere erotico della donna, un’epifania sempre dilazionata, rimandata, come avviene nel cerimoniale dello strip-tease (“e lèvate 'a cammesella, a cammesella gnernò, gnernò"). Il corpo, in altre parole, per regnare qui doveva essere altrove.

Ma se le cose stanno a questo modo, il dilagare del corpo anche nelle classi dominanti, tra i raffinati, gli istruiti, che attraverso la pratica dell’understatement velano al contempo i simboli del loro status, induce il sospetto che il potere del corpo si sia nel frattempo affievolito, e perché ci si accorga della sua esistenza si debba alzare la voce sempre più. Potremmo così guardare alla diffusione dei tatuaggi come a un grido scomposto del corpo, che reclama un’attenzione altrimenti negata: guardami, GUARDAMI! gridano corpi sempre più irrilevanti sulla scena pubblica, e a ben vedere anche su quella privata, sessuale.

Possiamo affidarci al più oscuro dei filosofi, Hegel, che vede i segni del tramonto di un ciclo storico nella sua postrema affermazione, ma anche a un’immagine dolente e familiare, in cui il cigno canta quando è prossimo alla fine. E i nostri corpi, i corpi delle nostre donne, le donne che non sono più nostre ma, giustamente, dei loro corpi, cantano più forte che mai, in attesa forse di richiudere le ali. E senza ali, in effetti, si sale meglio a bordo di una Mini, bada bene con tutti gli optional del caso.