In uno spettacolo teatrale di alcuni fa, il trio formato da
Aldo, Giovanni e Giacomo si interrogava sui meccanismi che dischiudono
le labbra al riso, andando a ricercare ciò che veniva chiamato zero comico assoluto; sorta di numero
primo non più divisibile in frazioni, da cui la risata scaturisce come lava dal
cratere di un vulcano.
Tale luogo quasi metafisico, idea platonica della comicità,
nella loro interpretazione prende la forma di Tafazzi; un omino vestito tutto
di nero (la tutina attillata ricorda quella di Diabolik) che con una bottiglia
di plastica vuota si percuote le parti intime, ricoperte da un sospensorio
bianco.
È impossibile trattenersi alla sua vista, Tafazzi, che
accompagna il movimento della mano con una cantilena da curva sud (oh oh oh oh
oh!), è davvero travolgente, un’araldica del ridicolo a cui ogni aggiunta
sarebbe di troppo. E chissà che non sia possibile fare qualcosa del genere
anche per la narrazione, individuando un’immagine che racchiuda il senso del
raccontare una storia e il piacere di leggerla, ascoltarla, guardarla scorrere
sul grande schermo. Non necessariamente una metafora, un gesto soltanto: può
rimandare a qualcosa ma anche a nulla, al Nulla.
Mi è allora tornata in mente una pagina di Verso la foce, un reportage in cui Gianni Celati, accompagnato da
un amico fotografo, si avventura tra le marane da cui è composto il delta del
Po, a confluire nei robusti contrafforti con cui si cerca di arginare il grande
fiume. Sopra uno di essi Celati scorge un ragazzino che pedala su una
bicicletta del genere chiamato Graziella. Si china prima in avanti e poi, con
un colpo sincronizzato di braccia e reni, il giovane solleva la ruota anteriore
continuando a muovere i pedali, in un gioco d'equilibrio che tutti conosciamo
con il nome d'impennata.
Da una parte abbiamo così il fiume largo, fondo e limaccioso,
dall’altro il ripido pendio dell’argine e in mezzo una sottile striscia su cui
corre il ragazzino con la bicicletta, sempre intento nella sua impennata. Piano
piano comincia però a inclinare da una parte – non c’è un momento esatto, non
un motivo apparente –, ecco sta per cadere; ma riesce ad arrestarsi proprio a
un passo dal precipizio, metà della ruota è sospesa nell'aria umida e tiepida
del tramonto.
A quel punto il ragazzino si volta indietro, non si capisce se
abbia intravisto lo scrittore e il fotografo, la sua espressione è ambigua,
come cantava Giorgio Gaber sembra non sapere se ridere o piangere e allora
battono le mani, i bambini della canzone, fanno finta di essere sani.
Il ragazzino sull’argine del Po invece non fa niente, come in
Aldo, Giovanni e Giacomo anche Celati agisce per sottrazione, ci consegna solo
un’istantanea del suo volto che somiglia (mi figuro io) a quello di Antoine
Doinel nel finale de Les Quatre Cents Coups, quando raggiunge correndo il mare, i piedi sollevano i primi
spruzzi, la sua fuga dal collegio è andata a buon fine. Ma poi si gira, in
questo caso non solo con la testa ma è tutto il corpo a mutare direzione,
sembra cominciare a dubitare che il suo obiettivo sia un approdo e non nuovo
punto di partenza, e fissa lo spettatore dritto negli occhi. Clic.