mercoledì 31 ottobre 2012

Facebook o non Facebook... una questione privata



    Luca, ore 14.17: – Che due coglioni, ragazzi
    Sabrina, ore 14.18: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Giorgio, ore 14.21: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Massimo, ore 14.54: – Anche io, uff, che palle oggi
    Assunta, ore 15.02: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Sabrina, ore 15.16: – Ma ti è successo qualcosa, Luca?
    Beppe, ore 15.17: (Inserisce un pensiero virgolettato in cui si invita a non pensare, accogliere quel che viene, seguire il flusso e in esso scomparire. Firmato Osho Rajneesh)
    Luca, ore 15:19: – Non farmi parlare, Sabri
    Sabrina, ore 15.22: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Massimo, ore 15.27: – Tra parentesi, fossero semplicemente due…
    Luca, ore 15.29: – Che, Max, c’hai tre palle come quello del film????
    Sabrina, ore 15.32: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Vittorio, ore 15.44: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Massimo, ore 15.45: – No, tranqui, ma mi pare che il sinistro oggi sia più basso del destro
    Vittorio, ore 15.49: – Da bambino, io, invece, avevo il destro più piccoletto. Poi si sono pareggiati
    Assunta, ore 15.52: – Ma qualcuno sa quanto è grande, esattamente, un testicolo?
    Luca, ore 16.02: – Dipende, se di Rocco Siffredi un casino!!!!
    Sabrina, ore 16.03: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Giorgio, ore 16.17: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Beppe, ore 16.20: (Inserisce una foto in bianco e nero di due che si baciano appassionatamente lungo una strada affollata. Dallo sfondo – una torre con travi di ferro intrecciate – sembrerebbe Parigi)
    Assunta, ore 16.35: – Hei, conoscete mica un certo Guido Hauser?
    Luca, ore 16.41: – Chi cazzo è, un parente del Dr. House?!!!
    Sabrina, ore 16.42: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Assunta, ore 16.50: – Uno che ha un blog, tipo Vasca da bagno con accendino. Continua a menarla con Facebook. Che piaga….
    Luca, ore 17.05: – Si vede che non ha niente di meglio da fare, poveretto
    Sabrina, ore 17.11: – Datemi retta, quelli che scrivono così è per invidia: le cose o le vivi o ci scrivi sopra. Oppure diventi un politico, che dici le cose da fare e poi fai tutto all'incontrario: fai i soldi....
    Giorgio, ore 17.12: – Politici di merda!!!
    Luca, ore 17.14: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Sabrina, ore 17.15: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Assunta, ore 17.16: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Vittorio, ore 17.20: – Cioè, un po’ più piccolo, il destro, lo è ancora. Però quasi non si vede, e gli slip in ogni caso ribilanciano
Beppe, ore 17.21: (Inserisce un video in cui il coro dell'Armata Rossa esegue un celebre brano dei Turtles, accompagnati, o viceversa, da un gruppo rockabilly finlandese con il ciuffo a banana)
    Assunta, ore 17.25: – Qualcuno sa consigliarmi una buona marca di mostarda?
    Giorgio, ore 17.28: – Mostarda????? Perché proprio della mostarda…..
    Massimo, ore 17.29: – Sì, ho controllato: il sinistro è proprio più basso, di un nonnulla, ma è più basso
    Vittorio, ore 17.38: – Max, ma almeno i tuoi sono grandi uguali?
    Assunta, ore 17.43: – Boh, gli piace la mostarda, a mio cugino. Mi ha invitato a cena la settimana prossima, credo che dovrei portare qualcosa. Ma non beve vino, così pensavo alla mostarda....
    Massimo, ore 17.44: – Sì, mi pare, così, a occhio…. Mi pare che sono uguali.
    Vittorio, ore 17.46: – Ma sono uguali o ti pare?
    Massimo, ore 17.48: – Vitto, come cavolo faccio a esserne certo?
    Vittorio, ore 17.49: – Mettiti davanti allo specchio – nudo, ovviamente. Poi sollevati l’uccello con tutte e due la mani, che se lo fai con una mano sola sembra che una balla è più grossa dell'altra. Non so perché, ma è così. Forse è una questione di prospettiva…..
    Beppe, ore 17.50: (Inserisce un link che rimanda al sito www.complottisvelati.org, che promette importanti rivelazioni. Quindi aggiunge, Beppe) – Cosa vi avevo detto, è tutto un complotto, un grande immenso universale complotto!
    Massimo: ore 17.54: – Incredibile, Vito, sei un genio!!! Adesso sono proprio identici, stavo quasi iniziando a preoccuparmi. Sembrano perfino più affusolati, il batacchio ci dondola in mezzo che è un piacere. E se faccio una corsetta diventa un metronomo!
    Sabrina, ore 17.47: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Sabrina, ore 17.48: – Max, di che ti preoccupavi: ho avuto un fidanzato spagnolo a cui ne mancava uno…. Ma ti assicuro che funzionava lo stesso, altro che metronomo ;-) ;-) ;-)
    Giorgio, ore 17:55: – Vai a vedere su Ebay, Assunta. Lì trovi di tutto. Mi pare che c'è un paese famoso per la mostarda…. Mantova, o forse Crema, boh, prova a cercare
    Luca, ore 17:59: – Io conosco solo la Sperlari, ma mi fa schifo
    Beppe, ore 17.59: (Inserisce una citazione di Oscar Wilde in cui si prende una frase ovvia, la si ribalta di segno – se è affermativa diventa negativa, diversamente la si traduce in affermazione – e poi ci si siede ad aspettare l’applauso, che arriva puntuale)
    Giorgio, ore 18:08: – Sì, la mostarda Sperlari fa schifo pure a me. Però il nome è bello: sper-la-ri, ricorda il saluto in una lingua straniera. Ed è bello anche guardare dentro il vasetto in controluce: i frutti somigliano a tanti minuscoli feti messi sotto spirito, come facevano i naturalisti del secolo scorso, o forse era quello prima
    Assunta, ore 18:14: – Ho cercato, su Wikipedia dicono che è Cremona, non Crema, la città della mostarda
    Giorgio, ore 18.18: –  A me, più che feti, ricordano tanti coglionci variopinti, così per restare in tema.....
    Sabrina, ore 18.19: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Vittorio, ore 18:19: – Anche a mio cugino ne mancava una, di ciliegina ;-)
    Assunta, ore 18.20: – Al mio invece piace la mostarda, che è un po’ lo stesso che non averci le palle…… ;-) ;-)
    Sabrina, ore 18.21: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Luca, ore 18.23: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Giorgio, ore 18.24: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Beppe, ore 18.26: (Inserisce una vignetta in cui Berlusconi, ospite da Putin nel giorno di carnevale, si traveste da Berlusconi e così tutti pensano che sia Berlusconi e lui si arrabbia molto, perché non gli fanno i complimenti per il travestimento)
    Sabrina, ore 18.27: – Ma perché, Assunta, ti interessava sapere di questo Guido Hauser?
    Assunta, ore 18.29: – Boh, no, niente, è che non capisco come si possa scrivere stronzate come questa: avercela con Facebook, intendo. Senza Facebook noi non esisteremmo, ok. Ma nemmeno lui con le sue tirate barbose…..
     Sabrina, ore 18.41: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Assunta, ore 18.51: – I soliti intellettuali del cazzo. Pensano che il mondo assomigli a loro. Poi, un altro giorno, non lo pensano più. Così si mettono in testa che è tutta colpa nostra, noi siamo la macchia di sugo sulla tovaglia, non so se mi spiego….
    Giorgio, ore 18.52: – Ma è vero, Assunta: che te ne fai di una tovaglia, se poi non ci mangi sopra? Siamo noi, quelli che mangiano, quelli che infilano le dita nella glassa densa della mostarda: siamo noi, la Vera immagine del mondo!
    Sabrina, ore 18.53: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Assunta, ore 18.54: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Beppe, ore 18:55: (Inserisce l'intervento di uno scrittore esordiente su un quotidiano nazionale in cui si racconta di come i quotidiani, specie quelli nazionali, non danno voce agli scrittori, specie a quelli  esordienti)
    Luca, ore 18,56: – No no, vi sbagliate: il mondo deve essere più grande e bello di una macchia di sugo, il mondo è la tovaglia. Noi siamo solo il prodotto della fantasia corrotta di gente come questo Guido Hauser – che, tra parentesi, Sabrina, di coglioni deve avercene uno meno del tuo spagnolo ;-)
    Sabrina, ore 18.57: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Assunta, ore 18.58: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Massimo, ore 19.02: – Sono due millimetri, per la precisione. Il mio testicolo sinistro è più basso del destro di due millimetri, ho controllato meglio. Una lieve differenza rimane, anche quando lo tengo rialzato con entrambe le mani
     Massimo, ore 19.03: – Ah, questa cosa della bellezza del mondo me la spiegate un’altra volta, non ci ho capito una sega.... :-(
    Luca, ore 19.06: – Il mondo, la bellezza, il sugo, la tovaglia…. Sì, buonanotte. Ci sentiamo domani va’, meglio se mi faccio un giro in palestra. Che con tutto questo parlare di mangiarini, sento che mi sta crescendo la panza!
    Guido Hauser, ore 19.09: – Sì, ci sentiamo Luca, Assunta, Sabrina, tutti. Ma non sono certo di avere ancora qualcosa da scrivere, temo che questa storia finisca qui. E comunque è stato bello immaginarvi. In fondo avete ragione: il mondo deve essere più grande e bello della fantasia, per quanto uno provi ad apparecchiarla a misura dei commensali. Ma magari, basterebbe cancellare le vostre parole dai miei pensieri...
    Assunta, ore 19.09: – … :-0
    Giorgio, ore 19.09: – … :-0
    Massimo, ore: 19.09: – …:-0
    Vittorio, 19.09: – ... :-0
    Luca, 19.09: – No, dai, scherzavamo… Facci esistere ancora un po’: ti promettiamo che in futuro non ci veniamo più su Facebook, o perlomeno, ecco, cambiamo discorsi
    Giorgio, ore 19.20: – Sì sì, diventiamo “referenziali”, come diresti tu.
    Assunta, ore 19.20: – E non scriviamo più a cazzo di cane, no, scusa a casaccio. Insomma, la prima cosa che ci salta in mente. Da domani solo parole belle, pensieri profondi
    Guido Hauser, ore 19.20: – Niente da fare. Adesso chiudo gli occhi, conto fino a tre, e quando li riapro non ci sarete più: uno, due, due e mezzo, due e tre quarti… e TRE!
    Sabrina, ore 19.10: Mi piace! (Pollicione alzato)
    Guido Hauser, ore 19.10: – Cristo, no, ci siete ancora!
    Beppe, ore 19.15: (Inserisce un filmato preso da YouTube, che però non parte. Compare la scritta “The page you search for doesn't exist”)
    Beppe, ore 19.16 – Dimenticavo una cosa. Ma perché nessuno se le fila mai neanche di striscio, le cose che posto io? (E spegne il computer)

martedì 30 ottobre 2012

Sepolcri imbiancati, o sulla tinteggiatura giornalistica del reale



Sulla pagina web del quotidiano la Repubblica, il prestigioso quotidiano, come si dice, del 30 novembre 2012, compare la notizia di un bambino di dieci anni trovato impiccato nell'appartamento dei nonni, quartiere romano di San Giovanni. Era da poco rientrato da scuola, ha mangiato tranquillamente, poi si è chiuso in bagno. Il nonno l'ha trovato con la sciarpa annodata collo e legata al sifone dello scarico. "E' sgomento a Roma!", esclama l'editorialista. Quindi aggiunge, con volgare insinuazione causale, che "i genitori si stavano separando". La notizia è impaginata a pochi centimetri e con la stessa dimensione di una ricetta per una torta salata con broccoli e salsiccia ("pasta sfoglia, ricotta, salsiccia, broccoli, uova e altri aromi per un piacevole antipasto") e a un simile riquadro in cui un certo Philip Osenton, sommelier inglese di stanza a Pechino, viene immortalato mentre tiene in mano cinquantuno calici da vino. "E' il record", commenta euforica la versione on-line del quotidiano, certamente prestigioso. Seguono altre "notizie" dello stesso tenore, tra cui quella in cui un giovane tuffatore "idolo delle teenagers", si dice sempre nella didascalia, viene mostrato senza indumenti ma con i genitali ricoperti da un foglio di formato a4, da lui stesso impugnato con un sorrisetto sornione. Sul foglio campeggia la seguente scritta: "Follow me on Keek". Viene dunque spiegato che "la foto, diffusa sul suo profilo Facebook e sul sito di microblogging, ha conquistato il popolo della rete con oltre 50 mila 'mi piace' in pochissime ore".

Ora, secondo me, la selezione dei testi, il tono e soprattutto la composizione editoriale, meritano almeno una domanda preliminare, con due conclusioni alternative. La domanda è: il mondo e i suoi fatti dispongono ancora di una gerarchia di senso, oppure l'hanno perduta definitivamente?

Se decidiamo di rispondere di no, se pensiamo cioè che l'esperienza della contemporaneità può essere restituita solamente attraverso una replica stocastica – e dunque speculare – della confusione priva di alcuna collocazione prospettica e intrinseco contenuto in cui l'accadere, per definizione, accade, bene: se ne siamo davvero convinti perché ancora un giornale, perché un sito web in cui si cerca maldestramente di ricompone la polvere sottilissima dell'universo, e non invece e solo il brusio spontaneo dei social network, quel "popolo della rete" che così bene ha imparato a suonare e a cantarsela da solo, senza il diapason di alcun mediatore culturale? In fondo, il postmoderno è questa roba qui: bambini appesi come pupazzetti inermi a un albero della cuccagna grondante salsicce, qualche broccolo per fare "colore", bicchieri pieni e bicchieri vuoti, record cretini, Twitter, Facebook, bicchieri rotti e uomini nudi che sussurrano il loro ammiccante "come on", alla maniera di un'istallazione di Maurizio Cattelan. Ma allora si dovrebbe avere l'onestà intellettuale di essere fino in fondo conseguenti, riconsegnando agli strumenti tecnologici della postmodernità il compito di autorappresentarsi, e alle migliaia di fan del giovane e prestante tuffatore quello di stilare i prontuari di educazione civica, la geometria semplificata del reale. Non ci sarebbe insomma più bisogno di libri, di giornali, di riviste, di studio, di filosofia, di sociologia... No, solo "il popolo della rete" e i suoi "50 mila 'mi piace' in pochissime ore". 

Ma se al contrario decidiamo di rispondere di sì al primo quesito, decidendo dunque che il mondo, per essere interpretato ma prima ancora per essere vissuto, continua ad aver bisogno di scelte discrezionali che ne istituiscano codici di senso e valore, gerarchie estetiche e semantiche e in ultima istanza una trama morale con cui rapportarci per tentare di dirigere l'esperienza, a me sembra che non si possa evitare una conclusione necessaria. Quella che vede nell'impaginazione e nello stile di Repubblica, nei suoi aggettivi stracotti, i titoli roboanti e occhiuti che si uniscono a un pettegolezzo da bottega degli orrori, non la traccia di un esibito e in fondo unanimemente accettato moralismo, ma piuttosto l'eterna distorsione di ogni pretesa virtù nella sua cinica opposizione, e ciò ogni qualvolta si cerchi di farsi sistema autosufficiente e astratto. O se preferite "partito", che è appunto una parte per il tutto, una parte con vocazione alla sineddoche, come affermano sprezzanti i suoi numerosi e altrettanto parziali detrattori.

Detta più cautamente, da qualche anno i giornali italiani, e in specie Repubblica nella sua versione telematica, è come se si fossero trovati in debito cromatico verso una realtà che ha assunto un'accelerazione impressionante e caotica –  immaginiamo un quadro di Mondrian che, nel corso della notte, si converta in uno di Jackson Pollock. Non disponendo di una tavolozza di colori sufficientemente ampia, articolata e complessa, i giornali hanno così cominciato a ridipingere il presente in figure stilizzate, completando il ritratto con la vernice candida e soffusa del Mulino Bianco. Ma nonostante tutto il suo prestigio, a Repubblica deve essere sfuggito che anche il più tragico degli avvenimenti – un bambino che si impicca – quando decostruito nella promiscuità pittorica di una tela composta con una sola tinta, non è più un fatto (ciò che è in quanto "è", con incontrovertibile evidenza) ma neppure racconto, narrazione. Da ciò l'uniformarsi di ogni cosa all'imperativo frivolo e interessato del consenso, i dati di vendita infilzati sulle stecche dell'abaco che misura le nostre vite. Possiamo riassumere tutto ciò nell'estetica dello stuporoso: quel gesto che buca l'indifferenza in quanto gesto, come fa il petardo con il cbiacchericcio trapuntato di clacson e marmitte di una grande città, ma al netto di qualsiasi significato ulteriore che non sia il proprio tautologico boato.

Ed è così che la realtà non solo non viene più descritta con semplice e ingenua referenzialità – una notizia in fondo è un fatto che si autopromuove per intima forza, ossia per la rottura di un ordine comunemente percepito, che è esattamente ciò che sta venendo a mancare – ma nemmeno generata, istituita attraverso l'atto volontario e libero dell'interpretazione, che da Nietzsche in poi è il solo rapporto che possiamo intrattenere con una realtà senza più maiuscola: assumendocene la responsabilità costitutiva, selezionando fatti e parole secondo un principio umano troppo umano. Detta in altre parole, la realtà, privata del suo scheletro interno e intangibile che è la Verità, ha smesso di accadere. Piuttosto succede, un po' qui, un po' là, senza una direzione e una gerarchia apparenti. Come è sempre stato, sì, certo. Ma prima veniva guardata con il filtro ordinatore dell'ideologia, mentre questo filtro, che rende disponibile il reale allo sguardo, ora si è frantumato in migliaia di vetrini. E dunque oggi la "si crea", la realtà. Ma quando non c'è questa consapevolezza del dotto, o viceversa l'umiltà dell'artigiano che semplicemente si china sul mondo, confidando in esso come la mucca nel fieno, realtà e verità vengono eluse, liquidate, seppellite. Divenendo tutt'al più dei sepolcri imbiancati, appunto...


Ps - Se interessati all'argomento, suggerisco un magnifico libro di Federica Sgaggio. Che oltre a dire delle cose sacrosante, e a dirle chiaramente e con numerosi esempi, è anche una bravissima scrittrice. Il libro è questo: Federica Sgaggio - Il paese dei buoni e dei cattivi - Minimum Fax, 2011 (euro 15)

mercoledì 24 ottobre 2012

Facebook 2.0, prove d’orchestra per un nuovo Messia

Facebook, sto lentamente ma profondamente rivedendo il mio pensiero. Fino a poco tempo fa il giudizio non poteva essere più netto: un contenitore idiota per idioti allo stato gassoso, in cui l’assenza di pareti certe e documentabili – i famosi saperi costituiti – consente al peggio di dilagare. Beh, sui contenuti la mia opinione non è mutata di molto; che in Facebook si producano dinamiche comunicative tendenti alla più becera semplificazione, mi sembra evidente. E però, contemporaneamente, mi sembra di avvertire anche altre e opposte tensioni, meglio tentativi. Quelli di riorganizzare il dialogo che fin qui è davvero stato aperto e orizzontale nella forma, oltre che, nella sostanza, paritario per via dell’assenza di qualsiasi tara ideologia o strumentale nel mezzo, che pesa le opinioni (il “messaggio”) sulla medesima bilancia. Nonostante tale premessa egualitaria, da qualche tempo si sta assistendo allo scollinare delle diverse personalità in gioco, in uno sbilanciamento prospettico che possiamo senz'altro far coincidere con il successo: sproporzione nel numero dei contatti, aumento dell'incidenza pubblica di alcuni, riconoscimento sotto forma di plauso e commenti ai post.
Per intendersi, al suo manifestarsi FB somigliava a quel vecchio capolavoro cinematografico di Federico Fellini (Prova d’orchestra), in cui un gruppo di orchestrali, dopo essersi sbarazzati del loro tirannico direttore, si concedono alle più sfrenate e caotiche libertà, conducendo la minima comunità umana qui rappresentata a un’inevitabile implosione. La metafora, certamente estrema e grottesca, rimandava ai processi spontanei di emancipazione da ogni forma di dominio, su cui era facile intuire il pessimismo dell'autore. Se rileggiamo le sequenze in chiave psicanalitica, riconosciamo però anche il principio vincolante della lex publica – estensione dell'autorità paterna – che viene annichilito dal parricidio simbolico del Capo, lasciando spazio a una pletora di "figli" che rivendicano unicamente il piacere sensibile del momento. Ossia non ciò che Lacan chiamava “jouissance” (vocazione intima ad affermare quel tratto discreto della personalità: il proprio insindacabile godimento), ma qualcosa come un diletto effimero e mimeticamente contagioso, che dallo stesso Lacan viene descritto nel Discorsodel capitalista. Ed è esattamente e solo in questo che nel film si realizza il mito rivoluzionario dell'egalitè: nell'equivalenza narcisistica di un piacere pervertito da ogni limite, con ciò cancellando quelle differenze biografiche che rendono possibile la cooperazione musicale.
Bene, se le cose stanno come temo a questo modo, è proprio della patologia sociale connaturata al tardo capitalismo – il desiderio che dilaga senza più una soggettività portante a identificarlo – che il principale social network si fa emblema collettivo. Spazzato via ogni residuo argine di appartenenza storica o territoriale, ogni contrafforte legale o anche solo di semplice galateo, la parola, l'opinione e perfino la sintassi si fanno misura di un piacere espressivo che diviene alla portata di tutti, quindi di nessuno. Potremmo vederla come un coro tragico inclusivo di ogni singola voce, ma di conseguenza ciò che viene meno è il profilo dell'eroe, la dissidenza d'Antigone che è premessa della soggettività moderna. Eppure, eppure… come dicevo mi sembra di avvertire anche delle controspinte, qualcosa che mi ricorda gli attrattori strani di cui parlano gli studiosi dei fenomeni caotici, in cui i sistemi non lineari si auto-riorganizzano alla soglia della disgregazione. Ed è, nel caso di Facebook, ciò che potremmo chiamare fenomeno dei capoclasse. 
Provo a spiegarmi. Cos’è, un capoclasse, nella memoria dei più? Un reggente, nella migliore delle ipotesi un bonario simulacro. Ossia un bimbetto come gli altri, ma provvisorio detentore di un’autorità che lo rende al contempo uguale e diverso, come si diceva un tempo del PCI. E dunque, anche nel caso di Facebook, i capoclasse sono identificabili con persone che non necessariamente esprimono un prestigio sociale o un’acclarata eccellenza (anche se, spesso, tali dux in fabula ereditano lo scettro da sistemi di valore esterni al microcosmo comunicativo – attori, cantanti, scrittori, giornalisti etc.). Persone che per propria vocazione o addirittura per una sorta di mandato assegnato da un ristretto gruppo di conoscenti, iniziano a salire in cattedra, a tenere banco con quotidiana ostinazione, nel tentativo di arginare e quindi governare i flussi verbali della rete. Ed è così che i capoclasse dispensano consigli, elargiscono pillole di saggezza, riorganizzando la profusione informativa in pacchetti semantici che recuperano il principio inizialmente estromesso della gerarchia; che è poi ciò che ne legittima e favorisce la funzione, e per quanto lo scalino sia a questo primo livello davvero minimo.
Mi torna alla mente un certo Tomasoni, anno 1982, collegio religioso di Celana, conficcato sulle pendici delle prealpi bergamasche. L’anno in cui fui spedito in clausura per palesi demeriti scolastici, e in cui durante le ore di studio pomeridiano mi ritrovai tale Tomasoni, a presidiare ringhiosamente la cattedra come un mastino con il suo osso già spolpato. Un mio coetaneo di bassa statura, con un nasone adunco e il sorrisetto sornione di certi personaggi minori dei cartoni animati; e la minorità, davvero era il suo tratto distintivo –  un tizio con cui, se ti andava bene, riuscivi a scambiare due parole stiracchiate sull’andamento del campionato calcistico, o sulla Formula 1. Ma raggiunto il trono lasciato provvisoriamente vacante dagli istitutori, Tomasoni si trasformava: iniziava a parlare, ad ammonire e sentenziare, punire soprattutto, dispensando le temute delazioni per Don Gino. Sorprendentemente e con rarissime eccezioni – io, ad esempio – la classe sembrava però confortata dalla reggenza di Tomasoni, evidentemente preferendo la miseria (umana, culturale) al caos che si sarebbe prodotto in assenza di quel gerarcuccio in formato bonsai.
Ecco, ciò che sta avvenendo nell’inevitabile parabola vitale di un sistema complesso (e Facebook certamente lo è: complesso, ma anche potente e vitale), mi sembra riflettersi nella polverosa fotografia che è sgusciata fuori dal mio albo dei ricordi. Uno sparuto gruppo di persone, perlopiù modestissime, che a incalzanti colpetti di tosse verbale stanno guadagnando posizioni di prestigio comunicativo, come tanti piccoli capetti di una classe svogliata e chiassosa. Un effetto che produce la sua causa, in pratica, una circolarità forsennata che porta a sfornare tutt'al più dei diligenti compitini, simili per acume ai commenti calcistici di un ragazzino di quindic'anni. Ma tutto ciò – ed è questa mi pare la vera notizia – si consuma in un clima che ricorda l'attesa del rientro del professore di filosofia, che con le sue puntigliose disamine della Fenomenologia dello spirito di Hegel si riprende lo scranno intiepidito dagli smilzi glutei del Tomasoni di turno.
O detta in altre parole ancora, Facebook è appena entrato in una seconda e differente fase: da rivoluzionaria a proto-legale, da anarco-trotzkista a burocratico-brezneviana, da Jerry Lee Lewis a Paul McCartney; o se preferite le fragranze incensate di sacrestia, io lo definirei un clima “messianico”, in cui un gruppuscolo di profeti sgarrupati conciona le masse nell’attesa dell’avvento del Vero Messia. Ed è alla luce di questa intuizione che mi pare di poter rileggere un fenomeno sociale che troverei altrimenti incomprensibile. Penso ad esempio a uno dei miei più intraprendenti contatti, una giovane e bella donna che ogni giorno vomita sulla propria bacheca un catalogo gnomico frasi altisonanti, buone per l'annuario delle Giovani Marmotte. Pensierini assunti in forma di ready-made dal catalogo bacio-peruginesco dei saperi,  e che hanno il seguente tenore: “Il posto giusto è quello dove smetti di chiederti che ora è.” 
Ora, il punto a me non appare nemmeno più l’inconsistenza intellettuale o morale di questo modo di intendere la comunicazione, ma, rivoltando il guanto, l’urgenza di una comunicazione “a senso”: qualunque esso sia, quantunque l’evidente incompetenza di chi lo elargisce. E tutto ciò, alla fine, è perfino confortante. Perché ci lascia intravedere come al termine del tunnel di banalità seriali e sfrenamenti pulsionali, Facebook già postuli la reintegrazione mistica del principio paterno dell’autorità, che potremmo vedere come rientro dalla finestra di quel direttore d’orchestra appena cacciato dalla porta, e con esso la percezione di un limite che in psicanalisi è rappresentato dal fantasma della castrazione. E dunque un uomo o una donna, un dotto o un saputo, un santo o un nuovo e più potente demone. Qualcuno che, in ogni caso, farà riaccomodare al proprio banco di formica verdina i vari capoclasse, ripristinando un sistema interpretativo del reale (dunque di potere) di cui già iniziamo ad avvertire il pungolo soffocante e claustrofobico.
Ma anche di questo tocca farsene una ragione, già che, come noto, ogni farmaco è anche veleno, e senza piccoli sorsi quotidiani di bile qualsiasi orchestra si trasforma in cacofonico clangore. O in alternativa bisogna attendere la riduzione del presente in macerie, come nella scena conclusiva del film di Fellini, con la grande sfera di cemento che si abbatte sulla sala autogestita dagli orchestrali, prima che si levi una nuova e più sottile melodia…





mercoledì 17 ottobre 2012

La New Age come le lingue straniere: se non li conosci, la fai franca. Ma se li frequenti ti uccidono il cervello!


La New Age, dico, la cosa che non capisco e mi fa impazzire nella New Age, è che sono un po’ tutti scemi. Dove l’accento non andrebbe certamente messo sull’aggettivo indefinito poco, che un poco di qualcosa lo siamo tutti quanti, ma forse nemmeno sul qualificativo scemi. No, l’elemento curioso e singolare della New Age sta nel quantificatore: tutti. Chi si interessa di New Age, gira e rigira, finisce insomma che la pensa e si comporta in un modo sorprendentemente uniforme, che secondo me è un modo un po’ da scemi. E non sto nemmeno insinuando – me ne guardo bene! –  che la New Age sia una cosa scema, scema in sé. Essendo tante cose, tanti pensieri diversi, sotto l’etichetta della New Age ci staranno infatti dei pensieri diversi, e scemi, ma anche dei pensieri-diversi-intelligenti, non so se mi spiego. Eppure anche i pensieri-diversi-intelligenti, quando raggiungono il bersaglio, o più spesso quando lo mancano, nella New Age producono effetti di “scemitudine”: è questo che non capisco, e più ci penso più ci divento matto. L’unico paragone che mi viene in mente è allora quello con le lingue straniere. Che, secondo me, e anche questo non l’ho mai capito, ma chi studia le lingue straniere e viaggia per il mondo perché dice che a lui, o a lei, meglio a loro interessano le lingue straniere, e se devono dire una battuta o una cosa d’effetto la dicono in una lingua straniera, bon, quelli lì, gira e rigira ancora ma sono un po’ tutti scemi anche quelli, e va da sé che il motivo continuo a non capirlo. Eppure l’aveva già intuito uno che scemo non lo era di sicuro. Si chiamava Friedrich Nietzsche, e, in “Umano troppo umano”, scriveva: “L'imparare molte lingue riempie la memoria di parole invece che di fatti e di pensieri; mentre la memoria è un serbatoio che in ogni individuo può ricevere solo una certa limitata massa di contenuto. Poi, l'imparare molte lingue nuoce in quanto produce l'illusione di una grande versatilità ed effettivamente conferisce anche un certo ingannevole prestigio nei rapporti con gli altri; nuoce poi anche indirettamente perché ostacola l'acquisizione di cognizioni solide e l'intenzione di meritarsi la stima degli uomini in maniera onesta…” O ridetta in soldoni, sempre secondo me, ma pure Nietzsche pensava che sono un po’ tutti scemi, questi delle lingue straniere. Una scemenza diversa da quella dei new ager, d’accordo, una scemenza internazionale e cosmopolita e disinvoltamente flessuosa, up-to-date, ma sempre scemenza è. Una scemenza in stile mela di Steve Jobs, ecco. E allora la cosa che mi chiedo, e vi chiedo, in realtà sono due: 1) perché ci sono dei pensieri, delle attività, che magari nella sostanza sono anche intelligenti, ma che a frequentare quei pensieri e quelle attività, si diventa il contrario dell’intelligenza?; 2) ma soprattutto perché, allora, così tante persone fanno proprio e solo quelle cose lì, che poi a me sembra che diventano un po’ tutti degli scemi…?

domenica 14 ottobre 2012

Gastòn, o sul paradosso artistico



Il cane che si vede nella foto si chiama Gastòn. No, non Gastone come il cugino fortunato di Paperino, ma proprio Gastòn, alla francese, con la pronuncia tronca e l’elisione dell’ultima vocale. L’uomo su cui posa le lunghe zampe e guarda dritto negli occhi si chiama invece Sergio, Sergio Ucciero, dagli amici detto Bubu. O almeno io l’ho sempre chiamato a questo modo, Bubu, da ciò ricavando che era mio amico.

Forse non amico-amico, d’accordo: comunque una persona con cui ogni volta che ci si incontrava era una sosta festosa, l’occasione anche solo per uno scherzo o una battuta veloce e arguta. Peccato che capitasse sempre più raramente. Negli ultimi anni si era infatti trasferito fuori dalla Valtellina – prima a Bergamo, poi Bologna e infine Jesi, dove viveva con la moglie Giuliana e naturalmente Gastone, anzi Gastòn – si era trasferito per via del suo lavoro come agente della casa editrice Einaudi.

La prima libreria l’aveva aperta a Sondrio nel 1975. Solo un bugigattolo, a dire il vero, così piccino che quando d'inverno accendeva la stufa a gas ogni tanto bisognava uscire ad acciuffare un po' d'ossigeno, come i pescatori polinesiani di coralli. Anche il nome rifletteva le dimensioni, Ced, ma, vai tu a sapere come, riusciva a tenerci anche dischi, più che altro dischi. “Consci questo gruppo?” mi chiedeva sornione un Bubu poco più che ventenne, sollevando una copertina variopinta dal mucchio. E io, che di anni ne avevo – e continuo ad averne – nove meno di lui, io preadolescente impacciato e guascone facevo finta di pensare… “Mmm, no, temo di no”. Allora Bubu si avvicinava al suo giradischi Technics, sfilava con dita delicate quello che allora si chiamava un long play, e strizzandomi l'occhio aggiungeva: “Ascolta, va’… Poi mi dici, se riesci ancora a parlare.”

Roba che davvero le parole mi si inceppavano in gola. E quando finalmente rispuntavano, era per pronunciare nomi come Genesis, Led Zeppelin, Doors, Jimi Hendrix, Pink Floyd, Crosby Stills Nash & Young, Jackson Brown, King Crimson. Quindi il suo favorito: Bob Dylan! Così ogni sabato, con i soldi risparmiati sulle mancette dei nonni, gonfio di aspettative mi presentavo alla Ced, da cui uscivo con la benedizione di Bubu e un disco di purissimo vinile, che era la mia eucarestia laica da assaporare durante i giorni successivi. Un disco a settimana, una scoperta, azzarderei perfino a dire un’iniziazione.

Ma come in tutti i culti, c’erano peccati che io dovevo assolutamente sottacere, il più ignominioso dei quali era ascoltare quei gruppi che Bubu liquidava con un aggettivo che vibrava sulle note dell'infamia: “commerciale”. E tra le eresie messe all'indice ci stavano purtroppo anche i Queen (ogni tanto anche i profeti sbagliano...), che erano il mio credo segreto ma, come Pietro a ogni chicchirio del gallo, finivo anch'io col rinnegare: “Non ti piaceranno mica i Queen, vero?" E la mia testa che si muoveva veloce a sinistra, destra, ancora sinistra; per poi fermarsi e chinarsi verso il basso. "Guarda che quella è merda commerciale per piccolo-borghesi con l’otite purulenta!”

“No No, a me piacciono solamente i dischi che mi consigli tu, Bubu, i dischi pregressivi”. “Progressive, Guido, si scrive pro-gres-si-ve ma si pronuncia progressiv…” (Sempre stato un poco pedante, tocca ammetterlo, Bubu.) “Ma ora ascolta questo album appena uscito”, continuava il mio mentore dopo la bonaria reprimenda, da cui uscivo assolto come da una confessione mai fatta, ma da lui sempre intuita. “Si intitola Born To Run ed è di un giovane cantautore americano, uno che si farà. Ah, si chiama Bruce Springsteen.” Ecco, questo era Bubu.

Ma Bubu è anche quest’altro, scopro pochi minuti fa da un titolo sparato su internet:  ”Omicidio in stazione a Bologna: Sergio Ucciero uccide a coltellate Alessandro Porrovecchio”. E così continua l’articolo: “Omicidio in pieno giorno, ieri mattina, nella stazione di Bologna, dove un marito accecato dalla gelosia, l’agente di commercio Sergio Ucciero, 55 anni, ha ucciso a coltellate il nuovo compagno della moglie, l’informatico Alessandro Porrovecchio, 53enne residente a Torino.”

O detta diversamente, la persona che per me ha socchiuso la porta della musica, della bellezza, dell’arte e perfino della gioia, aspettando come ogni buon Maestro che fossi io a spalancarla con un calcio, si rivela ora uno spietato omicida che elimina il rivale in amore con dieci coltellate, otto delle quali vibrate al bersaglio del cuore, una di striscio sulla spalla e l'ultima alla schiena, l'eterno sigillo dei vili. E lo fa con premeditazione, seguendo di nascosto la moglie con un lungo coltello da cucina infilato in un quotidiano, lo fa di fronte a una folla sgomenta con la simmetrica precisione di chi stia sgozzando un maiale, lo fa come se semplicemente fosse una cosa da fare, come testimoniano le sue uniche parole:

"Fuggire, non fuggo. Quello che dovevo fare l'ho fatto."

Ma siamo proprio sicuri che, alla maniera della scienza empirica e del mercato azionario, anche nella vita degli uomini ogni nuova informazione sostituisca la precedente, rendendola obsoleta se non del tutto falsa? No, io non ne sono più certo. Allo stesso modo per cui non sono più sicuro che Bubu fosse solo quel bravo Maestro che ho conosciuto, la battuta pronta e il sorriso indulgente di chi prima ti avvita le rotelle alla bicicletta, ma al momento giusto, zac, le sfila a tradimento e ti ritrovi a pedalare da solo e in equilibrio. Ma allora da dove salta fuori, chi è, Sergio Ucciero detto Bubu dagli amici?

Non lo so, ecco.

Ed è così che una vicenda tanto terribile da inceppare le parole e stringere l'aria nei polmoni – la vittima della furia di Bubu aveva due giovani figlie, due belle ragazze già orfane di madre, due intere famiglie distrutte – si trasforma in una traccia diversa da quella che cercavo: non chi è Bubu, che a questo punto resterà un enigma anche per sé stesso, ma che cos’è l'arte, la letteratura, cosa sono tutte quelle pratiche virtuose che hanno occupato più di trent’anni della vita di chi ha scoperto suo malgrado di essere l’assassino, alla penultima pagina del romanzo.

Perché la grande arte è questo e quello, non sintesi ma paradosso, corda tesa sull’abisso. Se tutti i giornali fanno ora a gara per contendersi il mostro da piazzare in prima pagina, certi della turpe verità dei fatti, a me viene da dire che sarei una persona diversa e peggiore, una camera senza porte né finestre se non avessi conosciuto Bubu e accolto i suoi consigli letterari e musicali, che hanno contribuito a far diventare casa la mia tiepida tana di bambino. Ma diversa e peggiore è adesso anche la vita di molte persone, a cui si aggiunge quella di un bel cagnolone maculato, un Grand Bleu de Gascogne che immagino seduto di fronte alla porta, lo sguardo basso e la coda riposta tra le cosce muscolose.

Sì, è un’immagine vagamente patetica che forse non fa buon servizio alla causa, ma c’è un momento in cui l’esistenza di ognuno viene contesa dentro una biforcazione dolorosa: da una parte i buoni, i belli, i giusti, mentre dall’altra ci stanno i brutti, sporchi e cattivi. È dunque questa la vera immagine del mondo? A leggere il verbale dei Carabinieri, sembrerebbe proprio di sì: c'è un carnefice, c'è una vittima e c'è un intero coro tragico, che punta l'indice. Eppure da qualche parte ci sono anche quelli che non capiscono, che stanno lì e continuano a farsi le domande, non credendo che le cose e le persone si possano separare con un coltello, come ha cercato di fare Bubu alla stazione di Bologna.

E allora se la parola verità diviene puro balbettio nella cronaca giornalistica e vertigine retorica nell’arrampicata concettuale dei filosofi, chissà che non vada ricercata proprio nella figura del dubbio letterario, in cui la responsabilità penale non fa sconti a nessuno ma quello che viene sospeso è il giudizio umano, riflettendosi infine negli occhi acquosi di Gastone, da pronunciarsi mi raccomando alla francese. Che è ancora lì di fronte al portone serrato, Gastòn è li che aspetta e forse si domanda: “Ma quando torna Bubu, quand’è che mi porta la zuppa, quando andiamo al parco a giocare a barattolo e pallina, quando…?”


(Ps - Sono andato su Facebook è ho ricercato anche il profilo della vittima. Sembra una persona per bene, a cui piacciono le cose belle: la buona musica, il jazz in particolare, e dispiacciono le cose brutte. I riferimenti umani e culturali - "il pedigree" dei social network - è incredibilmente simile a quello di Bubu, come se avesse scagliato la lama contro uno specchio in cui non ha riconosciuto il proprio volto. Ma Facebook è uno specchio opaco che non seppellisce i suoi morti, e Alessandro Porrovecchio è ancori lì che ci guarda da sotto le lenti impenetrabili e scure, mentre sulla sua bacheca compare questa scritta: "La voglia di sorridere, su tutto e nonostante tutto...")