mercoledì 28 febbraio 2024

L'arte di amare e di vendere i libri

Ieri ho pubblicato la copertina di un libro di tale Lara Stelee (immagino sia uno pseudonimo) nel quale si promette di svelare ogni segreto su una pratica diffusa nelle carceri di massima sicurezza e augurata a chi non concede la precedenza sulle strisce; e in effetti in 109 pagine qualcosa verrà pur detto, ho scarsa confidenza con la materia ma vado in fiducia.

Poco importa che l'approccio appaia particolarmente buffo e sgangherato, se non bastasse il titolo  – "Guida completa al sesso anale per lui e per lei" – ci pensa l'occhiello a chiarire le intenzioni: "tutto quello che dovete sapere per poter incu**** il vostro partner e farlo impazzire di piacere". Il fatto è che non si tratta solo di celia ma di emblema, nella comicità di quel titolo riverbera un tratto comune all'editoria del nostro tempo.

Si tratta ormai di un vero e proprio genere, potremmo definirlo manualistica di relazione. Non c'è un aspetto del rapporto uomo donna, uomo uomo, donna donna, genitori bambino, umani animali, piante, robot, extraterrestri e insomma chiunque con chiunque per cui non venga offerta una soluzione virtuosa, un'ortoprassi. Quindi un libro che l'involtoli e ne faccia pedagogia.

D'accordo, il kamasutra e l'ars amandi rappresentano un precedente antico e dovizioso, ma nella partita a poker con la storia il rilancio appare inaudito. In fondo ciò che ci emoziona nell'incontro tra corpi è la sua natura di evento – qualcosa che accade come lo scirocco: se stai andando per mare si gonfia il fiocco e si tende la randa, mentre in casa sbatte una finestra. Così, se riduciamo l'evento ad argomento, magari le cerniere della finestra dureranno più a lungo, però ci perdiamo qualcosa... La sorpresa, il sobbalzo, l'emozione dell'imprevisto. A quel punto tanto vale sostituire anche le vele con un motore fuoribordo.

Non voglio generalizzare nemmeno in senso opposto, per quanto lo sfiorarsi inatteso di due mani che fino a un attimo prima erano diversamente intente – ad esempio a infilzare delle olivette di Gaeta –  talvolta può essere più interessante di un pompino fatto a regola d'arte. Ammesso e non concesso che davvero esista l'arte del pompino, lo scopare da dio, fare impazzire di piacere il vostro partner come assicura Lara Stelee, seguendo istruzioni simili a quelle per montare uno scaffale Ikea.

E se ogni rapporto compreso quelli sessuali, anzi soprattutto i rapporti sessuali di ogni genere e forma, non fosse invece un tentativo con cui gli esseri umani si scambiano la propria singolare e perciò tanto più preziosa imperfezione, come fanno le scimmie quando si spulciano a vicenda? Ma immagino che la Stelee non sia d'accordo, e ho visto che è già alle stampe un imperdibile sequel sul cunnilingus.

lunedì 26 febbraio 2024

Parole parole parole, e anche qualche inc*****

Non mi stupisce né tanto meno indigna, ci mancherebbe, l'oggetto di questo libro, ma il numero delle pagine: 109. Dico, 109 pagine in cui si parla unicamente (e completamente, come viene specificato) di un gesto che in un film di Fassbinder si risolverebbe in uno sputo proprio lì, segue smorfia di piacere misto a dolore sul volto del marinaio di turno e bon, poi basta, cosa vuoi aggiungere ancora? E invece no, 109 pagine  ci vuol talento anche ad allungare il brodo! Si mormora che Lara Steele stia già lavorando a un sequel sullo squirting. Ma qui mi aspetto che si superi: 1415 pagine, come Guerra e pace. Tutte e solo sulla fontana dell'amore.

Lettera aperta a Marco Lodoli, o sulla creatività

Nei corsi di qualsiasi materia artistica viene ignorato o più spesso taciuto – sarebbero clienti in meno – ma andrebbe invece dichiarato come il conosci te stesso inciso sul frontone del tempio di Apollo, in questo caso sostituito da un disclaimer posto all'ingresso della Holden: LA CREATIVITÀ NON È PER TUTTI, lasciate ogni speranza o voi che entrate. Ma non perché solo pochi siano potenzialmente creativi.

Io penso che la disposizione a creare sia un attributo di natura, come parlare e camminare e, qualche anno più tardi, scopare. Solo che possiede condizioni limitate per svilupparsi, si dà solo all’interno di un corridoio mediano tra la spensieratezza e la disperazione. Contrariamente a ciò che vorrebbe la vulgata il dolore inibisce la creatività (tutte balle la leggenda dei geni disperati che trasfondono il loro dolore su pagine o tele) non meno del suo gioioso opposto.

Possiamo vederla alla maniera di un viaggio: i popoli dell'arcipelago tropicale non sono mai stati dei grandi navigatori, al limite facevano qualche pagaiata a ridosso della riva per andare a recuperare un gamberone o un pargo, mentre le donne del villaggio raccoglievano noci di cocco. D'altronde, per quale motivo avrebbero dovuto spostarsi? Avevano già tutto e in abbondanza: frutta, pesce, animali selvatici e clima buono.

Dalle regioni nord occidentali (Gran Bretagna, Irlanda, Norvegia, Svezia) si prendeva invece spesso la via del mare. La partenza non aveva una direzione certa: qualche sacco di gallette e un desiderio indefinito, grande – tutti caratteri comuni alla creazione. Ma, nel caso, salivano a bordo di vascelli non proprio rassicuranti solo i più avventurosi e sani, in una condizione altrettanto mediana tra il benessere materiale di nobili e cicisbei, e la fragilità del corpo che inchioda alla croce dei luoghi; un crudele gioco del fato, ricorda quello dei bambini con la coda delle lucertole.

Con questo rispondo anche a Marco Lodoli che, quasi trent'anni fa, mi telefonò a casa per consegnarmi il mandato a diventare uno scrittore, senza accorgersi che stava replicando la situazione del suo romanzo I fiori. Tito, il protagonista, comincia a ricevere delle lettere anonime: “Tito, scrivi”, nient’altro viene detto. E così lui lascia un’anonima provincia per raggiungere Roma e diventare uno scrittore. Che ci riesca o meno, e cosa voglia dire per Lodoli essere scrittori, lascio al lettore il piacere di scoprirlo.

A differenza di Tito io però non l'ho mai fatto. Lucertola. Legno. Chiodi. Caro Marco, ti sbagliavi. La mia vita non è mai stata compresa in quel corridoio mediano dove corrono i bolidi assieme alle utilitarie, il giudizio di valore artistico è un problema successivo. Troppo spensierata e lieta la giovinezza, troppo disperante il seguito in cui mi trovo. Forse solo strappandomi a morsi la coda potrei liberarmi e partire, seguire le rotte dei marinai o quelle dei grandi scrittori come te.

Dicono che alle giovani lucertole la coda poi ricresce – ma a quelle vecchie e malconce?

Ps – di Lodoli è appena uscito il romanzo Tanto poco, edizioni Einaudi.

sabato 24 febbraio 2024

Incontri, o sull'autenticità

Mi capita sempre più spesso di abbozzare delle brevi conversazioni con una cassiera dell’MD. Io vado a quello di Casacce, lo preferisco alla sede di Sondrio (più grande, fornita e soprattutto vicina a casa) perché meno affollato, rare le code alle casse. Dunque nessuna furia nel riporre il latte d’avena e i cavoletti di Bruxelles nel borsone giallo, hanno una birra al luppolo in fiore di Ravenna molto buona, sulla confezione dello yogurt controllo sempre prima la scadenza, faccio ogni cosa con calma e intanto ho iniziato a scambiare qualche parola con la cassiera, a cui ne sono seguite altre.

È cordiale e simpatica con tutti, quel tanto di eccentricità nei modi più che nell’apparire (uniformato dalla divisa d'ordinanza), anche carina, alta, genere Jean Seberg in À bout de souffle; ma quest’ultimo è un pensiero che alla mia età va subito restituito allo scaffale in cui campeggia la scritta: fuori tempo massimo. Quando l’argomento è caduto sulle serie televisive abbiamo scoperto di avere gusti comuni: per entrambi Mad Men è una delle serie più belle di tutti i tempi, ma lei non ha ancora visto Fargo; devi assolutamente vederla le ingiungo ogni volta, ma poi c’è il cliente successivo che inizia posare le crocchette per il cane sul nastro scorrevole, seguono budini, salsicce, una sottomarca della Coca-Cola... I nostri discorsi finiscono così col somigliare al loro argomento, si interrompono bruscamente per riprendere alla spesa successiva, sono un sequel dalla durata brevissima.

Certo, non è possibile addentrarsi in sottili disamine (perché Don Draper non vuole avere rapporti con il fratello… e di cosa è metafora la sua smania di accaparramento femminile?) ma solo incontrarsi a quel livello basico dell’umano che è il piacere – a me piace questo. Piace anche a te, ma dai! Allora siamo in due, come scrive Emily Dickinson in una celebre poesia. È un istante, in cui il minimo cerchio che chiamiamo io, allo stesso modo dell’insiemistica, si sovrappone al cerchio del tu, e dall’intersezione è come se emanasse un fugace bagliore, quasi un abbaglio.

Cosa ci sia dietro l'intensità di quel riflesso non è dato sapere, in fondo anche l’oggetto verbale è solo un pretesto, si pattina con le parole in superficie. Eppure è proprio da una disposizione svagata – come a dire esposta, indifesa – la premessa per perforare l’occasione ed entrare senza bussare, sporgersi alla soglia dell’altro in una relazione che, per paradosso, è tanto più vera quanto più limitata; come se il resto fosse troppo, il mondo una forma di esubero.

Nel raggiungere il parcheggio dell’MD e da lì la mia Seat Ibiza a GPL, aprire il portellone, caricare la spesa, mi sembra di avere avuto un incontro autentico con un altro essere umano. Chissà, forse l'autenticità è proprio questo: un riverbero a fior di pelle, un aura che se viene osservata troppo a lungo dilegua; meglio dunque non approfondire, lasciare gli abissi della terra agli speleologi e quelli dell'anima agli psicanalisti. Controllo l’orologio, il tutto è durato tra i sessanta e i centoventi secondi. Bastano e avanzano per quel precisissimo radar chiamato piacere.

domenica 18 febbraio 2024

Scrittori ed entraîneuse, o su come si cambia per non morire

 

Un paio di anni fa avevo letto un libro di Renzo Paris che mi era piaciuto molto. Si intitola Il picchio rosso – bello anche il titolo – e appartiene alla collana di Editoriale Scientifica diretta da Fabrizio Coscia. Ho così pensato di aggiungere Renzo Paris ai miei contatti Facebook; vedo che abbiamo 332 amici in comune, evidentemente (come faccio io) accondiscende la richiesta a cani e porci. A due anni dall’invio mi rendo però conto che non l’ha fatto con me. Sono ancora lì che aspetto. Mi sa che non ha nessuna intenzione di intrupparmi…

Attenzione, disclaimer: questo non è un intervento contro Renzo Paris, ma il tentativo di una riflessione sul rapporto tra scrittore e lettore, a cui sospetto i social non abbiano giovato. In fondo ci aveva già ammoniti Salinger: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato” scrive nelle ultime righe del Giovane Holden, “sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”

Possiamo guardare all’amicizia sui social come al surrogato di quella telefonata. Solo che Renzo Paris non ha risposto e, nonostante per 332 volte le nostre bolle si siano intersecate, ne ha tutte le ragioni. Negli ultimi anni è passata un’idea metonimica dell’amicizia: oltre i quindici amici in comune è automatico che una persona sia anche tua amica; cosa che aveva un qualche fondamento nella vita reale, ma sui social è pensiero magico. Del genere se incrocio per strada tre donne incinte a breve avrò un figlio.

Per fortuna sul profilo non viene indicato il numero di telefono, altrimenti la scena prefigurata da Salinger sarebbe all’ordine del giorno: “Ciao, sì, lo so che sono le due di notte ma ti prego ti prego ti prego, non mettere giù! Sono un tuo lettore.” Un lettore, appunto, non un amico.

E dunque bravo a Renzo Paris che non mi si è filato neppure di pezza. Peccato che questo pregiudizio di amichevolezza è duro da estirpare, e così ora sono condannato a leggere i libri di Paris con occhi diversi, a leggerli o magari a non leggerli più. Potremmo anche guardare all’amicizia come a una nuova forma di paratesto, che condiziona e a volte pregiudica la lettura, la inibisce. Non va confusa con la coda di paglia, ma è mancanza di un pezzo costitutivo: l’illusione di intimità, che è subentrata alla sospensione di incredulità della letteratura del passato.

È il prezzo che gli scrittori devono pagare alla società dello spettacolo: o incoraggiano i tentativi di corteggiamento da parte del lettore – solo un po’ si intende, come sapevano fare le donne negli anni Cinquanta: carota e bastone, carota e bastone – oppure li perdono.

Molto meglio quando gli scrittori stavano di qua e i lettori di là, e solo dei matti veri, come in Misery di Stephen King, potevano pensare di saltare lo steccato. Ma adesso che siamo in regime di promiscuità lo scrittore, oltre a ideare, scrivere, correggere, trovare un editore e firmare con dedica in piccole librerie di provincia sempre troppo fredde o troppo calde, deve imparare a fare anche da entraîneuse.

giovedì 15 febbraio 2024

Liberaci dal male

Da un paio di settimane guardo tutte le mattine questa foto e piango. Di solito sono poche lacrime, gli occhi si inumidiscono e poi subito passa; ma mi è capitato di piangere anche per un quarto d’ora consecutivo, un rubinetto rotto. Il bambino paffuto all’interno della recinzione protettiva sono io, lo scatto risale verosimilmente ai tardi anni Sessanta – quanti anni avrò avuto: due, due e mezzo… non arrivo a tre. Nel caso sarebbe il 1968, l’anno della grande contestazione ma anche quello in cui Nino Benvenuti riconquista la cintura dei pesi medi battendo Emile Griffith, a Memphis viene assassinato Martin Luther King e Brigitte Bardot si fidanza con il playboy piacentino Gigi Rizzi. Intanto il mio vocabolario comincia ad arricchirsi, a mamma, papà, cacca e brutto (brutto sgabello che non dovevi stare lì, il mio piede ti ha urtato, brutta acqua con cui vogliono farmi il bagnetto) iniziano ad aggiungersi parole come cane, bau e palloncino. Poi le cose sono andate come sono andate, e adesso comprendo che quel bambino con lo sguardo rivolto a chi impugna l'apparecchio fotografico (che cavolo è quell'aggeggio? sembra pensare) mentre le mani sono protese oltre la barriera di gomma che sormonta la rete, oltre perfino la balaustra del terrazzo, oltre... verso un mondo che per definizione si assume vasto, quel bambino non meritava una vita tanto brutta. In fondo le parole che sono venute dopo sono superfetazioni: brutta, questa vita è stata semplicemente brutta; tanta cacca, palloncini pochi e subito rubati dal cielo in un bau. Gesù bambino, ti ricordi della preghiera che recitavo tutte le sere prima di addormentarmi? Erano passati pochi anni dalla fotografia ma ero sempre io, d'altronde siamo sempre noi, chi ti dice che ogni sette anni cambiamo tutte le cellule  più pedanti le elencano per cronologia di esaurimento – non ha mai osservato attentamente l'abisso del proprio sguardo infantile, io che facevo finta con la mamma di essermi già addormento e quando lei spegneva la luce ti chiamavo sottovoce come fanno gli innamorati; non lo so mica se fosse un amore reciproco, confesso che il dubbio mi è poi venuto. Ma quando si è presi si dice qualsiasi cosa, era un po' ridicola perfino la forma, senza pause di respiro, dovevo fare in fretta perché le palpebre premevano e la testa sprofondava nel cuscino. Così partivo a palla: Caro-Gesù-io-mi-metto-nelle-tue-mani-tienimi-stretto-fino-a-domani, e alla parola domani stavo già ronfando. Tu però l'hai presa alla lettera, hai stretto troppo, ahi, così mi fai male! Anche sui pacchi destinati alle vetrerie sta scritto maneggiare con cura. Se non sei in grado di farlo ti chiedo di desistere, lasciami andare, sbarazzati dell'errore – capita a tutti di sbagliare –, fammi tornare onda quantistica di probabilità. Ora che mi rivedo nel grumo in cui tutto ha avuto inizio, il mio personale Big Bang, mi accorgo che è stato un continuo passare da una recinzione all'altra, e quella con le sbarre più spesse si chiama corpo. Oppure mantieni le promesse: dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri cazzo di debiti ma, soprattutto, e alla svelta, liberaci dal male. Amen.

mercoledì 14 febbraio 2024

Evoluzione e involuzione, il caso inglese

 

Prima per via della musica, poi, estendendo quell'evidente primato a tutto il resto, ho finito col convincermi che gli inglesi siano il popolo più evoluto al mondo. Ma appena giunto alla conclusione mi sono accorto che sono anche il più involuto: chiusi su sé stessi, attaccabrighe, concentrati sui risultati del proprio club calcistico ma disinteressati a tutto il resto, almeno quando il perimetro dell’attenzione è limitato dalle pareti perlinate di un pub, sempre quello, mai un altro; non c’è nemmeno bisogno di chiedere: quando il bicchiere di birra è vuoto ci pensa il barista e riempirlo di nuovo.

Considerazioni che si escludono a vicenda, ma non per questo meno vere. In tutto ciò l'intelligenza c'entra solo limitatamente; come hanno mostrato Fruttero e Lucentini nel loro saggio La prevalenza del cretino – dell'intelligenza, in quelle pagine acute, viene mostrato il risvolto, l'ombra – si può essere intelligenti o cretini sia facendo il professore universitario sia l'elettrauto, entrambe le qualità sono in buona parte casuali.

Con evoluto intendo dunque la capacità di sporgersi sul mondo, essere curiosi, ironici, attenti alle sfumature, fare collegamenti e poi approfondirli; e ciò riguardo tutte le cose e non solamente quelle che godono di maggiore considerazione intellettuale, senza temere di pronunciare i perché dei bambini. Insomma, se non proprio di intelligenza stiamo parlando della sua premessa, il terreno in cui il seme può germogliare e l'albero crescere sano e forte.

Per avere un esempio di persona inglese evoluta basta andare su YouTube e cercare le interviste a Colin Firth in italiano; parla un ottimo italiano tra parentesi, ma soprattutto parla di qualsiasi argomento con sguardo acceso e competenza. Perché allora la biforcazione, perché in alcuni casi la pianta cresce, si evolve, porta a compimento la fioritura e in altre involve senza dare frutto, come il fico che nel Vangelo Gesù incenerisce?

Qui è già più difficile rispondere, ma un'ipotesi potrebbe essere che lo sviluppo umano è sempre ostacolato, e replicando l'astuzia dell’edera ci si deve inventare le vie più impervie. L’ostacolo maggiore è costituito da ciò che gli altri pensano di noi, o ancora più precisamente dall'io ipotetico, ciò che per loro dovremmo essere. Possiamo anche chiamarlo codice sociale o, come faceva Lacan, Grande Altro; nel caso inglese è particolarmente ristretto e normativo: il tè alle cinque di pomeriggio, not a minute more, not a minute less, i movimenti esatti e sempre uguali del cambio della guardia reale, la rigida prossemica dei corpi. Good morning madame! Good moring sir!

Chi riesce a liberarsene è salvo, di più: può evolvere verso possibilità sempre più complesse e libere, concepire album come Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band o inventarsi la macchina di Turing, sono infiniti i campi dove scoprire cose nuove e condividerle. Ma la scoperta più grande coincide con il precetto greco del conosci te stesso, l’unicità del proprio pagaiare nel fiume della vita – se è vero che tutto conduce al mare, vecchi scarponi e grandi imperi, il viaggio permette a ciascuno uno stile con brevetto d'esclusiva. Chi invece si intruppa su crociere all inclusive, non importa se sulla prua ci sta scritto Titanic o Mediaset, smette di evolvere, si creano delle falle da principio impercettibili, sprofondando infine nella routine.

Esiste anche in questo caso una premessa evangelica, se letta in chiave metaforica dice qualcosa di molto simile alla psicologia moderna: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo." (Luca, 14 26.)

Per attualizzarne il messaggio basta sostituire alla famiglia di sangue quella famiglia allargata che appare quando accendiamo il televisore. Solo odiando Mara Venier o Fabio Fazio o Enrico Mentana, solo odiandoli cordialmente, beninteso, e con loro anche la famiglia social, ogni famiglia è uguale nell'imboccare il pensiero senza darlo a intendere (guarda l'aeroplano, wrooom... e mentre il bambino spalanca la bocca per la sorpresa dentro un bel cucchiaio di omogenizzato), solo così l'individuo può evolvere.

In Inghilterra si vede che odiano i loro megafoni pubblici con maggiore anarchica caparbietà, e a questo modo dischiudono le porte del regno; non so se sia propriamente il Regno dei cieli ma certo lo è della fantasia, dell'impulso creativo. Sono però molti, anche lì, a seguire il verbo famigliare, la voce del noi, e in quel caso lo fanno con un ossequio davvero ottuso. Tanto imbattibili nello sciogliere nodi quanto nell'annodarsi una scarpa con l'altra.

lunedì 12 febbraio 2024

Dal canto al vagito, o sullo specchio di Sanremo

Ho notato che negli ultimi anni molti giovani cantano con un'impostazione della voce particolare, non saprei come definirla ma è accaduto anche all'ultimo Festival di Sanremo. Ad esempio Mahmood, oppure Angelina Mango o, ancora, Madame che credo sia l'autrice della canzone vincitrice, ma non era presente in gara. Tutti con quell'impostazione della voce lì; dopo un primo effetto di straniamento diventa piacevole, quasi l’eco di un idioma cantilenante parlato in qualche landa sperduta.

Con la cantilena sanremese nelle orecchie  mi sferza ogni volta che mi sintonizzo su una stazione radiofonica privata  è tornata alla mente una ragazza che spopolava su YouTube un paio di anni fa. Un successo ottenuto facendo la caricatura del modo di esprimersi delle adolescenti milanesi, a cui aveva dato il nome di corsivo; naturalmente non c’entra nulla con l’omonima forma grafica della scrittura. Sono andato a rivederla e, in effetti, oltre a essere molto buffa, ricorda la pronuncia canora di Madame, Angelina Mango, Mahmood e tutti gli altri.

Ma ricorda anche i bambini quando vogliono apparire ancora più bambini; non si tratta propriamente di capricci ma qualcosa di simile, serve a intenerire i genitori e ottenere un vantaggio, mettiamo mezz'ora in più di PlayStation o l'esenzione dai cavolfiori in favore di una pizza. Più in generale, è una strategia elaborata dai mammiferi di ogni specie – cani, gatti, pecore... – i cui cuccioli enfatizzano vocalmente la loro condizione inerme, a questo modo generando attenzione e accudimento da parte degli animali adulti.

Ecco, è come se anche i cuccioli di Sanremo belassero, miagolassero, guaissero per dirci siamo qui, prendetevi cura di noi. Una disposizione non completamente nuova, solo esasperata. Fino ai tardi anni Cinquanta, con un'elasticità che arriva al '68, a diciott'anni sì doveva già essere ometti o signorine, e anche cantando veniva esibito questo tratto di maturità acquisita. Poi arrivò Gigliola Cinquetti, non a caso presente anche a questo Festival, con Non ho l'età, arrivarono i Rokes con Che colpa abbiamo noi, Eros Ramazzotti con Terra promessa, Luis Miguel con Ragazzi di oggi. E ragazzi lo erano davvero, solo che per la prima volta affermavano orgogliosi la propria condizione – fragilità incluse – come già era avvenuto negli Stati Uniti con Elvis ma soprattutto con il film Gioventù bruciata.

È dunque una tendenza di lungo corso, solo che non è una tendenza evolutiva ma involutiva: prima uomini, poi ragazzi e infine... Beh, mi sembra ragionevole ipotizzare che il prossimo passaggio sarà il vagito, e, proseguendo ancora nel riavvolgimento del film, il lamento di qualche tenerissimo cucciolotto appena nato. In fondo dobbiamo essere grati a Sanremo, che contrariamente a chi lo vuole un baraccone pittoresco e avulso fa da specchio al Paese reale. Quello a cui Mangiafoco conduce i bambini trasformati in ciuchini.

sabato 10 febbraio 2024

Dilemmi

Ricordo un tempo della nostra vita in cui problema cruciale era la scelta tra Tenax e Gommina. Avevo inizialmente scritto mia, ma in quel tempo, ripensandoci, una vita mia ancora non la possedevo, il pronome noi allagava ogni aspetto dell'esistenza come l'acqua alta in una famosa città del Nordest, veniva raggiunta sempre in forma plurale al termine delle scuole medie F. Sassi di Sondrio, per tornare cantando Lucio Battisti sui sedili posteriori del pullman (quelli anteriori erano riservati ai secchioni) con una gondola in miniatura nello zainetto da regalare alla nonna. Il Tenax conferiva ai capelli un'eccezionale brillantezza – l'effetto era simile alla brillantina, solo più attenuato e privo untume – combinata a una profumazione molto gradevole, ma poteva lasciare traccia in forma di minimi grumi verdognoli, quasi fosforescenti. Inconveniente evitabile se si utilizzava la Gommina, che, seppure al prezzo di una rigidità da capigliatura del Big Jim e odore vagamente medicinale, scolpiva la piega con maggiore decisione. Alla fine mi ero risolto per il Tenax, anche se costava un poco di più. Scoprii in seguito che, a quel tempo di dilemmi, era stato dato il nome di riflusso, edonismo reganiano, disimpegno. Per me rimane il tempo in cui segno e corpo erano ancora allineati, si poteva passare davanti agli specchi senza rischiare di essere smentiti, anzi sostando per verificare se i grumi fosforescenti erano visibili o avevamo fatto un buon lavoro di impasto, ed entrambi, segno e corpo, procedevano come scagliati da una freccia circonfusa da una colonna sonora meravigliosa; chissà come mai i fratelli più vecchi dei miei amici la liquidavano con il termine commerciale, di cui stentavamo a intendere il senso se non come sinonimo di brutto – gli Ultravox sarebbero brutti, e gli Smiths i Police...? Quella parola, commerciale, in seguito si precisò, e a essa se ne aggiunsero molte altre da esibire in discorsi che perdevano la cadenza valtellinese: apotropaico, ermeneutica, panoplia, gentrificazione... Quanto più definivano un concetto con precisione, quanto meno chi pronunciava il nuovo alfabeto apparteneva a un'adolescenza di provincia, che si rivelava infine quale sostanza indistinta, melmosa, simile al Tenax. Ma l'esattezza con cui la lingua sostiene il pensiero non è in grado di fare lo stesso con la freccia, la vedo afflosciarsi senza un bersaglio all'orizzonte, come in certe storielle zen il centro coincide con la mano dell'arciere che se l'è fatta sfuggire, sommersi soprattutto da immondizie musicali.

venerdì 9 febbraio 2024

Tortore, o sulla delicatezza

 

Oggi ho fatto un esame un po' delicato in ospedale. In realtà, a posteriori, niente di che, la devitalizzazione di un molare è molto peggio. Ma non sono qui per parlare dei miei problemi di salute. La cosa che mi ha colpito è che tutte le persone che dovevano fare lo stesso esame un po' delicato erano accompagnate, tutte tranne me. Chi dalla moglie, o dal marito, altri ancora da un fratello, un figlio, la fidanzata etc. Insomma, ciò che viene chiamata rete sociale; una delle poche cose di cui l'Italia può andare legittimamente fiera, lo dico senza ironia. Osservando i miei compagni di sventura seduti a coppie nella sala d'attesa mi sono venute in mente le tortore. Poi, siccome le metafore richiamano altre metafore, una scena di Palombella rossa. È ambientata nello spogliatoio di una piscina dove si è appena svolto un allenamento di pallanuoto, i giovani giocatori vengono accuditi dalle madri, forse un tantino invadenti, ed è tutto un vorticare di salviette bianche. Un bambino, una mamma che gli asciuga la testa; un bambino, una mamma che quel giorno non è andata a bere l'aperitivo con le amiche; un bambino, una mamma. Ecco, io penso che una vita decente preveda la replica di questa scena a oltranza, perlomeno nelle sue fasi delicate. Non importa l'età e la presenza a pochi metri di una piscina, in fondo sono ruoli convenzionali: il ruolo del bambino può essere interpretato anche da un impiegato delle poste con l'hobby della costruzione di vascelli in miniatura, oppure da una novantenne ancora abile nelle parole crociate, e quello della mamma da una ballerina bulgara di lap dance. Non importa. Un bambino, una mamma, un sano, un malato... Tortore. Mentre quando devi fare un esame, un po' delicato, e non c'è nessuno che ti accompagna, secondo me c'è qualcosa nella tua vita che non va. E ciò indipendentemente da quello che sarà l'esito del tuo cazzo di esame, che in effetti era un po' delicato.

giovedì 8 febbraio 2024

Sanremo, l'artificioso festival degli italiani veri

  

Sanremo possiede la stessa funzione sociale dei grandi delitti, quelli che portano a convocare immediatamente un criminologo e Alba Parietti negli studi televisivi – a dire il vero la Parietti era già in scaletta, ma tutto fa brodo – e poi ci si divide tra colpevolisti e innocentisti. Se ne discute molto, in accalorati toni, ma per molto poco, fino al prossimo delitto che subentra come la nuova pallina nel flipper; pare che Bruno Vespa già disponga del plastico della scena del crimine.

Anche gli argomenti sono facilmente riciclabili, nei baretti di quartiere non manca mai la frase bisognerebbe ripristinare la pena di morte, seduto sul divano il nonno dice che deve andare a pisciare ma nessuno l'ascolta, tutti presi dall'emergere di nuovi indizi. È insomma una delle pochissime occasioni in cui una comunità umana mal assortita può finalmente ricompattarsi attorno a un unico fulcro; succede in effetti anche ai funerali, ma in quest'ultimo caso sono ammessi solo giudizi celebrativi sul caro estinto.

Su Sanremo ci si può esprimere a ruota libera, meglio a cazzo di cane, perfino bestemmiare come qualcuno insinua abbia fatto Fiorella Mannoia; fosse stata all'Isola dei famosi sarebbe stata immediatamente espulsa. Qui invece ciò che non ammazza ingrassa. Per quel che mi riguarda sarei sul fronte dei colpevolisti: questo Sanremo è un vero crimine contro la musicalità – ma se non lo stai seguendo, che ne sai?! Appunto, lasciatemi straparlare, perché ne sono fiero. Sono un italiano, un italiano vero.

martedì 6 febbraio 2024

Capitalismo e sessualità

Contrariamente a quanto pensava Max Weber, per il quale il capitalismo discende dall’idea calvinista della predestinazione (ma in realtà gli stoici già credevano in qualcosa di simile), ho maturato la convinzione che la premessa del capitalismo vada ricercata all’interno della macchina umana, e nello specifico in quel suo meccanismo oscuro chiamato sessualità.

Ogni corpo possiede un capitale di desiderabilità, un capitale variabile che lo colloca su un'ideale scala graduata e gli conferisce un valore di scambio, convertito, in particolare nelle donne, in valore sociale. Beninteso, non tutto il valore di una donna è ovviamente derivato dal corpo, ma una parte significativa non solo nella ricerca di un compagno (ammesso e non concesso che lo voglia) e perfino di un lavoro, di una maggiore visibilità e consenso sui social.

Mettiamo una giovane fotomodella del Wisconsin appena sbarcata a Milano per la Settimana della moda. Nessuno deve spiegarle quanto vale in quanto corpo che si muove in uno spazio definito, cosa può ottenere da quel corpo anche senza concederne l'intimità. Già lo sapevano gli dei: all’arrosto, talvolta, è preferibile il fumo, e la bellezza è assimilabile al riverbero di uno scrigno chiuso, proprio come quello delle banche centrali dove vengono conservati i lingotti d'oro (il paragone è di Bataille).

E siamo giunti al cuore dell'intrico tra estetica, politica ed economia. Certo, si scherza, ma neppure troppo, in un ambito che è doveroso limitare all’Occidente. In esso il ruolo del maschio è tradizionalmente più ambiguo, con il capitale erotico che fa tutt’uno con il capitale tout court – i proverbi lo ricordano da sempre: “guardalo bene, guardalo tutto, senza denaro l’uomo quant’è mai brutto”. Ma comunque anche nel nostro caso bellezza, forza, prestanza sessuale ed età consegnano al corpo maschile un potere su altri corpi. Che poi uomini bruttissimi e anziani abbiano (raramente) relazioni con donne meravigliose ci riporta all'ambiguità della premessa, ma facciamo fatica a immaginare la stessa avventurosa esistenza in un Franco Califano brutto.

Certo, per un soprammobile o un tramonto o un'opera d'arte la bellezza non ha necessariamente rapporto con la sessualità. Ma per uomini e animali sì; nel dubbio, citofonare al pavone. Come quel tizio strambo che, a Portobello, intendeva risolvere il problema della nebbia in Val Padana abbattendo il passo del Turchino, esiste una soluzione altrettanto eccentrica per superare il modello primigenio di ogni altra sperequazione: non il comunismo, ma l’implosione del desiderio sessuale sarà la rivoluzione che porterà l’umanità fuori dall’orizzonte capitalista.

In fondo si tratta di una tendenza già in atto, le generazioni sono sempre meno ipotecate da foie ormonali; esistono degli studi inquietanti che testimoniano il collasso della produzione di spermatozoi nei maschi occidentali, rispetto al 1973 il calo supererebbe il 50%. Come a dire che siamo letteralmente diventati ciò che molte donne già sussurrano nelle conversazioni dal parrucchiere: dei mezzi uomini. A ciò si aggiunga la progressiva compromissione tra bios e tecnologia, a rendere la sessualità una componente sempre più residuale.

Lenin sosteneva che il termine socialismo può essere riassunto con i Soviet più l’elettrificazione delle campagne. La sua frase, riveduta e corretta, suonerebbe probabilmente a questo modo: il nuovo socialismo sarà instaurato dai tablet più la desessualizzazione dei campagnoli, che hanno ancora quel brutto vizio di andare a guzzare nei fienili.

L'enigma degli elettrodomestici

Per me gli elettrodomestici rappresentano un enigma. Ad esempio, non ho mai incontrato qualcuno che mi abbia detto di NON possedere il robottino pulisci piscina (poco importa che non abbia neppure la piscina, sai quante cose inutili ho io) oppure la friggitrice ad aria. Al limite incontro persone che l’hanno acquistata da poco, dovresti prenderla anche tu aggiungono: le patatine, non puoi credere come le patine vengono croccanti, e poi le alette di pollo, nemmeno un filo d’unto. Invece con il televisore accade l’opposto. Mai che qualcuno mi confidi di avere in casa un televisore, è indifferente la quantità dei pollici. Muti. Omertosi. Solo chi non ce l’ha tiene a sottolinearlo, specie quando inizia il festival di Sanremo. E dopo avere dichiarato che non lo guarderà, non può guardarlo, toccherà consolarsi con l'opera omnia di Rachmaninov, è come se si aspettasse qualcosa… Forse un applauso.

lunedì 5 febbraio 2024

L'arte di abbozzare

Nel documentario USA for Africa, presente da pochi giorni sulla piattaforma Netflix, vengono mostrate le prove della canzone We are the Worldinterpretata nel 1985 da quarantacinque artisti statunitensi per aiutare le popolazioni africane colpite da carestia. Tra gli altri Lionel Richie nel ruolo di Lionel Richie, tutto smalto dentale e baffi e buon umore, Bruce Springsteen che fa il boss, pacche sulle spalle a destra e a manca, Michel Jackson non riesce a trattenere il bacino dal seguire l’andamento delle note, Tina Turner mostra lo stacco di cosce, Ray Charles prima ride e poi pronuncia una nuova battuta e Cindy Lauper ribadisce la vena cromatica del suo parrucchiere. Ognuno è sé stesso, insomma, o perlomeno conferma l’immagine pubblica, e tutti assieme ricordano la caciara sul pullman in gita scolastica al termine delle medie. Solo Bob Dylan è rimasto a casa con la testa a fare i compiti, è un tifoso della Roma finito per sbaglio nella curva della Lazio. Per fortuna non tira fuori la sciarpa della sua squadra del cuore, ma, giustamente, abbozza.

Mariolina

Scopro solamente oggi, a funerali avvenuti, che è morta la mia amica Mariolina Zitta. Quando da adolescente giocavo a basket lei, con pochi anni più di me e talento ben maggiore, era uno di quei nomi che si pronunciavano (oltre che per la bellezza acustica) per dimostrare che anche una persona nata in provincia poteva farcela – guarda Mariolina ti diceva l’allenatore di turno, adesso gioca in una squadra di serie A; poi fu il turno di una diversa e un'altra ancora in una città di mare, in un’erranza precoce che avrebbe caratterizzato anche il seguito della sua vita. Ogni tanto mi telefonava da uno di questi altrove: “La prossima settimana sono a Sondrio” mi diceva, “vorrei chiederti un consiglio, ci vediamo?” In realtà erano quasi tutte scelte da lei già risolte, e in ogni modo cosa avrei potuto suggerirle: la mia natura stanziale era impreparata a quesiti che riguardavano il muoversi, l’andare. Mi piace dunque credere che avesse semplicemente voglia di vedermi, come a me faceva piacere incontrare lei. Poi le nostre esistenze continuavano a divaricare, ma erano incontri, purtroppo negli ultimi anni meno frequenti, che a volte lasciavano tracce preziose. Ad esempio il dono di un suo cd. Dopo avere sperimentato le possibilità e i limiti del corpo nello sport aveva infatti iniziato a perlustrare il mondo dei suoni, non accontentandosi di quelli prodotti dagli strumenti musicali. Una disposizione che mi ha sempre ricordato la figura dell’ossimoro: lei così piantata al suolo, solida, pacata, nei suoi lavori tradiva la stessa irrequietezza che la portava a non trovare un luogo a cui dare il nome casa. Io non sempre comprendevo, abbozzavo, come la volta che mi fece udire una composizione in cui le frequenze acustiche erano prodotte da un coro di pipistrelli; si era infilata in una grotta con un registratore per estorcerne il canto. Io ascoltavo incuriosito senza però riuscire a individuare il refrain, che attendevo come un bambino con la campanella dell'intervallo. Eppure anche il nostro malintenderci possedeva una sua armonia, probabilmente stimavamo entrambi le diversità che in altri ci avrebbero fatto diffidare. E insomma, sì, forse ci volevamo anche un poco bene. Ciao Mariolina!

sabato 3 febbraio 2024

Nostalgia canaglia


Mi chiedo se esista una differenza tra Raffaele La Capria, che a novant’anni ancora immergeva la penna nel fantasma di limpide giornate di giugno, il sole asciuga giovani corpi distesi sugli scogli in tufo di Marechiaro, tra lui e Francesco Guccini, la voce sempre più flebile mentre canta le osterie di fuori porta e infine i miei coetanei milanesi. Quando li ritrovi dopo trent’anni, forse ne sono trascorsi già quaranta, prima o poi il discorso finisce sui panzerotti di Luini, te li ricordi i panzerotti Luini... ah i panzerotti di Luini! Sì, d'accordo, la forma con cui la memoria trova un surrogato verbale, lo stile. Questo cambia. Ma quanto a sostanza non esistono nostalgie di serie A e di serie B, la nostalgia è sempre un ritorno a una combinazione di spazio e tempo che osservata a posteriori chiamiamo felicità, ma nel suo darsi non chiamavamo affatto, era lì, bastava allungare la mano e prendere. Un ritorno, nostos, impossibile oltre che incomprensibile a chi non abbia condiviso le stesse coordinate, perfino un po' stupido. Lo dico da campione mondiale di nostalgia – dunque molto stupido, pur di invertire la freccia del tempo tornei alla tavola operatoria dove mi hanno cavato le tonsille , ma questa cosa che alla fine degli anni Ottanta si dovesse terminare la serata grattando alla saracinesca di un fornaio in via Santa Redegonda 16, già allora mi sembrava una stronzata.

Baubò


Nello spirito dominante di correggere la lingua in senso virtuoso, c'è un problema: testa di cazzo, come coniugarlo al femminile? Se ci sono gli uomini con tale caratteristica – e ci sono, per averne conferma citofonare a caso in un condominio di Pontida o in un villetta di Capalbio... – ci saranno pure le donne, ma bisogna esprimere il concetto rispettando l'identità di genere. Ebbene, credo di esserci riuscito: basta dire 
Baubò, un'antica divinità greca dalla testa a forma di fica, o se risiedete a nord di Bologna figa. Io qualche Baubò la conosco, non suona nemmeno offensivo, il termine è eufonico e giocoso. Non serve incazzarsi (altra espressione da emendare in chiave bipartisan) quando una di loro ti fa un tiro mancino; ad esempio certe donne medico che al termine della visita ti fanno un ammiccante sorriso, a presunta compensazione della fattura non emessa. "Dottoressa, mi scusi" basta dire, "i miei problemi dermatologici li abbiamo visti. Ma Lei, quando si gratta la testa, prova piacere?"

venerdì 2 febbraio 2024

Occidente psichico

Se fossi un editore, pubblicherei un almanacco dei messaggi che vengono inviati dagli sconosciuti su Messanger. Non sono solamente buffi, come quello di un presunto membro della famiglia Rothschild che circola di questi tempi, ma in alcuni casi contengono competenze linguistiche nient’affatto banali. Prendiamo il messaggio di una certa X.B. (il nome era scritto per intero) inviato in mattinata al sottoscritto:

Salve, mi chiamo X.B., Sono vedova e non ho avuto la possibilità di partorire con il mio defunto marito. Soffro di cancro dal 2013. Sto morendo e voglio dare una possibilità a qualcuno di cui mi fido e che abbia un buon cuore. Se sei interessato, per favore cerca di darmi il tuo numero di WhatsApp e l'indirizzo e-mail, grazie e che Dio ti benedica.

La comunicazione si avvale della figura retorica della aposiopesi, in cui si dice qualcosa senza dichiararlo esplicitamente. Nella fattispecie, per insinuare che io potrei facilmente ottenere un patrimonio a cui si allude di nuovo senza nominarlo, viene puntualizzato che la scrivente non ha avuto la possibilità di partorire con il defunto marito; dunque niente figli e dunque, soprattutto, nessuna linea ereditaria, solo una persona di buon cuore a cui lasciare tutto. Inoltre – e anche questa è retorica, corriva fin che si vuole ma debitrice di una lunga efficace tradizione – sullo stesso rigo troviamo termini che rimandano alla nascita e alla morte, andando a ripescare il più antico degli ossimori.

Per quanto agli occhi dei più l'effetto sia comico, le strategie espressive, camuffate in un messaggio di norma destinato al cestino, continuano sotto traccia a esercitare la funzione per la quale sono state concepite. E su mille persone a cui viene inviato, vogliamo concedere che almeno una se lo beva? Altrimenti non verrebbe scritto. Uno, due tre o forse cento, solo meno sgamati, ma a ben vedere con desideri e un immaginario non troppo diversi dai nostri; soldi facili, scorciatoie attraverso cui raggiungere la vetta. È l’hypocrite lecteur a cui Baudelaire dedica i Fiori del male, simile e fratello al poeta. In fondo, tutte le truffe si rassomigliano: dicono poco di chi le pratica, ma molto di noi come Occidente psichico.

In hoc signo vinces, Baricco second track

 

Ieri ho scritto un breve commento sull’intervista concessa da Baricco a Fabio Fazio, pubblicandolo, pari pari, su questo blog ma anche su Facebook. Bon, quello che avevo da dire al riguardo l’ho già detto, non mi ripeterò. Mi interessa ora rilevare come anche malconcio (malconcio non è un’offesa, lo dico a scanso equivoci e ben sapendo di maneggiare una materia delicatissima) Baricco ha il potere pressoché unico tra gli scrittori italiani di divaricare il consenso, con livelli di emotività che sfiorano l’isteria delle groupie quando i Fab Four sbarcarono negli Stati Uniti.

Ciò è puntualmente avvenuto anche tra i commenti al post, che nelle mie intenzioni cercava una via mediana tra le opposte tifoserie, in una battaglia persa in partenza. Eppure, anche quando sfidi i mulini a vento, puoi avere delle sorprese; nella fattispecie si tratta di un aggettivo, insigne. Per una commentatrice lo sarebbe Baricco, insigne, non di certo io continua a incalzarmi, forse per quel sentimento di lesa maestà a cui accennavo. Dunque posso scrivere ciò che voglio ottenendo il medesimo effetto dell’acqua passata, che come recita il proverbio non macina più.

Accidenti, è vero: la chiave sta tutta lì! Nella capacità di andare a segno, assumendo il termine nel suo significato letterale – dal latino insignis, composto di in- e signum, da cui la conclusione del dizionario Treccani: che si distingue per un segno particolare. Talune persone, Baricco, ad esempio, si distinguono per un segno particolare, si distinguono in salute e malattia, si distinguono comunque e al di là di ogni giudizio di valore. I più invece annaspano nell’indistinto, e i social rappresentano forse un illusorio strumento attraverso cui sottrarsi a questa condizione, scagliando il proprio segno verso un fantasmatico bersaglio. Della serie Facebook e l’arte del tiro con l’arco…

Peccato che anche quando tu dovessi ricevere un centinaio tra like e cuoricini, il segno impresso si stinge entro un paio di giorni. Continui così a non essere insigne, devi infiammare una nuova scoreggia, pubblicare la foto di un gattino, dischiudere un bottone in più al decolté. Radicalizzando l’intuizione della mia acuta commentatrice, mi sembra che sia uno dei tratti qualificanti l'intera tarda modernità: la difficoltà di lasciare segni. Chi ora può ancora dire, a parte Baricco, in hoc signo vinces?