domenica 19 maggio 2024

Bacio bacio bacio

 

Marrakech Express è probabilmente il film di Salvatores che mi è piaciuto di più. Giuseppe Cederna, nel ruolo di Paolino, è uno degli interpreti principali. Durante il viaggio dei quattro amici partiti da Milano alla volta della città del Marocco occidentale, a ogni telefono che incontra prova a chiamare casa, ma ci sono sempre degli impedimenti, gli altri lo incalzano per ripartire, oppure cade la linea, e riesce a dire solo bacio bacio bacio.

Un tormentone a cui pensavo quando l'ho incrociato alla libreria Alice di Sondrio, Giuseppe Cederna, non Paolino, tra interprete e personaggio si fa sempre un po' di confusione. È il prezzo che un attore deve pagare per vedere giganteggiare la propria faccia sul grande schermo. In realtà tutto è minuto in lui, un uomo basso e magro dai lineamenti gentili, sebbene il naso sia pronunciato. Si aggira tra gli scaffali scorrendo i titoli senza un obiettivo apparente, di tanto in tanto ci sfioriamo senza parlarci; in libreria si tende a evitare convenevoli tra sconosciuti, circonfusi da quel silenzio, un po' saputello, che talvolta lascia spazio alle note di Miles Davis o di Keith Jarrett, fa pendant con l'aristocratico sussiego delle copertine Adelphi.

Alla fine qualcosa deve avere trovato, e anch'io, ci presentiamo alla cassa in perfetta sincronia: Prima Lei. Ci mancherebbe, faccia pure. Troppo gentile... Durante i salamelecchi ci accorgiamo che entrambi impugniamo un libro di John Berger, non lo stesso titolo ma è sufficiente per cambiare tono e darci del tu: "Anche tu leggi John Berger?" mi chiede. "Sì, mi piace molto", e ancora prima dell'aggettivo vedo i suoi occhi azzurri illuminarsi. "Aspettami allora" mi sussurra mentre ritira il resto, e poi fa segno di seguirlo fuori.

Raggiunta la sua auto, una Volkswagen Polo parcheggiata a poche decine di metri di distanza, estrae uno zainetto e, all'interno, un'agenda o qualcosa del genere, da cui pesca un foglietto che mi mostra, sopra uno scarabocchio illeggibile. "È la firma di John Berger" mi dice orgoglioso. "Gli ho chiesto l'autografo a una presentazione in Francia, è un uomo straordinario, perfino bello, non sai che emozione..." E mentre continua a parlare con entusiasmo di John Berger mi sembra di vedere una ragazzina di Memphis, anni Cinquanta o giù di lì.

Il maglioncino color pastello con la sigla del college, la gonna plissettata, non si capisce da dove estragga una foto di Elvis da mostrare all'amica del cuore, indicando l'autografo con la sola piega del sorriso. E in effetti da quella volta ho la sensazione di essere diventato anch'io amico di Giuseppe Cederna, ogni tanto torna da queste parti (la sua famiglia proviene da qui, è figlio di Antonio e nipote di Camilla Cederna, entrambi di Ponte in Valtellina dove è rimasta la casa di famiglia, un palazzo del Seicento già dimora dell'astronomo Giuseppe Piazzi), ma la verità è che non ci siamo più rivisti.

I libri belli creano illusione di amicizia, fuori e dentro la pagina. E l'amico del tuo amico, per definizione, è tuo amico. Holden Caulfield vorrebbe telefonare agli scrittori di tutti i libri che gli sono piaciuti, ci mette in guardia dal rischio di provare la stessa tentazione, guarda che è così anche per te, pochi gli danno retta. Gli altri, Giuseppe, io, sognano vecchie cabine telefoniche, non è necessario conoscere il numero di John Berger, che nel frattempo è morto. Basta alzare la cornetta e poi dire: bacio bacio bacio.


sabato 18 maggio 2024

La dolce bugia

Il mio rapporto con il cinema contemporaneo in fondo somiglia al suo oggetto. Penso a una sequenza di Caro diario, Nanni Moretti seduto a lato del letto su cui è disteso un critico cinematografico (a interpretarlo è il compianto Carlo Mazzacurati), lo sferza con le parole delle sue stesse recensioni, che gli rilegge in forma di contrappasso:

"Quel film coreano era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti... Superfemminista, fiammeggiante e demoniaco... Girato come se fosse un trip alla Spielberg entrato nei ritmi e negli spazi futuristi... E c'è poi il Pasto nudo di Cronenberg: puro pus underground ad alto costo."

Naturalmente c'era molta ironia, e non ho difficoltà a trovare dei registi viventi le cui opere mi siano piaciute anche molto; i primi nomi che mi vengono in mente sono Mike Leigh, Kaurismaki, Jarmusch, Herzog, Guédiguian o, in Italia, Gianni Amelio e Garrone, ma quest'ultimo a fasi alterne. Il punto non è però stilare delle graduatorie di merito, ma la relazione tra merito e piacere. Il mio piacere di spettatore.

Sono così arrivato alla conclusione che ciò che mi turba in Caro diario non è la sciatteria del linguaggio di certa critica (puro pus underground è in effetti un'espressione strampalata), ma il fatto che quel linguaggio trovi referenzialità nelle categorie di valore, e queste nel mondo.

Detta in modo più semplice: per raccontare il presente si finisce coll'imbattersi nel pus underground, possiamo anche chiamarlo in un altro modo, ma la fioritura di un ciliegio ha smesso di imporsi quale esperienza significativa, e come giusto i registi ne hanno preso atto.

Il problema sono dunque io, non il cinema contemporaneo. Io che non ho più tanta voglia di un'idea di cinema ereditata dai Lumière – la verità prima di tutto, il cinema come riflesso della vita – che ha avuto il sopravvento sull'alternativa suggerita da Georges Méliès: una bugia, come si dice, a fin di bene, che conduce il mio occhio-razzo dentro l'occhio della luna.

È la stessa dolce bugia con cui si conclude Miracolo a Milano, con i poveracci che vengono assunti nel cielo del possibile cinematografico a bordo delle loro scope volanti; giusto il tempo di girarsi e fare ciao ciao con la mano alla Madonnina, e poi via in direzione di "un regno dove buongiorno vuole dire veramente buon giorno". E chissà che lì non ritrovino Dumbo, sostenuto nel viaggio dalle sue orecchie alate, o Mary Poppins con il suo ombrellino.

Ma quasi nessuno racconta più bugie a fin di bene, a cui sarei disposto a credere, e sono così obbligato a vedere duplicato un incubo di terra: la realtà, o meglio questa pus-realtà dalla cui ferita distoglierei volentieri lo sguardo.

giovedì 16 maggio 2024

Spillo e il pandoro

Pasolini la chiamava mutazione antropologica. Questa non aveva però potuto prefigurarla: la mutazione delle persone poco intelligenti, in dialetto milanese vengono chiamate affettuosamente pirla e sciucarello, o sciosciò, in napoletano. Non che nel frattempo siano rinsavite, ma nel nuovo millennio sono diventate antipatiche.

Si ragiona naturalmente a spanne, qualche coglione tignoso è sempre esistito, ma, di norma, chi era poco dotato intellettualmente possedeva una bonomia di fondo, a renderlo quasi amabile nella sua funzione di parafulmine sociale. Era forse l'effetto di un confronto che vedeva prevalere i capaci, di cui gli altri (the dark side of the brain) erano pienamente consapevoli; dunque tanto scemi non dovevano essere...

Sarà il diradarsi di rapporti umani concreti – non parlo di austeri convegni filosofici, basta un tavolino al Bar Sport su cui giocare a scopone scientifico; aggettivo che è già tutto un programma – sarà l'avvento dei social dove ci si esprime da un podio illusorio, sarà quel che sarà ma le cose sono profondamente mutate: i cretini sono diventati insopportabili.

È perciò una festa per i sensi quando ci si imbatte in uno sciocco, ma nemmeno, un modesto, un semplice vecchia maniera che sa di essere semplice, e si esprime e comporta di conseguenza. Esempio luminosissimo è Spillo Altobelli: un vero fuoriclasse in campo, ma per così dire poco imparato... Quando incontra, nei giorni scorsi, Chiara Ferragni su un volo per Dubai, così le si rivolge: "A me sinceramente il pandoro piace."

mercoledì 8 maggio 2024

Quadrifogli, o su coglioni, cretine e altri (social) inferni


Se i social hanno il successo che hanno, qualche merito ce l'avranno. Personalmente, mi hanno aiutato a vedere le persone come in controluce, intuendone una struttura interna simile alla nervatura delle foglie; tende a ripetersi secondo precise ricorrenze, macrocategorie che non hanno valore assoluto ma statistico. Ciò è particolarmente evidente riguardo ai generi.

Per carità, non voglio avventurarmi nello sdrucciolevole tema delle pari opportunità, ma, attraverso il filtro ottico di comunità rigorosamente virtuali, uomini e donne confermano la loro differenza: nel peggio come nel meglio. È 
forse solo nella medietà che tendono a conformarsi, come a quei concerti in cui il pubblico intona il refrain della canzone dell'estate accendendo la torcia dello smartphone (una volta si utilizzava l'accendino).

E così, scorrendo la bacheca di Facebook, quando leggo ciò che mi appare la colossale sciocchezza scritta da un maschio, mi scappa il più delle volte la parola coglione. Mentre quando la sciocchezza proviene da una donna l'aggettivo, sostantivizzato, diventa cretina, o per esteso e continuando a parlare con il monitor: “Eccola lì... la cretina!”

Ovviamente tengo tutto dentro, non commento, non sollevo polemiche. Fino a poco tempo fa pensavo fossero sinonimi, e il mio inconscio linguistico scovasse quei termini per pura consuetudine. Invece no. Coglione è il maschio che aderisce a una parte autentica ma limitatissima di sé – quella genitale, appunto, o se vogliamo essere dotti pulsionale – e confidando nella bussola dei suoi pencolanti attributi si orienta in qualsiasi materia. Un esempio? Il generale Vannacci.

La cretina non è allora solamente diversa dal coglione, ma sconta una disposizione opposta: in lei tutto è artefatto, si auto percepisce sulla base di categorie orecchiate – "copia di mille riassunti" le chiama Samuele Bersani in una bella canzone – che vorrebbe imporre con la stessa acefala assertività a suo tempo subita. Se ne ricava la presenza di molti cretini anche tra gli uomini, e coglione tra le donne. O per essere più precisi: i cretini, maschi, sono generalmente di sinistra (il che non significa che la Sinistra sia composta da cretini) e le femmine coglione di destra (stesso discorso).

L'idea non è farina del mio sacco, lo suggeriva già Lacan per il quale il vizio capitale della Destra è rappresentato dall'egoismo; e cosa c'è di più egoistico del desiderio di infilare il proprio cazzo in ogni anfratto femminile, quindi bersi una Peroni ghiacciata, con rutto libero, di fronte al televisore sintonizzato su una partita di calcio. Siamo insomma al livello basico dell’esistere: mangia, accoppiati e combatti per interposta persona. Mentre il vizio della Sinistra, continua Lacan, è la "bêtise", da intendersi come una particolare forma appresa di stupidità.

Ma se grattiamo la scorza ai talk show politici, facciamo scorrere l'acquaragia sopra alle espressioni svagate in cui le difese linguistiche si abbassano – ed è in ciò l'utile di quel luogo di arruffate verità che sono i social – troviamo conferma all'assunto iniziale: il peggio del peggio maschile è composto da coglioni, e quello femminile da cretine. E il meglio? Se esiste il peggio dovrà infatti esserci anche il suo opposto.

Un'idea me la sono fatta… di grande aiuto sono le parole conclusive delle Città invisibili di Italo Calvino:

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."

Se l’aspetto degradato dell’umano somiglia alle famiglie felici con cui inizia un altro romanzo, tutte uguali tra di loro secondo Tolstoj, la virtù è variabile al modo dell'infelicità: nella sua paziente ricerca di un chiosco di granite nell'inferno dei viventi, ha una sua propria e unica tonalità. A me emoziona e perfino commuovere una certa disposizione del femminile; ma anche tra le persone del mio sesso il meglio continua a offrirsi, seppure in forme diverse. E però sono forme mie, per un altro, un'altra, magari è diverso. L'elemento comune consiste nel non accontentarsi del menù del giorno.

In tutto ciò, l'infernale affaccendarsi delle cretine, non meno dei coglioni, macina il suo quotidiano raccolto di irrilevanza, i post si succedono in precisa cadenza, al bar chi ordina caffè corretto Sambuca continua a farlo, e probabilmente non ci sarebbe neppure gusto se il meglio abbondasse come il riso sulla bocca degli stolti; un proverbio che in fondo dice la stessa cosa, aggiungendo la virtù della sintesi.

Sta dunque a ciascuno il difficile compito di riconoscere, quindi dare spazio e far durare quanto di prezioso continua a manifestarsi; magari in piccolo, come i quadrifogli che si nascondono nel tappeto dei loro simili con tre foglie. Se solo non avessimo questa brutta abitudine di strapparli ogni volta che ne troviamo uno, chissà, forse il mondo sarebbe pieno di quadrifogli. E di bellissime persone.