mercoledì 30 gennaio 2019

Pulsazione, o sulla poesia e il mondo

La poesia. Semplificando, a me ricorda una specie di enorme animale, e come tutte le creature vive possiede una pulsazione cardiaca: sistole, diastole, soprattutto diastole ai suoi primi passi nella storia, con il sangue del poeta a rifluire verso il mondo; ne ritornava immagini, parole, oggetti concreti che si fissavano prima sulla retina e poi sulla lingua, magari trasfigurati dalla meraviglia per la scoperta, rendendo il "mare color del vino".
A questa prima fase espansiva è seguita la contrazione, il moto centripeto di chi insegue la perfetta misura del proprio centro, come la O di Giotto con cui concludere il pronome io. Quell’onda di curiosità che aveva invaso il mondo ha così cominciato a ritrarsi, una risacca o, meglio ancora, una sacca come quella in cui viene racchiuso il sangue per le trasfusioni; il poeta moderno si vampirizza da solo, cercando di vendere i residui del banchetto sotto forma di collana di sanguinacci. Tra una salsiccia e l'altra si va capo, ma tutto quel che ci sta dentro proviene dal corpo del poeta, che si offre al lettore in eucarestia: prendete e leggetemi tutti, questi sono i cazzi miei offerti in sacrificio per voi. 
Ma proprio prima dell'inevitabile infarto, che ha coinciso col tardo Ottocento, primi del Novecento, qualcosa è cambiato, certo non tutto ma un timido spiraglio ha iniziato a fare irruzione nella casa della poesia, come lame di luce dalle persiane ancora chiuse. Bisognerà aspettare Francis Ponge, col suo Partito preso delle cose, o l’arte di “paesaggire” praticata da Zanzotto (presagire il futuro osservando il paesaggio) perché le gelosie si spalanchino definitivamente, consentendo allo sguardo del poeta di rimirar le stelle come un tempo, e non solo troppo umani inferni.
A questo contro movimento della poesia che torna a occuparsi della realtà esterna al soggetto, nel presente credo abbia contribuito in modo decisivo il fenomeno dei social network, dove con molta più efficacia, oltre che consenso, una personalità smaniosa di sé può fare incetta e quindi pubblica ostensione del proprio intimo, guadagnandone una pronta verifica: sono bravo, sono bello, sono io? Vai tranquillo, gli rispondono i pollicioni blu che si ergono a ogni nuovo indumento che casca al suolo.
Ma uno streptease, anche se virtuale e astratto, per essere efficace deve avere i suoi tempi, i suoi studiati rituali. Prima vengono così i lunghi guanti di velluto nero, giù la spallina e poi, ma piano, piano... a calare è il reggipudore di pizzo, che come il bouquet della sposa viene lanciato al pubblico che lo reclama – "facce vedè er Super Io, faccelo toccà..." – fino ad addentrarsi nei più contorti nodi viscerali. E per finire la mossa, olè! 
Questa surroga della poesia romantica attraverso le piattaforme digitali, per quanto spesso buffa, naif, a me però non imbarazza, e sembra al contrario un'ottima notizia. Magari non sarà appassionante leggere di Tizia che ha appena lasciato il fidanzato (ma ora lo rimpiange) o di Caio che mostra orgoglioso il nuovo tatuaggio in selfie, Sempronio ci parla invece della pupù del nuovo cucciolo di Labrador depositata sul kilim persiano, ma non dimentichiamo che questo cimento privato è stato per molti secoli l'orizzonte della poesia, magari con parole solo un poco più accurate.
Benvenuto dunque Facebook, a salvare la poesia dai poeti che avevano finito col ridurla a esercizio di onfaloscopia, come nei ritiri spirituali ancora praticati nei monasteri ortodossi. Ma benvenuto soprattutto mondo, ad abitare nuovamente le parole della poesia, anche se tali parole, di necessità, non saranno più scudo, vela, biancospino, ma Dixan, Coca-Cola, Ciccio Bello.

NO!

Mio padre mi ricorda spesso che la prima parola che ho pronunciato non è stata mamma, pappa, bua, gne gne, tata o comunque una di quelle poco più che confuse lallazioni a far gonfiare il petto dei genitori e inumidire la cataratta ai nonni, no, la mia prima parola è stata proprio questa. No.
E pare fosse un no bello secco, scandito e categorico, col musetto imbronciato a sottolineare il disappunto. Non ne ho ovviamente memoria, ma potrei giurarci che stavano cercando di ingozzarmi come un’anatra da patè, il solito trucchetto del cucchiaio che diventa un aeroplano, sta arrivano un aeroplano carico di, guarda l'aeroplano, bruuumm... Brum un cazzo, devo aver pensato io.
Un atteggiamento che mi è poi rimasto tutta la vita: appena mi accorgo che qualcuno vuole ottenere qualcosa da me in forma più o meno subdola, come prima reazione, spesso meccanica (dunque pure se da quella cosa traessi vantaggio) io rispondo no. Formazione reattiva, credo la chiamino gli psicologi.
La dinamica mentale sottostante, non di rado ingenua, consiste nell'invertire di segno le richieste, come quando si porta una cifra dal lato opposto di un’equazione: il più diventa meno e il meno diventa più, non è difficile. Guido, Andiamo in montagna? No, al mare. Usciamo a farci una pizza? No, un minestrone. Ottima idea, un bel minestrone Findus, volevo dirlo io, mi hai rubato le parole di bocca. Ho cambiato idea, usciamo a farci una pizza.
In fondo è semplice fregare i reattivamente formati come me, basta proporgli il contrario di ciò che realmente si desidera. Ad esempio, inviargli un messaggio in cui si dica che Tal dei Tali ti chiede di dire quanto fa schifo la sua pagina Facebook. Vacci pure giù pesante amico, tanto lo so da me che fa cagare. Ti invito solo ad aggiungerti al coro in cui viene strillato al vasto mondo.
A quel punto, forse (ma forse…), potrei anche buttare lì un like alla tua stramaledetta pagina personale, come la monetina che si allunga al posteggiatore abusivo che spergiura di sorvegliarti l'automobile. Ma come in quel caso gli offri il denaro per semplice pena o, più cinicamente, per non farti rigare la carrozzeria, anche le attestazioni di piacere mendicate su Facebook sono del tutto pretestuose. E’ tanto difficile da capire?
Eppure nei film tutti ridono quando qualcuno supplica un altro di amarlo – amami, amami ti prego! – ben sapendo che il verbo amare non ha mai retto l’imperativo. E allo stesso modo nel caso del piacere, che può solo essere espresso – mai richiesto.
Ma evidentemente ci sono degli ego che, dove li metti li metti, iniziano a dimenare il culo irrequieti, si fanno largo; a me ricordano chi in una spiaggia affollata cerchi di spostare il telo da bagno sempre più in là, per guadagnare spazio e pubblica evidenza; poco importa se possiedono i tatuaggi di Corona, le cosce lunghe di Belen o sono flaccidi e pieni di cellulite: l’importante è ritagliarsi un coriandolo nella pupilla del dio delle folle.
Ma finché continueranno a giungermi richieste di gradimento da questa particolare categoria di bagnanti digitali – i più paraculi sono quelli che allungano la manina per incassare l’obolo dopo pochi secondi dall’avvenuta conferma di “amicizia” – l’unico risultato sarà quello di imprimere una torsione alla mia faccia, oltre che alle mie budella.
Uno spettacolo non diverso da quello a cui devono avere assistito i miei genitori, nonni, zii, perfino la vicina di casa, la dolcissima Marietta, doveva essere presente quel giorno anche lei, mi immagino un intero anfiteatro di rompicoglioni raccolto attorno al mio seggiolone la volta che cercarono di travestire un omogenizzato Plasmon da bombardiere Junkers Ju 87, detto confidenzialmente Stuka, e per la prima volta dalle mie labbra proferirono due irrevocabili lettere: NO!

lunedì 28 gennaio 2019

Salvini come Mike Bongiorno, o sull'arte degli specchi


Alessandro Bertante, in un suo recentissimo post su Facebook, ricorda come "Salvini usi sempre termini denigratori quali professoroniintellettualoni, come se una comunicazione verbale infantile, fintamente bonaria, lo mettesse sullo stesso piano della sua gente. È una strategia grossolana" aggiunge lo scrittore di Alessandria, "che fino a oggi ha funzionato ma che parte dal totale e consapevole disprezzo per il proprio elettorato e della sue capacità di comprensione."
Io sono completamente d'accordo con la prima parte della sua analisi – anche perché è verificabile, è un fatto – ma non del tutto con la seconda. Più che un atteggiamento spregiativo credo infatti che egli stia mettendo in atto quella tecnica che nella programmazione neuro linguistica viene chiamata mirroring (rispecchiare i gesti e le frasi chiave dell'interlocutore, per condurlo successivamente in una direzione favorevole ai propri scopi), e prima che in politica è stata a lungo collaudata nello show business.
Ad accorgersene con intuito preveggente fu un ancor giovane Umberto Eco, che nella Fenomenologia di Mike Bongiorno attribuiva il successo del presentatore alla sua assoluta medietà. Ciò a cui anche lui faceva da specchio era un'italietta mediamente ignorante, mediamente pettegola, mediamente tutto, che dai propri tinelli maron, per usare la bella immagine di una canzone di Paolo Conte, lo osservava senza provare alcuna soggezione. Era a tutti gli effetti uno di loro, che beveva la grappa Bocchino e diceva allegria!
Ma quella fase storica possedeva delle profonde differenze col presente. Dai politici, gli stessi telespettatori al momento di trasformarsi in elettori (ma come si capirà con Berlusconi l'assonanza tra i due termini non è per nulla casuale), dai politici veniva reclamata un'autorevolezza del tutto assente in Mike Bongiorno, e che ha tenuto la scena fino alle monetine scagliate a Bettino Craxi di fronte al Raphael. È quello il momento in cui il vecchio Laio viene decapitato. 
Spostando così il ragionamento su un piano psicologico, potremmo ipotizzare che nel corso del Novecento il politico fosse percepito come un surrogato paterno - colui che sorveglia i confini della Legge -, mentre il presentatore televisivo fosse il fratello maggiore scanzonato e boccalone, del tutto privo di ogni carattere autoritativo. O ancora più radicalmente: il politico era colui che faceva da argine al godimento illimitato, mentre il presentatore, uomo di spettacolo, di distrazione e intrattenimento, lo promuoveva. 
L'elemento di novità non mi sembra dunque consistere in una comunicazione pubblica dalla natura simmetrica, ma nel fatto che a metterla in atto siano ora i politici, i politici in generale, non è una caratteristica che limiterei al Ministro degli Interni. E ciò mi sembra l'ennesima conferma dell'estensione dei codici dello spettacolo a ogni aspetto della scena pubblica, che possiede quale effetto principale la caduta di ogni principio di autorità, a favore di un'orizzontalità fraterna e semplificata.
Se prima stavamo insomma a scuola, dentro una piramide con alla sommità un preside, quindi gli insegnanti, i bidelli e infine gli alunni che si zittivano all'ingresso di quel padre simbolico che gli consegnava i codici di accesso al sistema sotto forma di sapere, ora siamo cascati in una sorta di limbo, che ha la forma di un chiassoso e perenne intervallo. 
Se ne ricava che i professori non possano che diventare la loro caricatura, "professoroni", allo stesso modo di quegli altri guardiani della soglia che furono un tempo gli intellettuali, ora sfigurati nella maschera carnevalesca di "intellettualoni". Salvini, come Mike Bongiorno, ha insomma capito tutto con anticipo, cavalcando con astuzia strategica lo spirito del proprio tempo.
Un tempo altro, nuovo, diverso. Quello in cui anche i politici si ingozzano di merendine, e ringhiando (un po' davvero e un po' per celia, per non morire) si tirano l'uno all'altro il cancellino.

domenica 27 gennaio 2019

Facebook come il Bar Piero, o sul (presunto) ritorno della politica

Prima l'Aquarius, poi la Diciotti e adesso la Sea Watch. Lo zampino è sempre quello del ministro dell'interno Matteo Salvini, a vietare a tutte le navi delle ONG di sbarcare sul suolo italiano, da cui la recente notifica di reato per sequestro di persona, consegnata allo stesso Salvini per conto dei procuratori di Agrigento. Fatti che hanno monopolizzato l'informazione negli ultimi tempi, ma, mi sono accorto, anche una buona parte dei post scritti dai miei contatti Facebook, con giudizi come prevedibile divergenti. Opposte tifoserie, insomma. Ma anche analisi puntuali e articolate.
Ciò su cui adesso mi interessa concentrarmi non sono però le specifiche vicende e neppure il loro merito – su cui ovviamente ho le mie opinioni, i miei sentimenti reattivi –, ma l'impressionante ricorrenza della dimensione politica sui social network, che mi porta a rivedere la diffusa considerazione sugli anni che stiamo vivendo, perlopiù liquidati come fortemente individualistici; ipotesi che sembra per altro confermata dal progressivo calo di partecipazione nelle consultazioni elettorali.
Eppure anche la conclusione di segno opposto, che vede il ritorno in forza dell’impegno politico, mi sembra affrettata e fuori fuoco. Non è un caso che al sostantivo politica venga accoppiato da sempre il verbo fare; la politica si fa, si agisce, coordinando mezzi, persone, idee, risorse economiche attraverso contenitori istituzionali (partiti) o para istituzionali (movimenti) nell’intento di raggiungere una finalità pienamente umana, che perlopiù coincide con una sorta di redenzione del presente. Ma come nel gioco delle freccette, rarissimamente si centra il cuore rosso del bersaglio e ci si deve accontentare di qualche punto, già che la politica è anche, se non soprattutto, compromesso.
Mi chiedo dunque quale bersaglio concreto si celi dietro ai centinaia di post politici che leggo su Facebook, oltre ai migliaia, forse perfino milioni che non ho letto né leggerò. Più che a un'estensione con altri mezzi del dominio della lotta, per parafrasare il titolo del primo romanzo di Houellebecq, mi viene allora da sospettare che l'elemento davvero centrale nelle nostre vite non sia tanto la politica in senso proprio, ma l'espressione politica, il suo semplice dire.
Potremmo forse sbarazzarci a questo punto anche dell'attributo politico, e concludere che è l'espressione tout court ad aver guadagnato il centro della scena pubblica; i più cinici potrebbero chiamarla blatera, per quanto io continuo a ritrovare lampi di acutezza, confusi in un effluvio di parole a ruota libera. D’altronde neppure scriverei queste parole se non avessi la convinzione che il mezzo, talvolta, possa essere trasceso dal significato, con buona pace di McLuhan.
Mi torna in mente un uomo un po’ brillo – di professione faceva il maggiordomo, giuro! – che declamava a memoria lunghi passi della Commedia, addirittura interi canti senza sbagliare un accento o una sineresi, stavamo appoggiati col gomito al bancone del Bar Piero a sorseggiare il solito pessimo bianco di Custoza. Dante, al Bar Piero?!
Sì, è accaduto anche questo. E noi che pensavamo che, col progressivo estenuarsi degli infiniti Bar Piero della provincia italiana, riconvertiti in luoghi fighetti dalle sigle anglofone dove darsi appuntamento all'happy hour, noi che ci illudevamo fosse cessato anche quell’opinionismo disinvolto con la Marlboro in bocca un po’ di sguincio, al quarto Custoza non erano rare conclusioni del tipo "rossi, neri, tutti uguali", come nella memorabile sequenza di un film di Nanni Moretti, il quale ribatteva con la sua vocetta chioccia: "Ve lo meritate Alberto Sordi, ve lo meritate..."
E invece il Bar Piero è ancora vivo e vegeto e lotta insieme a noi, il Bar Piero è noi, anzi, c'est nous. C’è solo da sperare che, su quell'enorme astrazione del Bar Piero a nome Facebook, tra tante opinioni politiche senza alcun fare e dunque neppure ricaduta nel reale, oltre all'attenuante di un bianchino di troppo, ci sia ancora qualche maggiordomo a ricordarci di Paolo e Francesca…

Ormai

Ormai solo un Dio ci può salvare. Lo proclamava Martin Heidegger il 23 settembre 1966, il giorno in cui mia madre compiva ventinove anni e io quattro mesi e quattro giorni. L’unico mio problema era allora quello di trovare il suo capezzolo destro – gonfio, ritto, colmo di latte fresco che gocciolava sull’areola larga e rosata – oppure dirottare sul sinistro, doveva apparire non meno sontuoso ai miei occhietti sgranati su tutto quel bendidio. L'espressione del filosofo di Messkirch era invece quella solita, da topino grasso che si crede un leone, sentendosi in dovere di ruggire al mondo la verità della gazzella. Due giornalisti di Der Spiegel diligentemente trascrivevano.
Adesso il topino ha lasciato posto ai suoi amati libri, mia madre ha ottantun’anni e io cinquantadue. Soltanto un Dio può salvarci… Mah. A me sembra che sia piuttosto la tecnica, tanto paventata dal topino coi baffetti e il sorriso sornione in stile Zorro, dopo aver disegnato una bella zeta con il fioretto, opplà, sul ventre prominente del sergente Garcia, a rappresentare una possibile salvezza, non quel Dio che da essa dovrebbe emendarci. Un universo fatto solo di tecnica, algoritmi e procedure informatiche, ma senza uomini e Dio tra i coglioni, con la matematica e la geometria che lo fanno finalmente da padrone, come in fondo da sempre è. Dico, che c'è di male: perché dovrebbe essere un brutto sogno?
Certamente migliore di questo incubo – barconi stracolmi di Arlecchini servitori di due continenti, si stagliano sul Mediterraneo come un neo sul bel musino di Cindy Crawford; le esternazioni politiche tramite twitter e post e per non dire dei talent o dei talk, poco importa la distinzione, importante è che ci sia l'onnipresente suffisso show; vaccini a raffica a prevenire un male che non si può vedere né pronunciare; no, non si chiama morte, per quella c'è sempre tempo, basterà ora una badante bionda a pulirti il culo con una mano grassoccia, con l'altra si aggiusta le cuffiette dello smartphone che trasmette canzoni ucraine lacrimose; gli slavi, si sa, sono sentimentali; tanto ci sarà e anzi già c'è una pillolina azzurra a farci drizzare nuovamente il cazzo, mentre le coetanee si concedono nuove labbra per sussurrare; mi raccomando dottore, le voglio uguali uguali a Lilli Gruber –, un incubo che solo all’occhio miope di un topo con la croce uncinata appuntata sul bavero di una giacchetta tirolese in loden verde oppure blu, non si capisce bene, la fotografia è in bianco e nero, può costituire la propria razione quotidiana di formaggio.

domenica 20 gennaio 2019

Ci sono opinioni e opinioni, o sulle nuove forme di “autoritarismo”

Le persone sono tutte uguali? Io penso di sì. Mangiano, dormono, fanno la cacca, si innamorano, vengono punte dalle zanzare e gioiscono per un pompino fatto come dio comanda, anche se perlopiù immaginario e gentilmente offerto dalla giovane dirimpettaia sul metrò; la quale, ovviamente, è ignara del sognatore a occhi aperti che la osserva di sottecchi, continuando a smanettare a testa bassa sul proprio smartphone.
La domanda andrebbe allora precisata, magari a questo modo: le opinioni espresse dalle persone più diverse e benché la comune radice umana, sono tutte uguali?
La risposta è sotto gli occhi di chi assista anche solo per dieci minuti a un talk show televisivo, oppure entri, dove capita capita, su un social network. Ed è solo a questo punto che possiamo affermare con ragionevole certezza che no, le opinioni non sono tutti uguali, prevalendo nella specie a cui apparteniamo, homo sapiens sapiens, una gran quantità di cazzate, frasi presuntuose, goffe, male espresse e disinformate, a cui si contrappone un’isoletta piccola piccola ma colma di frutti prelibati per il pensiero.
I greci avevano escogitato il modo di distinguere tra le due diverse forme dell’esprimersi, chiamando doxa l'opinione in senso proprio (che è per definizione opinabile, ossia senza alcun fondamento certo) ed epistéme la verità, o per essere ancora più precisi un’affermazione che stia sopra al baccano del mondo, epi histemi, e da cui molti secoli dopo ha preso avvio il sapere scientifico. Le premesse stavano però già tutte lì, in quella distinzione.
Ma tra Platone e Galileo è utile ricordare una tappa intermedia, situata nella romanità classica. Furono infatti i latini a introdurre il concetto di auctoritas, già che anche tra le opinioni prive di epistéme, quelle insomma che stanno sotto e non hanno altro su cui poggiarsi che la propria umile stampella, possiamo distinguere, per quanto a larghe spanne. Ad esempio valutando con maggiore considerazione quelle opinioni che contengono bellezza formale, capacità di fare collegamenti, profondità di intuizione e quantomeno coerenza logica, se non ancora verità.
Col tempo, il termine autorità ha finito però con l'indicare una sorta di sigillo istituzionale, conferito non tanto dalla sapienza e dall'estero personali ma dalla comunità troppo umana di riferimento. Sono cioè autorevoli le parole di una persona che veda riconosciuto pubblicamente il proprio status, ad esempio con un titolo di studio; più alto è, come per i gradi militari, maggiore è l’autorità di comando. E per inciso, la cosa non mi appare del tutto incongrua quando si parli di materie tecniche e verificabili, ad esempio un ingegnere che disputi in merito ai parametri di portanza di un ponte. Non glielo farei insomma progettare il nuovo viadotto di Genova a un pubblicitario, e però tanto caruccio e bizzarro e creativo…
Eppure in ciò scorgo un equivoco di fondo, già che tali aspetti riguardano nuovamente l’epistéme, direbbero i greci, non la doxa, l’opinione, e l'autorità non coincide automaticamente con una sacrosanta competenza, a cui è sempre giusto inchinarsi quando si ignorino i fondamenti tecnici che danno luogo ad artefatti o procedure (“io non parlo di elettronica, di dighe, io non parlo di radiologia” strillava agli amici tuttologi Nanni Moretti in una celebre sequenza di Sogni d’oro).
Piuttosto, l'autorità così come estensivamente intesa, almeno, rappresenta uno slittamento della competenza, che da tecnica e puntuale finisce coll'irraggiarsi nella dimensione della rinomanza, sorta di aura che alcune persone si arrogano e altri gli riconoscono. Questa dinamica sociale è di nuovo evidente sui social network, che lungi dall'essere luoghi orizzontali di espressione democratica dell'opinione, incorporano, perlopiù dall'esterno, quello statuto di auctoritas che anche qui viene fatto valere, e spesso ricercato anche da chi ne è esente. O detta in altre parole, c’è un’urgenza quantomeno simmetrica di mani da baciare e bocche disposte a farlo.
Ed è così che si vanno formando delle consorterie tra autorevolmente simili, ad esempio medici, musicisti, scrittori, sportivi, giornalisti, personaggi dello showbiz, che anche quando l'oggetto dell’opinione espressa esuli totalmente dalla materia di competenza (quindi siamo in piena doxa), tendono a riconoscere autorità di giudizio solamente ai pari grado, e a incassare da tutti gli altri. Un meccanismo per altro molto efficiente, che si autoalimenta da sé.
Viene a questo punto alla mente una pagina particolarmente feroce di Thomas Bernhard, in cui le parole vengono quasi graffiate sulla pagina: “i compositori di sinfonie non pensano che alle sinfonie, gli scrittori agli scrittori, i costruttori edili ai costruttori edili, i ballerini del circo ai ballerini del circo, è una cosa insopportabile.”
Eppure, alla luce degli esisti successivi, queste sue considerazioni lucidissime andrebbero emendate, e corrette a questo modo: i compositori di sinfonie non pensano che a diteggiare opinioni su ogni aspetto dello scibile umano, gli scrittori amoreggiano pubblicamente solo tra scrittori, i costruttori edili cercano di farsi amici gli scrittori e i compositori di sinfonie, per guadagnare quella parvenza mondana che il denaro da solo non garantisce, mentre i ballerini del circo sono diventati emblema di tutto ciò. Potremmo chiamarla l’autorità del nulla, fermo restando l’insopportabilità.

Opera o testo? o sull'interpretazione

Quando da ragazzino ascoltavo i Led Zeppelin, diciamo dalla seconda media in poi, prima mi dilettavo con Ramaya di Afric Simone e Liù degli Alunni del sole (che ancora adesso è una delle mie canzoni preferite, la canto se sono da solo alla guida e non ho problemi fino al refrain, poi la voce deve inerpicarsi sugli acuti intonando "e io sì t'avrei trovato per far l'amore, e io siii..." e qui parte la stecca), quando ascoltavo i Led Zeppelin alle medie, dicevo, più che 'sentire' davvero delle canzoni mi concentravo sugli interpreti. Jimmy Page alla chitarra, Robert Plant alla voce, John (Bonzo) Bonham alla batteria e John Paul Jones al basso.
Ognuno di loro, si diceva 
 e probabilmente era vero , era il migliore della categoria con il proprio strumento, in quella eterna gara che ai preadolescenti piace immaginare tra simili - tra Carole André, nei panni della Perla di Labuan, e la fatina bionda Maria Giovanna Elmi, chi è più figa; e chi più forte tra Hulk e la Cosa dei Fantastici 4; tra Rocco Siffredi e John Holmes chi ce l'ha più lungo? Dilemmi fondamentali, a quell'età.
Ed è così che Ramble On o Whola Lotta Love diventavano una contesa, coriandoli di suono che invece di tenersi assieme in un'esperienza del presente, andavano a cercare nel passato, recentissimo, avversari immaginari (i Deep Purple erano quelli più spesso chiamati in causa) a cui gettare il guanto di sfida. Credo sia la differenza tra opera e testo su cui ancora adesso vedo aggrapparsi molti giudizi, non solo in campo musicale.
Ho letto ad esempio di un critico letterario che rimproverava a Marco Lodoli di usare lo stesso linguaggio delle canzoni di De Gregori. È vero, non avevo mai fatto caso all'analogia ma è verosimile; potremmo però anche dire che De Gregori scrive dei testi con un registro simile a quello di Marco Lodoli. Ma cosa ci dice in più l'osservazione sulla natura delle rispettive opere, a parte smontarle in piccoli mattoncini, con l'intento di sminuire, e così allontanandole dal loro tutto, ossia da un'esperienza vera e profonda di ascolto? 
Secondo me pochissimo. Il linguaggio è infatti solo una delle componenti espressive, così come le linee di basso di John Paul Jones erano solo un ingrediente di quel formidabile impasto sonoro creato dai Led Zeppelin. Ma anche se squadernassimo tutti gli altri ingredienti sul tavolo, come si fa in certe trasmissioni di cucina in onda all'ora di pranzo, qualcosa comunque sfuggirebbe, il lievito si annida al cuore della torta.
Con ciò non voglio tornare a un'estetica crociana un poco ingenua, che riporta ogni gesto artistico alle sole dimensioni di intuizione ed espressione, ma suggerire una maggiore disponibilità a quella che possiamo chiamare un'interpretazione risonante, o se vogliamo utilizzare una parola difficile all'ermeneutica. Invece di bloccare preventivamente l'emozione attraverso la scomposizione del testo (sonoro o verbale poco importa) si potrebbe insomma cercare di capire perché, e come, quell'insieme integrato di segni ha scavato una via dentro di noi, e cosa ne è uscito fuori.
Il testo, in altre parole, da esterno si fa interno, e l'opera diviene misura di una ricognizione personale. Certo, a questo modo i giudizi smettono di essere stabili e assertivi, per quanto io trovo che una certa universalità la si possa ancora reperire. È come nei farmaci, per fare un paragone terra terra. Se hai un semplice mal di testa può bastare un'aspirina, in fondo la biologia umana è per buona parte comune, alla stessa maniera delle radici storiche e culturali.
Quando si tratta di somministrare un piacere semplice ma non banale, rimedio a un momento di lieve e sbadato scazzo, possono così essere sufficienti gli Alunni del Sole, di cui non smetterò mai di sfidare gli acuti alla guida. Ma con La passione secondo Matteo di Bach tocchiamo altre corde e altri mali, è qui più ampio e complesso il vulnus da sanare; un farmaco a cui in un certo senso è anche necessario prepararsi (leggere con cura il bugiardino, ingerire a stomaco vuoto e non distratti da altre sollecitazioni) perché faccia effetto.
Una similitudine un poco irriverente, ma che possiamo estendere anche alla letteratura. Prendiamo uno dei suoi indiscussi campioni, Shakespeare. In quelle gare di forza adolescenziali l'avremmo detto più forte di Marco Lodoli, e in effetti non nego la sua maggiore grandezza. Ma non perché, smontandolo, mostri dei virtuosismi esecutivi ignoti allo scrittore romano, o meglio non solo per questo, ma perché la malattia che il farmaco Shakespeare affronta è la più grave di tutti. Vivere.
E lo fa senza aggrapparsi a palline omeopatiche zuccherine, o a effetti placebo che stanno solo negli occhi di chi guarda, come ci ha insegnato lo stesso Shakespeare. No, lui va fino in fondo con la cura, e trova le parole giuste per farlo; non quelle astrattamente più belle, attenzione, ma proporzionate all'intento. Che poi alla fine si muore lo stesso, intendiamoci, o non sarà forse continuare a dormire, magari sognare...?

Invero, o sull'eterna questione della lingua in letteratura

La lingua narrativa, il problema della lingua nella narrativa contemporanea. Ritorno alla bella iniziativa realizzata da Vanni Santoni per conto del web magazine culturale l'Indiscreto. Egli, come ho già scritto nel giorni scorsi, pone quattro domande a sessantasei tra critici e giornalisti letterari italiani, il cui perimetro interrogativo comprende le condizioni in cui versano entrambe le discipline: la critica e il suo oggetto.
Le risposte sono come era giusto attendersi molto diverse, ma si manifestano, a volte con incalzante ricorsività, alcuni temi comuni, tra cui quello della lingua con cui oggi vengono scritti romanzi e racconti. Una lingua semplificata, viene detto pressoché unanimemente. Un traduttese aggiunge qualcuno, ossia il calco di scritture straniere, specie anglosassoni, con cui i traduttori convertono forme espressive estranee all'idioma nazionale.
Un esempio tipico è il verbo realizzare con il significato di prendere coscienza, rendersi conto, con cui viene restituito l'inglese to realize, forzando la semantica italiana in una direzione inaudita. Eppure, mi viene da commentare, come che sia (che sia giunta a noi) quell'accezione adesso c'è, è stata prima digerita e poi metabolizzata dal grande ventre del Devoto Oli. Le lingue sono animali voraci che si nutrono anche di scorie.
Ma per esserne certi ho voluto fare un collaudo. Sono andato al bar Piero e, dopo avergli offerto un bianco di Custoza, ho detto a un mio amico juventino: "Avevi proprio ragione tu, ho realizzato che Ronaldo è più forte di Messi." “Ah, lo vedi!" mi ha risposto lui buttando un'occhiata teatrale ai tavolini intorno, quasi a cercare un minimo pubblico a far da sponda a quella sua vittoria, prima di dare una lunga sorsata al vino nel bicchiere.
Realizzare, con il significato suddetto, è dunque ora parte della lingua italiana, se si usa al bar Piero è segno che ovunque è ormai stato sdoganato, e forse sarebbe il caso che anche i critici letterari se ne facessero una ragione: in Italia, oggigiorno (altra espressione che li manda in bestia), si realizza.
Ma c'erano altre espressioni incluse dai sessantasei critici nel libro nero dei cattivi. Ad esempio la formula a un tratto, oppure i verbi piombò e aggrottò, che una giovane e acuta critica contesta alle scritture contemporanee. Ma perché mai, mi chiedo?
A un tratto è un modo dire neutro e certamente poco espressivo, che, come noto, viene utilizzato quale sinonimo di a un certo momento, o forzandone un poco il significato in luogo di all’improvviso. Ma ci sono molte ragioni – evitare ripetizioni, rime cacofoniche o altro –, per cui un narratore possa prediligere l'uso di a un tratto. Non limiterei insomma la tastiera lessicale senza prima aver contestualizzato l’obiezione, già che nella vita ci sono effettivamente delle cose che accadono a un tratto.
Lo stesso possiamo dire di aggrottare: perché dovremmo negare ai nostri personaggi la possibilità di aggrottare (la fronte, o le ciglia) per mostrare e non dire la perplessità che provano, oppure di piombare dentro qualcosa? Certo, si tratta anche in questo caso di espressioni già sentite e lette mille volte, ma questo la lingua è: mattoncini lego con cui puoi costruire cattedrali o semplici e poco significativi cuboidi, ed è al contrario la forzatura espressiva che può allontanare chi legge dalla storia a favore di una escogitazione intellettuale, più adatta ad altre esperienze di lettura – quella critica, ad esempio.
In narrativa io considero dunque più arrischiato l’utilizzo di termini ricercati e poco frequenti, con cui il lettore ha scarsa consuetudine e possono revocare la famigerata "sospensione dell'incredulità". Certo, mi rendo conto che è una posizione del tutto discrezionale e la questione è tutt’ora aperta. Faulkner, ad esempio, rimproverava a Hemingway di non indurre mai il lettore ad aprire il vocabolario. Ma è questa una critica, mi chiedo, e non invece un plauso?
A non richiesta difesa di Hemingway – per difendersi dallo smilzo Faulkner a lui bastavano i vigorosi pugni di cui andava fiero – viene in aiuto Borges, che suggeriva all’aspirante scrittore di prediligere metafore comuni, che facciano riferimento a esperienze diffuse. E citava quale dimostrazione Omero con il suo “mare color del vino”. Ma va benissimo anche un paragone come bianco come un lenzuolo, che, per quanto consumato dall’utilizzo, non inceppa la lettura e fa sentire immediatamente quel che si vuole esprimere, ad esempio il lenzuolo con cui si ricoprono i morti. Se invece scrivessimo bianco come un Kuvasz, dopo che il lettore avrà aperto il dizionario per capire cosa cavolo sia un Kuvasz, quindi ricevuto i complimenti di Faulkner, non siamo certi che tornerà volentieri al nostro testo…
E invece noi torniamo all'inchiesta dell’Indiscreto. La stessa giovane critica che muoveva agli scrittori italiani l'accusa di sciatteria formale – lo sfondo implicito è l’obiezione neoavanguardistica: la scrittura è linguaggio, il resto conta poco o nulla, le storie, gira e rigira, son sempre quelle –, nella sua risposta abrasiva alla domanda di Santoni utilizzava il termine invero. Basta un piccolo collaudo anche qui, siamo di nuovo al bancone del bar Piero e il barista ha riempito di Custoza i nostri bicchieri ormai vuoti, il tifoso juventino ha voluto ricambiare il giro. “Senti” gli dico io, "invero sei convinto che la Juve vincerà la Coppa dei Campioni?" "Che cazzo hai detto" risponde lui, “inve… che?!”
Il bar Piero sembra dunque confermare che la lingua italiana ha subito un processo di impoverimento impressionante (dagli anni ottanta in poi, volendo individuare la soglia del burrone), per altro già registrato dagli studi del linguista Tullio de Mauro. Ma io non credo che il compito di rimpolpare il linguaggio vada assegnato agli scrittori, e piuttosto alla scuola, alla scrittura saggistica, alla divulgazione culturale e perfino al giornalismo; tutte esperienze di lettura in cui una certa distanza intellettuale dal testo può rivelarsi preziosa, e non ostativa come nel caso della scrittura narrativa. Quest’ultima deve semplicemente lavorare la propria lingua per renderla conforme alla storia che vuole raccontare. Non andrei oltre, non gli chiederei di più.
In una narrazione eccentrica e sperimentale può essere opportuna una lingua espressionista e inusuale, oppure, per contrasto, filtrare una vicenda molto quotidiana attraverso un linguaggio aulico, creando così quegli effetti di spiazzamento che caratterizzano la scrittura di Michele Mari; certo anch’essa mutuata da Joyce, volendogli trovare un antecedente. Ma sarebbe impensabile che in uno dei bei libri di 
UgoCornia qualcuno dicesse invero. No, in quello stralunato mondo letterario nessuno dice e neppure pensa invero. Però lì è consentito alle persone di “aggrottare” la fronte e, “a un tratto”, scoreggiare, prima di “piombare” in un sonno colmo di sogni e di buffe fantasticherie.
Suggerirei dunque ai critici letterari di evitare quella genericità che imputano agli scrittori. È vero, la nostra lingua si è impoverita, standardizzata, gli affluenti dialettali non ne gonfiano più il corso principale, che si dispone a emulazioni estere. Nemmeno si può coltivare l'utopia che la lingua letteraria dia nuovo fondamento a quella nazionale, come è stato, unico caso al mondo, per l'italiano ai suoi esordi. Ora sono infatti altri i mezzi espressivi – cinema, televisione, internet – in cui il presente si riconosce.
E' questo l'ambiente linguistico entro cui si muovono i narratori, che, quando non cerchino l'eternità dei classici (ma la classicità non può essere prescritta, con quell'imperatività che non regge neppure il verbo amare), si rivolgono a chi avrà la bontà di leggerli. Il tutto in un tempo piccino e smarrito, un tempo medio, come le parole in cui si riflette, e mi rendo conto che a guardarsi nello specchio delle parole non sia sempre un bel guardare. Le parole che uso anch'io, le pronuncio con le persone con cui sbicchiero al Bar Piero e, per finire in rima, non dicono mai invero.

lunedì 14 gennaio 2019

Cesare Battisti, o sul confine sottile tra diritto ed emozione

Ciò che mi ha più colpito nell'arresto di Cesare Battisti in Bolivia, a cui è seguito il grande show mediatico dell'estradizione in Italia, è che tutti possiedono un'opinione al riguardo, specie su quel grande altare ostensivo che sono diventati i social network. Lo spettro dei giudizi passa da "impicchiamolo subito" a "pora stela, dovrebbero abolire tutte le prigioni".
Ma in fondo non ha molta importanza da quale parte della rete caschi la pallina: è il gioco, che conta. Le regole del gioco. E le regole di questo gioco che si chiama diritto, in un paese democratico sortiscono sempre da un'emozione individuale, che nel tempo si rende consapevole di sé. Quindi diviene intento, per essere infine negoziata con milioni di altre emozioni e intenti – una negoziazione astratta, certo, ma con effetti di realtà che prendono il nome di patto sociale –, a formare dialetticamente la lettera della legge, di cui il diritto penale è forse la parte più delicata e significativa, già che il potere che viene alienato alla comunità è qui un potere sui corpi.
Nella giustizia esiste dunque una traccia di quel potere di far male a un altro corpo, costringerne lo spazio, la libertà, che poi non è altro che il sentimento arcaico di vendetta. Possiamo anche metterci le mani sopra gli occhi come scimmie, o direttamente la testa sotto la sabbia come struzzi, ma è così. Nella giustizia è sempre presente un'ombra di vendetta. 
Vendetta che viene naturalmente sublimata in un linguaggio che vorrebbe depurarla da ogni impulso violento, solo in parte riuscendovi. La funzione pedagogica della pena – discutibilissima, per altro, sul piano degli effetti – rappresenta così uno dei due corni di una materia in cui le passioni sono solamente sopite, e di cui l'altro corno serve ancora per infilzare.
Una volta concluso il viaggio che collega la stazione di partenza dell'emozione (vendicativa) a quella di approdo della legge (compensativa), non esiste però biglietto di ritorno, non in tempi brevi almeno, e non si può a ogni notizia che tocca le nostre corde più intime arretrare all'emozione primigenia, da tradurre in bandiera operativa: facciamo questo, non facciamo quest'altro, ci vuole la pena di morte!
Nei codici, apparentemente asettici, della legge, c’è infatti anche un pezzo del nostro cuore, che riscuotiamo ogni volta che saliamo su un mezzo pubblico o mandiamo i figli a scuola. La legge è viva, anche se sembra versare in un perenne stato di letargia. Ma sarebbe una catastrofe se pretendessimo di rivedere il nostro patto a ogni nuova emozione.
Per quel che mi riguarda, non mi procura certo allegria l'arresto di un uomo non più giovane a cui viene azzerata ogni prospettiva di futuro, come non lo ero per i numerosi delitti a esso attribuiti; per altro confermati da numerose sentenze, di cui una definitiva. Il mio giudizio sul caso Battisti esula però totalmente da tali stati d'animo, e consiste nel non avere alcun giudizio. Deciderà di lui la magistratura sulla base della legge italiana, che include le tutele legali per l'accusato e, per quel po' che la conosco, mi pare una buona legge, con un solido fondamento costituzionale.
Ma se anche non sapessi nulla di tutto ciò, sarebbe comunque uguale, già che il processo di civilizzazione (barattare un po’ di felicità per una maggiore sicurezza, lo definiva Freud) implica che non si possa avere competenza e voce su tutto quanto, la complessità può essere gestita solo attraverso un articolato meccanismo di deleghe e attribuzioni.
Altrimenti, dopo il populismo etico e il populismo politico, si arriverà al populismo giuridico. Ossia al linciaggio, o al libero per tutti che si strillava a nascondino. 

domenica 13 gennaio 2019

Baricco, o su come lanciare la mano e nascondere il sasso


Uno degli indicatori che io utilizzo per capire quando girare al largo da qualcuno, è sentirgli pronunciare la frase: Baricco, mmm…
Sui social network, la stessa frase, prende la forma di ammiccamenti tra squisiti consimili, in cui Alessadro Baricco è considerato il Grande Male. Ti sta sul cazzo Baricco? Bene, anche a me, possiamo iniziare a parlare. E’ questo il sotto testo di molti post che leggo su Facebook.
Ora io credo di essere la persona meno adatta a far la difesa d’ufficio di Baricco. Non che non mi piaccia – alcuni saggi, in particolare, sono molto acuti e ben scritti – ma leggendolo è come se ascoltassi l’eco delle sue parole, la medesima sensazione che provo in certe telefonate in viva voce. Baricco parla e si parla al tempo stesso, e la cosa, il più delle volte, a me disturba e allontana. Ma non è questo il punto.
Il punto, come anticipavo, è il pregiudizio culturale, e Baricco ha questa formidabile capacità di intercettare le più variabili forme di snobismo, che mi infastidiscono più dell’eco di Baricco in vivavoce. 
Oggi Baricco l’ha però davvero fatta grossa. Ho letto sul web che venerdì ha pubblicato un lungo articolo su la Repubblica, quasi un piccolo pamphlet sui temi che gli sono cari, e che negli anni ha approfondito con rigore affabulatorio – modernità tecnica e ripercussioni sul paesaggio umano, in soldoni.
Ho così cercato questo testo sul web, finché sono finito sulla pagina Facebook dello stesso Baricco. Ed eccolo l’articolo, proprio lui. Bene, bel colpo, leggiamolo!
Ma dopo le prime righe si fermava e veniva detto: se vuoi continuare nella lettura di Baricco (si riferiva a sé in terza persona) devi essere abbonato. Abbonato a che? A la Repubblica, naturalmente.
Ma che cazzo di sistema è questo, che uso del mezzo è?
Posso anche comprendere che il profilo Facebook di Baricco sia gestito da altri, ma non che faccia lo spoiler di un contenuto a pagamento. E' come, ecco, se tu non lanciassi il sasso e nascondessi la mano, ma il contrario. Vuoi il sasso? Metti i soldi sulla mano e te lo do. Che è un'infrazione macroscopica e pacchiana al galateo dei social network.
Piuttosto non pubblicarle le prime parole del tuo articolo, se ci sono problemi di copyright. Oppure te ne freghi e lo condividi ugualmente. Ma per intero. Così non vale, stai utilizzando il web per fare marketing al gruppo editoriale GEDI. Sposi quell’orizzonte di senso. Tradisci la Rete, il gioco, “the Game”. Il vangelo insomma della modernità più curiosa e avanzata e anche boccalona, di cui ti fai profeta da qualche anno.
Perché alla fine quell’articolo l’ho trovato e anche letto. E’ un buon testo. Ed è per questa ragione che il suo atteggiamento mi infastidisce ancor di più: o dentro o fuori, Baricco. Non puoi pensare di fare l’arbitro e il giocatore allo stesso tempo. E in più anche incassare le royalty sull’ingresso allo stadio…

sabato 12 gennaio 2019

Roma e Milano, un'ipotesi antropologica


Una cosa che stupisce, soggiornando a Roma per qualche tempo, è la presenza di un tipo umano che da principio ci appare come eccentrico al contesto, ma, col passare dei giorni, riconosciamo possedere una sua puntuale ricorsività, per quanto non così frequente. Tipicamente atipico, potremmo dire con un ossimoro.
Si tratta di persone poco affabili, quasi severe, molto controllate nei gesti quotidiani quanto nel porgersi – sempre con grande misura – pubblicamente. Perfino l’abbigliamento, sobrio, quasi clericale, tradisce tali aspetti della personalità, che si condensano in un'assertività morale a volte al limite del moralismo. Ma un aggettivo più di tutto li riassume: rigorosi.
Qualche esempio? Nanni Moretti, Alberto Moravia, Francesco de Gregori, Edoardo Albinati, Eugenio Scalfari, Nicola Piovani, Christian Raimo, Giorgio Agamben. Non esattamente dei simpaticoni, a dirla tutta, e guarda a caso maschi...
Stiamo dunque parlando di una personalità maschile diffusa soprattutto in ambienti intellettuali, e che verrebbe da definire anti-romana. L’elemento distintivo è infatti la negazione biografica dello stereotipo cittadino prevalente, il rugantinismo per intenderci, o le formidabili caratterizzazioni cinematografiche di Sordi e Verdone, che fanno dell’esuberanza caciarona e guitta il perimetro della romanità. Ma è un confine imperfetto, come si può vedere.
Viene allora alla mente lo schema psicologico della formazione reattiva, con cui gli studiosi della materia dicono ci si possa opporre, specie in età adolescenziale, a un’educazione famigliare di cui non si riconosca il magistero, o più in generale comportarsi come il famigerato bastian contrario. Romani talmente stanchi di quella romanità da volemosse bbene, anveedi, ‘sti cazzi, per non parlare della santità der cuppolooone che loro ribaltano di segno: là dove prima c’era il nero ora troviamo il bianco, e viceversa.
Stimolato da tale analogia, provo così a pensare ad altre città che formino reattivamente i propri abitanti, e mi sembra che siano più frequenti al sud. Palermo, ad esempio, oppure Napoli, Bari. Esiste una classe colta o, per essere più precisi, un’élite che occupa i settori pubblici di maggior rilievo, le professioni (avvocati, giornalisti, medici, insegnanti etc.) che da sempre si distingue dagli umori popolari, non li spregia ma ha premura di distinguersi.
Non possiamo però arrivare ad affermare che tali persone siano totalmente altro dai luoghi di appartenenza – Nietzsche la chiamerebbe “malattia delle catene”, a immagine di un lottatore che sembra tutt'uno col suo avversario, la stazione di arrivo con quella di partenza, come se i binari disegnaserro un circolo più che una retta, rendendo il viaggio incompiuto. Eppure, nella contrapposizione ai luoghi che ci vorrebbero ad essi omogenei, qualcosa di diverso accade. Accade dentro, intendo.
A Milano invece no, non avverto lo stesso attrito tra geografia e antropologia, massa e intellettuali. Forse un po’ a Torino, che è città aristocratica e con forte emigrazione meridionale, ma certo meno che al sud. Non so se sia una cosa buona oppure no, ma la frase “io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me" che amava ripetere Giorgio Gaber (appartiene in realtà al piemontese Gian Piero Alloisio) può essere concepita solamente dentro a una sensibilità settentrionale, che si allarga secondo percorsi orizzontali in cui viene revocata la verticalità urbana degli archistar, qui hanno trovato campo libero e sghei. 
E si torna così alla nebbiolina padana che si spande al tramonto tra le rogge, fino a raggiungere, facendosi beffa dei divieti di circolazione, le zone A, B, C, la Madonnina, che tutto e tutti osserva distante sorniona. Ma se la Madonna ci vede per definizione benissimo, da dentro la nebbia, in milanese scighera, tu e io diventano categorie incerte e mutevoli, e come in una memorabile sequenza di Amarcord viene da chiedersi: sarà mica così anche la morte...?
Per questo, quando giro per Milano, sto molto attento ai volti delle persone che incrocio, li studio circospetto senza darlo a vedere. Non per marcare una differenza, come anche a me capita quando mi trovo a bighellonare per Roma  là in fondo sono il milanese, il polentun , ma perché in quelle espressioni distratte che seguono il movimento accelerato del proprio passo, potrebbe celarsi il sintomo di una qualche pericolosa malattia dell’anima. Una loro malattia, ma di riflesso anche mia.

venerdì 11 gennaio 2019

Certezze


Il giorno che mi suiciderò, che mi suicidassi, che dovessi suicidarmi o mi suiciderei, non ho ancora trovato modo e tempo del verbo ma comunque non ucciderò anche il mio cane, prima di me e quale forma consolatoria di viatico post mortem, come ha fatto Hitler con Blondi, una femmina di pastore tedesco che egli amava vezzeggiare in pubblico e con cui dormiva nella stessa camera da letto, gliela aveva regalata Martin Bormann nel 1941.
Nell'aprile di quattro anni dopo, in pieno assedio al Führerbunker di Berlino, diede alla luce cinque cuccioli concepiti con il pastore tedesco dell'architetto Gerdy Troost, il suo nome era Harass. Procura uno strano effetto immaginarsi il corteggiamento di Harass sotto le bombe. 
Se allarghiamo l'inquadratura, possiamo vedere anche i generali e i colonnelli – trafelati entrano ed escono con i dispacci dal fronte che si riduce sempre più, la rovina viene addolcita al Führer in un birignao tecnico e procedurale  o annusare l'odore di disinfettante e verdure bollite che proviene dalle cucine; eppure anche tenerissime fragole riescono a filtrare in quella bolla. Sono glabri i volti dei combattenti della Hitlerjugend premiati con una carezza del Grande Capo; ne ritorna, come in uno specchio deformante, lo stesso sguardo accesso di Telemaco al sospirato ritorno di Ulisse.
Intanto, in un tiepido cantuccio, i due animali procedono indifferenti nel loro rituale di accoppiamento: lei prima si nega, morde, fa la vezzosa; poi alza piano la lunga coda sfrangiata...
Quando i militari dell’Armata Rossa riuscirono finalmente a fare breccia, insieme ai resti umani – i cineoperatori sovietici vollero disporre i cadaveri dei sei figli di Magda Goebbels in ordine di altezza, forse per restituire un ordine geometrico alla follia, o magari per un'estrema e macabra burla – furono ritrovati anche i corpi di Blondi e di uno dei suoi cuccioli.
Si trattava probabilmente del piccolo Wolf, un mese di vita al massimo, era il preferito da Hitler che così l'aveva chiamato in un anagramma imperfetto del proprio nome di battesimo. Le pillole di cianuro gli vennero somministrate dal Dr. Stumpfegger, quasi fosse la prova generale alla vigilia della prima; se funziona con i cani andrà bene anche per le persone, una parodia democratica del finale.
Non è nota la sorte degli altri tre cuccioli, ma sappiamo per certo che il rimanente fu ceduto alla sorella minore di Eva Braun, Margarete Berta detta Gretl, come la protagonista della celebre favola tedesca. La segretaria privata di Hitler, Traudl Junge, ricorda in un' intervista di quanto Eva detestasse Blondi, che in più di un' occasione aveva visto prendere a calci.
Al momento, queste sono le mie uniche certezze.

L'affaire Moix II, la revanche

Molto interessante la discussione sulla bacheca Facebook di un mio contatto di genere femminile, così a spanne potrebbe avere intorno ai cinquant’anni. L’età dello scrittore francese Yann Moix, dunque.
Riassunto delle puntate precedenti: Moix, rispondendo a una domanda in cui veniva sollecitato sull’argomento, dichiara alla giornalista Marianne Mairesse di non provare desiderio erotico verso le coetanee.
Numerose cinquantenni, quale reazione piccata, esibiscono sui social network fotografie in cui si offrono allo scatto in pose più o meno scosciate, come a dire: guarda qua cosa ti perdi, scemo!
Il mio contatto commentava ironicamente tale comportamento, ma aveva parole abrasive anche per lo scrittore boccalone: “un ometto gerontofobo in evidente crisi pre-senile, a giudicare dalla foto (di Moix, in questo caso), le venticinquenni a breve, se non di già, se le dovrà pagare”. Parole testuali, che come giusto ho virgolettato.
Ho fatto questa lunga premessa per mostrare come ci siano tre soggetti distinti, se non addirittura opposti per intenzione: 1) Moix, che non vuole le cinquantenni; 2) le cinquantenni desnude sul web, che non volute da Moix ribaltano la prospettiva: siamo noi a non volere te; 3) il mio contatto Facebook che non vuole e non condivide entrambi.
Ma se guardiamo a questo siparietto con maggior attenzione, ci accorgiamo che le tre voci sono alternative solo in apparenza, quando a ben vedere parlano la stessa lingua – la lingua del potere, non del valore che è dato quale implicito del discorso. Ed è come sempre il codice del corpo a segnarcelo, la sua semiotica posturale, oltre alle scelte verbali con cui il tutto viene sunteggiato.
Il valore, per costoro, coincide infatti con il desiderio: chi è desiderato vince e chi desidera perde. Le donne cinquantenni che esibiscono sul web forme ancora, a loro giudizio, almeno, avvenenti, reclamano il potere che Moix gli nega preferendogli le ragazze. Se non ti piaccio, è come se ci dicessero, mi stai togliendo potere, e così per reazione uguale e contraria io adesso lo tolgo a te.
Ma anche il mio contatto afferma un potere, si pone a un livello superiore da cui giudica le coetanee ingenue e scomposte e Moix un “ometto in crisi presenile”, con ciò revocandogli lo stesso 
potere – essere desiderato da una venticinquenne, se non pagandola, che è un'altra forma di potere. Ragiona insomma secondo presupposti totalmente omogenei alle donne che dice di criticare.
La gaffe di Moix si dimostra così altamente istruttiva. A mostrarci come uomini e donne, la più parte almeno e al netto delle contrapposizioni fittizie qui esibite, sono molto più vicini di quel che si creda. E più che la lingua dell’eros parlano entrambi la lingua del potere; un potere che per gli uomini continua a essere economico e sociale (il successo, la fama, la rinomanza pubblica) e per le donne estetico e anagrafico. 
Ma per paradosso, è proprio nella goffaggine machista di Moix che tale lingua del potere si mostra più fragile e balbettante. Già che non ha mai dichiarato di essere ricco, famoso, lei non sa chi sono io, oppure giovane e bello, ma sono piuttosto le donne giovani e belle a suscitare il suo desiderio. Ma a questo modo ha già "perso" in partenza, è sotto scacco matto della regina.

Peccato che le centinaia di donne, di tutte le età, che ora lo attaccano, non se ne siano accorte. Perché alla fine sono loro a dover decidere se andare o meno a letto con lui, come è sempre stato e sarà...

mercoledì 9 gennaio 2019

Sesso & calendari, o su come una domanda cretina genera una risposta scema

Sull'affaire Moix, per una volta, ho le idee chiarissime. Scandalosa non è infatti la risposta del cinquantenne autore francese, il quale dichiara, seraficamente, la sua idiosincrasia erotica alle coetanee, ma la domanda di Marianne Mairesse durante un'intervista per Marie Claire, in cui gli chiede a brutto muso: "Potrebbe mai amare una donna di 50 anni?"
Ma che cazzo di giornalismo è: di quale donna stiamo parlando, con che storia, nome, voce?!
È ovvio che se la premessa interrogativa riduce le relazioni a una bolla anagrafica indistinta, anche la replica non può che muoversi in quell'acquario, dove tra un pesce rosso e l'altro cambia solo qualche striatura delle squame.
L'unica responsabilità di Yann Moix è dunque stata quella di rispondere ingenuamente e, ancor peggio, sinceramente, a una domanda tanto cretina, esprimendo ciò che tutti pensano e nessuno dice. Già che in ciascuno di noi persiste una porzione del cervello di un pesce rosso.

martedì 8 gennaio 2019

La fine della strada, o sulla critica letteraria

Indiscreto, evoluzione web dell'omonima e storica rivista culturale fiorentina, fu fondata ed è ancora edita dalla casa d'aste Panati, ha appena promosso un’iniziativa che trovo di grande interesse. Lo scrittore Vanni Santoni convoca sessantasei critici letterari italiani (praticamente tutti) per porgli quattro semplici domande sullo stato dell’arte: quella della critica stessa, ma anche quella, naturalmente, del suo oggetto.
La prima domanda riguarda dunque la critica, la sua condizione attuale e le sue prospettive future. Non riassumerò qui le risposte, che comunque contengono numerosi spunti preziosi, guizzi fosforici da parte di persone che conoscono a fondo la materia di cui discettano con misura. Ciò che più mi ha colpito è però quel che essi non dicono.
Intanto, nessuno dei sessantasei critici che sono concordi, realisticamente, nel registrare una profonda crisi della propria disciplina, sembra dispiaciuto per questo. Ma come, ti hanno appena detto, anzi, ti stai dicendo da solo che sei un ferro vecchio buono per la raccolta differenziata, se ti va di lusso finisci nella teca di un museo, e non ti dispiace nemmeno un po’?!
E’ come se all’improvviso l’Ungheria o, ancora meglio, il mondo intero diventasse uno stato islamico. Io credo che Rocco Siffredi non ne resterebbe indifferente. E' quello che ha fatto per tutta la vita, filmetti porno, cosa succederebbe se gli dicessero basta, si chiude bottega, finito? Al limite potrebbe continuare di nascosto per pochi amici fedeli, con cui sfogliare vecchie copie di Caballero mentre spiove una lacrimuccia sulla guancia: come eravamo giovani, come eravamo belli…
I sessantasei critici invece no, nessuno mostrava segni di cedimento. Parevano addirittura goderne. Non tanto della propria imminente uscita dalla scena pubblica, ma dell’acume – come sono intelligente! – con cui la registravano con puntuale preveggenza. Emozione e pensiero erano totalmente scissi, come forse il ruolo prevede. Ma siamo davvero certi che debba essere così…?
Il secondo motivo di sorpresa è in qualche modo collegato al primo. Anche qui, era pressoché unanime la convinzione che la critica letteraria sopravvivrà, ma in forme più o meno appartare e carbonare. Conclusione a cui aderisco totalmente, ma sulle ragioni era un continuo arrampicarsi sugli specchi, nel tentativo di reperire nell'ambiente circostante (quel che si dice “la funzione sociale”, che guarda a caso coincide con i motivi della crisi) il gancio a cui appendere il proprio titolo, magari vergato in caratteri gotici come avviene nello studio dei dentisti: Critico Letterario, con specializzazione in estrazione di scrittori velleitari dal canone occidentale.

Eppure la risposta a me appariva a portata di sguardo, basterebbe solo ribaltare l'inquadratura alla maniera del controcampo cinematografico. Passare, insomma, da un’oggettiva (campo lungo) alla soggettiva di chi osserva il mondo con stupore e curiosità, e quindi interrogare quel puntino nero che sta proprio al centro dell’occhio, come quando l'oculista ti mette le goccine.
Ed è solo in questa diversa prospettiva che possiamo comprendere come la critica letteraria, non diversamente da ogni altra forma di interpretazione e di giudizio, continuerà a esistere. Ed esisterà fino a che ci saranno delle persone impegnate in tale attività, è ciò per cui hanno studiato e sanno fare bene, ne provano piacere, gusto, soddisfazione. Semplicemente per questo. Non è forse bello sussurrare, all'ingresso della capoufficio con una gonna appena acquistata, si guarda in giro orgogliosa, quanto le fa grosso il culo per altro già basso?
Non c’è niente di male, intendiamoci. Provare gratificazione nell'esprimere commenti sugli sforzi non di rado goffi degli altri; a volte possono essere anche d’encomio, per carità, oppure analisi minuziose, spiegazioni dotte, in cui si mettono a nudo gli ingranaggi estetici che si nascondo nel ventre dell'opera – "mai far scendere il lettore in sala macchine!" intimava Céline. Ma al critico questa licenza è concessa.

Ciò non fa di te una persona sterile (“complesso dell’eunuco” lo chiamava George Steiner) o ancora peggio cattiva, anche se un pizzico di cattiveria non guasta. Freud aggiungeva che eros e aggressività sono due gemelli separati alla nascita, e l'uno prospera dove l'altro fa difetto. Ma non ne farei una questione psicanalitica.
Non escludo inoltre che il proprio desiderio – perché di questo si tratta – possa incontrare nel mondo un riflesso, e l'azione attraverso cui il piacere si oggettiva, una volta conclusa, continui a produrre soddisfazione anche in altri, pochi altri se le previsioni dei sessantasei si riveleranno corrette.
 Io però non sarei così pessimista.
Disponendomi pure a un'inquadratura in soggettiva, mi accorgo infatti che alcune pagine di Cesare Garboli o Filippo la Porta o Alfonso Berardinelli o Emanuele Trevi o Simone Barillari, e mi fermo qui ma potrei offrire un catalogo con cifre alla Don Giovanni, mi accorgo che alcuni spunti critici hanno aiutato la mia attenzione al testo a farsi vigile e prensile, regalandomi momenti che, non saprei come altro chiamarli, se non di nuovo piacere. 
Ma mi imbarazza, di più, mi rattrista questa finestra che l’Indiscreto apre sul mondo interiore dei critici letterari, da cui risulta che a gente tanto colta e sottile fa difetto l’elementare capacità di riconoscere non tanto il desiderio degli artisti, in ciò sono bravissimi, ma il proprio. Quindi nominarlo. Un desiderio che fa da sprone alle scelte individuali, anche quando, come in questo caso, muove nella direzione di una strada senza sbocco. Al termine della quale ci sta un bidone della spazzatura, con un gruppo di gatti randagi che si disputano i resti già spolpati del banchetto.

lunedì 7 gennaio 2019

Tra essere e fare c'è di mezzo il cameriere, una vecchia storia molto attuale

Ieri Christian Raimo ha rilasciato un post su Facebook in cui affermava il valore costituzionale della bontà, rilanciando, evidentemente, un tema prezioso del discorso presidenziale di Capodanno.
Raimo non scriveva delle cose sbagliate, lo premetto subito, per quanto il tono mi è apparso al solito un po’ predicatorio, moralmente ultimativo. Ma il consenso bulgaro che lo scrittore romano ha guadagnato sul web è evidentemente frutto anche di questa sua convinta perorazione un po’ di parte; ed è bello sentirsi dalla parte giusta, sentirsi in tanti così da accantonare i dubbi – saranno mica tutti scemi gli altri 494 che hanno deposto il loro like, per non dire delle 111 condivisioni al post di Raimo?
Erano inoltre presenti anche 64 commenti, tra cui il mio. Ciò che facevo notare e che ripropongo qui non avendo avuto, come immaginavo, alcuna risposta (intendiamoci, non si può rispondere a 64 persone, e dunque nessuna polemica), è che è sbagliato e pericoloso scrivere cose come:
“è sancito negli articoli della costituzione il dovere di essere antifascisti”.
Una frase che riporta alla mente un lontano aneddoto riferito a Jean-Paul Sartre. Il filosofo francese stava al solito seduto al tavolino di un bistrot, e a un giovane in pantaloni scuri e giacca bianca che si presentò a lui con le parole “bonjour, je suis le serveur”, egli rispose con prontezza: “Non, vous n'êtes pas un serveur. Vous faites le serveur.” 
E così un poco mi rattrista che, in un’aura di consenso in buona parte meritata, nessuno riesca a fare breccia e, come Sartre, spiegare a Raimo che no, la Costituzione, nessuna costituzione e nessun uomo può stabilire cosa ESSERE a un altro uomo, nemmeno essere una cosa buona e giusta. Un antifascista, ad esempio.
Al limite la Costituzione italiana può stabilire di FARE qualcosa. E infatti fa dell’antifascismo un dovere costituzionale, bandendo il fascismo come pratica politica attiva dal suolo repubblicano. Ma ponendo l’argomento così come ha appena fatto Raimo, si commette un errore non solo giuridico e filosofico, ma anche politico. E proprio in quella direzione (totalitaria) che a parole si dichiara di bandire; e io sono certo che Raimo non voglia questo, e il suo sia stato solo uno svarione.
Ma quando ci stanno 494 persone, pardon 496, nel frattempo il computo è cresciuto, persone o meglio amici a dirti che hai sempre ragione tu, ci sta che poi non te ne accorga. E che continui a ESSERE e non FARE il cameriere delle tue parole.

domenica 6 gennaio 2019

Bucefalo anzi Nerone anzi Black anzi Furia anzi Tornado anzi...

È curioso assistere a come i bambini si accostano agli animali, specie a quelli di maggiori dimensioni. Loro sono piccoli, i bambini, e gli animali tanto più grandi. Ma con l'aumentare della sproporzione, quindi il timore, la fifarella che fa tremare la matita quando scrive la parola buio sopra al foglio, cresce di pari passo il desiderio di avvicinarsi alla carne viva e gigantesca. Salvo poi scappar via un attimo prima del contatto.
Ricordo quando io stesso, a quell'età indefinita in cui non riesci a scorgere la parata delle grappe che attendono i cirrotici dietro al bancone del bar Tourist – ma poco importa di arrivare al livello della tazzina del caffè, tanto sai già che qualcuno (mamma, nonno, tal dei tali) ti offrirà comunque il gelato della macchinetta Carpigiani, il barista abbassa una leva e, come cacca dal buchino, cioccolato e crema sfiatano in onde colorate e soffici che si compenetrano, e però senza puzza né pipì –, ricordo, dicevo, che al rientro andavo nella stalla del nonno per carezzare il testone delle mucche, le strofinavo proprio là dove spunta un ciuffo unto e sbarazzino.
C'era anche un puledro tra di loro, era tutto nero e senza nome e così io glielo cambiavo ogni giorno: ciao Black, ehilà Furia, oppure lo chiamavo Tornado come il cavallo di Don Diego de la Vega, in arte Zorro. Io ne ero naturalmente attratto, ma la sua vivacità compressa mi intimidiva più del lento ruminare delle mucche; parevano masticare una Big Bubble, ma senza appiccicarla, una volta esaurito il gusto chimico di fragola, sotto al banco di formica verdina. Vuoi un po' di erbetta fresca Bucefalo? gli dicevo. Guarda, e schiudevo il pugno per mostrare che non baravo, è saporita e ancora piena di clorofilla, mica come il fieno che fa il solletico al naso e lascia triste il palato... Ma appena Nerone, ingolosito, spalancava la bocca da cui spuntavano gli incisivi larghi e giallastri, io me la davo a gambe levate.
È un'immagine che, da qualche tempo, mi si ripresenta sempre più spesso, forse perché altrettanto di frequente mi capita di pensare al suicidio. Anche il suicidio non ha nome. È un animale strano e misterioso, c'è chi dice si muova più volentieri la notte e abbia in simpatia i cantanti e gli innamorati, di cui si diverte a imitare il lamento. Certamente è nero come Luca, il puledro del nonno. Ma, almeno una volta, basterebbe una volta sola, riuscire a tuffare le mani tra i crini scapigliati e ispidi, e poi spalancare la porta della stalla e scappare via prima dell'alba. 
Io dal mio vecchio nome e lui verso il nome che ciascuna creatura a questo mondo merita, anche Roberto, detto Roby, il puledro che mio nonno avrà convertito in bistecche a stretto giro, nemmeno il tempo di conoscere l'offesa degli speroni e la prateria che si spalanca quando la tromba del Decimo Cavalleria suona la carica; la bandiera si gonfia e le spade, lo stesso rumore delle posate, si sguainano e issano a sostituire la lunga canna dei Winchester; ma sempre di cazzi si tratta, direbbe Freud. Eppure anche la cavalcata di John Wayne ogni tanto si arresta, e lui rimane immobile a fissare l'orizzonte.
E' un punto indeterminato, silenzioso, che si confonde con la palla esausta del sole, a tramontare nel languore ciliegia e prugna e direi anche una punta, ma piccola, di limone, a completare la spremuta del Technicolor. Controcampo, op, sui suoi occhi: una striscia sottile sottile da cui irradia un ventaglio di piccole rughe. Partono allora gli archi dell'orchestra in sottofondo, i titoli di coda con la scritta The End graffiata su un cartello di legno in western font, mentre si accendono le lucine della sala e brontolano gli ingranaggi del sipario. Ma John Wayne, te l'ha detto un amico un giorno al ritorno da dottrina, sa benissimo cosa c’è dietro il sipario e dove andare poi, perché c'è sempre un poi. Ed è in quel preciso momento che il suo cavallo sembra sorridere all'operatore.
Pare che la carne di cavallo, da mangiare almeno una volta a settimana, meglio se poco cotta, faccia bene agli omini rossi che stanno dentro il sangue. Ma scappano dalle persone pallide e tristi e dunque anche da me medesimo, che non ho nient'altro da dire.