martedì 30 ottobre 2018

Le cose che parlano, o sul farsi taciturno delle cose


Tema: pensa ai momenti di maggiore appagamento della tua infanzia. Cerco così nella memoria, perlustro recessi segreti o poco frequentati, ma alla fine scorgo solamente degli oggetti. Non un tramonto sul mare, mio nonno che munge la mucca Carluccia, il primo canestro segnato a mini basket… Tutte esperienze bellissime, ma vuoi mettere entrare in un negozio chiamato Piccola Città e uscirne con una confezione nuova fiammante di Lego?
Ci furono in seguito le scarpe da ginnastica Mecap, prime ad avere la voluminosa suola bianca in polimeri; la giacca a vento azzurra della K-Way – mi vedo correre nel cortile della scuola sotto il sole di maggio, toglila dice la maestra, sudi, e io che sudavo e correvo e non l’ho tolta –; il Big Jim che a un preciso tocco sulla schiena sferrava il micidiale colpo di karate; un castello medievale per i cavalieri teutonici della Airfix, il ricordo qui è vago, grigio come il suo colore; l'autopista Polistil con la replica della Lancia Fulvia di Munari e Mannucci; e che dire della pistola Oklahoma, nascosta in solaio per non essere scoperta dai miei genitori; il Subbuteo però non sono mai riuscito ad ottenerlo, al contrario di Federico che possedeva anche la bicicletta Saltafoss tutta cromata d'oro purissimo; e poi una t-shirt Fiorucci con gli angioletti e una Fruit of the Loom con, appunto, la variopinta immagine della frutta di stagione, in quella cornucopia che si apprestava ad essere la mia vita, o per lo meno così pensavo. Per finire – si fa per dire, perché gli esempi sarebbero numerosi – ci furono i jeans della Jesus, con il blasfemo invito “chi mi ama mi segua” che tanto fece infuriare Pasolini.
Semplici cose, si dirà, merci, a sancire la mia piena appartenenza alla stirpe dei baby boomer, figli di quella che fu definita la deriva consumista; un termine che faceva storcere il naso ai vecchi filosofi tedeschi quanto ai giovani marxisti, accomunati dallo spregio per la cultura americana dei consumi. Eppure non è vero che le cose non hanno un'anima, come tutti questi uomini dotti ripetevano un po’ a macchinetta. Gli oggetti di quel tempo remoto non solo avevano un’anima – un soffio leggero ma percepibile, il respiro di un gatto sul cuscino – ma anche una voce chiara e forte, che sapeva raccontarci delle storie. E sono le cose che parlano, come recitava il verso di una canzone di Battisti.
A prendere sul serio i racconti delle cose, primo fra tutti fu Roland Barthes, che si esercitò in una felice traduzione dal linguaggio "cosese" a quello nostro; linguaggio che la psiche profonda ha sempre parlato, senza che nessuno l’istruisse al riguardo. Più tardi arrivarono gli stralunati racconti di Aldo Nove, dove, anche lì, veniva offerto il microfono direttamente alle merci, per rintracciar
e l'eco sulle persone che ne venivano ammaliate, come Ulisse al canto delle sirene. Discorsi semplificati e vagamente paraculi, intendiamoci, ma pur sempre una narrazione che tentava di dar forma al trascorrere dei giorni; che in sé non hanno proprio nulla da dire se non l'implacabile cadenza del sorgere e decadere, prima di svanire.
Da qualche anno ho però l'impressione che le merci si siano fatte più taciturne, continuano a mostrarsi, ad offrirsi ammiccanti, ma parlano di meno. L'ultimo grande fenomeno di eloquenza di un oggetto è forse stato quello di Apple, per cui venne sdoganato il termine anglosassone di story telling: think different, e in effetti i prodotti della mela morsicata parlavano una lingua diversa e originale. Che era poi il vecchio alfabeto della seduzione o, meglio ancora, della proiezione seduttiva, che genera identità con sempre nuovi travestimenti.
I pubblicitari naturalmente continuano a imbeccare i prodotti con i loro slogan, ma quella voce si è fatta flebile, fatica ad arrivare, gli fanno il massaggio cardiaco ma non va oltre un debole rantolo. Niente a che vedere con quel vero e proprio coro che fu la moda degli eskimo e della Lambretta, o, nemmeno un decennio dopo che sembra un secolo, le Timberland arancioni dei boscaioli del Montana, per cui tutti accorrevano ad acquistarle per riconoscersi in un racconto collettivo, in cui la mia generazione procedeva fiduciosa camminando sulle suole a carrarmato antishock, che facevano superare gli ostacoli come gli stivaletti a molla di Paperinik.
Adesso invece solamente raccontini, cosettine, senza che nessun oggetto riesca davvero a imporsi come icona del nostro tempo, Andy Warhol andrebbe ora in bianco come la sua zazzera fluente. Magari abbiamo guadagnato qualcosa, siamo più liberi e non condizionati dal tanto deprecato consumismo, che entrava nella nostra anima per mezzo del cavallo di Troia offerto dagli oggetti. O forse qualcosa l’abbiamo persa: storie, miti in cui una comunità possa riconoscersi, che avevano il volto pacioso di Calindri mentre sorseggia un Cynar in mezzo al traffico dell'ora di punta. Miti davvero piccini piccini se paragonati a quelli di Orfeo e Euridice, Re Artù e i suoi cavalieri, Odino, e però sempre miti...
Non so, io una risposta non riesco a darmela. Ma se ancora vedo in giro una K-Way azzurra – pare che stiano tornando di moda, secondo quel principio ricorsivo a imitazione della digestione dei vitelli, per cui il nuovo è sempre una ruminazione del noto – auguro a chi l’indossa di non levarsela mai. Nemmeno quando corre, quando suda, quando fa l’amore. Uno scudo di tela sottile ma impermeabile e tenace, per dimenticare che prima poi l’intervallo finisce.

lunedì 29 ottobre 2018

Lupi e agnelli, o sulla gara a chi è più buono e giusto

Sulla morte di Desiree Mariottini non ho davvero molto da dire. È uno di quei rari casi in cui vittime e carnefici sono separabili come nei film di Sylvester Stallone. Una linea retta: di qua il Bene, di là il Male. Con lei nel ruolo dell'agnello sacrificale finito in pasto ai lupi. Solo pietà e un'infinita tristezza, che sono i sentimenti più diffusi.
Ma in queste ore si sta diffondendo anche un diverso sentimento, e su quello sarebbe forse il caso di accostarsi con maggiore lucidità. Mi riferisco a chi intenda assumere la causa superando gli altri in dedizione. Io sono a favore di Desiree più di quanto lo sia tu, è come se ci dicessero. Io patisco più di te per il suo barbaro martirio.
Sono quindi pronti a stigmatizzare chi non si allinei al virtuoso sentire che li contraddistingue, esibito come una medaglia. Ad esempio Gad Lerner, pubblicamente linciato, nei giorni scorsi, per avere scritto un tweet al riguardo. Parole irrispettose, si dice. Parole sconce! 
A furia di incrociare tanto biasimo sono andato a cercarlo, il famigerato tweet di Gad Lerner. E non viene detto nulla di sconveniente nei confronti di Desiree. Solo che oltre agli aguzzini di colore, esiste, nella sua vicenda, anche uno sfondo di degrado sociale, che l'ha resa una vittima predestinata. Certo, la sintesi imposta da Tweeter ha forse dato l'impressione di una certa freddezza. Ma da qui a farne un agente al soldo della Morte Nera...
L'invito, implicito, era comunque quello a porre attenzione anche al contesto (eventualmente per intervenire con politiche di sostegno) e non solo agli assassini, certamente da punire nel modo più severo. Diversamente il rischio è quello di gettare benzina sul fuoco del razzismo, secondo l'equazione nero uguale stupratore e spacciatore. 
Ma ormai era già scattata la gogna mediatica. Come anche per Mughini, reo di aver detto qualcosa di simile in un dibattito televisivo 
 che era "una drogata", cosa per altro tristemente vera, anche se avrebbe potuto essere meno diretto.
Un clima che fa tornare alla mente i tempi in cui si faceva a gara a chi era più di sinistra. Non sei abbastanza a sinistra, io sono più a sinistra di te! E adesso come allora ricorre l'immagine evangelica della pagliuzza nell'occhio. In questo dilagare di travi che oscurano le pupille, intralciando il pensiero credendo di servire la causa del cuore.

sabato 27 ottobre 2018

C'è solo la strada, o sulla differenza tra percorsi e progetti

Poi ci sarebbero quelli che fanno i percorsi. Qui davvero riesco a essere "circonciso", come ebbe a dire in parlamento, se ben ricordo, un politico dell'attuale maggioranza.
I più cialtroni di tutti, e purtroppo anche i più numerosi, sono quelli che dichiarano di aver intrapreso un percorso spirituale, te lo comunicano con l'espressione di Fabio Testi quando simula la parvenza di un pensiero; o quale alternativa altrettanto fabiotestesca, di crescita personale. Umorismo allo stato puro. Ma qualsiasi altra affermazione al riguardo suona ugualmente comica e fuorviante.
I percorsi infatti non esistono, se non per via retrospettiva: mi giro e vedo che nell'impronta dei passi che ho lasciato andando a zonzo con un filo d'erba tra le labbra, si può intravedere una figura, un segno, forse un destino. Come in un racconto, bellissimo, di Karen Blixen, dove a emergere dal fango è l'immagine di un airone, disegnato da quel preciso pennello che sono le suole delle scarpe.
Il percorso è insomma la forma postuma del caso, che l'esperienza (altro sinonimo di un percorso genuino) ci fa sospettare di non essere affatto casuale…
Stabilire ex ante che stiamo realizzando questo o quell'altro percorso, è invece negarsi, con l'aggravante dell'intenzionalità, alla meraviglia della scoperta, che è poi ciò che qualifica un percorso in quanto tale. Al limite si può realizzare un progetto, ma come recita un famoso detto la vita è ciò che accade mentre facciamo altro; e il percorso sta ovviamente nella vita, non nell'altro (da noi) che è il progetto.
Ciò che solo si può fare è dunque disporsi al possibile 
 guardandosi in giro ad esempio, e non solo a quel progetto che confondiamo con il percorso , per sorprenderci di come gli eventi sappiano ogni volta smentirci, non di rado prendendoci allegramente per il culo. Che se ci fosse un dio, sarebbe probabilmente un troll.
Decidere di fare questo o quell'altro percorso, al contrario, davvero è come circoncidersi, ma con un tale slancio della mano da tagliarsi anche i coglioni.

Ps - Musica consigliata durante la lettura di questo testo. Giorgio Gaber, C'è solo la strada, "la strada su cui puoi contare, la strada è l'unica salvezza… "

venerdì 26 ottobre 2018

Self godeur, o sulla clinica psichiatrica

A me i film di Renato Pozzetto fanno quasi sempre ridere, anche quelli brutti, che per inciso sono i più. Ma in particolare c'è una sequenza in Due cuori e una cappella, è uno dei suoi primi ruoli da protagonista, non doveva nemmeno recitare la parte del ragazzotto ingenuo di provincia perché lo era, ecco lì è davvero irresistibile!
Le risate diventano fragorose quando, dopo essersi spogliato completamente, quindi aver indossato una cuffia acustica voluminosa, entra in uno strano marchingegno pieno di cavi, lucine, manopole e lancette che ricorda un vecchio televisore a tubo catodico ibridato con un autolavaggio, ci sono anche due asticelle bianche che si muovono come tergicristalli.
"Mmmm, ahh, sìii…" 
Nessuna parola, la sua reazione è solo un gemito sommesso. Che si trasforma, mentre i tergicristalli continuano a oscillare festosi, in un chiaro mugolio di piacere. Ma certo, si tratta di un orgasmo!
Il senso, ironico, della scena, si precisa nel momento in cui viene nominato l'accrocchio, che si chiama "self godeur". Con quella giustapposizione tra inglese e pseudo francese che è la ciliegina sulla torta...
Ci ripenso spesso, al self godeur. Ci ripenso ogni volta che vado da uno psichiatra. È vero, sono depresso. E con frequenza crescente guardo al suicidio come a una possibile via d'uscita. Solo che gli psichiatri, e spesso anche gli psicologi, mi sembra ragionino come Renato Pozzetto, confondendo le cause con gli effetti. Che cercando poi di indurre per via meccanica e impersonale, sperando di lavarti via le magagne come fango dal paraurti della Golf.
Intendo dire, io non sto male perché sono depresso, ma sono depresso perché ho una vita di merda. La loro pillolina bianca – che si chiami Citalopram o Laroxyl o Vattelapesca, poco importa – finisce così col somigliare al self godeur. Una tecnologia per la felicità, insomma. 

Ma non sempre la felicità si dimostra docile come un barboncino al circo. E allora le medicine avranno la funzione di tappi per le orecchie: per attenuare il frastuono del presente, e i diavoli al culo che incalzono da tutte le parti. A questo modo la realtà viene accolta per quel che è, addirittura benedetta con il sigillo della necessità. Così va il mondo, fattene una ragione caro...
Ma se un artificio inanimato non potrà mai sostituire lo scambio umano ed erotico con una donna (o se si preferisce con un uomo, non sottilizziamo), e per questo la gag del film ci fa tanto divertire, perché dovrebbe essere diverso con la clinica psichiatrica?
Eppure l'ingenuità non è la stessa. C'è più malizia nella terapia medica. Persino e forse della malafede, già che è molto più semplice adeguare (chimicamente) l'uomo al mondo che non il contrario, come una società giusta dovrebbe sempre cercare di fare. E tocca allora rimpiangere un eterno adolescente del lago Maggiore, che pretende di godere infilandosi in un autolavaggio.
No, il self godeur non può sostituire un rapporto sessuale allo stesso modo che un antidepressivo non può raddrizzare quel legno storto che è la vita. La mia, nella fattispecie. Al limite potrà pompare un po' di serotonina, endorfine, quel che è, con la cocciuta perseveranza di chi continua a darti di gomito dopo aver raccontato una barzelletta sporca, che però non faceva ridere. E comunque molto meglio un film con Pozzetto, allo scopo.
L'infinita tristezza che c'è dietro il lato comico, e forse dietro l'esistenza tutta, aveva saputo restituirla David Maria Turoldo. Il quale invece di affidarsi al self godeur o a un antidepressivo di nuovissima generazione, concluse, in una sua celebre poesia, con amara lucidità: "non ho mani che mi accarezzino il volto".

lunedì 22 ottobre 2018

Occidente by bus, o sulle due facce del razzismo

Il razzismo è un problema serissimo e in crescente e rapido sviluppo nel nostro Paese. Con la parallela crescita dell'occasione, fornita dalla prossimità fisica, le frontiere permeabili e musetti sempre più difformi e multietnici a sbadigliare dai banchi delle classi elementari, diviene non di rado drammatico. Posto questo, io però non ne enfatizzerei certi fenomeni estremi, come chi, su un autobus pubblico, si rifiuti di sedere accanto a un nero; ed è successo ancora di recente e di sicuro ricapiterà.
Per stilizzare in forma geometrica il mio ragionamento, mi sembra che il razzismo presenti due facce distinte, ma mescolate e confuse come in un manifesto paraculo di Oliviero Toscani, per far vendere qualche maglioncino in più. Andiamo piuttosto alla sostanza.
Esiste un razzismo che potremmo chiamare estetico, se non addirittura folclorico. I suoi effetti sono certamente funesti e non intendo ridimensionare, ma ciò che caratterizza tale atteggiamento è davvero un elemento di superficie, in cui la diversità (avversata) viene fatta coincidere con la dimensione dell’esotico; siamo insomma ancora a Bingo Bongo e Kunta Kinte, o giu di lì. 
La sua struttura può essere così riassunta. Con gli occhi vedo la tua pelle. E’ di un colore differente dalla mia. Scura. Come il carbone, come la notte, come la pece. Mmm, non mi fido… Ed è la reazione istintiva del criceto che scorge qualcosa di ignoto dietro la gabbietta, e per timore si ritrae. Ma molti criceti assieme possono anche mostrare i denti.
Stiamo dunque parlando, prima faccia, del razzismo di chi ha l’intelligenza di un criceto, il razzismo dei pavidi e dei violenti, che ben lungi dall'essere termini antiteci tendono spesso a coincidere. Ad esempio nei nostri connazionali che sugli autobus pretendono di sedersi solo accanto a Sigfrido e a Brunilde. Coglioni. Punto.
Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia. Un razzismo non dico intelligente, ma più strutturato, antropologico. Quello di chi, nel contatto con popoli stranieri qui immigrati, veda messe a rischio ciò che percepisce come acquisizioni; e per acquisizioni non intendo solo privilegi economici ma anche costumi, stili di vita e memorie a cui si senta particolarmente legato. Tutto ciò si raggruma in un pronome monsillabico. Noi.
Perciò viene rifiutato il diverso, che nella stessa semplificazione nominale coincide con un altro pronome. Loro. Che sono quelli che con la semplice e muta presenza interrogano, rendendola meno assoluta e certa, la condizione storica del noi (confusa spesso con un'essenza, ma qui il discorso si farebbe filosofico e lungo), esponendola a tradizioni non omologhe. Le loro tradizioni, appunto. Non le nostre. Co
sa che potrebbe alla lunga rivelarsi un vantaggio, per inciso.
Una resistenza prima emotiva che cognitiva, restituita attraverso fotografie d'epoca dall'effetto vagamente seppiato, a cui si accostano etichette ridondanti quali Patria, Famiglia, Religione o Terra. Ma ciò non ridimensiona il fatto che si tratta pur sempre di una forma di radicamento, premessa necessaria al costituirsi dell'identità. È insomma del tutto normale nella specie a cui apparteniamo, nata dalla trasformazione del branco in tribù. Quindi in impero, repubblica, città stato, nazione.
Per quanto riguarda il primo volto del razzismo, il razzismo dei criceti, dei minus habens, io credo ci sia poco da fare. La loro limitata intelligenza rende difficile ogni dialogo ed evoluzione. Ma stiamo fortunatamente parlando di una percentuale modesta di persone; e mi riferisco ai cretini-cretini, non alle persone mediamente ignoranti. Una società democratica e sana può dunque contenere i loro impulsi di attacco e fuga, può farlo con strategie tutto sommato limitate di ordine pubblico, sanzionando i comportamenti più gravi.
Più problematico è il rapporto con l'altro volto del razzismo. Come visto, esprime dei sentimenti più complessi che lievitano in pensieri comuni, per cui si può con ragione parlare di "cultura". Tocca infatti ammettere, un po' a malincuore per le anime belle, che tale atteggiamento contiene degli ele
menti perfino legittimi, quali ad esempio il desiderio di riconoscersi in una comunità che incarni la nostra percezione del mondo, e da cui solo può nascere l’empatia sociale. Che poi, mutando dalla prospettiva psicologica a quella giuridica, è il principio stesso di civiltà.
E’ perciò a un altro livello, che chiamerei senza esitazione narrativo, addirittura artistico e mitologico, che l’antirazzismo deve ingaggiare la sua reazione propositiva. Non bastano i proclami (perlopiù vuoti) a favore della diversità culturale, ma si deve lavorare sul piano dell'immaginario, e cioè creando nuove rappresentazioni pubbliche o, se si preferisce e come è ora in voga, uno story telling, che rimoduli lo specchio in cui ogni gruppo umano si rimira, estendendone la cornice.
La grande cultura popolare americana della metà del secolo scorso ha saputo farlo, e penso in particolare al cinema di Disney o all’integrazione delle musiche afroamericane nel mainstream giovanile. Da noi, al momento, vedo però solo qualche pistolotto offerto dai presentatori televisivi, che come Lupo de Lupis si mostrano tanto buonini. Oppure ci sono le commedie edificanti, dove i neri sono sempre "negretti". Docili. Sensibili. Sottomessi. E con gli occhioni da cerbiatto.
Mi sembra però un po’ poco, davvero troppo poco. E non dico per sedere accanto a uno straniero sull’autobus, ma per dare, a quell’autobus, un futuro e una direzione.


domenica 21 ottobre 2018

Merda d’artista, o sulle vecchie e nuove caste


Frequentando le comunità che si formano un po' a casaccio sui social network, ho notato un fenomeno interessante, ma più lo osservo incuriosito e più mi sembra appartenere a quell'insieme maggiore che è la vita.
Qui, sul web, mi appare però più nitido, quasi stilizzato. Come riflesso sull'acqua limpida di un laghetto alpino, in cui vengono ad abbeverarsi all'aba i caprioli. E fosse anche solo per questo  la bellezza della forma, esprit de geomètriè  sarebbe magari il caso di parlarne.
Mi riferisco alla promiscuità, in fondo più apparente che reale, tra utenti anonimi e persone già arrivate, che hanno ottenuto evidenza e consenso al di fuori della grande rete. Quelli che "ce l'hanno fatta", via. 
Quest'ultimi trovo che sul web tendano ad agitarsi molto, forse per consolidare la posizione preminente. Ma non con strategie, per così dire, alte, e piuttosto incassando gli interessi del loro successo, con cui vivere di rendita. E bisogna dire che la cosa gli riesce benissimo, ricordando le persone molto belle, meno motivate della sterminata fanteria dei brutti a sviluppare delle capacità (quella di pensare oltre la loro bellezza, ad esempio).
Un'antica legge della vita, dicevamo, particolarmente evidente su Facebook, e qui verificabile. Avendo tra i contatti delle persone pubbliche – e io ne ho alcune, il settore in cui hanno acquisito visibilità e prestigio trovo sia poco significativo –, basta valutare la qualità dei loro interventi in relazione al gradimento in termini di like, oltre che di commenti il più delle volte celebrativi (ma quanto sei bravo, quanto sei intelligente etc.).
A parte rarissimi casi, il rapporto è sbilanciatissimo: post un po' buttati lì ottengono percentuali bulgare di assenso, che non si spiegherebbero altrimenti se non con tale ipoteca esterna al mezzo; o se si preferisce e con cipiglio un po' intellettuale, possiamo chiamarla pregiudiziale estetica. Facebook, ben lungi dall'essere un campo orizzontale e libero di comunicazione, si rivela così un sistema gerarchico di ratifica dei ruoli e poteri esistenti.
Non dobbiamo però pensare all'effetto di una qualche pressione anche subdola, un condizionamento subliminale come nei dischi dei Rolling Stones, dove si narra fossero interpolati contagiosi slogan inneggianti alla forze del Male. Macché. È piuttosto il  volontario asservimento a rapporti di forza percepiti come tali; e anche questo ci dice molto sulla familiarità della nostra specie con il mondo naturale, in cui ogni pecora è alla disperata ricerca del suo pastore…
Oppure potremmo vederlo quale equivalente mediatico del fenomeno del brand, per cui, se ti chiami Giorgio Armani, i jeans con la tua firma valgono dieci volte tanto quelli del mercatino, a pressoché identiche caratteristiche. O, su una scala più concettuale oltre che chiaramente ironica, non possiamo non pensare alla celebre merda d'artista griffata da Piero Manzoni.
Una merda che agli artisti e ai famosi viene così, senza apparente sforzo, senza bisogno di assumere le fave di fuca a colazione, come invece devono fare i milioni di utenti senza volto e pubblica notorietà, che come ombre primonovecentesche di una poesia di Elliot vagolano sui social network, mendicando solo un po' di attenzione. Potenza dello story telling, si dirà.
La parte alta della piramide, l'upper class di Facebook, in ogni caso si guarda bene dal restituire alle folle anonime la minima certificazione d'esistenza, che li farebbe felici con niente – un cazzo di pollice alzato, che ti costa? Ma si sa, i vincoli di censo prevedono liason e matrimoni solo tra pari. Gli altri grattino pure alla porta, e non è escluso che qualche brioche di tanto in tanto non arrivi.
Sembra davvero di parlare della vecchia e defunta aristocrazia, con i parrucconi e le guance incipriate. Eppure è proprio ciò su cui si basa la moderna rinomanza, in cui il prestigio del nome viene fissato da un sistema di relazioni (una coerenza potremmo chiamarla), che è appunto ancora e sempre l'ingranaggio che dava impulso alle buffe marionette aristocratiche, solo ribaltato come un calzino e benedetto da nuovi e vecchi media. 
Ciò significa, per inciso, che anche dall'interno di quel particolare media che è internet si possano generare effetti simili alla celebrità, per quanto sia molto più faticoso in un sistema dalle maglie mobili aperte. Chiara Ferragni ne è comunque un esempio: da blogger, a fashion influncer (scusate, ma non riesco a non aggiungerci un e sti cazzi!)
Una volta acquisito consenso sul web, le star che da qui provengono cercheranno comunque un riconoscimento da parte dei media tradizionali (Chiara Ferragni nuovamente docet) e la dinamica di accrescimento tenderà quindi ad alimentarsi spontaneamente, essendo ormai in tutto e per tutto dei fenomeni mediatici tout court. Ma è in fondo l'antico e riciclato fenomeno dei sine nobilitate, per cui il borghese Napoleone, gratta gratta, mira anche lui e come tutti alla Corona Ferrea. 
Se dunque gli interventi congedati sui social network dai nuovi paria, i nostri interventi insomma, non hanno un blasone esterno o, più raramente, interno a cui appoggiarsi, finiranno quasi certamente nel limbo dell'irrilevanza, e ciò indipendentemente da quanto impegno e voce abbiamo messo per farli venire al mondo. Il nostro sangue non è blu. Punto. 
Posto allora che il novanta per cento di quanto viene scritto qui è merda, la nostra non puzza e tantomeno macchia le suole delle scarpe o imbratta le pupille. È una merda trasparente e senza odore. Quella d'artista, invece, profuma. 

sabato 20 ottobre 2018

Scrivo dunque siamo, o sulla relazione (illusoria) tra autore e lettore


Il gesto di scrivere prevede una qualche forma di relazione illusoria, oltre alla fiducia in tale relazione. Sempre.
Nei casi più fortunati la fiducia dello scrittore si dimostrerà ben riposta, con la relazione che si trasforma in effettiva. L'altro, insomma, c'è. E si chiama lettore. Ma la sua presenza sconta quella dilazione temporale per cui due innamorati che si danno appuntamento, mettiamo, alle nove in un certo posto, si presenteranno con uno sfasamento di dodici ore: uno all'orario mattutino e l'altro a quello serale. 
Ma non avevi detto alle nove? Sì, alle nove: io c'ero, non ho nemmeno fatto colazione per arrivare puntuale. Eri tu a non esserci! 
Il lettore è il convitato di pietra, colui che arriva dopo ma la cui presenza incombe già da principio, stando allo scrittore come lo spasimato allo spasimante. Il più delle volte è però anche quello che sosta più a lungo nel luogo dell'incontro, il più fedele alla relazione, cosa per altro frequente in chi capitola dopo un lungo corteggiamento.
Non si spiegherebbe diversamente il fenomeno dei classici: dopo oltre duemila anni ancora andiamo all'appuntamento con Omero; e il bello è che lo troviamo ancora lì, ogni volta che apriamo le pagine dell'Odissea.
Questa relazione diacronica ha funzionato alla perfezione per migliaia di anni. Certo, ci sono stati anche scrittori che non hanno mai visto l'arrivo del lettore, per demerito o per sfortuna. Ma la qualità di un testo, c'è da credere, è in qualche modo debitrice verso tale sfasatura sull'asse del tempo. È come la meridiana che si prende una lunga pausa notturna, in cui smette di proiettare l'ombra magra del sole sulla parete dell'abitazione. E la buona scrittura ha bisogno di luce quanto di tenebra. 
Diventa allora interessante il fenomeno dei social network e in particolar modo di Facebook, ma forse solo perché lo conosco meglio. Mi è capitato, non spesso, eppure mi è capitato di ricevere un like dopo pochi secondi dalla pubblicazione di un intervento. La cosa mi ha lusingato, non lo nego. Ma ora penso a cosa potrebbe diventare la scrittura - e la possibilità è concreta, la tecnologia in qualche modo preme verso questa direzione - se autore e lettore si presentassero all'appuntamento allo stesso orario, gli orologi sincronizzati come in un film di spionaggio...
Magari qualcosa di nuovo e bello, e però simile a una telefonata o, meglio ancora, a una chat, in cui il lettore si fa presente e incalza lo scrittore con le sue richieste. Uno studioso di narratologia, dall'alto del suo linguaggio forbito, tradurrebbe forse il concetto con "reificazione del lettore implicito", che è poi il principio dell'ipertesto. 
Ma anche gli scrittori si stanno preparando da tempo all'eventualità. Sospetto ad esempio che Stephen King, molto prima della diffusione di internet, prefigurasse qualcosa del genere quando scrisse Misery. Lo scrittore ostaggio del lettore. La devozione che si tramuta in intrusione. 
Potremmo così guardare ai like di Facebook come alla carota con cui indirizzare le parole di chi scrive. Ma se l'autore non dovesse condiscendere con le buone, ci sarà sicuramente anche una qualche forma di bastone. Per conoscerla dobbiamo solo aspettare. Ma non tanto, io temo. Forse è solo questione di secondi…

Il tempo di morire, o su Facebook e la censura

Curioso a pensarci. Su Facebook si può scrivere di morte, stragi, squartamenti, ma non calarsi le mutande. Niente, proibito! 
Ha divieto d'accesso perfino un capezzolo rosa pallido, che fa capolino dal costume troppo stretto dopo la crapula invernale. Era magari una mattinata ventosa di fine giugno, non te ne sei accorta quando è sgusciato fuori e ti hanno fotografata, mentre il gommone sobbalzava festoso sulle onde diretto alle isole Tremiti, dove i nostri antenati democratici e liberali deportarono milletrecento sudditi libici per una ritorsione, scelti a casaccio come nel gratta e vinci. Tu si, tu no, tu sei carina meglio se vieni a casa mia a fare la cameriera…
Da escludersi poi categoricamente l’insinuazione che Mussolini ce l'avesse piccolo – per carità non sia mai detto, avrà avuto un cazzo proporzionato alla mascella – o ancora peggio tirar giù qualche santo e madonna dal paradiso, come farebbe un anziano giocatore di scopone se il compagno lisciasse il sette bello; le sue bestemmie dialettali che risuonano alte sopra il tintinnare dei bianchini, ad accarezzare il glicine fiorito di un dopolavoro ferroviario. Tutte cose vietatissime, su Facebook.
In mancanza di altre possibilità, facciamolo dunque, profittiamo della magnanimità del nostro Anfitrione e parliamo un po' di morte. Nei mesi scorsi ho contattato un centro svizzero per il suicidio assistito, che lì chiamano con qualche eufemismo che ora non ricordo. Tipo il dolce congedo o scemenze del genere.
L'ho fatto tanto per fare, chiariamo subito, come in quella vecchia canzone di Jannacci dove si fanno le cose per poi vedere (di nascosto) l'effetto che fa, ma sempre escludendo qualcuno. Vengo anch'io? No, tu no!
Non ho insomma preso alcuna decisione conclusiva, o meglio non l'ho ancora presa, essendo una possibilità che da qualche tempo metto in conto. Diciamola così: morire mi sembra più “ragionevole” che vivere a determinate condizioni, sempre più simili a quelle attuali.
"Centile zignore, rezti in linea" mi hanno subito risposto gli svizzeri, puntuali come i loro treni. E dopo avermi passato la “perzona prepozta” – immagino si chiamasse Caronte – è iniziata la conversazione, distesa e affabile come se si trattasse della vendita di un orologio a cucù. 
All'inizio e da bravi mercanti erano restii a parlare di soldi, solo frasi generiche, giri di parole, verifiche psicologiche a cui avrei dovuto sottopormi in via preliminare (un po' difficile farle dopo, in effetti...). Ma alla fine hanno vuotato il sacco.
"Zono diecimille Swiss Franc per noztro zervizio."
"Tutto compreso?"
"Ja, tutto komprezo. Anke kolazione."
"Ah beh..."
"… "
"Posso avere l'Ovomaltina?"
 "Ja, può afere kvello ke fuole."
Naturalmente a sostenere questa conversazione vagamente surreale, da immaginare con accento svizzero tedesco molto marcato, è stata una donna, si muore meglio con una donna accanto. E sempre naturalmente sarà stata giovane e bella e ariana, anche se al telefono non ho potuto constatare. Ci penserò, ho detto soltanto.
Ma già sapevo che non sarei mai arrivato a mettere assieme diecimila franchi, che in euro fanno poco meno di novemila. E poi non c'è proporzione con il veleno per topi. Va bene che il loro sarà stato un veleno speciale e squisitamente svizzero, quello che ti iniettano con un sussurro nelle vene mentre nella filodiffusione passa il requiem di Mozart, un veleno al gusto di Toblerone, e però, dico, non c'è proporzione! 
Con novemila euro ci prendi una moto, continuavo a pensare dopo aver chiuso la comunicazione con la valchiria, una motocicletta tutta cromata, come viene detto in un’altra celebre canzone, guarda a caso si intitola Il tempo di morire. E io non arriverei a quella cifra nemmeno accantonando le mancette natalizie che, ai cinquantenni disoccupati e un po’ male in arnese come me, ancora arrivano in una busta candida dai familiari, ricordando quel tempo bambino in cui il mondo era una luminosa biglia colma di possibilità, da lanciare verso qualsiasi piramide di birilli. E ogni volta era uno strike.
In ogni caso, chi volesse farmi un regalo gradito, il prossimo Natale può regalarmi un salvadanaio di coccio a forma di porcellino, che fa grunf grunf ogni volta che infili una moneta. Un bel maiale cicciottello da scannare la vigilia di Pasqua. 


(Ps - Questo testo è comparso in prima versione su Facebook, come si può intuire dai riferimenti contestuali.)


mercoledì 17 ottobre 2018

Picchio rosso maggiore, o sulla solitudine

Oltre vent’anni fa ho avuto una fidanzata svedese. Bionda, occhi azzurri, labbra carnose, gambe lunghe. Una svedese, insomma. Che come la maggior parte degli svedesi stava in Svezia.
Purtroppo, anche io, come una discreta quantità di italiani – logorroico, ipocondriaco, guascone, illegalista – allora come adesso stavo in Italia, e le cose non erano proprio semplici. D’altronde la geografia non è un’opinione, a differenza della storia scritta per definizione dai vincitori.
Ma dai, non farne tante, basta togliere di mezzo la Germania, diceva lei. Mi mostrava anche un Photoshop con la simulazione grafica: in effetti Sondrio finiva col confinare con Helsingborg, senza lo stramaledetto diaframma crucco imbottito di crauti, wurstel e Weissbier, con qualche Volkswagen di tanto in tanto.
Poi però non se ne fece nulla, non riuscimmo a racimolare tutta la dinamite necessaria.
Ci sentivamo così al telefono, onesto succedaneo in ogni relazione a distanza, come le uova di lompo per il caviale. Due minuti di conversazione, alla fine degli anni novanta, costavano come una pizza; non ho mai saputo quanto fosse il cambio in aringhe affumicate…
Eppure ci parlavamo tutti i giorni, anche quelli in cui giocava la nazionale svedese di hockey. E non so se a farmi dimagrire fu l’amore o le pizze a cui rinunciai per telefonarle. Quanti secondi abbiamo ancora, la prima domanda che le facevo.
Ci ripensavo oggi leggendo le condizioni contrattuali del mio nuovo operatore telefonico. Oltre a trenta gigabyte di traffico dati e vagonate di sms, dispongo di chiamate illimitate verso portatili e numeri fissi italiani, a cui vanno aggiunte una sessantina di destinazioni estere, tra cui tutte le europee. Dunque anche la Svezia, mi sono detto. Controllo e in effetti la Svezia è inclusa.
Potrei insomma stare al telefono più di due ore con una ragazza svedese. E se poi mi gira, richiamarla immediatamente – it's me again –per ricominciare a parlare, ogni santo giorno. Allo stesso tempo, continuavo a lambiccarmi, non dovrei rinunciare a mangiare una pizza prosciutto e funghi, ma che dico una, cameriere mi porti anche una romana, e una zola e noci, avete pure salmone e burrata? bene, aggiunga aggiunga.
Confesso che questa scoperta mi ha messo di buon umore. Ed è la frizzante euforia delle partenze notturne per il mare da bambino, o il nulla elettrico che impregna i sabati degli adolescenti, oltre a un certo appetito. Quando si dice il progresso!
Ho allora impugnato il mio smartphone per cercare il numero della mia ex fidanzata, avevo voglia di farle un salutino. Ma purtroppo, nei numerosi cambi di telefono e sim di questi anni, deve essere andato perduto. Digito Jeanette e al suo posto compare la scritta Jeans, che è il numero della sarta cinese a cui faccio accorciare i pantaloni.
Ormai ero però entrato in modalità conversazione, avevo voglia di parlare con qualcuno, no, avevo voglia di parlare con una donna. Cosa non del tutto semplice quando ti trovi nel mezzo di un bosco, il tappeto crocchiante delle foglie morte sotto i piedi e la mia cagna che insegue l’eco di un Picchio Rosso Maggiore, o almeno così sta scritto sui cartelli del parco valtellinese dei Bordighi: sentite toc toc, è il Picchio Rosso Maggiore. Che magari era solamente uno che sta piantando un chiodo per appenderci il diploma da geometra. In un bosco?! (Va beh si fa per dire...)
Fossimo stati in un film di Fellini, mi sarei a quel punto arrampicato su una grande quercia per gridare il mio desiderio urbi et orbi, come fa Ciccio Ingrassia in una scena memorabile di Amarcord: “Voglio una doonnaaaaa…”
Fortunatamente la modernità ci è alleata e complice, sono finiti i tempi oscuri della malinconia solitaria. Continuo così a scorrere la rubrica telefonica digitale – che figata, siamo davvero nel Duemila, l’avresti mai detto da cucciolo che ti saresti ritrovato con il mondo in mano? – alla ricerca di una donna con cui scambiare due parole. Non mi costa neppure nulla, pizze gratis per tutti!
Dopo avere fatto più volte avanti e indietro tra i contatti, di cui nella maggioranza dei casi non riesco a collegare un volto o una circostanza vissuta – chi è ad esempio Bea corso Raul? –, mi accorgo che non c’è nessuna donna che abbia in questo momento voglia o tempo di parlare con me, e finirei solo col rompere i coglioni. Che vuoi? Adesso ho da fare, mandami magari un messaggino. Quando sono sotto il casco del parrucchiere ti rispondo.

Eppure l’abbiamo costruita per davvero questa enorme sfera di possibilità. Ho pure il vivavoce stereo, WhatsApp e le videochiamate con le orecchie e il naso da Topolino. Solo che, all’interno, dobbiamo esserci scordati di infilare una ragione per sentirci, storie o sogni da raccontare. Mi metto così anch'io alla ricerca del Picchio Rosso Maggiore. 


Spiritualità, o sui figli illegittimi di Platone (che non è lo zio ricco di Plotino)


Semplificando un po', a me sembra che la spiritualità, almeno in Occidente, sia filosofia per persone un po' ignoranti. E fin qui tutto bene, non solo gli istruiti ed eleganti hanno diritto a un posto in prima fila al gran teatro delle idee.
Semplificando allora ancor di più, la spiritualità è probabilmente il pensiero di Platone nelle sue pagine più accessibili e visionarie – il mito di Er, ad esempio, contenuto nel decimo Libro de La Repubblica –, senza però citare la fonte e al netto delle sottigliezze logiche manifestate altrove, o la molteplicità panottica che ritroviamo nel Simposio.
Quindi si prenda un ciuffo speziato dalla grande tradizione orientale, ma anche qui guardandosi bene dallo sporcarsi le mani con la complessità, lavoriamo piuttosto di mastello a spianare ogni grumo che possa intralciare l'assimilazione istantanea. Aurobindo e Krishnamurti e lo Zen resteranno dunque in castigo dietro la lavagna, sono troppo faticosi da digerire, troppo colti e pieni di nuance, anche ironiche 
 Krishnamurti che suggeriva di usare il termine Coca-Cola quale mantra per la meditazione. 
Mi avete seguito fino a questo punto, gli ingredienti sono in tavola? Bene, mescoliamo con consistenti dosi di cialtronismo speculativo, per comodità si può trovare già bello cotto e servito nella Teosofia di Madame Blavatsky, o nei voli pindarici di Gurdjieff e Castaneda. Tutte persone intelligentissime, intendiamoci, ma con quel tipo di intelligenza che ritroviamo anche in Giorgio Mastrotta e negli altri venditori di materassi (come si dorme bene sui materassi di Castaneda, come sono soporifere le tecniche di risveglio di Gurdjieff… ).
Cuocendo il tutto a fuoco lento si ottiene quel brodino insipido che viene appunto chiamato spiritualità, che sta alla filosofia come il catechismo sta alla teologia – don Bosco e i suoi calcio balilla in luogo del fervore escatologico nelle lettere ai romani di Paolo, o della sofferta introspezione di Agostino.
Non guastano, per quanto apparentemente incongrue, guarnizioni complottistiche per vivacizzare la pietanza nel servirla, come le immancabili scie chimiche, l'uomo non è mai stato sulla luna, le piramidi servivano da pompe di benzina per dischi volanti, e naturalmente lo stesso Dio biblico che è un feldmaresciallo alieno, anzi una truppa, già che il pronome con cui viene indicato è un plurale indefinito (Elohim).
Una sbobba per palati senza alcuna esperienza e curiosità, dove non solo il meglio della linea metafisica d'Occidente è andato irrimediabilmente perduto – Parmenide, Hegel, Teilhard de Chardin, Plotino, che non è il nipote scapestrato di Platone come Paperino per Paperone – ma, quale effetto di una misteriosa reazione chimica, si è guadagnato un elemento assente in origine. L'arroganza.
Quella con cui ti spiegano, un sorrisetto di commiserazione spalmato sulla bocca – loro sanno, tu non ancora –, che l'universo è composto da sette raggi e bla bla bla, c'è una risposta per ogni dubbio, una casella in cui rinchiudere il meraviglioso e lo spaventevole nel tentativo di farli tacere per sempre, come è tenuto chi non ha aperto bocca durante il matrimonio. Matrimonio che sarà dunque quello tra le già citate ignoranza e arroganza, e la progenie, da immaginare nella forma di tanti pargoletti biondi ma dal riverbero indaco, "il VERO senso della vita".
Che poi sia la loro, di vita, oppure la tua, quella di Cristiano Ronaldo o dell'ultimo dei miserabili che gli chiede il soldino del carrello della spesa bello gonfio, tendono a non fare differenza. Tutto è uno! Col cazzo allora che glielo danno, il soldino. Se la sarà cercata con il suo karma… 
Non dare udienza alle scorciatoie dei nuovi mistici, gli spirituali in scarpe da jogging e gluten free, tutti chiacchiere e detersivo per lavare ogni macchia dalla coscienza, trovo sia il minimo gesto di rispetto verso noi stessi: gli sforzi che abbiamo fatto per capire, la resa al mistero nel non riuscirci mai del tutto, quando a ben vedere quello scarto si chiama sacro.
In fondo non è difficile, basta fare come abbiamo imparato con i testimoni di Geova. E così d'ora in avanti gli risponderemo, ma bada bene con accento filippino: Il Signole è fuoli pel lavolo. No, non tolna. Ciao Ciao!

mercoledì 10 ottobre 2018

Otto euro, o sulla banalità del Capitale

Chiara Ferragni ha appena messo in commercio una bottiglia di acqua minerale venduta a otto euro. O forse è stato il gruppo francese Danone a farlo, tramite la sua controllata Evian, e Chiara Ferragni si è limitata a porre la firma, meglio la griffe, oltre al suo bel musetto da scoiattolino furbo.
Non trovo in ogni caso molto interessante scoprire la sorgente del business, oltre che di quel liquido trasparente di cui la natura è ancora prodiga (non per molto...), e mi sembra sia un altro l'aspetto su cui volgere lo sguardo. Mi riferisco alla sollevazione pressoché unanime e indignata sui social network, ma anche sulla stampa tradizionale, che tale iniziativa ha suscitato, coaugulando in un biasimo corale. In pratica, Chiara Ferragni è immediatamente diventata il nuovo nemico di classe – e non sarò certo io a negare che sia una stronzetta arricchita, Lombroso e la fisiognomica annuirebbero convinti –, ma la facilità nel separare il grano dal loglio e i buoni dai cattivi mi mettono sempre un po’ in sospetto…
A parte che l'acqua da otto euro e fosse pure da ottanta, o ottocento, si può evitare di acquistarla, e attaccarsi come si faceva da bambini alle fontanelle rionali, a parte insomma la libertà di farsi i cazzi propri, non sarà che siano proprio notizie iperboliche ed eccentriche come questa a far velo ai conflitti economici del nostro tempo, che si giovano della digressione?
Insomma, la vera e profonda ingiustizia è altrove, mimetizzata dentro la banalità del Capitale.


Come stai? Una favola! O sulla salute e l'intelligenza

Ci sono persone che stanno sempre bene, anzi benissimo, una favola ti rispondono quando glielo chiedi, non pigliano neppure un raffreddore. Sarà forse per invidia o per una forma singolare di razzismo, ma da qualche tempo ho iniziato a pensare che siano anche le meno dotate intellettualmente. Sì, ne sono sempre più convinto.
Quando a causa di un edema oculare, è successo tre anni fa, ho subito un danno permanente alla retina dell’occhio destro, ho così pensato: Beh, proprio scemo non devo essere…
Da ieri la mia autostima ha però avuto un'impennata. È stato quando il medico del San Raffaele, un ragazzetto saputello che non vedeva l'ora di terminare il turno, mi ha comunicato la diagnosi. Fibromialgia.
Ma ce l'ha anche Lady Gaga, ha aggiunto. E Asia Argento e Vincenzo Montella…
Sì, ma esiste una cura?
No.
No, davvero? Ma quanto cazzo sono intelligente?!

domenica 7 ottobre 2018

La pancia piena e la testa vuota, o su come la nuova “cultura” gastronomica nasconda una vecchia ideologia


Ne ho già scritto più volte in passato. Ma era per accenni ironici, bozzetti affettuosi e in fondo complici. Ora però vorrei provare a elaborare un pensiero serio e articolato sul fenomeno della gastronomia, che con implacabile incedere sta guadagnando in diffusione e consenso, al punto di ottenere la promozione a cultura del cibo. Nel nostro Paese molto si deve alla precoce iniziativa di Carlo Petrini, dobbiamo risalire al 1986 quando inaugurò, a Bra, la prima sede dell'Arci Gola, in seguito confluita nel movimento internazionale dello Slow Food.
Da un punto di vista antropologico è fuori dubbio che il cibo, e in particolare quello consumato assieme, rappresenti un passaggio importantissimo nel processo di civilizzazione, lasciando tracce significative e durature – c’è chi addirittura pensa che gli ominidi da cui discendiamo si riunirono la prima volta solo per mangiare, e sarebbe dunque la commensalità il primo gradino che portò la scala umana fino alla luna. Con il termine cultura, quando declinato in un senso generico e sociale, non accademico, si intende proprio questo: le sedimentazioni che il tempo nel suo trascorrere lascia dentro la vita degli uomini, trasformandosi in segno, discorso pubblico e condiviso.
A ciò dobbiamo aggiungere il fatto di vivere in un paese che ha nel turismo, e in particolare in quello eno-gastronomico, una delle sue risorse principali, ed è perciò importante valorizzare tale aspetto. Ma a me pare che negli ultimi anni si sia francamente esagerato, equiparando il Brunello di Montalcino alla lunga e sofferta Recherce proustiana, o Mozart alle alici del mar Cantabrico; quelle che ti porta un collega a cui a sua volta le ha cedute, dopo molte insistenze, un suo amico che conosce un pescatore asturiano di centodue anni, tutte le mattine sfida le onde atlantiche per immolare un pescetto smilzo sulla tua tartina.
E’ allora il caso di ragionare intorno alla diffusa condiscendenza verso i piaceri della buona tavola, pardon della cultura del cibo, che fa velo a una differenza fondamentale con la cultura cosiddetta alta; ora spesso biasimata quale pesante, noiosa, se non addirittura messa in burla con lo stigma sarcastico di “seghe mentali”. Con cultura non ci si riferisce infatti ai soli e molteplici intrecci tra storia e bellezza – quella che solletica il palato è certamente un'offerta di bellezza, a cui è giusto accostarci con curiosità e rispetto – ma più in generale all’interrogazione sul significato di tale esperienza. Quando la cultura non si esaurisce in repertorio delle pratiche sociali ed è invece espressione intenzionale, ossia arte, o interpretazione critica, abbiamo insomma un doppio movimento: verso l’esterno, ma anche dentro di sé. Le forme in cui si produce non sono però contraddittorie ma armoniche e complementari, come la mano di Giotto quando disegnò il suo cerchio perfetto.
Ma forse è più semplice se chiamiamo nuovamente in causa Mozart e Proust, a cui abbiamo sveltamente accennato. Tra le parole del grande scrittore francese e le note del genio musicale di Salisurgo, a ben guardare si può leggere una riflessione sottilissima sui modi specifici del proprio gesto – perché uso un certo accordo, quale effetto avrà quell’aggettivo? – e non solamente la ricerca di condiscendere al piacere immediato e sensoriale del pubblico. La differenza tra grande arte e intrattenimento sta tutta qui: l’arte è sempre un discorso su un oggetto esterno ma anche su se stessa e la tradizione da cui proviene (un meta discorso, se si preferisce), ovvero sulle proprie condizioni di esistenza e sugli effetti che andrà a generare in chi ne partecipa, senza con ciò rinunciare al godimento. Nell’intrattenimento manca invece l’interrogazione conoscitiva, a tutto vantaggio del solo piacere.
Se prendiamo alla lettera lo slogan virale di cultura applicato alla gastronomia, dovremmo a questo punto chiederci quale siano la poetica civile e la riflessione strutturale di un manicaretto di Davide Oldani o Carlo Cracco... Intendiamoci, niente di male se limitano il loro sapiente spignattare allo scopo di farci gustare dei buoni cibi, anzi ottimi, e onoriamone pure l'estro. Ma questo è intrattenimento alimentare, non cultura. A maggior ragione se pensiamo che a includere ogni attività dentro la pigra formula di cultura non si capisce cosa ne resti escluso. O in altre parole, se tutto è cultura la cultura è niente. 
Volendo essere maliziosi, possiamo individuare l'elemento fuorviante nella volontà di distogliere i più da questioni politiche decisive, per ammansirli con piaceri che gli diano l’illusione di essere più raffinati ed evoluti, esclusivi e chic. Concetto per altro assai discutibile dal punto di vista linguistico, già che l’esclusività, come già visto a proposito della cultura, si giustifica solo in un regime di scarsità dell’offerta. Ma quando tutti sono esclusivi, degustano vini esclusivi, pietanze esclusive, intervallate da discorsi esclusivamente banali, il concetto si svuota di senso per inflazione. Siamo così portati a concludere che si tratti ancora e sempre di panem et circenses, con cui i latini compiacevano la plebe per continuare indisturbati a fare i loro traffici.
Aggiungo a questo punto un ricordo personale. Alla fine degli anni ottanta mi capitò di frequentare i circoli dopolavoristici torinesi, dove gli operai della Fiat venivano a farsi un bianchino o a giocare a bocce, tirando giù due madonne a ogni liscio. Conversando con alcuni di loro, mi spiegarono che fino a qualche anno prima il partito, che era allora il Pci di Berlinguer e Ingrao, organizzava dei veri e propri seminari culturali tenuti da storici, filosofi, sociologi e altri intellettuali, a cui gli operai accorrevano numerosi al termine delle otto ore in catena di montaggio. Aprivano quindi le pagine del Capitale di Marx con la stessa naturalezza con cui ora si accende la televisione per vedere La prova del cuoco, e pace se all'inizio non capivano un tubo. Cultura è infatti, almeno da principio, anche sforzo, non solo ebbrezza e consolazione.
Dobbiamo concludere che lo sforzo conoscitivo gratificasse gli operai più di un piatto fumante di bagna càuda? Mi sembra sinceramente un azzardo, ma avevano probabilmente inteso che solo la cultura, oltre a portare bellezza nelle loro vite, poteva bilanciare i rapporti asimmetrici con il padrone della ferriera. Sapere insomma, conoscere per non farsi fregare. Fatto salvo che non tutte le conoscenze si equivalgono nell'arricchire la consapevolezza sulle condizioni in cui ci troviamo, il resto è sterile nozionismo. Ma se alcuni saperi funzionano meglio di altri, questa elementare considerazione può rappresentare una prima via di uscita alle oscillazioni del pensiero postmoderno – radicalizzando un po', è stata proprio la filosofia postmoderna, con la sua disposizione relativistica e orizzontale, a portarci ad assimilare la prelibatezza di un merluzzo alla vicentina a l'Ultima cena di Leonardo. L'Eataly di Farinetti, vanto nazionale della sinistra epicurea, o il già citato Slow Food, sono dunque degli epifenomeni di un pensiero che parte da molto lontano, per poi rapprendersi in ideologia. Ossia un sistema che ratifica e quindi stabilizza i rapporti di potere. 
Per tale ragione agli operai di Mirafiori, o perlomeno a quel che ne rimane dopo le rasoiate di Marchionne, non vengono più offerte serate di studio puntiglioso, ma una bella degustazione di Fontina e Fromazdo della Val d'Aosta, con Barolo ad annaffiarla. Tutto ciò li farà certamente sentire meglio di quando il carburante alcolico era solamente Barbera di seconda scelta, ma mi chiedo se sia la stessa cosa bere vini della cantina di Borgogno che studiare la dialettica servo padrone di Hegel, o la struttura matematica delle fughe di Bach...
No, non è la stessa cosa. Ma la pancia piena fa pendant con la testa vuota. E questo, chi sta al vertice delle cucine del potere, lo sa benissimo, e anche come non diffondere la semplice verità che sta dietro alla parata dei mestoli, con cui confondere i sapori e le idee. Basta creare l'illusione che dove bollono le pentole la porta sia sempre spalancata, e lo stuolo dei lavapiatti avrà così l'impressione di stare anch'esso dalla parte dei vincenti, degli chef di successo con la mani grondanti panna montata, di tanto in tanto ricevendo qualche prelibato avanzo sotto il tavolo. Un trucco che sta funzionando alla grande, specie se condito con qualche stelletta Michelin. E le stelle, si sa, conciliano il sonno. Da cui spiccare un salto nel sogno...



Un po' di stile, o su come parlare dei propri ex


Alla richiesta del presidente del Friar's Club di Hollywood di conoscere le ragioni per cui si fosse dimesso dallo stesso club, Groucho Marx, nel 1951, diede una risposta che sarebbe divenuta celebre: "Because I don’t want to belong to any club that would have me as a member!”
Mi piacerebbe che la conoscessero, e se ne ricordassero, tutte le persone che ti raccontano delle (presunte) nefandezze del loro precedente compagno, con cui aggiungono essersi lasciati da pochi giorni. Salvo poi tornare assieme e offendersi, retrospettivamente, per il tuo distratto condiscendere ai loro sfoghi, ma è questa un'altra storia… 
Quanto stile ci sarebbe invece se semplicemente ti dicessero: Sì, io e Paola o Giovanna o Pincopallinna non siamo più fidanzati. Ci ho provato, ma non riesco proprio a stare con qualcuno che trovi attraente uno come me.

giovedì 4 ottobre 2018

Statue di fare, o sull'impegno come fuga

A volte mi viene il dubbio, meglio il sospetto, meglio la convinzione che le persone molto impegnate – quelle che per parlargli due minuti devi prenotare la telefonata il giorno prima, e rispondono solo tramite WhatsApp – sotto il cumulo della loro agenda stracarica nascondano un enorme cratere. Ma invece di lava incandescente, all’interno c’è una Pompei fissata nell’atto di compiere un gesto mai concluso; il cane che voleva scappare ma è legato alla catena, le mani a protezione della testa, l’urlo di Munch. Una specie di tableau vivant, a cui restano tanto più inchiodate quanto più si dimenano nel loro frenetico ingaggio con il tempo dell'azione, come chi si dibatte per uscire dalle sabbie mobili. Delle vere e proprie statue di fare.
La domanda a questo punto diviene storica, fino a interrogare l’archeologia dell’anima. Chissà da dove proviene l’eruzione originaria, a cui, come Plinio il Vecchio, li ha avvicinati una divorante curiosità, tanto da rimanerne irrimediabilmente ustionati. Sarà allora per non ripetere l’esperienza dolorosa che si iscrivono a corsi di lingue mesoamericane, spada giapponese, danze maori, seconde lauree e specializzazioni professionali, con l'immancabile cineforum d’autore. Ma qualsiasi cosa va bene, piuttosto di incrociare lo sguardo del drago una seconda volta. Peccato che la ferita non riesca a farsi cicatrice, segno placido sul corpo, e ogni giorno debba essere suturata.