giovedì 27 luglio 2023

Vite parallele



Sinead O'Connor e io avevamo la stessa età. Coscritti si dice, così vengono chiamati i ragazzi che vanno in guerra, scarpe grosse e un paio di tavolette di cioccolato nello zaino, l'M14 come un nuovo giocattolo. Noi però siamo nati in tempo di pace, una pace che sembrava non avere mai fine, a parte qualche eco remota che proveniva dal Vietnam. Era il 1966, l'anno in cui Simon and Garfunkel pubblicano l'album Sounds of Silence. Le note della canzone omonima – "hello darkness, my old friend /I've come to talk with you again..." – fanno da colonna sonora alla scena della piscina, al centro galleggia un materassino color cioccolato. Supino sta disteso Dustin Hoffman fissando il cielo con degli occhiali scuri che ne imbronciano l'espressione, il film è naturalmente Il laureato, quando finalmente si immerge lo spettatore dovrebbe pensare a una sorta di catarsi, ma io ho sempre pensato a dove fossero finiti gli occhiali, immaginandoli andare lentamente a fondo e posarsi su piastrelle azzurrine. Nel montaggio la sequenza viene alternata con gli amplessi assieme a una donna, Mrs. Robinson, che allora si diceva matura e ora MILF; se ho ben capito, significa Mother I'd Like to Fuck. A quanti anni si diventa donne mature, e quand'è che la maturità, il tempo, il trasformarsi delle cose in altre cose simili ma un po' ammaccate, è diventata oggetto di spregio? Sinead viene al mondo l'8 dicembre, io il 19 aprile. Al momento dello scatto, quasi simultaneo, di entrambe le fotografie, si erano già alternati molti titoli d'apertura sui quotidiani nazionali: via il Vietnam e dentro lo scandalo delle carceri d'oro, Er Canaro che tortura e infine uccide un pugile rinchiuso in una gabbia per cani. Osservando con attenzione le immagini, spicca l'atteggiamento strafottente di quel ragazzo con i baffi e la zazzera, fissa l'obiettivo con sfida senza abbassare lo sguardo; dall'altra parte si intuisce un nemico o un'amante da sedurre, che poi è lo stesso. Vita. Ma ancora potenziale, involtolata, un'ombra imbronciata su un materassino che la separa dal liquido che sciaborda tiepido e invitante. Passando di fronte allo specchio del bagno per andare a pisciare, ritrovo solamente la strafottenza di quei giorni; c'è ancora anche l'ombra, ma diluita come il pittore maldestro diluisce l'impasto della tempera con troppa acqua. Prima mancava, adesso ce n'è troppa, allaga. Sinead è qui invece tutta ombra, altrove con lo sguardo tanto da restituire la sensazione opposta: uno scoiattolino che fa spazio, dentro a occhi enormi, alle infinite sfumature del bosco. In lei non c'è traccia della strafottenza a cui il successo avrebbe potuto indurla, ciò che vediamo e non vediamo per suo tramite è puro accadere. Ma erano gli anni Ottanta, come facevi a non essere vita negli anni Ottanta, a non essere tutt'uno con una luce fortissima e senza parole e senso e in fondo neppure luce; i mistici gli danno nomi diversi, Carmelo Bene la chiama depensamento. Si depensava bene negli anni Ottanta, posso dire solamente questo, si stava meglio che nel finto pensare, scrivere, almanaccare pubblicamente sui social. Ma torniamo alle fotografie. Sorridi, no, non sorrido, faccio il bel tenebroso, non è difficile risalire a quel che mi passava allora per la testa. E nel cranio rasato di Sinead? Non si capisce, non si è mai capito. La successiva adesione all'Islam, l'immagine del Papa stracciata, il figlio suicida e la ricerca di un nuovo fidanzato su internet, tutte tessere dello stesso enigma. Eppure, nel momento in cui il suo volto si imprime sui cristalli di alogenuro d'argento, sembrava un'esistenza tanto semplice, non diversa dall'equazione semplificata a cui il mondo veniva ricondotto. Lei era quella che si rasa i capelli a zero. Punto. Così si fa prima a disegnarla sul diario. Intanto sulla torta le candeline erano salite a ventitré, due torte per la precisione, una a Sondrio e una a Dublino, tante quante le battaglie combattute dai coscritti nella loro guerra di marzapane. Sulle sue candeline ci soffiava il mondo intero, le strillavano BRAVA, ancora, bis, e l'aria che si accompagnava all'emissione della voce spegneva una fiamma che non si è più riaccesa. Non so se qualcuno abbia mai detto bravo a me; di certo non mio padre o mia madre, i miei amici. Poco importa, io depensavo felicemente a bordo della mia Vespa PX 125 bianca, impennavo leggermente quando compariva la luce verde al semaforo, a settembre puntuale l'esame di riparazione in matematica, andavo in palestra e da un parrucchiere che si chiamava Equipe 2000, ancora undici e ci saremmo finalmente arrivati. Era infatti il 1989, erano gli anni Ottanta, erano... Ma questo l'ho già detto, come tutti i vecchi tendo a ripetermi.

venerdì 21 luglio 2023

Il piccolo psicanalista, gioco politico per l’estate

Giochiamo al piccolo psicanalista. Intanto, ci vuole un sintomo, un lapsus; in mancanza di meglio va bene anche una parola a caso. Presidente, mettiamo.

La coniugazione femminile è come noto presidentessa, oppure la presidente. Giorgia Meloni ha invece richiesto di essere chiamata il Presidente del Consiglio della Repubblica italiana. Il piccolo psicanalista dovrebbe a questo punto ricercare nella biografia di Giorgia Meloni un episodio che ne tradisca l’omosessualità latente, oppure aspettative di un figlio maschio da parte dei genitori, che verrebbero così tardivamente compensate.

Ma esiste anche un altro costrutto psichico che i manuali di psicologia chiamano formazione reattiva. Detta in soldoni, prendi una cosa che non ti piace e la ribalti di segno, anche se sei poco convinto (o magari nemmeno ti poni il problema) della bontà del suo opposto, ti interessa solo fare un dispetto. Se volete tirarvela un po’ potete chiamarla alla maniera di Nietzsche: “malattia delle catene”.

Ma un dispetto a chi, di quali catene stiamo parlando?

Ad esempio di quelle, sintattiche, con cui Nichi Vendola incatena le sue infinite subordinate, nel timore che nel parlare semplice e chiaro qualcosa venga inteso. Lo sto ascoltando, ospite a una trasmissione televisiva su La7, sciorinare tutti i luoghi comuni della sinistra dei diritti: la famiglia queer, il transgender, essere uguali ma diversi, resilienti e accoglienti…

Per carità, non che manchino delle ragioni nelle sue parole. Ma mi immagino una che è cresciuta nei circoli missini della Garbatella. Cosa fai, ti fai chiamare Presidentessa oppure – e questa sarebbe la diagnosi del piccolo psicanalista che è in me – gli fai un dispetto?

Ma perché questa storia dei diritti, a sinistra, non viene chiusa nel più semplice e sintetico dei modi: ognuno faccia il cazzo che gli pare. O se vogliano alzare il livello linguistico, si porti in processione, come il parroco di Sant Ilario, l’amor sacro e l’amor profano. Ma dopo un’ora di Nichi Vendola che inanella parole vuote e roboanti, anche a me viene voglia di farmi chiamare Vostra Maestà.

giovedì 20 luglio 2023

Rimozioni

Non sono un animalista scalmanato, sono anzi pieno di incongruenze: ho smesso di mangiare carne di maiale e cuccioli in genere (agnello, capretto, vitello) ma la carbonara al ristorante non la mando certo indietro, e tutti i mercoledì, da un furgoncino partito a notte ancora fonda da Brescia, acquisto pollo allo spiedo con patate al forno, se sono fortunato c'è anche la faraona ripiena. Vado inoltre fiero dei miei giacconi di pelle da motociclista e degli stivali texani che ho fatto arrivare direttamente dagli Stati Uniti, il marchio è già un programma: Tony Lama.

Fatte le dovute premesse, quando vedo un veicolo come questo parcheggiato di fronte a una macelleria – la macelleria Cometti a Torre Santa Maria, nella circostanza – mi viene un magone che non trova le parole per dirsi. E anche il principio di una rabbia che rivolgo contro me stesso: ma quanti anni ancora vuoi aspettare, ne hai già cinquantasette, prima di assumere una posizione non equivoca nei confronti della più tenace rimozione di una comunità organizzata e su vasta scala, viene perfino sublimata in narrazione favolistica, la mucca Carolina o la stella di Negroni, che vuol dire qualità...

E sì che le parole per dirlo dovrebbero avercele insegnate fin da piccoli: fratello lupo, fratello, non cugino o prozio, lontano parente. E invece è come se tra il gattino da postare sui social e la bistecca servita nel piatto non ci fosse nulla, solo il buio di quel furgone che cela allo sguardo l'ultimo viaggio dei nostri fratelli animali. Animali vivi, per la precisione, sta anche scritto. Poi più niente. Oblio. Segue dopo qualche giorno il si fidi, la provi e la prossima volta vedrà che mi ringrazia, pronunciato dal macellaio mentre si pulisce le mani sul grembiule bianco macchiato di rosso. Ho una tartare che si scioglie in bocca!

Branco



Pensavo che riguardasse solamente i personaggi pubblici, i cosiddetti influencer. Col tempo mi sono però accorto che è un atteggiamento più diffuso. Lo ricavo da quei commenti - a occhio il cinquanta per cento - che sui social tendono a compiacere l'autore, o per essere più precisi rinforzano la relazione illusoria che sentiamo di intrattenere con lui. La modalità consiste nella tecnica pokeristica del rilancio.

Non è dunque sufficiente un semplice complimento, bravo!, ma il testo viene ripreso in un rapporto di scala incrementato, come nell'eco che ci viene restituito dalle gole alpine: non una ma due, tre, quattro volte in più di ciò che abbiamo strillato... ato... ato... Con qualche esempio sarà più chiaro.

Tizio scrive grigio e Caio commenta nero, umido diviene diluvio, penombra notte, tiepido rovente. Ciò è visibile con particolare slancio gregario in ciò che potremmo chiamare il regime dell'ostilità. Ma facciamo un altro esempio.

Ho letto ieri mattina un post su Facebook, è scritto da una persona che definirei "normale"; il nome non mi comunica nulla, non ha migliaia di contatti, non è un capopolo, un Masaniello. Normale, appunto. Di seguito le parole testuali: "Non ho mai sorriso neanche per un secondo guardando una qualsiasi cosa di Totò." 

Mi aspettavo di leggere commenti perplessi, ma stai scherzando, Totò... sei sicuro di sentirti bene, in questi giorni ha fatto molto caldo - devo chiamare qualcuno? O meglio ancora nessun commento, non ti curar di loro ma guarda e passa.

Invece i commenti c'erano eccome, ed erano del tenore: Totò, un guitto, attorucolo da due soldi, meglio Gabriel Garko, io ogni volta che danno un film di Totò giro su un programma dove Capezzone insulta l'interlocutore, e così via.

Tutto ciò fa venire alla mente l'immagine del cagnetto che porge la zampa anche quando non viene richiesta, in un piacere della subalternità che evidentemente non appartiene solo al mondo animale. Essere più realisti del re è un'espressione che nasce ben prima dei social, e vale anche quando le corone sono cartapesta e lo scettro di Pongo.

Ma stare sotto non significa, di necessità, essere più miti, gentili. Al contrario, la gentilezza è una disposizione difficilmente replicabile in grassetto: cosa c'è più di una carezza? Uno schiaffo, forse. Ma non è lo stesso. Mentre più di uno schiaffo c'è un pugno.

Per questo si infiamma il branco andando contro qualcosa o qualcuno, più difficile e meno remunerativo, come suggeriva Calvino, cercare nell'inferno ciò che inferno non è. E dargli spazio. E farlo durare.

lunedì 17 luglio 2023

Segreti

La minima distanza tra gli incisivi di Jane Birkin ne rendevano imperfetta la perfezione del volto, dunque tanto più desiderabile e umano, collocandosi in un presente fatto di Citroen DS, bonjour comment-allez vous?, quando la risposta era un très bien pronunciato senza esitazione, si accompagnava a sorrisi che rimanevano impressi su Polarid di cui non immaginavamo ancora lo stingersi dei colori, giù giù, sempre sorridendo, per i gradini verso spiagge infuocate dove rotolare palloni gonfiabili ottenuti collezionando i punti del formaggino Susanna, il tutto circonfuso dalle note sussurrare di Je t'aime, moi non plus, che vietata nei circuiti ufficiali (ma Radio Montecarlo e Radio Capodistria continuavano a metterla in onda) circolava da noi attraverso audiocassette pirata, come quella che lo zio inseriva nell'autoradio quando la zia apriva la portiera per raggiungere a piedi la boulangerie Chez Bernard, eravamo in vacanza in Costa Azzurra dopo avere presentato alla dogana il certificato di vaccinazione contro il colera, veniva richiesto solamente a chi proveniva dall'Italia, pouvez-vous passer, s'il vous plaît, ma al momento del suo rientro con la busta contenente le baguette lo zio troncava i bisbigli di Jane Birkin e, con un gesto rapido così inusuale per lui, sostituiva la cassetta con Grande grande grande di Mina, uno scarto di non so quante ottave nella voce che ci faceva sobbalzare sui sedili posteriori della Fiat 125 bianca, tre cugini, maschi, e una sola tacita congiura: la zia non deve sapere, e non ha mai saputo cosa ascoltavamo in sua assenza. Ho sempre pensato che Jane Birkin fosse un segreto tutto nostro.

Se ti togliamo ciò che non è tuo


Un paese è un pentolone geografico pieno di storie. In genere si rispecchiano, come l'uovo non si sa se sia nato prima della gallina, ma è più semplice partire dalle seconde per risalire al primo. La storia di Daniela Garnero, ad esempio. Si tiene il cognome dell'ex marito, il chirurgo plastico Paolo Santanchè, perché le appare carico di un allure che teme mancare al proprio. Fa tutt'uno con quella del nuovo compagno Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalia Rasponi Spinelli Romano Principe Dimitri Miesko Leopoldo, che di suo ha solamente il nome di battesimo, i titoli nobiliari se li è inventati il padre di sana pianta al momento dell'iscrizione all'anagrafe del figlio.

Immagino la faccia del delegato comunale nell'udire quella risposta, dopo che aveva domandato, Allora, eh, abbiamo deciso come chiamarlo? Ma immagino anche - e questa è davvero immaginazione - una simile risposta da parte dei miei genitori, eravamo nel pieno degli anni Sessanta e Leonid Il'ič Brežnev era appena stato eletto.segretario generale dell'Unione delle Repubbliche Sovietiche Unite. Mio padre si avvicina allo sportello e sussurra: Guido Gran Faraon Lup Mannar, sì, Mannar come Cynar, scriva scriva, Gran Visir e Magnifico Sultano.

Invece che come il personaggio di un film di Fantozzi, mi hanno però chiamato solamente Guido; Guido Savio per la precisione, il secondo nome faceva da buon (e inatteso) auspicio. Solo mia nonna insinuava che mi chiamassi anche Maria, il suo stesso nome che avrebbe fatto aggiungere con qualche prebenda al curato nel registro della parrocchia, nessuna traccia all'anagrafe di Sondrio.

Non che mi manchi un'etichetta in più, ma io quel Maria me lo terrei volentieri, e non ho nulla da obiettare alla fantasiosa sfilza di titoli accampati dal fidanzato di Daniela Garnero, in arte Santanché. L'aristocrazia è un palloncino gonfiato da antiche eruttazioni post prandiali - persone che sentono di valere più di altre per il solo motivo di avere la pancia piena, non di fare qualcosa con merito e dedizione - e potrà essere fatto esplodere solo attraverso un supplemento gassoso. Il meccanismo è quello economico dell'inflazione: quando tutti saranno nobili non lo sarà più nessuno, puff, palloncino scoppiato. I titoli aristocratici si mostreranno così per ciò che sono, banconote del Monopoli.

Per questo, cinque anni fa, ho acquistato un appezzamento di un metro quadro in Scozia, forse anche qualcosa in meno; e comunque un corazziere sull'attenti ci sta tutto, spazio in alto quanto ne vuole, pure per l'elmo con il pennacchio. Secondo una legge medievale tutt'ora in vigore, il possesso della terra, non importano le dimensioni, da solo costituisce l'accesso ai gradi minori dell'aristocrazia con il titolo di Laird, equivalente scozzese di Lord. Insomma, chiamatemi Lord Guido Savio Maria Hauser e facciamo prima. 

Ma scopro che esiste un'altra via - potremmo chiamarla all'opposto deflattiva - per sgonfiare con lenta progressione le presunte ipoteche dinastiche, di cui il cognome rappresenta l'incrostazione borghese. Basta togliere una lettera a ogni generazione: il signor Brambilla ha un figlio che si chiamerà Brambill, a sua volta genererà un Brambil, quindi Brambi, Bramb e così via. Alla fine, anche dei Kunz d’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalia Rasponi Spinelli Romano non resterà più nulla, solo quell'attributo, Principe, a cui i più sboccati faranno eco: Sì, Principe di 'sto cazzo! E giù una bella pernacchia, seguendo la tecnica mostrata da Eduardo nell'Oro di Napoli.

Vittorio Gassman l'aveva intuito, bravo!, peccato che il figlio Alessandro ha poi ripristinato la enne che aveva eliminato dal cognome, ritornato e come in origine Gassmann. Ma non possiamo fargliene una colpa, se avesse proseguito con la fresa linguistica del padre si chiamerebbe ora Gasma, che per un attore non suona tanto bene; ricorda una malattia, l'esiziale gasma bronchiale. È dunque più che perdonato, ma pensiamoci... Via una lettera a ogni giro, fino a che i nostri nomi rifletteremmo ciò che all'essenza già non siamo.

Milo De Angelis, come accade ai veri poeti, ci è arrivato prima e meglio di altri. In una sua bella poesia ci mostra un gruppo di medici, sono chirurghi scopriamo dopo qualche riga, camminano imperiosi al centro della corsia dove ciabattano i malati in pigiama, che si scostano al loro passaggio. Le busta delle radiografie sotto braccio, discorsi leggeri, sorrisi complici tra loro. Ma guai a incrociarne lo sguardo, più pericoloso di quello di Medusa. A cui il poeta restituisce la voce in forma di ammonimento: "se ti togliamo ciò che non è tuo \ non ti rimane niente”.

martedì 11 luglio 2023

Trenta gradi, o sul confine termico dell'Occidente

 

E se il caldo fosse una metafora politica, o addirittura un segno profetico? Quando ero bambino il confine tra Europa e Africa – noi qui e loro là, ben separati – più che dal mar Mediterraneo era determinato dalla colonnina di mercurio, a trenta gradi la dogana. Minchia che caldo! si esclamava quando questa soglia veniva superata. Pare di essere in Africa. Cosa che avveniva solamente in estate, naturalmente. D’inverno l’Africa era quella dei documentari sulla leonessa Elsa; li guardavamo alla Tivù dei ragazzi mentre il sole alle quattro del pomeriggio già dileguava dietro al Pizzo del Becco. Poi arrivava la primavera, in cui dell’Africa ci si era un po’ scordati; solo i soldatini dell’Afrikakorps la richiamavano di tanto in tanto, o gli elefanti del circo Medrano. Fino al ripresentarsi di una nuova estate, in cui il termometro ricominciava a salire: ventisette, ventotto, ventinove… Eccoli lì, trenta gradi! Tutto ciò che veniva in più era Africa, da ricercare in una trasfigurazione del giardino in jungla, tra l’oleandro e il baobab. Ma accadeva raramente, soprattutto al Nord dove abitavo io. Ora invece, da giugno a settembre, è quasi sempre Africa, per quanti condizionatori accendiamo nell’intento di arginare la deriva dei continenti. Non ottengono migliori risultati le motovedette che cercano di fare invertire la rotta ai gommoni colmi di migranti. Vengono a prendersi ciò che in fondo già gli appartiene, quel confine immaginario è tatuato anche sulla loro pelle, per questo è un poco più scura della nostra. Trenta gradi, a certe biologie, prima che culture, fanno un baffo. Trenta gradi, come lo sparo che dà l’avvio a una regata nautica. La bussola è costituita da un vento tiepido, di più, rovente, che sa di casa. La grande casa dell'Europa africanizzata. Un destino, prima termico e poi politico, che potremmo scorgere nel volo dei gabbiani, se solo alzassimo lo sguardo dal display dove consultiamo 3BMeteo. Hanno preso il posto dei fagiani a rasentare gli affluenti settentrionali del Po. Un volo planare, da alianti più che da droni scattosi, che all'improvviso si converte in micidiali picchiate, in cui ghermire le loro prede guizzanti. Trenta, trentuno, trentasette o quaranta gradi. Passata quella soglia le distinzione perdono di significato, dileguano anch'esse dietro al Pizzo del Becco. Vengono colte solo dalla fronte degli anziani; la tergono di continuo con fazzoletti bianchi ancora piegati, come quando erano bambini e la mamma li invitava a farne un uso parsimonioso. Poi gettano la loro carta sul tavolo, settebello e scopa, ciapalì, dioboia!

Chi si somiglia si piglia

Il detto chi si somiglia si piglia, oltre che verissimo, possiede un'estensione più ampia di quella che comunemente vi si attribuisce, non vale solo per i fidanzatini di Peynet.

Pensiamo all'avvocato della ragazza che dichiara di essere stata stuprata da Leonardo Apache La Russa, Stefano Benvenuto scopro chiamarsi, lo scopriamo tutti come si scopre una nuova hit per l'estate. Non ho nulla da dire sulla vicenda, la giustizia, come si dice, farà il suo corso. Ma un tipo così: l'avete visto, l'avete ascoltato nelle interviste che concede con disinvolta facondia?

Con una mano gesticola a un immaginario pubblico di giurati - mettetevi nei suoi panni, povera sventurata che ebbe il solo torto di rispondere... - e con l'altra si ravviva la zazzera. Tutto ciò non c'entra nulla con persone e fatti realmente accaduti o non, ripeto. Ma una tale macchietta da avanspettacolo sembra uscita da una commedia di Steno, dove fa da spalla a quell'altra macchietta che è Ignazio la Russa.

Nella vita reale c'era una probabilità su un milione che due talenti comici così dotati convivessero dentro lo stesso film. Mica vero. Chi si somiglia si piglia. E nel fare casting delle nostre vite, l'universo lo sa. 

Macchie di Rorschach

 

Ma perché i ricchi non sudano mai, a parte quando giocano a padel o fanno la sauna?

I poveri hanno le macchie di Rorschach sotto le ascelle – chi ci vede un pipistrello, chi due uova al tegamino, chi la mamma. Enigmi umidi e scuri che si affacciano sulla camicia, ma più spesso si tratta di una t-shirt con la scritta Miami Beach. Se sei povero, recita il proverbio, mica ci nasci con la camicia: la devi comprare, e la t-shirt con la scritta Miami Beach al mercatino rionale costa meno (a dirla tutta, ci fai pure la tua porca figura).

Anche al funerale di Berlusconi. Non era ancora caldo come adesso, ma insomma: Piazza Duomo, Milano, 14 giugno. E non una t-shirt con la scritta Miami Beach e l'alone scuro maleodorato, l'unica macchia di Rorschach era costituita dalle ghirlande di fiori deposte ai piedi della bara. C'è chi giura di avervi letto la scritta: W LA FIGA!

Le donne ancora ancora – qualche gamba non troppo scoperta dai tailleur – ma gli uomini solo camicie di popeline azzurro. E sopra la camicia giacca antracite in fresco lana, che fresco un cazzo, dai, diciamocelo. Soprattutto se poi annodi una cravatta dove il sangue corre più copioso, roba da morire dal caldo.

Macché, neppure una goccia di sudore.

Sarà mica che i ricchi appartengono a un’altra razza, una diversa specie biologica proprio? Massì, dai, i rettiliani! E sì che Red Ronnie ce lo ripete di continuo…

lunedì 10 luglio 2023

Padri e figli

Carlo Donat-Cattin, sindacalista e politico democristiano con importanti ruoli di governo – tra il 1969 e il ‘91 fu ministro in tre legislature – si dimise da ogni carica in seguito alle azioni terroristiche del figlio Marco, e in particolare per via della sua fuga a Parigi di cui si ipotizzò un coinvolgimento del padre, mai provato.

Naturalmente i reati confermati in giudizio, tra cui quello di doppio omicidio, sono diversi dall'ipotesi di violenza sessuale per cui è sotto inchiesta Leonardo Apache La Russa, inserita in un contesto che appare obiettivamente confuso; è sempre sbagliato anticipare i verdetti giudiziari, ma in questa occasione ancor di più.

Non si chiede dunque alla seconda carica dello Stato di dimettersi come fece Donat-Cattin, anche se a molti di noi la cosa non dispiacerebbe... Trovo però utile soffermarsi su due cose:

1) se stupro c'è stato, è avvenuto nella casa del Presidente del Senato con lui presente (in altra camera, va detto).

2) Quando dice Ho interrogato mio figlio, non c'è problema, tutto occhei, era quella a essere strafatta di coca, la domanda che mi piacerebbe gli venisse rivolta dai giornalisti è la seguente, che purtroppo non ho ancora sentito pronunciare: Ma ha interrogato anche sé stesso, Presidente?

Se Donat-Cattin, e non l'ha fatto, avrebbe potuto aiutare il figlio a fuggire a Parigi, la presenza di Ignazio La Russa sul luogo del (ipotetico) misfatto fa infatti di lui un potenziale complice. Potenziale, ripeto. Ma è proprio quando una cosa è ambigua che si deve insistere.

Anche Lei, non scappi Presidente, era strafatto di coca, oppure aveva bevuto una Sambuchina con la mosca, un Cynar… Chiarisca!

Ovviamente io non credo a una versione complottista, ma la legge è fatta anche di questi se e ma da verificare. Come va ovviamente verificata l'accusa della ragazza, che, come si dice, potrebbe parlare a nuora perché suocera intenda. E cioè possedere carattere politicamente strumentale. È ugualmente improbabile, ma le istituzioni vanno tutelate come vanno tutelate le persone

Quindi bene che La Russa resti al suo posto, al momento non sono presenti elementi che pregiudichino la sua posizione, per quanto l’autorevolezza ne viene incrinata (il rapporto che c'è tra La Russa e l'autorevolezza è quello che c'è tra un paio di mutande dell'Oviesse e la settimana della moda, quindi cambia poco). Resta il fatto che ogni parola da lui pronuncia sulla vicenda è una parola di troppo, e fino a ora il troppo ha già stroppiato.

Avrebbe potuto o, meglio, dovuto dire soltanto: Come padre credo alla versione di mio figlio, ma come uomo delle istituzioni mi metto a disposizione della magistratura. Collaborerò come possibile al chiarimento della vicenda, in attesa di un giudizio che non spetta a me, e a cui mi rimetto fiducioso. Mi assumo già da ora le eventuali responsabilità che mi competono.

E l’ultima postilla è decisiva, già che in politica, a differenza della teologia, sono le colpe dei figli a ricadere sui padri.

domenica 9 luglio 2023

Venti estati utili

Oggi non funziona il condizionatore. Oltretutto è domenica, trentacinque gradi all’ombra, lo assicura 3BMeteo. La cosa più drammatica che potesse accadermi, penso. E il condizionatore l'oggetto più utile mai inventato.

Quel termine, utile… Mi distoglie per un attimo dalla sudorazione. La concretezza del fare, associata alla calura estiva, appare quasi un ossimoro. Non la gratuità di gesti sospesi nella canicola del meriggio – scartare un ghiacciolo, sdraiarsi sul divano, posare gli occhiali –, ma un preciso tornaconto.

Dove e quando l'ho già sentito?

No, non si tratta di Eliot, lui dentro le pagine del calendario sapeva cogliere l'intenzione psichica. Utilizza un aggettivo umanizzante come crudele; lo è per il grande poeta aprile, il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera.

Mica male, ma inutile. Che cosa te ne fai di una stagione così, tanto più se i pollini ti fanno starnutire? Il fiore deve attendere ancora un altro po' prima di farsi ciliegia.

Ci si avvicina Flaiano, e però con troppo slancio; per una volta, il suo proverbiale disincanto viene convertito nella disposizione acritica del tifoso:

Non c’è che una stagione: l’estate.

Tanto bella che le altre

le girano attorno.

L’autunno la ricorda,

l’inverno la invoca,

la primavera la invidia

e tenta puerilmente di guastarla.

Bruno Martino invece l'estate la odia. Troppo calda come i baci che ho perduto –, piena di amore che è passato, che il cuore mio vorrebbe cancellar... No, siamo decisamente fuori strada.

La memoria comincia a dischiudersi, della città sepolta emerge un comignolo. Si parla di venti estati utili, a cosa non mi è ancora chiaro, venti estati come ovuli femminili che vanno consumandosi nell’oscurità del ventre, un giorno ti svegli e sei in menopausa.

Faccio una ricerca su Google e trovo l'intera frase e il suo autore. Sono parole di una nitidezza spietata, esattezza struggente. O forse, più umilmente, sono anch'esse utili. Andrebbero meditate a lungo. Se non fosse che vengono comprese solo quando la lama dell'aratro comincia ad arrugginire.

Ma lasciamo la parola a Enrico Vanzina. È lui, il regista di Vacanze di Natale e Sapore di mare, l’inventore dei cinepanettoni, il genio che esce dalla lampada. Per ammonirci:

La vita sono venti estati utili, è triste ma è così. Dai quattordici ai trentaquattro anni succede tutto: conosci quella che amerai, quella che ti lascerà, conosci quella con la quale farai i figli, conosci gli amici veri. Succede tutto in queste estati.

Ps - queste estati, nel mio caso, erano quelle estati, accompagnate dalla voce di Umberto Tozzi. Usciva dai juke-box, dalle radioline appese allo specchietto retrovisore, da ovunque per strillare ti amo a tutto ciò che incrociava. In queste mie estati da cinquantasettenne, succede solo che si guasti il condizionatore.

venerdì 7 luglio 2023

Il Premio Strega e la leva obbligatoria, naturalmente a Cuneo

Prima parte

Se la vitalità del corpo, ma è sufficiente un pigro tirare a campare, non è garanzia di qualità letteraria, per coerenza non lo deve essere neppure il suo opposto. Da qui le prevedibili polemiche sull'assegnazione dell'ultimo Premio Strega alla scrittrice scomparsa Ada D'Adamo.

Ammesso (e non concesso) che la sua drammatica vicenda biografica possa avere inciso sul verdetto, si chiede dunque ai suoi numerosi detrattori – gente di mondo che sa come vanno certe cose, come direbbe Totò hanno fatto il militare a Cuneo – di argomentare il loro disappunto; non si pretende una scheda di lettura, ma almeno motivi intrinseci e circostanziati. Non basta dire per forza, è morta… con sorrisetto obliquo che ricorda un rictus.

Anche Shakespeare è morto. Anche Dante. Anche Liala e lo zio di un mio amico. Da giovane ha scritto una manciata di poesie da inviare alla sua fidanzata, che poi si è scoperto avere una tresca con il farmacista. Si racconta che lui pure avesse fatto il servizio di leva a Cuneo e, dopo avere sfiorato una rosa con la punta della stilografica, nel brulicare delle camerate, ingannasse il tempo così.

Seconda parte

Per quanto mi riguarda, trovo il libro della D'Amo, Come d’aria, molto bello, e poco importa che possano essercene di migliori (a me è piaciuto particolarmente il romanzo di Andrea Canobbio, e nella sua generosità affabulatoria mi ha colpito anche quello di Gian Marco Griffi).

La lingua è nitida e potente, a tratti perfino ironica, sempre esatta e misurata. Nulla concede ai toni del patetico, che l'accanirsi delle sfortune potrebbe richiamare – ma se il male sta nelle cose e non nella voce che lo pronuncia, non vale la strategia dello struzzo. Il male è nel mondo e alla letteratura il compito di mostrarcelo più o meno bene. Una differenza qualitativa, e cioè di stile, che fa di un memoir un'opera di invenzione a tutti gli effetti. Termine preferibile a quello di fiction, già che anche nella fantasia più sfrenata può insinuarsi la verità propria della letteratura.  

La scelta degli Amici della domenica, se non necessariamente condivisa, merita quindi rispetto, se ne può come giusto discutere ma tenendo presente di un fatto: non è frequente che un premio letterario si protenda curioso su autori sconosciuti, pubblicati da piccoli preziosi editori come Elliot con la mediazione di Carola Susani ed Elena Stancanelli, invece di ratificare il noto. Senza quel riconoscimento non ne staremmo parlando, e soprattutto la lettura del libro di Ada D'Adamo sarebbe assai minore.

Quanto alle classifiche, per chi ancora ci crede sarebbe forse utile ricordare che Sofocle, con l'Edipo Re, non vinse le Dionisie, fu superato nell'edizione del 425 da tale Filocle. E 2408 anni dopo, Vasco Rossi si piazzò penultimo a Sanremo con Vita spericolata

Uomini e cani

I cani abbaiano agli handicappati, i bambini ridono. Poi, dopo un po’, i cani non abbaiano più, si abituano. I bambini no. Li osservano infinite volte camminare sul marciapiedi opposto, una fissità dello sguardo non velata da discrezione. Altri bambini, con fisionomia vagamente asiatica, tengono stretta stretta la mano della mamma, quando alla loro età tu vai già in giro da solo in Saltafoss. E ridi, abbai, li chiami “mongoloidi”.

Non credo sia per cattiveria, ma un handicappato deve apparire a un bambino come una caricatura dell’umano, un gioco insomma. Anche molti animali diventano esperimenti biologici: le lucertole a cui mozzare la coda con un sasso, i maggiolini mutilati delle ali. Anche quelli fanno ridere. Non ho mai visto un bambino abbracciare un cavallo frustato dal cocchiere, come fece Nietzsche in Piazza Carlo Alberto a Torino. I bambini abbracciano solo animali di sana e robusta costituzione.

Nel mio caso, posso così risalire al preciso momento in cui sono passato dall’infanzia all’età adulta. È stato quando ho visto la scena consueta – handicappato, bambino, mano, mamma – e invece di ridere mi è venuto da piangere. Da quella volta mi accade in ogni occasione, anche quando incrocio un cagnetto che saltella con un incedere che un tempo avrei trovato buffo, per via della zampa monca. A differenza dei loro simili non mi sono mai abituato.

mercoledì 5 luglio 2023

Mi piace il cazzo

Il 2 luglio, a Carpi, il disciolto gruppo di Elio e le Storie Tese si è riunito per un concerto, o meglio e come viene indicato sui manifesti un concertozzo. Undici giorni prima sul palco del museo Maxxi di Roma, Morgan e Sgarbi hanno conversato pubblicamente in un tono che a loro deve essere apparso amabile, ad altri detestabile.

Non entrerò nella polemica, non mi interessa. Registro solamente che le due circostanze sono unite da un invisibile filo; per abitudine lo immagineremo rosso, di un bel rosso vermiglio. Se portato ad evidenza, può forse raccontarci qualcosa sulla natura del gesto estetico, oltre e più in generale sul nostro tempo.

Esiste infatti una figura retorica, si chiama antifrasi e consiste nel fare un'affermazione per comunicare, in conseguenza del contesto o dell'intonazione con cui viene pronunciata, il suo opposto. Ad esempio dando a qualcuno del fenomeno, ma va' che sei proprio un fenomeno, per sottolineare ironicamente una qualche sua mancanza.

Se aggiungiamo alla figura dell'antifrasi quella dell'iperbole, abbiamo la cifra stilistica del gruppo musicale: individuare le frasi fatte, i virus linguistici, i cliché sociali e quindi fingere di aderirvi in forma ingigantita, come fanno i caricaturisti che da un naso leggermente pronunciato ricavano una proboscide. La differenza con la satira politica è che non c'è un singolo personaggio di cui esorbitare le manchevolezze, ma un'intera legione di demoni.

Lo hanno naturalmente fatto anche al Concertozzo di Carpi, attraverso il consueto modo di operare sui materiali prelevati da discorsi che non potrebbero essere più comuni, per farli brillare a nuova vita. Un risultato ottenuto per il tramite di un altro processo espressivo, lo straniamento. Metti un orinatoio in una galleria d'arte e, voilà, ecco un capolavoro! Il reperto più sorprendente coincide con il successo dei Queen We Are the Champions, ma con il testo del refrain sostituito dalla frase "mi piace il cazzo".

Ascoltandoli, uno non pensa come sono caduti in basso, ma come, tutti quanti noi, stiamo precipitando in abissi nominabili solo per mezzo di storpiature retoriche, che rivelano il tuorlo assurdo celato dal guscio dell'ovvio. La goliardica proclamazione di gusto genitale, che fa ridere come al bambino dire la parola cacca, finisce così col riverberare i giorni che viviamo in decadenti e mal assortite comunità, ed è impossibile chiamarsi fuori con piglio sdegnoso. No, a me piace il concerto n° 3 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov. Ma va a cagher!

Al contrario, è proprio la dissociazione perbenista a prevalere, anche all'interno del proprio schieramento politico, tra le reazioni alla discutibile performance al Maxxi. Forse perché lo speculare mi piace la fica pronunciato da Sgarbi era letterale, non retoricamente formulato. Parlava in nome proprio, non faceva da specchio ironico a qualcun altro, il pronome io sembra essere l'unico conosciuto dal critico ferrarese.

Eppure, anche nel suo caso, si avvertiva una sorta di eco, il coro nella tragedia greca che subentra ai destini individuali. Il tutto però più terra terra, a prendere parola era in questo caso il brusio di una squadra di calcetto sotto la doccia.

Ma è qui che il ragionamento si inceppa, e per una volta provo l'impulso a difendere l'indifendibile Sgarbi. È un dubbio, intendiamoci, non una conclusione certa. Assume dunque forma interrogativa: possiede ancora la nostra cultura una gerarchia tra alto e basso, pop e sublime, museo capitolino e film porno?

Non direi, la postmodernità ha fatto piazza pulita di ogni tensione all'auto trascendenza, e come del tutto legittima è l'ironia di Elio e le Storie Tese, lo diviene anche la sottocultura da spogliatoio di cui si burla, quand'anche prendesse la piega sessista dell'enumerazione compiaciuta delle proprie e altrui conquiste femminili, le cosiddette tacche sulla pistola. Che è per l'appunto quanto ha fatto Sgarbi imbeccato da Morgan.

Liberissimi naturalmente di non andare al Maxxi ad ascoltare entrambi (io non l'avrei fatto, prefigurando un copione facilmente prevedibile che conduce allo sbadiglio, più che allo scandalo), ma la declinazione aggiornata del concetto di Occidente è anche, se non soprattutto, fatta di questi siparietti in cui ciascuno batte ostinatamente il suo tamburo, come cantava Lou Reed.

Fuor di metafora, significa il grado zero del piacere, senza più alcuna sovrastruttura legale a contenerlo in una dimensione privata, altrimenti detta o-scena. Poco importa allora anche il fatto che Sgarbi sia Sottosegretario alla Cultura, il potere che esprime ha dismesso ogni carattere di esemplarità virtuosa e di limite censorio al godimento, che secondo Freud definiva il perimetro civile.

L'unico discrimine diviene la scelta dello spogliatoio in cui darsi di gomito; non sono più solo due, maschi, femmine, ma molti di più, quanti i generi post sessuali. Piaceri. Dispiaceri. A ciascuno in piena libertà, tra cui quella di pisciare fuori dalla tazza del buon gusto. E se non gradiamo la senile esibizione di celavevodurismo di Sgarbi, possiamo sempre spostarci al Concertozzo di Elio e cantare a squarciagola: mi piace il cazzo, oh oh oh oh oh, mi piace il cazzo...


PS - A scanso equivoci, trattasi di antifrasi anche il titolo di questo post.

domenica 2 luglio 2023

È qui la festa?


A messa si va con l'abito buono, della festa lo chiamava mia nonna. Mentre per zappare l'orto puoi anche non riguardarti allo specchio. Nel mondo contadino c'è la dimensione festiva, diversa da quella pubblica della borghesia, dove il controllo formale è censura, superfici indorate e stagno alla polpa. Per il contadino è bellezza e rispetto, da opporre alla disinvoltura feriale. Una lezione acquisita con il solo esempio delle domeniche trascorse in campagna dai nonni materni, e da me replicata nell'unica forma di ritualità che ancora pratico. La scrittura.

Mi fa un po' ridere rileggermi prima di pubblicare un post su Facebook, scovare e rimuovere ripetizioni, fare editing insomma. Ma tant'è: abitudine. Per quanto sia consapevole che, con la funzione religiosa, i social condividono solamente il richiamo ai fedeli; un muto suono di campane, ding dong ding dong... Eccomi di nuovo qui!

Quando accompagnavo la nonna nella chiesetta di Montagna piano (nome che mi è sempre è parso un ossimoro), intravedevo negli occhi delle altre donne una richiesta ugualmente muta, da rivolgere all'altare. Non so dove fossero i maschi, forse all'osteria, ma potrei giurare che anche il loro sguardo domandava qualcosa al bicchiere. Se avessero avuto ciò che manca, ognuno una propria voragine da colmare di vino, le donne di Pater noster, ave Maria piena di grazia il Signore è con te, mi chiedo, ci sarebbe stata ancora una festa? E io starei scrivendo queste parole, che quasi nessuno leggerà?

Forse ho sbagliato paragone, ho sbagliato tutto. Questa casa non è un albergo e neppure un'osteria, come ricordano le madri ai figli adolescenti, non è la messa domenicale ma il gesto largo della mano, con cui la nonna distribuiva il becchime per i polli. Si può però fare di meglio. Dai, riprova mi incalza la vocina dell'editor interno, cerca un paragone migliore. Le galline accorrevano infatti con la loro camminata sculettante, smettendo di razzolare nell'aia alla ricerca di lombrichi, mentre sui social ognuno fa pietanza a sé, è l'uroboro che pasteggia con la propria coda.

Giro allora la domanda agli altri, mettiamo alla bella ragazza sovrappeso che non passa giorno nel quale non ricordi, su Facebook, la sua antica taglia 36, da opporre al dilagare presente delle carni. Perché lo fai vorrei chiederle, se per incanto tu dimagrissi all'improvviso – e vedrai che succederà, porta solo un po' di pazienza – proveresti sempre il desiderio di ostensione che ti affligge, pronunceresti ancora il tuo prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi?

Una risposta che naturalmente non può arrivare. In fondo non escludo che ci siano anche persone più conciliate; non vorrebbero stare da un'altra parte come me, magari su una poltrona-materassino in una piscina di Miami, sorseggiando daiquiri alla banana. C'è chi semplicemente mal sopporta che quel tal scrittore di talento non abbia successo, e quell'altro, diciamo Fabio Volo, invece eccome che ce l'ha. Qualcosa di sbagliato si trova sempre da puntare con indice severo, e qualcosa di giusto da rivendicare. Sono pur sempre mancanze, ingiustizie per cui chiedere redenzione a un dio che latita.

Ma la peggiore ingiustizia a me appare non ammetterlo. Che andiamo su un social per vendere pentole – e va benissimo, se quel docente di scrittura creativa pagasse la pubblicità ai suoi corsi gli costerebbe una fortuna, su Facebook invece è gratis e giustamente ne approfitta – oppure per battere i coperchi, fare casino. In una circostanza e nell'altra ciò che difetta è la pietanza. Come in un koan zen, il contenuto è lo spazio vuoto della scodella.

Torna così l'immagine iniziale: il vestito, la festa. Non è troppo diverso dal fruscio leggero di un abito ben scelto, con cui la donna ingioiellata si è presentata al party in terrazza; si scorgono i televisori accesi dei poveri chiusi in casa davanti alla Domenica sportiva, i lampeggianti delle auto della Polizia. L'apparente noncuranza con cui lo indossa, Guarda, è la prima cosa che mi è capitata sottomano, risponde la donna a chi le fa i complimenti. In alternativa, si chiedeva Nanni Moretti: "Mi si nota di più se vengo e sto in disparte, o se non vengo proprio?"

Ma ecco il punto. A me sembra che questa sia una festa proclamata ma sempre rimandata, una guerra in cui dalla canna delle pistole esce la scritta BUM; cosa che nel tempo presente andrebbe anche bene. La conta dei morti ammazzati da pallottole di indifferenza non è difficile, eppure si fa fatica a chiamare vittoria la conquista di un colle che non esiste, per quante bandierine tu riesca a conficcarci sopra. Si chiamano like, ma non cambia molto.

Se non altro, se ti buttava bene, a una festa vera potevi sempre rimorchiare, tornare a casa in due sul sellino singolo del Ciao. Oppure ubriacarti dopo avere fatto combutta con la servitù, come capitò quando mi imbucai nell'attico di Gil Rossellini; un cameriere ivoriano trafugava per me le bottiglie migliori. Da sbronzo passai tutta la serata fingendo di frequentare il Pontificio Seminario Romano Maggiore. Lo dissi anche a Fernanda Pivano, che indossava un abito lungo di lamé. Forse un altro ossimoro.

L'ultima domanda che mi faccio, poi giuro ho finito, è cosa potrebbe accadere di diverso, dando per assodato che fino ad adesso la comunicazione sui social si è prodotta in un unico solipsistico verso. Perché ad esempio schifare chi ti manda messaggi privati su Messanger, addirittura pubblicarne la videata? Che cosa triste. A una festa non grideresti mai, Ehi, ascoltatemi tutti, quel signore anziano mi ha sussurrato che ho delle gambe che nemmeno sua moglie a vent'anni c'aveva delle gambe così... Non dico che lo ricambieresti, ma fa parte del gioco.

Un gioco che a me appare sempre uguale: l'infelicità certa e la felicità ugualmente impossibile, se non in forma di surrogato verbale. Se fossimo gli scrittori o i poeti che molti di noi dichiarano di essere, staremmo scrivendo libri, non mendicando la lettura del primo bislacco malumore che ci passa per la testa, o fotografando il placido sonno del gattino; è così simile a quello ragione ma non partorisce mostri, solo cuoricini. Certo, si possono fare le due cose. Anche la nonna zappava l'orto e andava in chiesa, ma con abiti diversi.

Mi piacerebbe allora che i social fossero un luogo del tutto anonimo, oltre all'assenza del nome anche quella della professione, solo parole e immagini senza riferimenti biografici. Fantasmi. Una tristezza assoluta, quella che già intravedo tra le righe, ma anche una gioia ugualmente priva di mediazione, sorgiva e folle. Uno potrebbe dichiarare: Ce l'ho fatta, ce l'ho fatta! Sarebbe però vietato dire cosa, escluso ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti. Ce l'ho fatta e basta, al lettore il compito di immaginare il complemento oggetto.

Tra le possibilità astratte, quella di trovare una porticina defilata, come fa Jim Carrey al termine di The Truman Show. Abbassare la maniglia. Aprire. E poi dire a Fernanda Pivano: Scusa, non è vero che sono un seminarista, nemmeno sono sicuro che da qualche parte ci stia un dio barbuto, a cui inginocchiarsi per sbirciare meglio sotto la gonna delle donne. E poi abbracciare il cameriere ivoriano, e ringraziarlo per tutto il vino buono che ti ha servito.