venerdì 30 giugno 2023

помощь!


La scena iniziale sarebbe questa, inquadrata dall'alto di una mongolfiera che ridiscende senza fretta. Un'enorme massa di ghiaccio si è distaccata dal pack artico e ora è alla deriva nell'oceano. Se volete potete aggiungerci una musica di Philip Glass, va bene anche Ludovico Einaudi. Fate voi.

Sopra l'iceberg (è talmente grande da non riuscire a scorgere, da sopra, i confini) un gruppo di orsi bianchi. Ognuno si fa i fatti propri, non a caso per indicare scarsa propensione sociale si dà a qualcuno dell'orso. Chi caccia un pesce facendo un foro sulla superficie innevata, chi dormicchia, chi guarda una serie tivù...

Sì, questi sono orsi un po' particolari: guardano la tivù e bevono Spritz all'ora dell'aperitivo, mentre per via della tiepida corrente del Golfo l'iceberg segue il destino di tutti i ghiaccioli. Ogni giorno che passa è un poco più piccolo del precedente, senza che da principio gli orsi se ne accorgano.

È quanto accade a una comunità umana quando il lessico si contrae. Non sono solamente le parole a venire meno - si sciolgono in un oceano di indifferenza, ma piano piano, non tutte assieme -, con esse scompaiono anche le cose a cui si riferiscono.

Racconta un famoso slavista italiano, figlio di madre russa, di avere tenuto una conferenza a San Pietroburgo. A un certo punto ha utilizzato il termine ласкать (laskat), un verbo che significa carezzare.

Alla conclusione, molti l'hanno raggiunto alla cattedra per complimentarsi, ma insieme al piacere i loro volti comunicavano sorpresa. Cosa voleva dire con quella parola, laskat, ha preso qualcuno il coraggio di chiedere. Ce la spiega? Le persone intorno annuivano.

A sua volta sorpreso dalla domanda - aveva parlato in russo a dei russi, non in una lingua straniera - , ha pensato di mimare una carezza con la mano. Ah, qualcuno ha esclamato, ho capito, voleva dire доброта (dobrota)!

No ha risposto lo slavista, volevo proprio dire laskat, e ha allargato le mani a significare impotenza, un gesto che fa anche Mastroianni al termine della Dolce vita. Solo che in questo caso erano gli altri a non capire, non lui le parole di una giovanissima Valeria Ciangottini.

Dobrota, in italiano, significa infatti gentilezza, sono concetti diversi. Ma se dal tuo vocabolario interno strappano la pagina dove compare la voce carezzare, anche le carezze reali finiscono con lo scomparire, non serve a molto mostrarle in pratica. Come per gli orsi alla deriva il tuo mondo si fa ogni giorno più piccino. 

Ludwig Wittgenstein lo diceva con una battuta giustamente divenuta famosa: "the borders of your language are the borders of your world."

Perciò con i duemila vocaboli che formano il capitale linguistico medio di un italiano medio, dovremmo iniziare a preoccuparci. Tecnicamente si chiama vocabolario attivo: non valgono le parole orecchiate e ripetute a pappagallo, come resilienza o endorsement, che poi non sei in grado di spiegare. Se provi a farlo somigli a Fracchia quando balbetta qualcosa interrogato dal direttore. Duemila, seguendo le repliche di Superquark puoi arrivare a tremila (crollano a mille se sbagli canale e finisci su Paperissima). 

Comunque sempre meno di un anglosassone, che possiede un vocabolario attivo di diciottomila vocaboli, sedicimila per un tedesco. Mentre un bambino cinese, senza bisogno di Superquark, più di entrambi messi assieme. Ciò significa che una mattina potremmo svegliarci senza più la parola carezzare, come è avvenuto in Russia.

Carezzare carezzare... Massì, una volta l'ho sentito dire a un quiz di Amadeus, prima o poi mi viene in mente. Ma non ti viene in mente, è persa, è sciolta. Il giorno dopo tocca alla parola liquirizia, poi calcestruzzo, questa è un po' difficile e forse se n'era già andata prima, insieme a compassione e trottola. Niente più trottole e compassione.

E così parola dopo parola, trascorso qualche anno - non ne rimangono molti - ti svegli e l'iceberg si è completamente disciolto. Gli orsi si guardano l'uno con l'altro senza essere in grado di parlare. In fondo sono orsi, mica Pannella quando veniva invitato a una tribuna politica e schiantava tutti con la sua facondia.

Facondia?! Va be', lasciamo perdere. Diciamo parlantina.

Intanto un orso, quello più a margine, comincia a sprofondare. Mentre l'acqua gelida ha raggiunto l'addome la bocca si muove lentamente. Sembra lo sbadiglio dopo un lungo letargo, il tentativo di qualcosa che deve ancora precisarsi, ma presto un suono l'accompagna. Gli è finalmente tornata in mente una parola: Aiuto, aiuto grida sempre più forte - AIUTO!

Ma gli altri orsi scuotono il capoccione bianco: Aiuto...? Boh, chi l'ha mai sentito dire. E anche loro allargano le zampe replicando il gesto di Mastroianni.

venerdì 23 giugno 2023

Angeli


Dopo gli anni delle elementari spesi a rincorrere un pallone in campetti da calcio defilati e spontanei (la differenza con i campi veri è che quando arrivava il proprietario del prato dovevi scappare via, afferrando i maglioni appallottolati a simbolizzare i pali della porta) e un tentativo poco convinto nella Sondrio Sportiva di nuoto, lo sport a cui mi dedicai fu la pallacanestro.

Una delle attività più faticose in assoluto, non ci sono tempi morti, avanti, indietro, difesa, attacco. I ruoli si invertono di continuo senza lasciare ai polmoni il tempo di acquietarsi, mentre il cuore batte il suo tamburo come il batterista di un gruppo hard rock. Forse solo le tappe alpine del Giro d'Italia riescono a suonare una musica più forsennata. Lo strusciare fighetto del charleston è estraneo alla pallacanestro e al ciclismo, quelle sono finezze jazz da sport come il curling o il tiro con l'arco, fino ad arrivare al minimalismo bradicardico del Subbuteo.

Una fatica e un ritmo che facevano tutt'uno con l'energia dell'adolescenza, e non venivano avvertiti come costo ma come remunerazione, sfogo, piacere. Il basket davvero è un gioco e in ciò mantiene quel che promette. Sei o sette anni, divertentissimi, trascorsi in braghette di raso; per la precisione ero guardia destra della Sondrio Sportiva di basket, sempre lei. D'altronde, altre società sportive nel paese dove sono nato non ce n'erano, e lo sponsor ci aveva fornito una divisa particolarmente graziosa: bianca come il latte di cui era il principale produttore, ma solcata da righine verticali blu, quasi un gessato. Non ho mai capito cosa stessero a significare. Forse la strada dritta segnata sulle mappe – l'unica strada, la statele 36 – da imboccare per scappare via da una valle stretta e lunga, sempre scappare anche quando non arriva il proprietario del prato.

Se potessi tornare indietro, non ripeterei però la scelta per lo sport che mi ha fatto da specchio in gioventù; contro la Forti e Liberi di Monza vinsi addirittura il titolo di best scorer of the match, una formula pomposa per indicare chi infila più volte la palla nel canestro. Ma intanto (e come sempre) ci avevano messi sotto di una ventina di punti. Ogni sport restituisce un'idea di mondo implicita, e in quella del basket non mi ci sono mai riconosciuto completamente: troppo americana, troppo yeah dammi il cinque fratello. Se lo dicevano giovani uomini enormi nelle palestre di Springfield, Massachusetts, dove tutto è cominciato.

Sceglierei adesso di dedicarmi ai tuffi, ma ci sarebbe dovuto essere perlomeno un trampolino nella piscina che si trova proprio a trenta metri da casa mia – per la Sondrio Sportiva un inutile orpello, bastavano e avanzavano i blocchi di partenza in cemento grezzo per le gare di nuoto.

Poco male, mi sarei spostato a Morbegno, come ogni tanto già facevo. Venticinque chilometri di distanza e diciotto minuti se il treno è un diretto, quasi mezz'ora se locale. Altre volte ci andavo con il pulmino della Sondrio Sportiva, un Ford Transit verdino da nove posti; dunque potevamo portare solo tre riserve, l'allenatore faceva anche da autista e massaggiatore. Di fatto era un derby. Il capoluogo, noi, contro la seconda città per abitanti della Valtellina, ma prima per economia. A basket erano bravini, ce la giocavamo all'ultimo canestro, per quanto avessero in formazione un quindicenne che già misurava un metro e novantatré. Bisogna riconoscere che hanno sempre pensando più in grande: non crescevano bambini, ma giganti come a Springfield.

Dallo stesso spirito, think bigger, che nel dialetto locale diventava fa' 'l ganassa, veniva forse la presenza del trampolino nella loro piscina: tre metri soltanto, ma a cinque già inizio a provare vertigini. Scendevo dal predellino del treno, salivo sulla scaletta in acciaio del trampolino (non vestito, prima passavo dagli spogliatoi e mi mettevo il costume Diana con due bande rosse laterali, la cuffia non era ancora obbligatoria, quindi spruzzavo sui piedi il disinfettante contro le verruche) e poi cominciavo a tuffarmi e rituffarmi di testa in uno stile che definivo carpiato, replicando un termine orecchiato in tivù. Quando cominciavo sentirmi un po' stordito facevo il percorso a ritroso: spruzzata sui piedi, giù il costume e su le mutande, jeans Fiorucci, t-shirt Fruit of the Loom, Converse All Star, treno per Sondrio e allenamento serale di basket.

Giocavo a basket continuando a pensare ai tuffi. Diversamente dagli altri sport, i tuffi non si propongono come metafora della vita reale, ma di quella possibile, sono il riflesso di un'utopia. Il tuffo perfetto non è infatti costituito dal coordinamento millimetrico di ogni parte del corpo in aria, unito all'assenza di spruzzi nell'impatto con l'acqua determina il voto impresso sulla paletta dei giudici. Tutto ciò è difficilissimo ma ancora non basta, quando io non ho mai saputo se le mie gambe si piegassero leggermente, compromettendo la freccia degli arti tesi nel perforare il bersaglio, come vedevo fare a un ciccione scomposto che si alternava al trampolino con me, e prima di lanciarsi in acqua emetteva un urlaccio. Il tuffo perfetto, qual è allora il tuffo perfetto?

Me lo chiedevo osservando gli altri nuotare dall'estremo limite prima del vuoto; non consideravano l'ipotesi che avrei potuto cascargli sulla schiena, peggio ancora se fosse stato il ciccione, che se non altro veniva anticipato dall’urlo. Ognuno sembrava fare mondo a sé, pesci in un acquario che solcano l'acqua senza preoccupazioni. L'unica cura del nuotatore è quella rivolta alla sincronia tra inspirazione ed espirazione, da eseguire in movimenti esatti, sempre uguali. Prima la torsione del collo, faccia fuori, aria dentro, collo riallineato e faccia sotto a saggiare il gusto del cloro, mentre l'aria fuoriesce da dove è entrata. D'altronde anche il tuffatore si sente sempre da un'altra parte, in un limbo tra cielo terra; una terra solo un poco più liquida, ma non cambia molto. Il tuffo perfetto, di nuovo: qual è il tuffo perfetto?

È il volo, ecco la risposta che alla fine e dopo molti anni mi sono dato. Ogni tuffo è un decollo. E anche il sublime Greg Louganis, il più grande tuffatore della storia, o perlomeno per la mia generazione, nello sprofondare nell'acqua tiepida di una piscina olimpica scontava un fallimento. Tutti in piedi ad applaudire, ma lui sapeva di avere fallito. La direzione di marcia nella sua testa avrebbe dovuto essere un'altra.

Come quell'angelo che sente di essere, il tuffatore sogna – io almeno continuo a sognarlo – di prendere slancio dalla flessuosità del trampolino e poi salire in alto, ancora più in alto, non basta, il tuffatore continua nella propria ascesa, ma quanto cavolo di energia cinetica ha incorporato pensano i nuotatori, per una volta distratti da qualcosa che non sia la conta del numero delle vasche. Quindi si fermano. Tolgono gli occhialini. Osservano il corpo del tuffatore che esce da finestroni fortunatamente lasciati aperti, e si dirige verso cirri sfilacciati. In culo alla legge di gravità!

Lo stesso destino della donna cannone cantata da Francesco De Gregori, seguendo il suo esempio, quando avessi realizzato il mio tuffo perfetto, non sarei stato richiamato dalla voce della terra, torna giù non fare il pirla! Avrei continuato a volare, di questo sono certo. Volato in cielo in carne e ossa, e senza fame e senza sete, e senza ali e senza rete...

O magari le ali ci sono e nessuno le vede, nascoste sotto felpe dei Los Angeles Lakers e camicie hawaiane e lupetti neri da esistenzialista corrucciato. Voi fate un po' quel che vi pare pensa il tuffatore, riprendete pure a nuotare che fa bene alla salute e corregge la scoliosi, ma io adesso volo via, seguendo leggi fisiche diverse da quelle che stanno scritte sui libri. Tenetevi lo stile libero, il dorso, la rana e pure il delfino. Il basket non era male ma tenetevi pure quello, assieme al curling e al tiro con l'arco, il ciclismo, le partitelle a calcio con i maglioni appallottolati al posto dei pali, il contadino che ti rincorre, ragazzini andate via e non tornate mai più, mi rovinate l'erba! Il Subbuteo, se riuscite a ritrovarlo in qualche mercatino dell'usato, è il bonus del venditore di pentole. Tenetevi tutto, ciao!

Ma allora i tuffi, oltre al volo e all'utopia, sono quanto di più simile al suicidio, e viceversa. In fondo anche il suicida è un angelo mancato, sa di avere ali nascoste, poco importa che il capannello di persone adunate attorno al suo corpo schiantato al suolo continuino a non vederle. Si concentrano sul fiotto di sangue che esce dall'orecchio destro, a intermittenza, e si espande sui cubetti di porfido striato, la chiazza si allarga a disegnare una di quelle figure che gli psicologi ti mettono davanti e poi chiedono: Cosa vede? Una fica enorme viene voglia di rispondergli, ma solo per farli contenti.

Poverino dice intanto l'unica che riesce a parlare, in genere è sempre una donna, gli uomini stanno chiamando l'ambulanza con gli smartphone, vince chi prende la linea per primo. Poverino ripete la donna. Deve essere una delle prime parole italiane che ha imparato, poi aggiunge qualcosa in ucraino che nessuno comprende, forse si tratta del frammento di una preghiera ortodossa. Meglio pulire subito le fa eco un'altra donna con accento valtellinese. Quando si rapprende il sangue è difficile da lavare, ci vogliono dei detersivi speciali che costano più degli altri.

giovedì 22 giugno 2023

Società avanzate

Tra le tracce della prova di italiano alla Maturità è presente anche una frase di Piero Angela. Scriveva il giornalista e divulgatore scientifico nel libro Dieci cose che ho imparato: "uno studio della Banca mondiale ha recentemente valutato che l'80% della ricchezza dei paesi più avanzati è immateriale, cioè è rappresentata dal sapere".

Io la Maturità l'ho fatta da tanto tempo, fortunatamente è andata bene, e adesso posso concedermi il lusso di andare fuori tema. Ad esempio aggiungendo che trovo bizzarra la locuzione società avanzate.

Per avere senso, all'aggettivo avanzato necessita infatti un complemento, la specificazione del luogo, o contesto, in cui avanzare. Che comunque deduciamo essere quantificabile; diversamente non ci sarebbero un prima e un poi, un avanti e un indietro. Le società avanzate avanzano in mondo numerabile.

E però un momento, Piero Angela ci ricorda che ciò che viene numerato dai socialmente avanzati, andando a costituire ricchezza, non ha corrispettivo materiale: è composto da sapere, dunque astratto.

Se ne ricava che le società avanzate devono coincidere con le scuole pitagoriche – il numero fine a sé stesso –, oppure che siano una solenne presa per il culo. Un modo aggiornato per dire il mio papà c'ha il cazzo più lungo del tuo, senza però calare le mutande.

Così a naso, propendo per la seconda ipotesi.

lunedì 19 giugno 2023

Il tutto e la parte, o su Berlusconi e gli italiani

Non è vero che il successo di Berlusconi derivava dalla sua capacità di rappresentare gli italiani. Nemmeno una minoranza, anche questo è falso. Berlusconi rappresentava piuttosto l'intero, quando erano, anzi sono gli italiani a disporre di una sola porzione, unita all'altra metà nella Grecia antica andava a costituire il symbolon, da cui l'odierno simbolo. Un oggetto che veniva spezzato per suggellare un accordo di qualsiasi tipo, e poteva essere rivendicato, o riconosciuto, attraverso il preciso incastro tra le due parti.

La truffa del famigerato patto con gli italiani, siglato a Porta a Porta il 18 maggio del 2001, consisteva dunque nel fatto che Berlusconi era Berlusconi anche senza gli italiani, mentre quest'ultimi avevano bisogno di lui per dire ecco, io da grande voglio diventare così (magari giusto un filino più alto). Il Cavaliere era infatti capace di azione efficace e spregiudicata, e contemporaneamente, nei rapporti personali, simpatico e un po' cazzone. Di queste qualità all'italiano medio manca la prima, come lo Zeno Cosini di Svevo non riesce a incidere su una realtà sempre più sfuggente, o per dirla alla maniera dei sociologi liquida.

Sennonché, nel frattempo, è subentrata una differenza rispetto al modello letterario dell'inetto alla vita. Quei personaggi tormentati avrebbero voluto fare bene, se non proprio il Bene, realizzare una qualche forma di talento, sarebbe bastato anche solo smettere di fumare. Ma per quanto Zeno ci provasse e riprovasse, non riusciva. Mentre all'italiano basterebbe, come Berlusconi, fare soldi, tanti soldi e soprattutto essere riconosciuto per strada. Magicamente però, non essendo tracciata la via per il successo sul navigatore satellitare di Android.

È forse l'unica novità antropologica degli ultimi decenni, a rendere del tutto inattuali anche gli altri modelli di inettitudine romanzesca – quelli di Moravia e Salinger ad esempio, o ancora prima la signora Bovary, Bartleby lo scrivano, Oblomov, il giovane dolorante Werther ecc. –, spostando i riferimenti sulla commedia all'italiana. Alberto Sordi? Sì, ma possiamo fare di meglio, trovare riferimenti ancora più precisi. In fondo Sordi ha incarnato lo smarrimento seguito a una guerra di quasi un secolo fa.

Provando a mettere a fuoco l'homo novus che si staglia sul nuovo millennio, viene così alla mente il personaggio di una formidabile canzone di Giorgio Bracardi. La strategia espressiva è basata sull'ellissi; non si tratta in effetti di un testo vero e proprio ma di segmenti verbali disarticolati, e sta all'ascoltatore ricostruire il tutto da pochi dettagli significativi (nella loro insignificanza) come appunto nel symbolon

Prendiamo il refrain, in cui Bracardi ripete con tono festoso, vibrante di un vitalismo acefalo: "io sono stronzo, testa de cazzo..." a cui segue un coro da stadio per voce sola. Perfetta simbolizzazione dell'italiano contemporaneo, almeno nella sua versione standard, senza optional culturali, curiosità emotiva verso ogni forma di diversità. Quello che segue i canali YouTube dove si corre a duecento all'ora in Lamborghini, assumendo che le centinaia di migliaia di follower avranno pure un corpo, una mano che preme sul mouse, una mamma che dice vieni è pronto da mangiare. Oppure cerca di intravedere quel po' di fica che Chiara Ferragni sempre promette e mai mostra.

"Io sono stronzo, testa de cazzo, oeohé oeohò / Io vado a zonzo, come ‘no stronzo, oeohé oeohò /Che felicità..." E potremmo andare avanti all'infinito, mettendo il brano in loop, non c'è molto da sondare in abissi emersi in superficie, come lo stronzo evocato nella canzone. Galleggia su un mare calmo solcato solamente da qualche gommone con troppa gente a bordo  gente solo un poco più abbronzata di noi aggiungerebbe Berlusconi, che così aveva definito Obama.

Mentre lui sapeva anche essere stronzo, come no, ma solo con chi non ricambiava il suo infinito bisogno di essere amato, che lo portava a essere "testa di cazzo" nei confronti di coloro che avvertiva come nemici, fossero Enzo Biagi, Santoro o Luttazzi. Agli altri regalava sorrisi e bigiotteria. Però sapeva fare: il bene come il male, termini spesso destituiti di senso nella sua concezione efficentista della vita, per cui via il latino dalle scuole e dentro informatica e inglese. Berlusconi sapeva arare e seminare dei suoi sogni la realtà, almeno questo va riconosciuto all'uomo prima ancora che al simbolo. Già che gli Zeno Cosini 2.0 continuano ad acquistare sogni già sognati, oheoé, oheohò.

sabato 17 giugno 2023

Dalle carrozze ai social e ritorno


Prima che le automobili diventassero le automobili, erano delle carrozze a cui avevano piazzato un motore davanti. Vediamo se così consumano meno biada dei cavalli, deve avere pensato l'inventore di quello strano aggeggio, e non cagano per strada. Poi le cose sono andate come sono andate, ma ci si è messo un bel po' per mettere a fuoco i caratteri specifici dell'invenzione.

Credo stia avvenendo qualcosa del genere anche per i social network. Il modello della fase aurorale, per quanto riguarda il nostro Paese, almeno, lo si può ravvisare nell'Amaca di Michele Serra. Il giornalista ha quale unico problema quello di condividere ogni giorno un suo pensiero sul mondo. Un mondo piccolo piccolo quello da cui scoccare la propria freccia, ma fino alla conta dei like gli utenti social ancora non lo sanno, e come Serra si avventurano in un giudizio sferzante sul Premio Strega, i funerali di Berlusconi, le crêpes Suzette alla Nutella... Qualsiasi cosa, con preferenza per l'attualità.

Essere epigoni significa però condividere anche il destino del modello originario, non le sole premesse. Ora, ad esempio, alle automobili viene di nuovo richiesto di non sporcare per strada (leggi: inquinare), come avveniva per le carrozze che imbrattavano gli Champs-Élysées. Vediamo allora come è evoluta nel tempo l'Amaca di Michele Serra, per prefigurare ciò che potrebbe accadere alla comunicazione sul web.

Dopo essere partita un po' in sordina, l'Amaca ha ottenuto un successo tale da guadagnare la prima pagina di Repubblica, dove è rimasta qualche anno prima di essere nuovamente declassata all'interno, tra i commenti che solo i più affezionati leggono. Insomma, senza entrare nel merito, ha seguito una parabola. Ascesa e poi declino puntualmente ricalcati dai social: ma guarda che cose brillanti scrive Tizio su Berlusconi, Caio del Premio Strega... guarda oggi guarda domani e poi finisci che non guardi più. O meglio, guardi altrove.

I giovani, che per definizione sono più irrequieti, volubili e scattanti, si sono stufati già da un pezzo, e quel poco di attenzione che sono disposti a concedere è limitato alle forme, i fenomeni potremmo dire. Non alla loro interpretazione. Hai un musetto o un culo fenomenale? Bene, eccoti il mio like in cambio del tuo selfie. Ma non starmi a raccontare la rava e la fava, io sono già al prossimo post. Dunque meglio Instagram di Facebook, per passare dalla teoria alla prassi.

Con tempi dilatati e passo incerto, è quanto stanno sperimentando anche le generazioni più vecchie; che poi saremmo noi e ci comportiamo come i nostri genitori quando gli abbiamo regalato il primo smartphone: all'inizio facevano un po' di casino con WhatsApp, ma alla fine si sono abituati. E l'abitudine porta noia, saturazione, ridimensionamento dell'entusiasmo iniziale. Non so esattamente da cosa provenga, ma l'effetto è quello dei balocchi natalizi arrivati all'Epifania: divertono molto meno.

Michele Serra, naturalmente, fin che lo pagano andrà avanti con le sue Amache, e probabilmente anche la maggior parte degli utenti social. Solo con minor frequenza, cura nella scelta delle parole da utilizzare, attenzione a ciò che scorre sotto a occhi sempre più ipermetropi. Come vecchie signore inglesi a cui manca il coraggio di confessare alle amiche che il tè col latte gli procura acidità di stomaco, hanno scoperto di essere intolleranti al lattosio. Molto meglio un Gin Tonic.

E a dirla tutta, neppure a me piace più tanto fare quel che sto facendo in questo esatto momento. Forse sono diventato anch'io allergico al lattosio, alla scrittura, ai dispiaceri e soprattutto al mio mondo sempre più piccolo, un mappamondo gonfiabile, ecco, dopo avere incrociato un chiodino. Dando per acquisito un effetto speculare nel lettore: A' Guido Hauser... mo hai rotto il cazzo!

Chissà, forse dovremmo ripartire dall'inizio, vendere l'automobile, chiudere gli account sui social, prenderci un bel calesse con un cavallo baio, anzi due, non vorrei si affaticasse troppo. E basta con il tè col latte alle quattro in punto del pomeriggio!

giovedì 15 giugno 2023

Canarini e avvoltoi, o sui social e la morte

 


Il post perfetto è quello da zero like. Lo sostengo, ma soprattutto perseguo, da molto tempo, senza esserci mai riuscito. Una moneta nel cappello del mendicante da qualche anima pietosa scivola sempre. L'ultima cosa che ho pubblicato su Facebook ci è comunque andata molto vicino, ancora un piccolo passo e precipiterò nella boccia del pesce rosso, dove le labbra si muovono senza produrre alcun suono. Perché rosso sono sempre rosso, non è bastato lo scempio del PD per farmi cambiare colore.

Pasolini sosteneva che morire, per lui, equivaleva a smettere di comunicare. Ma quella sui social è già un'assenza di comunicazione. Piuttosto uno di quei party dove si gira con un piattino e un bicchiere di plastica, la bocca troppo piena per parlare, se non a grugniti. Ciascuno ha portato qualche manicaretto da casa. Prendete e mangiatene tutti, queste sono le mie parole offerte in sacrificio per voi. Fate in fretta però, domani saranno già scadute, rancide, immangiabili.

Essere sgraditi su un social – ammesso e non concesso che i like rappresentino la misura del gradimento, e non invece voto di scambio – significa essenzialmente due cose: scrivere male, oppure essere altrove. Ma dove, quando da McLuhan in poi sappiamo che il mezzo coincide con il messaggio?

Un messaggio che fa di un abusivo un inetto, e di un inetto un cittadino con pari diritti e spazio per esporre la propria mercanzia, venite gente c'è posto per tutti! La bravura consisterà dunque nell’attrarre clienti, di più, amore, già che altra valuta non ne circola, poco importa se in forma surrogata.

Lo stesso delle giovani prostitute slave sulla statale dei Giovi. Dopo un minuto, massimo due che ti succhiano il cazzo rialzano la testa e ti dicono con sguardo severo, da maestra elementare che ti ha preso in castagna con la tabellina del sette: Tesoro, ancora niente...? Ti sbrighi a venire! E hanno ragione, perché per loro il tempo è denaro.

Un particolare che ci obbliga a ribaltare anche il tradizionale orgoglio maschile: essere lenti, prendersi tutto il tempo per provare e offrire piacere. Al suo posto velocità, leggerezza, intrattenimento svagato. Calvino aveva dato la risposta giusta alla domanda sbagliata. Non era la sagoma della letteratura successiva a essere prefigurata nelle Lezioni americane, ma quella di Facebook. Oppure cercare piaceri osceni e non remunerati, significati eccentrici. Più spesso entrambe le cose: inetti e abusivi.

Avere avuto conferma della mia inettitudine e abusività scrivendo di Berlusconi mi appare sintomatico. Lui l'uomo capace, perfino in morte, di attrarre consenso, uno share mostruoso per il suo funerale, secondo forse solo a quelli di Kennedy e Lady Diana. Ma ancora prima il politico del fare, anche sotto o sopra le lenzuola. Immagino i suoi orgasmi con le Olgettine in perfetto sincrono con i consigli degli acquisti.

A tutto ciò si sarebbe dato nel secolo scorso il nome di società dei consumi, e ora società e basta. Baricco la chiama The Game, e per una volta penso abbia ragione lui.

Ma allora la morte di cui parlava Pasolini – assenza di comunicazione, ripeto – diventa desiderabile, un silenzio a cui mi sento ora più vicino che mai. Confortato dal pensiero che non vi avventerete sul mio cadavere per consumarlo come avvoltoi. Almeno un elemento di bellezza lo riconosco ai social: siamo canarini che emettono gradevoli suoni, il bel piumaggio esposto nei selfie. Troppo sazi per mettersi in coda al momento dell'eucarestia.

mercoledì 14 giugno 2023

Specchio o rappresentazione? Sul lutto nazionale per la morte di Berlusconi

 


Che un gioco è solo un gioco i bambini lo sanno da sempre, e per sospenderlo dispongono di una parolina magica. Alimo. Poi si potrà riprendere, ma con calma, intanto andiamo a vedere cosa vuole la mamma, ha chiamato con uno strillo dal terrazzo facendo vibrare i gerani.

Prima di riprendere ad azzuffarci sull’eredità politica di Berlusconi – ma lo sappiamo, vero, che anche il nostro è solamente un gioco, la vita altrove? – pronuncio il mio alimo. Fermi tutti! Facciamo un passo indietro, nella vischiosità del reale. Il luogo in cui vanno collocate le due domande che maggiormente circolano in queste ore: funerali di stato, lutto nazionale?

Nel primo caso mi sembra che la risposta stia nei fatti. Se muore uno zio un poco scapestrato si va comunque al funerale: era parte della famiglia, e che cavolo, magari le sue mattane ci divertivano pure. Ciao zio facciamo scrivere sul manifesto funebre, ti ricordano i nipoti e i cugini di Sondrio.

Berlusconi era tutt'altro che scapestrato, ma nonostante la sua divisività politica (e morale) ha rappresentato per quattro volte lo Stato italiano in qualità di Presidente del Consiglio, e in ciascuna circostanza sostenuto da un robusto consenso democratico. Dunque i funerali di Stato mi appaiono un credito simbolico che gli spetta, se l’è guadagnato sulla base di valutazioni oggettive.

Il lutto nazionale mi lascia invece perplesso. Intanto, il concetto di Nazione è ambiguo: una rappresentazione più che un dispositivo operante, strutturato come lo Stato. Ma una rappresentazione di che tipo? Speculare, ossia la Nazione è lo specchio (se non assoluto perlomeno statistico) di chi la compone, oppure è una proiezione idealizzata, un tendere a? Ad esempio, tendere verso un’idea di bene comune e di virtù.

Se la risposta a questa seconda domanda che, per l'appunto, non possiedo, stesse nella Nazione a riflesso del Paese reale, il lutto nazionale per la morte di Berlusconi mi sembra ugualmente legittimo. E ciò malgrado siano stati in molti a rifiutare l'ombra trapuntata da capelli posticci nello stagno, evitando di precipitare all'interno come Narciso.

Il Paese, infatti, si dice, è un corpo unico, e si deve pure ammettere che dopo Alberto Sordi c'è stato un altro arci italiano, una maschera aggiornata della commedia dell’arte. Si chiamava Silvio Berlusconi. In questa sua congruenza alle viscere popolari, bene e virtù, era inevitabile, sono stati sostituiti da caratteri di altro tipo. Prima ancora che da un sentire soggettivo e di conseguenza discrezionale, vengono indicati dai numerosi processi di cui è stato imputato.

Non sempre, certo, anche per via di cavilli legali e leggi come si ripete ad personam, le accuse sono state convertite in condanna. Perlopiù le imputazioni si sono sgonfiate, e non possiamo escludere l’argomento dell’accanimento giudiziario. Basterebbe però un solo reato accertato, se ci spostiamo ora all'ipotesi della Nazione come rappresentazione ideale, una sola ombra, per dissuadere dai funerali di Stato. E qui di ombre ce sono davvero tante...

Ma l'incerta pendola del giudizio ci riporta al caso precedente, la Nazione specchio. Quale migliore occasione per riaffermare non che la vita continua, quello era il modo di ragionare dei nostri nonni, aggiornato nella formula anglofona the show must go on. Giriamo quindi la pellicola in senso inverso: dall'arzillo vecchietto che carezza amorevolmente Dudù, via via fino all’imprenditore spregiudicato e gagliardo, l’amico di Craxi, il datore di lavoro di Mangano, e vediamo quel che appare.

Qualcosa si muove, un bruco... no, ecco, l'immagine si precisa: è un trenino. Chi se ne frega del genere sessuale e l'età dei convogli umani, se minorenni, non minorenni, parenti di Mubarak o commercianti di sogni. Le figure sono sfumate, come nel finale della Dolce vita di Fellini. Non le giudichiamo. Le guardiamo, solamente. Ci guardiamo per chi ha la vista più acuta. Stanno sfilando sulla spiaggia in un’alba opaca, è facile confonderla col tramonto. E nelle orecchie un ritornello: Olelè, olalà, faccela vede’, faccela tocca’...

Diceva il compianto Freak Antoni che quando si tocca il fondo, quello è il momento di cominciare a scavare.

lunedì 12 giugno 2023

La Cattiva Novella

Dico anche la mia, ci provo almeno. Intanto: mi dispiace molto, per quanto non ho mai creduto alle promesse politiche di Berlusconi. O per essere più precisi non ho voluto crederci, trovando ripugnante la visione del mondo da cui erano sostenute, l'antropologia classista di chi dà del tu al cameriere mentre gli versa lo champagne. Ma se la figlia ha bisogno di una spintarella per un casting a Rete 4, questo è il numero del mio segretario personale. Chiami pure quando vuole.

Ciò nonostante qualcosa dell'uomo aveva fatto breccia, più che crederlo lo sperimentavo, lo replicavo. Uno specchio nel quale non so riconoscere l'originale dal riflesso: Berlusconi, in doppio petto blu a bordo piscina di una delle sue infinite ville, oppure io in mutande Tezenis conficcato dentro a un condominio di Sondrio, è stato costruito quando Berlusconi già cantava sulle navi da crociera. Così diversi, così uguali nella convinzione di essere entrati in un evo messianico in cui la morte è finalmente stata sconfitta – quella del corpo proprio: antica hybris in veste moderna, con bandana.

Alzi la mano chi non è sobbalzato alla notizia di oggi, in fondo del tutto prevedibile per un uomo della sua età, nelle compromesse condizioni di salute di cui i notiziari erano prodighi di dettagli clinici. Eppure le parole entravano da un orecchio per uscire dall'altro. Berlusconi non sarebbe morto mai. Punto. E io con lui. Al limite, come Arturo Fonzarelli in arte Fonzie, o the Fonz nella versione originale di Happy Days, ci saremmo trasferiti in California.

E invece non ha mantenuto l’ennesima promessa, una promessa d'immortalità. Quella sì me l'ero bevuta fino all'ultima goccia. Cosa importa che, per una volta, non l’avesse pronunciata con il cerone sul viso, tutti avevano comunque sentito, il contratto con gli italiani stipulato in tacita forma. Una revocatio mortis che è durata fino alla tarda mattinata di oggi, quando cominciano a trillare gli smartphone, è un continuo passaparola, hai sentito... davvero... dio bono, ma sei sicuro?!

Alle 9.30 Silvio Berlusconi è morto come muoiono uomini e cani. Solo curato un poco meglio, in conseguenza della progressiva privatizzazione della Sanità pubblica a cui ha dato un decisivo impulso, Zangrillo che gli scodinzolava attorno come il fedele Dudù. Bastava starnutire, possedeva l'effetto di un fischio, per richiamare la muta dei primari al suo capezzale. Mentre la visita dal medico di famiglia va prenotata con minimo tre giorni di anticipo, prego lasciare messaggio in segreteria. Grazie.

La vera notizia del giorno mi sembra dunque questa: non che è morto Berlusconi e nemmeno Francesco Nuti, pace all'anima di entrambi, ma che morirò anch'io, se è morto il Cavaliere moriremo tutti. La Cattiva Novella è compiuta. Ma precauzione vuole che si attenda ancora tre giorni, prima di consegnare al fiume ogni residua speranza. Si sa mai...

sabato 10 giugno 2023

Luca Doninelli, o sull'amicizia romanzesca e la social indifferenza

In un'intervista televisiva giustamente divenuta famosa, Enzo Biagi invitava Pasolini a dire tutto ciò che desiderava, qui non ci sono censure, parli pure liberamente. No rispondeva Pasolini, sono io stesso a censurarmi. La natura del mezzo me lo suggerisce, e il mio senso di responsabilità converte questa consapevolezza in imposizione. C'è infatti qualcosa di intimamente antidemocratico nella tivù pubblica, una voce che cade dall'alto, un'asimmetria.

Riprendendo la sua intuizione, potremmo ipotizzare che i social rappresentino un superamento in senso democratico della comunicazione televisiva. In fondo qui ci chiamiamo amici e non pubblico, e la simmetria, già a partire dall'impaginazione non gerarchica degli interventi, unita al riverbero emotivo dei cuoricini e dei like che cadono a pioggia, sono per definizione il tratto qualificante dell'amicizia. Uno vale uno.

Ma allora perché più passa il tempo, più avverto la mia presenza sui social con la stessa recalcitrante cautela di Pasolini? Dire qualcosa va bene, sporgersi un poco, di tanto tanto, pure. Ma arrestarsi un attimo prima che la parola divenga realmente e radicalmente amichevole, e cioè rivolta a un tu che ne avrà riguardo, perfino nel caso si risolva in sciocchezza. Questo è l'atteggiamento che vado maturando, anche se non mi è ancora del tutto chiara la ragione.

Una possibile risposta è contenuta nella bella collana S-Confini, diretta da Fabrizio Coscia per l'Editoriale Scientifica. È anche lui mio "amico" su Facebook, abbiamo più o meno la stessa età, anche se nella vita reale non c'è mai stato nessun contatto, solo qualche svelto commento in calce ai reciproci post. Ma confida nella saggezza dei cani e di un numero limitato di umani, e tanto basta.

La premessa del progetto editoriale di Coscia corrisponde all'invito di Enzo Biagi: non censuratevi, dite tutto quello che pensate sembra essere il sotto testo, lo sconfinamento a cui esorta i suoi autori. Non romanzi composti da trame narrative accattivanti, ma, come si usa dire adesso, oggetti letterari che seguono percorsi accidentati, scavi biografici e civili, epifanie verbali, confessioni. Dici poco!

A differenza di Pasolini, loro però gli danno retta: quei testi difficilmente classificabili sono quanto di più vicino al termine greco parresia, che non ha traduzione nelle lingue moderne per dire la verità fuori dai fatti, ma nella voce che la esprime e, con essa, mostra la faccia che proverbialmente va aggiunta per essere creduti. Ma sarebbe forse più giusto intendere l'intero tumulto del corpo. La carne, in un moto retrospettivo, torna a farsi verbo.

Compatibilmente con i miei occhi malandati, sto leggendo alcune pagine dell'ultimo bellissimo volume pubblicato nella collana. Si intitola Panico ed è a firma di Luca Doninelli. E così la nuova domanda diviene: perché Doninelli può dire, senza autocensurarsi, ciò che pensa e soprattutto prova? Ad esempio la paura, di più, il panico da lui sperimentato in numerose occasioni, dirlo a interlocutori del tutto indifferenziati e potenziali, nemmeno un selfie in costume sul lungomare di Bellaria. E perché invece io avverto un limite speculare nei confronti di chi chiamo amico?

Per una volta, penso di possedere la risposta da affiancare ai tanti interrogativi. Perché chi prende in mano il testo di Doninelli (io, ad esempio) sta facendo una scelta, mentre il gesto di scorrere una bacheca social corrisponde a trovarsi in casa migliaia di intrusi, come quelle feste a cui ci si imbucava da ragazzi solo per scroccare qualche Ceres e vedere se si rimediava una pomiciata. Si passava di là e si è sentita una canzone dei Duran Duran fuoriuscire dalle finestre socchiuse.

Vogliamo fare due conti? Io ho su Facebook più di 3500 contatti. Tra questi, provo un sentimento di amicizia autentica nei confronti di una decina soltanto, quindici al massimo di cui la metà sono conoscenze non virtuali. Salgono a un centinaio se dall'amicizia facciamo un downgrade alla simpatia; che è pur sempre un sentire consonante. Ma verso gli altri, come mi dispongo io e soprattutto come si dispongono loro nei miei confronti?

Se traduciamo in termini percentuali, il 97% delle persone che si ritrovano le mie parole non scelte e, probabilmente, neppure gradite sul display di un PC o di uno smartphone, mi avvertiranno nella migliore delle ipotesi come estraneo, e nella peggiore gli starò sul cazzo. Un sentimento ovviamente ricambiato, che non mi esime da un comportamento minimamente rispettoso nei loro confronti. Mi censuro, insomma, come faceva Pasolini da Enzo Biagi.

Se dunque cerchiamo ancora la verità singolare, la parresia che sta nei corpi prima ancora che nelle parole, dobbiamo continuare a sfogliare un libro (scelto, pagato, magari consigliato da un amico vero), secondo l'illusione di Holden Caulfield che lo portava a desiderare di telefonare a casa dell'autore di un romanzo appena terminato, come se in effetti fosse anch'egli suo amico. Guardare lontano per vedere ciò che ci è prossimo. Mentre dagli amici social mi guardo io, che dai nemici mi guardi dio. O nel dubbio Guido Crosetto. 

giovedì 8 giugno 2023

Uriele e il Premio Strega

La quantità di interventi sulla cinquina del Premio Strega che vedo scorrere sulla bacheca di Facebook – dunque sono scritti dai miei "amici", le persone con cui dovrei avere più cose in comune – mi fanno ripensare a quella volta che a Torino, nei corridoi affollati di Palazzo Nuovo, trovai il coraggio per invitare fuori una compagna di corso, era da qualche tempo che incrociavamo lo sguardo a lezione.

Lei accettò, caspita, bingo, wow – ACCETTÒ! Una delle ragazze più carine della facoltà di Filosofia, perfino Vattimo sembrava apprezzare la sua falcata sicura e dinoccolata che non provocava alcun rumore al contatto col suolo, come se possedesse invisibili ali...

Appuntamento alle venti e trenta. Profumo. Felpa Stone Island. Pizzeria. Dove per tutto il tempo mi parlò di come fosse importante rivolgersi all'arcangelo Gabriele per superare gli esami, senza però trascurare Michele, Raffaele e Uriele, che per così dire sono i capi banda. Accompagnava le parole (forse un po' troppo alte nel volume, dagli altri tavoli si giravano verso di noi) con ampi gesti delle mani, e io annuivo sorseggiando birra chiara e 7Up. Credo l'avessi ordinata per via della canzone di Guccini.

Allora, hai capito: Gabriele, Michele, Raffaele e Uriele, mi raccomando tutti i giorni, meglio a stomaco vuoto. Mentre Simiel, Orifiel e Zachariel si possono invocare anche solo di tanto in tanto, senza comunque lasciare trascorrere più di una settimana tra una invocazione e l'altra. Tutto chiaro? Sì sì.

Quando la serata terminò insieme all'ultimo sorso di birra, ormai completamente sgasata, e 7Up, ci lasciammo ripromettendoci di rivederci presto. Magari in una pizzeria diversa, qui la quattro stagioni era un po' bruciacchiata. Allora ciao. Ciao. Ti chiamo io. Cosa che naturalmente non feci mai.

lunedì 5 giugno 2023

Il piccolo giudice

Gli inevitabili commenti al delitto di Senago, nelle conversazioni al bar o in quelle più copiose sui social – un bar solo un po' più grande, senza Cedrata Tassoni – stanno prendendo una piega inaspettatamente tecnica. Si discute se sia da considerarsi doppio omicidio, quanti mesi avesse il feto della vittima, da ciò ipotizzando lo svolgimento del processo sulla base di una fantasiosa riedizione del codice di procedura penale.

Ma cosa siamo diventati, tutti giuristi?

Due cose mi appaiono evidenti: 1) no, non è doppio omicidio, un feto non è una persona, per quanto a sette mesi avrebbe potuto sopravvivere anche fuori dal corpo della madre; 2) sì, il fatto che Giulia fosse incinta e, appunto, in uno stadio così avanzato, comporterà per l'assassino un aggravio di pena.

La misura delle aggravanti è però questione talmente delicata, oltre che controversa come è sempre il diritto, soggetto a interpretazioni, cavilli e giurisprudenza, per la quale lo stesso magistrato dovrà consultare voluminosi tomi, prendersi tutto il suo tempo prima di stabilire la giusta calibratura tra colpa ed espiazione. Che nei successivi gradi di giudizio potrebbe essere ribaltata.

Quasi rimpiango i tempi generalmente estivi – un periodo in cui la politica si eclissava senza dare testimonianza di sé al Papete –, quando alla notizia dei delitti più truci si auspicavano pene di uguale impronta, fino a quella definitiva: Te lo dico io, a questo mascalzone qui dovrebbero dargli la pena di morte!

Ovviamente erano cazzate, ma cazzate emotive. Rivelavano un sentire della pancia che dava, come si dice, fiato alla bocca, per non darlo al sedere. Ciò che dalla bocca adesso sgorga è invece una compiaciuta presunzione di onniscienza, da lì raggiunge la tastiera secondo il fortunato slogan del Movimento 5 Stelle: uno uguale uno, che in termini pokeristici diventa piatto ricco mi ci ficco. Di qualsiasi cosa si parli aggiungo al buio la mia fiche.

E così oggi giochiamo al piccolo giudice come ieri, quando si dibatteva di vaccini, si giocava al piccolo medico, o al piccolo geopolitico all'invasione russa dell'Ucraina. Un esercizio fino a pochi decenni fa limitato ai mondiali di calcio, occasione nella quale i maschi dai dodici anni in su diventavano tutti CT della Nazionale: Quel Cabrini lì non mi sembra tanto in forma... Ma accadeva solo un anno ogni quattro, per un paio di mesi scarsi.

Ora è invece disposizione permanente: non solo per i maschi e per il calcio, ma nei confronti di qualsiasi altra cosa. Importante è mostrare di pensare con la propria testa, essere spontanei, creativi, soprattutto creativi. È quanto replicano piccate le neo mamme quando la maestra, timidamente, fa notare che il figlio non studia.

Suggerisce Umberto Galimberti che delitti del genere fanno da specchio a un sentire a-patico sempre più diffuso, dove l'alfa privativo disinnesca la percezione delle emozioni nell'altro, con cui si smette di risuonare. E se non sento le tue emozioni finisco col revocare anche la comune radice umana, come avviene nei conflitti militari dove le bombe piovono da imperturbabili droni.

A me sembra che anche commenti del genere, su scala di gravità certo attenuata, restituiscano la stessa fotografia. So tutto io, ma non sento ciò che so, o, meglio, penso di sapere. Quando sarebbe bastato posare un piccolo metaforico fiore reciso, se preferite due. E poi andare via senza aggiungere nulla. 

sabato 3 giugno 2023

Cimitero degli elefanti

Sempre più spesso mi capita di guardare ai social come a un cimitero degli elefanti. I giganti grigi, ormai vecchi e sfiniti, ci vanno a morire in solitudine, tra gli scheletri degli antenati. E così le parole che sempre meno ci diciamo nella vita reale: si accasciano, intransitive, in un ultimo acuto, un canto del cigno. Cigni ed elefanti, che curioso ossimoro... Ma a differenza dell'illusione che ridesta Violetta Valéry dal capezzale  "in me rinasce m'agita insolito vigore. Ah io torno a vivere!" , le nostre parole non si estinguono tra le braccia pietose di Alfredo. Piuttosto in quelle di qualche bracconiere che sa dove trovare le lunghe zanne. Nelle tiepide serate estive, un ciondolo d'avorio fa ancora la sua porca figura.

giovedì 1 giugno 2023

Cartella clinica

Eccomi di nuovo qui, con tutti i miei acciacchi. A causa loro non sono in grado di fare sport, magari arrancare su un tapis roulant con indosso dei fuseaux fosforescenti, l'orologio che conta le pulsazioni, lo fanno ancora molti miei coetanei. Di solito sono gli stessi che quando li incontri ti intrattengono con le loro vanterie sessuali. Io zitto, annuisco senza dire nulla, figurati se rilancio su quel versante; e poi per scopare bisogna essere perlomeno in due. Quindi leggere, eliminiamo quella sopravvalutata attività con cui si alimenta il serbatoio delle citazioni, un recente distacco della retina me lo rende difficoltoso. Quanto all'alcol, con le benzodiazepine è altamente sconsigliato. Tiriamo dunque una bella riga anche sui gin tonic. Li ordinavo, in numero comunque mai superiore a tre, al Caprice, un night club di Morbegno dove ero diventato amico del buttafuori, sulla coscia ha fatto tatuare la scritta Dio Patria e Famiglia. Mi è inoltre difficile fare lunghi tragitti in auto, e non va molto meglio con il camminare. La podologa non ha ancora compreso cosa esattamente non va, e dunque, precauzionalmente, stralciamo le lunghe passeggiate di un tempo, senza però ricadere nel versante opposto. Dopo un po' che sto sdraiato supino comincia infatti a dolore la zona lombare; ma in fondo rientra nella norma penso, considerata la collocazione della mia ernia al disco: L4 ed L5, viene puntualizzato sul referto della risonanza magnetica. Vediamoci allora una bella serie tivù! Macché, negli ultimi tempi mi dà fastidio anche lo sbrilluccicare prolungato dei pixel del televisore. Non mi rimane che posare l'indice sull'icona blu presente sullo smartphone, e, dopo che si è spalancata accogliente la bacheca di Facebook, scrivere un nuovo post. Qualcosa ci si inventa sempre. Solo che prima di iniziare a digitare mi scappa l'occhio, quello semi sano, sul post di qualcun altro; ovviamente non lo leggo ma inizio a odiare chi l'ha scritto. Ma tu guarda come la gente butta via il proprio tempo prezioso… Invece di fare ciò a cui io mi appresto per esaurimento delle opzioni, come quegli allenatori che mandano in porta un terzino, dopo che il portiere è stato espulso per uscita pericolosa, potrebbe lui, o lei, giocare a bocce, ping pong, mini golf, palla basca... Va be’, con la palla basca ho un po' esagerato, lo ammetto. Meglio scucire una cinquantina di euro – che saranno mai cinquanta euro? – e darci dentro a lato di un distributore periferico della Esso; l'odore di benzene si intrufola nelle narici, segue quello di lattice, lubrificanti chimici, dolcemente avvolti dal lucore notturno dei neon, che ricordano una pellicola di Nicolas Winding Refn. Ma in effetti potrebbe trattarsi di una persona iscritta a Comunione e Liberazione, certe cose loro non le fanno. Leggere allora The Waste Land o un fumetto di Paperinik, al baretto dell'oratorio ordinare vodka tiny; si tratta del cocktail preferito da Bond, James Bond, peccato che al Caprice non lo sapessero fare. Per fortuna c'era Miroslava, con cui era davvero un piacere conversare di malattie (una cartella clinica, la sua, di tutto rispetto) e trattori russi che solcano una terra magra, è già tanto se riesci a estorcerle qualche solanum tuberosum, meglio nota come patata. O ancora: incamminarsi nel parco dei Bordighi, dove si vedono i cuccioli di capriolo e si ode il perforare forsennato del picchio rosso; stare sdraiato o, di nuovo, sdraiata con un filo d'erba in bocca a non fare un cazzo; suonare il basso elettrico che ho iniziato a studiare senza mai andare oltre a un giro di blues, in quell'afflosciarsi di ogni slancio della volontà che mi rende simile a un abito da sposa, la sera dopo la cerimonia; raggiungere un ristornate a palafitta sul mare a bordo di un automobile decappottata con i Red Hot Chili Peppers a palla; o anche solo guardare un bel film – io avrei voglia di rivedere Les vacances di M. Hulot – sprofondato sulle poltroncine di velluto porpora di una multisala a caso, senza più bisogno della mascherina. Il bizzarro modo in cui Tati esegue il servizio a tennis, come se prima infornasse una pizza, sbaragliando ogni avversario della pensione bretone affacciata sull'oceano, in cui scivola silenzioso con la pipetta in bocca di sbieco, mentre sax, pianoforte e xilofono si passano il testimone nel replicare il tema musicale di Alain Romans. Invece di perdere il tempo su Facebook, chi ci scrive in sana e robusta costituzione potrebbe infine innamorarsi di me, perché no, eviterebbe i soldi dell'abbonamento a Meetic, secondo quella vocazione crocerossinesca che nei manuali di love coaching viene attribuita alle donne. In fondo, non credo che baciare mi sia impedito, anche se prudenza vuole che prima controlli sul disclaimer dei farmaci. E se invece si trattasse di un uomo? Beh, nessuno è perfetto. Guardate come sono conciato io…