sabato 31 ottobre 2020

Esclamazioni

In questi giorni, avendo pochissimo da fare, ho cominciato a pedinare il mio linguaggio, cercando tra gli inciampi verbali delle tracce di me. Una detection che ha portato a un primo indizio, nel quale costato che le mie esclamazioni si limitano a tre. In ordine di ricorrenza:

1) accidenti!, per commentare un fatto ordinario a cui fingo di reagire con stupore, ma in realtà mi lascia indifferente;

2) cazzo!, evento realmente inaspettato che mi tocca emotivamente; nel fondo però non mi scuote, e viene in genere scordato dopo pochissimo tempo;

3) Cristo!, se il contesto è formale, oppure, lo confesso, una bestemmia digrignata a mezza bocca, meglio se non mi sente nessuno; ma sempre per esprimere sorpresa e profondo disappunto per ciò che accade, che sconfina in rabbia non così rapida a sbollire.

In ogni caso, poca roba, poca davvero (accidenti, anzi cazzo!), che diviene carestia lessicale per chi con le parole ci ha anche campato. Quale proponimento per il futuro – il foglietto che il bambino invia a Gesù con le buone azioni di cui si fa carico, in cambio della Playstation –, ho così deciso di rinverdire il mio guardaroba di esclamazioni e improperi, prendendoli a prestito da persone che ho conosciuto, film, personaggi letterari; insomma un po’ qui e un po’ là. Non stupitevi dunque se nel futuro mi sentirete pronunciare:

corpo di mille balene! (Braccio di Ferro); per il Mar dei Sargassi! (Braccio di Ferro); per le anguille delle Antille! (Braccio di Ferro); che mi venga il colpo della strega! (Strega Salamandra); accipigna! (Tonio Cartonio); per la barba di Giosafatte! (Tex Willer); corna di centomila diavoli zoppi e guerci! (Tex Willer); satanasso! (Tex Willer); per tutti i tamburi di Darkwood! (Zagor); caramba y carambita! (Chico); per tutti gli intrugli di mio nonno farmacista! (Chico); accipuffa! (i Puffi); acciderbolina! (Ned Flanders); non mi sono mica fatto le fottute elementari per niente! (Chef di Apocalypse Now); per la barba di Odino! (Thor); per tutto l'oro del Klondike! (Zio Paperone); Giuda ballerino! (Dylan Dog); shalbat! (Mork); per Toutatis! (Asterix); grunf, gasp, gulp! (Paperino); merde (Pierre Jacques Étienne Cambronne); merdaccia! (Fantozzi); sangue di Buddha! (mio nonno Pinin); dio campanile! (mio nonno Cechin); eh la Madooona! (Renato Pozzetto); zio cantante! (un mio compagno delle elementari); chiappala chiappala (Max Vinella); ostregheta! (nessuno in particolare, ma mi è sempre piaciuto); ciao pep! (un mio compagno delle medie); ollapeppa! (mia nonna Celeste); ifix chen chen! (Gabriel Pontello); pofferbacco! (Gatto Silvestro); ciumbia! (un panettiere di Milano); oh Madonna benedetta dell'incoroneta di Foggia cinofila! (Lino Banfi); maremma maiala! (un panettiere di Piombino); d’ho! (Homer Simpson); porco dighel, porco Diaz, porco zio e simili espressioni per evitare la bestemmia (andavano per la maggiore all’oratorio di San Rocco); porca l’oca e perdiana e perdinci! (la maestra Maccarone); caramba che sorpresa! (Raffaella Carrà); miiiii! (il mio amico Michele); oh my God! (l’attrice di un film porno quando John Holmes si sfila le mutande); belin! (Fabrizio de Andrè); ehiii… (Arthur Fonzarelli, in arte Fonzie); allegria! (Mike Bongiorno); dio caro! (le ragazze provenienti dai paesi nei primi anni ottanta); eh che c'ho scritto Jo Condor?! (Jo Condor); putanghera! (mia nonna Maria); perdirindindina! (Tino Scotti nel carosello dei confetti Falqui); stai fresco! (Dante Alighieri); boia del mund leder! (Burilla); ohibò! (Totò); che mi prendano a calci in culo con i ramponi da ghiaccio se quella non è la cosa più fottutamente strana che io abbia mai visto! (Bustone).

E ora sorprendetemi pure, ho parole per ribattervi. (Ma ribattere a chi, quando è un mese buono che non incontro nessuno...)


La cultura, o sulla semina e la raccolta

Quando non scrive romanzi Baricco è bravissimo! Ricordo, ad esempio, un suo articolo di alcuni anni fa, in cui suggeriva che per sostenere la cultura (qualcosa che non sta nel mondo tra migliaia di altre cose, quali il filo interdentale o i doposci pelosi, ma che fa mondo), per la cultura non bisogna offrire prebende a teatro o festival o corporazioni più o meno engagé, ma agire su internet e televisione.

Dati statistici alla mano: ottanta italiani su cento non vanno a teatro neppure una volta all’anno, mentre il 60% non legge nulla, neanche la guida del telefono che non viene più inviata. Quanto ai musei, lasciamo andare, non vado a controllare perché sono già scoraggiato così…

In ogni caso, la cultura non rappresenta uno stagno in cui un’élite dagli squisiti gusti si rimira, e come in una vecchia canzone di Gaber può finalmente gioire: “quando leggo Hegel sono tutto compreso. Non per Hegel, naturalmente, ma per il mio fascino di studioso.”

In fondo è un riconoscimento, un complimento se aggiungiamo che il pubblico del teatro somiglia a un minimo orto umano dalle belle melanzane, i pomodori grassi e maturi, pronti per la raccolta. Una coltura già bella che coltivata. Diversamente, il nostro Paese, a fronte anche delle innumerevoli scemenze che possiamo leggere sui social network, urge di una nuova semina, di istruzione e non di contemplazione.

Pensiamo al recente grido di dolore pronunciato da Emma Dante, per la quale chiudere i teatri equivale a “dichiarare guerra alla cultura”. È un’iperbole enfatica e senza fondamento, una sciocchezza insomma (qualcuno spieghi alla Dante cosa sta succedendo negli ospedali), e però una ragione laterale, metonimica, gliela possiamo concedere: è almeno quarant’anni che abbiamo dichiarato guerra alla cultura, da quando in Rai non ci sono più autori come Umberto Eco, oppure il benemerito maestro Manzi.

Perché allora non ricorrere a forme concrete per incentivare la cultura, la cultura in senso antropologico e vissuto, la cultura che non chiede allo specchio ogni mattina: specchio specchio delle mie brame, chi è il più colto del reame?

Me ne vengono in mente un paio, ma il discorso è aperto. Intanto, maggiori fondi alla Rai per produrre programmi culturali; e che si lasci una buona volta la sottocultura alle reti commerciali. Quindi, alle stesse reti commerciali, sgravi fiscali per programmi con riconosciuto valore formativo. Contemporaneamente, si potrebbe finanziare quei canali su YouTube (penso a Barbasofia, dell’ottimo Matteo Saudino) in cui si cerca di fare, con mezzi poveri e di circostanza, della divulgazione culturale.

Per finire la scuola, scuola, scuola, questa parola dovremmo ripetercela come un mantra, e senza pregiudizi verso la didattica a distanza. Va benissimo anche il teatro, agevoliamo pure il settore, non sia mai detto che un Enrico IV abbia fatto male a qualcuno. Magari non durante la peggiore pandemia degli ultimi cento anni, ecco.


venerdì 30 ottobre 2020

Cui prodest?

George Steiner, dopo una vita di studio accanito e setaccio di ogni aspetto dell’umano scibile (pare che a sei anni già parlasse di Platone in greco antico, passando poi, nelle conversazioni col padre, al latino se l’argomento mutava alla storia romana, o all’inglese nel caso dell’opera di Shakespeare), George Stainer espresse infine un profondo scoramento: ma ha senso, ciò che faccio… Sono forse diventato, grazie ai miei studi, una persona diversa e migliore?

Ricavava il suo dubbio – la cultura non serve niente (semplifico) – da quanto riverbera dal pozzo oscuro del Novecento, con i militari nazisti che ascoltavano i deliziosi quartetti di Brahms, leggevano Goethe prima di addormentarsi, scrivendo lettere tenerissime ai figli; ma poi la mattina si recavano al lavoro ad Auschwitz o Buchenwald: Quanti dobbiamo gasarne oggi? chiedevano ancora assonnati al collega.

E che la storia si ripeta, prima come tragedia e poi come farsa, lo possiamo constatare in questi giorni: a cosa sono serviti i capolavori artistici percorsi dallo sguardo miope e attento di Sgarbi, quando i commessi del Parlamento lo trascinano fuori perché non vuole indossare la mascherina?


giovedì 29 ottobre 2020

Ulalalà

 


Prendere esempio dai francesi sulla scuola? Mettiamola così: un popolo che ha 70.000 contagi e chiama il computer ordinateur, cosa cazzo vuoi ne capisca di didattica a distanza; santa grazia se hanno scoperto, ma da poco, Space Invaders, una primizia tecnologica da far squittire il loro proverbiale ulalalà! Quanto all’Azzolina, temo sia rimasta ai cavallucci di legno.

Il fantasma Formaggino, o sulla regressione cognitiva di un intero continente

 


I francesi chiudono tutto tranne le scuole, con le tifoserie da social network a cui non sembra vero: bravi, bis, è così che si fa: la cultura tout d'abord! (e come se la didattica a distanza fosse incultura, ma lasciamo andare...).

Intanto, i campani e i lombardi e qualche regione ancora che ho scordato, chiudono le scuole superiori ma lasciano aperti i bar, almeno fino allo Spritz delle diciotto; e sono altre tifoserie a esultare, o, che poi è lo stesso, a spernacchiare: terroni del cazzo, abbasso i francesi mangia lumache, buu!

Alle diciotto, i tedeschi, stanno dove stanno e però fanno un saltino, poi una giravolta, falla un'altra volta, mentre gli inglesi dicono trentatré, anzi thirty three. Allora uno legge, ascolta tutti, ma a un certo punto gli viene un dubbio... E se la smettessimo con queste comparazioni idiote, che ne dite?

La verità – quella suggerita dai numeri, almeno – è che l'intero Occidente dello stramaledetto virus non ha capito una cippa, e più che lo strombazzato modello Italia (magari in Corea ci sarebbe qualcosina da imparare) vengono in mente i proverbiali italiano, inglese e francese delle barzellette, ad esempio quella del fantasma Formaggino.

Storielle che ti fanno sbellicare dalle risate fino a sei anni, ma poi, sempre più imbarazzato, comici a guardare gli altri come il gabbiere che scruta l'oceano, alla ricerca di una traccia di intelligenza adulta nascosta tra onde e gabbiani.

Macché, loro continuano a ridere: il fantasma Formaggino, uh uh uh, e nessuno sembra accorgersi che questa volta e se andiamo avanti così, sarà il fantasma Formaggino a spalmarci su un panino.


mercoledì 28 ottobre 2020

Qu'y a-t-il?

 

"Vous êtes en état d'arrestation." Arrestati per trafugamento di ceneri funerarie, a qualcun altro è accaduto? Per fortuna, dopo mezz'ora e aver setacciato ogni angolo dell'R5, trovammo la documentazione e fummo liberati. Ma ogni tanto mi riecheggia ancora la domanda del gendarme: "Qu'y a-t-il dans ce vase?" "Ehm, maman..." rispose la mia amica.

martedì 27 ottobre 2020

Giudicate, se non volete sprofondare nel si dice!


Non giudicate se non volete essere giudicati. Lo so che di teologia non frega niente a nessuno, ma ho talmente pochi follower che posso giocarmi anche quelli. Parlando di teologia.

Il mio sospetto è che la celebre frase contenuta nel Vangelo secondo Matteo (Matteo 7, 11) sia un'interpolazione postuma; o, comunque, frutto di una fantasia dell'evangelista, che dopo quasi cent'anni dalle vicende narrate si ritaglia uno spazio inventivo, una piccola apparizione come Hitchcock nei suoi film. Offrendo un'indicazione pedagogica assente in tutti gli altri vangeli, apocrifi compresi.

Un atteggiamento, il non giudizio, che ha avuto in seguito grande successo (parlo di atteggiamento verbale, non certo di pratica vissuta), al punto da diventare un mantra della New Age più rozza e corriva.

Quante volte vi sarà capitato di sentirivi dire dall'amico fricchettone, oppure dall'osteopata: non giudicare, accompagnando la frase con un sorrisetto di superiorità. E quante volte avete trattenuto il vostro vaffanculo. A me, almeno, è accaduto spesso. Bene, ora è il momento di tirarlo fuori!

Deduco il mio invito da una rilettura dell’intera parabola cristologica, ma al netto dello svarione di Matteo. Beh, facciamoci caso: è tutto un giudicare. Gesù giudica questo, quello, quell'altro ancora. Gesù giudica di continuo, e nel farlo è su di giri, ossia emotivamente coinvolto.

Certo, mi si potrebbe ribattere che Gesù era il figlio unigenito di Dio, "generato, non creato, della stessa sostanza del padre", come recita la Professione di fede cattolica. Eppure mi appare un'obiezione debole, quando il senso profondo dell'essere cristiani consiste proprio nell'immitatio christi: "il regno di Dio non viene in maniera da attirar gli sguardi, né si dirà: – Eccolo qui, o eccolo là, perché ecco, il regno di Dio è dentro di voi" (Luca 17, 20-21).

L'avverbio greco da cui viene ricavato il termine dentro è entos, che qualcuno, per scongiurare l'interpretazione gnostica, preferisce (un po' forzatamente) tradurre con tra: il regno di Dio è tra di voi. A me sembrano piuttosto vere entrambe: il regno è dentro perché siamo tra uomini e donne; o, meglio ancora, siamo nella nostra essenza (entos) quella relazione, siamo un tra.

C'è una bella poesia di Milo de Angelis, in cui, attribuendo la voce a un gruppo di medici chirurghi, conclude con le seguenti parole: "se ti togliamo ciò che non è tuo / non ti rimane niente".

Il qualcosa che ci costituisce, sembra suggerire il grande poeta milanese, è nella dialettica tra dentro e fuori, tra entos-dentro ed entos-tra, di cui già parlava Luca, che aggiunge: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?" (Luca 12, 15). 

Il giudizio di Dio si colloca dunque sopra, è un supergiudizio più che un pregiudizio, quasi fosse un dolly cinematografico che tutto abbraccia nel suo innalzarsi, mentre il giudizio dell'uomo è orizzontale, sorta di inquadraura frontale simile al ritratto della folla che avanza, nel Quarto Stato di Peliza da Volpedo.

Giudicando, infatti, noi non ci poniamo in una prospettiva di arrogante superiorità, ma al contrario riconosciamo la profonda influenza che gli altri hanno su di noi, e più che patirla apaticamente ci differenziamo nel gesto verbale del giudizio. Io sono (anche) il branco di skinhead che ha bruciato il clochard, ma proprio perché mi fanno schifo – giudizio – il noi comincia a diventare me, self. È ciò che gli psicologi chiamano formazione reattiva.

La mia rilettura, laica, del cristianesimo, è dunque quella di un processo psichico che prende avvio da un tutto indifferenziato, per separarsi e precisarsi nella relazione, non di rado culminante in attrito. Da cui tornare, arricchito della propria individualità, nell'insieme originario che lo costituisce, il suo entos più vero è profondo. Il regno.

Ciò che nel linguaggio teologico viene chiamato chenosi, è così, a un tempo, lo svuotamento del Logos divino in funzione dell'incarnazione, e di quello umano per poter essere riassorbito nella totalità relazionale dell'Essere. Ma nel frattempo giudico, perché è l'unico modo di affermare, come Cristo, la mia piena umanità, e quindi trascenderla.

Al contrario, chi ci invita con l'arroganza dei finti saggi a non giudicare, continua a sostare nella dimensione che Heidegger chiama del si dice: si dice di non giudicare, e io lo ripeto come il vitello che la notte richiama il fieno dall'abomaso, per ruminarlo una seconda volta. A questo modo non abbiamo un vero io ma nemmeno un tutto mistico, ma solo un noi acefalo che non sceglie, quando scegliere si rivela un equivalente pratico del giudizio.

Giudizio che, se focalizzato, ci porta a scorgere nell'invito al non giudizio un giudizio a potenza due: io giudico il tuo giudicare perché si dice che non si dovrebbe fare. Ma vedi un po' di andare affanculo, ma veramente, allora!

lunedì 26 ottobre 2020

Quando l'uomo col fucile

Mi sembra di essere finito dentro un film di Sergio Leone. Tutto nasce da un recente post su Facebook, in cui mi concedevo una leggera ironia su Emma Dante, scrittrice e drammaturga di vigore immaginifico e grande forza espressiva. Lo stesso non possiamo dire del suo pensiero razionale, condensato nella dichiarazione pubblica: "Chiudere cinema e teatri vuol dire fare una guerra contro la cultura".

Numerose persone si sono precipitate per difenderla, ma è difficile fargli capire che nel mirino delle mie parole (ripeto: ironiche) non era la brava drammaturga e neppure la cultura in sé, e piuttosto la formulazione apologetica e obiettivamente sproporzionata, iperbolica: “guerra alla cultura”, ma dai…

Un tono e una rivendicazione in cui riecheggia il peggiore corporativismo italico; dopo i culturali mi aspetto così i culturisti, per i quali con l’ultimo DPCM viene dichiarata guerra ai bicipiti; mentre, per i baristi, la guerra è allo Spritz; per i bagnini è guerra al cloro; per i proprietari di night club guerra alla fica, e così via.

Ora la stupidità – perché di stupidità si tratta – non sta nell'offrire solidarietà a tali categorie (che vanno giustamente indennizzate e protette), ma nell’assenza di discernimento, il cui sviluppo culmina nella capacità adulta di scegliere tra opzioni diverse e non cumulative.

Scegliere, ad esempio e ora che l’epidemia è fuori controllo (troppo tardi per i tracciamenti), tra il vissi d'arte, vissi d'amore della Tosca, e i cinquecento morti al giorno previsti dalle curve statistiche del contagio; sempre che non si chiudano prima i battenti. Ma chiudere cosa, già che hanno proverbialmente ragione tutti, e lo dico questa volta con tristissima serietà?

Quanto al Winchester di Clint Eastwood – “quando l’uomo col fucile incontra l’uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è morto” – uno può vederselo anche dal salotto di casa, su un televisore a 55’ pollici che davvero ha poco da invidiare allo schermo cinematografico.

Molto più intelligente mi sembrava invece il primo discorso di Boris Johnson: Siamo inglesi, siamo duri, cazzuti, abbiamo dominato il mondo e preferiamo i morti a cambiare stile di vita. And God save the Queen!

Poi si è ricreduto, ma provo rispetto per quel modo brusco di argomentare, magari un tantino cinico ma non stupido. Mentre la stupidità consiste nel rivendicare botti piene e mogli ubriache. Ma si sa, quando l’uomo che prova a ragionare incontra l’uomo che sragiona, l’uomo che ragiona è morto.

sabato 24 ottobre 2020

Double bind

 


Double bind, o doppio legame, è un concetto psicologico elaborato dall’antropologo Gregory Bateson, il geniale coordinatore della scuola di Palo Alto. Se lo si cerca su Wikipedia, la spiegazione che viene fornita è la seguente:

“Il doppio legame indica una situazione in cui la comunicazione tra due soggetti, uniti da una relazione emotivamente rilevante, presenta una incongruenza tra il livello verbale (quello che viene detto a parole) e quello non verbale (gesti, atteggiamenti, tono di voce, ecc.), e la situazione sia tale per cui il ricevente del messaggio non abbia la possibilità di uscire fuori da questo schema stabilito dal messaggio, o metacomunicando o chiudendosi in se stesso."

Come tutte le spiegazioni astratte, diventa più chiaro con un esempio. Immaginiamo il Re di un regno X, che ai suoi sudditi annunci maestoso e contrito: "È scoppiata una pericolosa epidemia, state tra le mura del castello, uscite il meno possibile. Mi raccomando: è pericoloso!"

Possiamo prevedere che il Re chiuda poi il ponte levatoio del castello, giusto?

E invece no. Tutt’intorno ci sono infatti maniscalchi, stagnini, bollitori di fave e tessitori di arazzi, musicanti e spulciatori di pidocchi. Insomma, quelle attività che danno sostegno al piccolo regno del nostro Re. Il quale invita così a frequentare le botteghe – consumate, spendete! –, perché altrimenti mancherebbero i talleri con cui pagare le tasse (il Re ha contratto molti debiti con suo cugino, l’Imperatore delle Terreunite), e le scorte di brioche non basterebbero per sfamare tutti.

I sudditi, sempre più tristi e chiusi in sé, come scrive Wikipedia, non sanno così se dar retta al Re oppure dar retta al Re. Ossia se uscire e consumare a man bassa, oppure difendersi dal contagio rimanendo tra le mura del castello. Vi ricorda qualcuno, questa storia?

venerdì 23 ottobre 2020

Eucarestia

 


Questa notte ho sognato il mio amico Michele. Andavo a chiamarlo la mattina, ma lui non rispondeva: si era trasformato in una pagnotta.

Michele è un mangione, e anche un dormiglione, la trasformazione non mi stupiva più tanto. Così insistevo: Michele, sveglia  SVEGLIA! Dai che è tardi... Ma lui niente, un immobile soffice pane appena sfornato, dalla crosta dorata e croccante.

Nel frattempo era arrivato anche Ivan, ci siamo consultati: Dovremmo tastargli il polso... Ma come fai a tastare il polso a un panino?

E poi Michele ha il diabete ed è sempre stato un po' matto – non per modo di dire, un matto vero! –, e abbiamo sempre temuto che potesse finire così. Sì, morto. Ma non panificato.

Dopo qualche esitazione, non abbiamo trovato di meglio che iniziare a mangiarlo: un pezzo io, un pezzo Ivan, finché di Michele non è rimasta che qualche briciola. Il resto stava nel nostro stomaco.

Quando la cicalina del citofono mi ha risvegliato – era il postino, a consegnarmi una maglietta con la scritta Yuppi Du – mi sono sentito un po' confuso, ma anche sazio e sereno. Grazie Michele, sei stato un buon amico. Ed eri cotto a puntino.

giovedì 22 ottobre 2020

Post verità

 


Michela Murgia ha appena dichiarato a Otto e Mezzo che le misure di questo governo sulla pandemia sono da ritenersi soddisfacenti.

A quale titolo, mi chiedo, viene intervistata una scrittrice per avere un'opinione che prevede competenze mediche, statistiche, matematiche, economiche e politiche? Su Facebook siamo buoni tutti, ma perché in un programma che si pretende di informazione?

È come riconoscere – e probabilmente è così – che la cosiddetta post verità è ormai l'unica possibile narrazione; o, per dirla nel linguaggio della Grecia classica, che la doxa si è instaurata in luogo dell'epistéme.

Ma perché, ultima domanda, Lilli Gruber e Michela Murgia vengono pagate per la produzione di immaginario, quando noi scriviamo sui social le nostre minchiate a gratis?

Topi


Molti giustificano la totale incapacità del Governo italiano di prevedere e arginare la seconda ondata epidemica con le seguenti parole: in fondo hanno fatto lo stesso anche inglesi, francesi e spagnoli. E ben prima di noi.

Mi sembra un ottimo argomento, per un topo. Se vedi il topo innanzi a te infilarsi in un fiume, intelligenza topesca vuole che tu lo segua, mentre il pifferaio di Hamelin intona le sue note flautate.

Resta da capire quale sia la melodia che ha rintronato l'intero Occidente, e se, a questo punto, non sia il caso di farci governare direttamente da Topolino...


Turismo


Nei giorni scorsi ho pubblicato un post fortemente critico sulla Ministra Azzolina, che considero uno dei peggiori ministri dell’Istruzione assieme a Maria Stella Gelmini; di cui è però molto più simpatica e graziosa, questo va detto.

In ogni caso, si tratta di un personaggio pubblico, di più: potente, e dunque il diritto di satira è da considerarsi legittimo. Rientra in tale spirito la foto che associavo al testo, in cui la Ministra viene ritratta in costume da bagno sulla battigia, nel gesto di fare il muscolo.

Uno scatto per nulla squalificante dal punto di vista umano, e che non intende neppure ridurre Lucia Azzolina all’avvenenza delle sue forme, qui già riconosciuta. Sottolinea, piuttosto, la natura turistico-balneare da diportisti in gommone Zodiac, motore Elvinrude, e poi la sera una bella calamarata da Gigi il poliparo. Lo stesso slancio vitalistico e vagamente naif con cui ha occupato il dicastero di viale Trastevere, che si unisce a una sopravvalutazione delle proprie forze, evocata da quel piccolo spiritoso gesto; dimenticavo, anche l’ironia è da annoverare tra le qualità in cui primeggia sulla Gelmini.

L’interpretazione dell’immagine non mi sembrava così ambigua, tantomeno irriverente, e cioè ben lontana dall’insinuare i peggiori stereotipi di genere, di cui puntualmente sono stato accusato: il solito maschio che considera le donne buone solo per fare torte, o ancheggiare attorno al palo della lap dance...

Tutt’altro. Le donne, proprio come gli uomini, sono capaci anche di fare del turismo. Solo che alcune vanno Sharm el-Sheikh, e altre al Miur.


mercoledì 21 ottobre 2020

Paragoni


Ha perfettamente ragione Alessandro Vespignani: se vuoi conoscere l'andamento di un'epidemia, e, dunque, le misure di contenimento da approntare, è del tutto inutile domandare a un virologo, anzi a una pletora di virologi, ognuno ha il suo preferito come accadeva nelle boy band. Devi piuttosto sentire un epidemiologo, che guarda a caso è la professione di Vespignani. Il quale ha perfettamente ragione, sì, ma il suo paragone automobilistico – i virologi nel ruolo di bravi meccanici, l’epidemia a interpretare il traffico all’ora di punta – non era abbastanza crudo, così da generare quella memorabilità goliardica da barzelletta un po’ sconcia.

Per ficcare una buona volta il concetto dentro la zucca di politici ma anche semplici cittadini, io l'avrei figurato a questo modo: chiedere conto a un virologo degli sviluppi di un'epidemia, è come chiedere a una fica dell'andamento demografico nei nove mesi successivi. Nella migliore delle ipotesi, (non) ne capirebbe un cazzo.


martedì 20 ottobre 2020

Passettino


Il Presidente del Consiglio italiano si rivolge a Fedez e Chiara Ferragni. Un rapper, un’influencer. Si rivolge a loro per chiedere, o, meglio, supplicare un appello ai giovani sull’uso delle mascherine.

Molti hanno fatto del sarcasmo sull’eccentrica richiesta, lo hanno irriso. A me è sembrato invece un gesto degno di rispetto e attenzione, un gesto simbolico. Ricorda la scena di un fortunato film di Ken Loach. Il protagonista è seduto in una sala da riunioni assieme a uomini e donne di ogni età; si alza in piedi con lentezza; e dice solamente: “My name is Joe, and I'm alcoholic.

Una formula richiesta per essere accolti nei gruppi di alcolisti anonimi: testimoniare davanti a tutti la propria dipendenza dall'alcol, e con ciò riconoscerla, riconoscendosi. Quel che ha testimoniato Giuseppe Conte è una dipendenza speculare, dove sono le élite a essere subalterne e avide del pensiero popolare, la cultura cosiddetta bassa, a volte perfino trash, che ha il proprio megafono nei social network.

Ed è una forma di riconoscimento anche questa – la gente non mi crede più, forse neppure mi ascolta, ha perso fiducia nella politica –, che come ogni presa di coscienza pubblica rivela umiltà e realismo, ossia buon senso.

Ricostruire un rapporto di credibilità (scientifica, culturale, politica e perfino estetica) da parte delle élite è la sfida a cui siamo chiamati. Diversamente, il prossimo passo sarà farci governare direttamente da Facebook e Instagram, Twitter, Tik Tok. E come ci ricorda la richiesta di Conte ai Ferragnez, è un passo davvero piccolo piccolo. Un passettino.

Psicopatologia virale


Se le pandemie fossero una malattia della mente – e, almeno in parte, non c’è dubbio che lo siano –, prima del vaccino io mi farei una domanda preliminare: qual è il trauma originario, il rimosso sottostante?

Forse nel credere, come scrive Nico Orengo in una bella poesia, che la nostra vita sia in dono, non in prestito, e dunque possiamo farne quel che ci pare; ma anche dove e quando, ossia tutto. E subito!

Credere, cioè, che queste rivendicazioni siano un dato di realtà, e non il frutto di una precisa ideologia, frutto di un altrettanto circostanziata, e, dunque, storicizzata realtà economica e produttiva.

Da qui la certezza che mandare il proprio figlio alla lezione di karate e la figlia a quella di danza classica (o viceversa, non siamo sessisti) siano diritti inalienabili, almeno quanto farsi un cafferino con la Sambuca Molinari al bar.

Istituire, per quanto in forma ipotetica, la connessione qui proposta, ci porta a scorgere una relazione anche tra la crisi sanitaria in corso e quella ambientale, che sconta lo stesso atteggiamento. D’altronde, lo scriveva già la Bibbia: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Genesi 1, 26-28).

Ammettendo tale vincolo, smette di essere un’eccentrica anomalia la scarsissima diffusione del contagio in Africa, riportando il problema al cuore della nostra tradizione culturale. Detto in altre parole, il vulnus psichico si chiama Occidente, di cui il coronavirus è solo una somatizzazione transitoria.


lunedì 19 ottobre 2020

Apprendisti stregoni


Continuano a girare sul web immaginette comparative, in cui viene affiancata la situazione attuale della pandemia (numero dei contagi quotidiani, terapie intensive, morti etc.) a quella di marzo. Da qui risulta, o, meglio, risulterebbe, che a pari numero di tamponi positivi gli effetti si sono ridotti, quasi acquietati come ipotizzava Zangrillo (“il virus è clinicamente morto”).

Il commento sui social è a volte esplicito e strillato, ma anche quando viene sottaciuto, consegnandolo a lettore quale ironico sotto testo, è abbastanza chiaro. Potremmo tradurlo a questo modo: a chi vogliono darla a bere: le Cassandre, i catastrofisti?! Quando i numeri dicono chiaramente che il virus si è rabbonito, come certi leoni al circo rintronati di sedativi.

Peccato che i numeri andrebbero saputi leggere, e, quando non si ha confidenza con la statistica, si potrebbe provare con le metafore. Ora è abbastanza evidente che la situazione sia meno drammatica che a marzo, nessuno lo contesta. Ma non perché il nostro leone sia diventato un timido gattino.

Prendete infatti un secchiello e poi intingetelo per dieci volte nel mare, come facevano le scope di Topolino, apprendista stregone nel film di animazione Fantasia, capolavoro di Walt Disney del 1946. Poi immaginate che le scope, dopo ciascun carico, riversino il contenuto in una tinozza; mettiamo cinque litri a secchiello, totale cinquanta litri.

Ecco, quelli erano i tamponi positivi a marzo: pochi litri solamente, quando sotto c'era il mare. 

Facciamo ora lo stesso con una piscina, attingiamo dalle sue acque calme e azzurrine. Sempre dieci secchielli, scope, tinozza... Come si può intuire, il contenuto dei travasi è il medesimo. Cinquanta litri. E questa è la situazione attuale: il numero dei tamponi positivi non cambia, ma la base di partenza è infinitamente diversa. Più contenuta, sì.

E ora un piccolo sforzo ancora d'immaginazione, nei film di Walt Disney è possibile: che le piscine possano trasformarsi in mare, almeno se non facciamo nulla per arginarne la crescita; è quanto accade al povero Topolino quando le scope prendono il sopravvento, rifiutando di obbedire ai suoi maldestri imperativi magici.

Il mare, di nuovo il mare dunque. E con il mare un incremento delle terapie intensive, delle morti per asfissia polmonare, scenari tremendi che non avremmo più voluto vedere. Un’evoluzione logica, quasi meccanica (se non contrastata seriamente, e non è il caso del recente DPCM), e che le persone intente a pubblicare i loro sciocchi schemini comparativi, tra cui anche qualche presunto luminare della materia, contribuiscono a realizzare.

D'altronde, l'intelligenza, come Don Abbondio il coraggio, uno mica può darsela da sola. Apprendisti stregoni che vanno avanti a colpi di pensiero magico, in attesa che la piscina torni a essere mare.


domenica 18 ottobre 2020

Destinazione universo

 

Non so chi abbia scattato questa fotografia, l'ho trovata su Facebook, la didascalia a commento era: distanziamento sociale; è molto arguta ma forse toglie qualcosa allo scatto, più che aggiungere.

Seguendo il metodo inaugurato da Roland Barthes nel suo saggio La camera bianca, ho provato a individuare ciò che lui chiama studium e punctum; e cioè il contesto materiale e storico, la contingenza umana, separandoli dal dettaglio visivo che cattura l'occhio dello spettatore, e con esso le sue emozioni.

Ci ho provato ma non sono riuscito.

Un'immagine-mondo che ritrae una ragazza di spalle; ne vediamo solo i lunghi biondissimi capelli, gli smisurati tacchi; a sua volta sta ritraendo l'amica – stessi capelli, cambia solo l'acconciatura a incorniciare un viso dai lineamenti slavi, stessi tacchi da airone –, la posa è glamour di fronte alla vetrina di Chanel, con la flessione quasi postribolare delle anche. Alla loro sinistra una donna, o forse è un uomo, non si capisce bene per via del foulard viola che ne ricopre il capo; ma proprio quell'indumento suggerisce il genere femminile, probabilmente è una zingara. Sta prona sul marciapiede a mendicare qualche spicciolo. 

Se riduciamo l'immagine alla sua struttura geometrica, ci accorgiamo che si tratta di un triangolo isoscele; i tre vertici sono costituiti dalle sagome umane. Va aggiunta, infine, una linea ideale di collegamento tra il triangolo e l'insegna della celebre maison parigina, andando a costituire una figura simile a un razzo.

Studium e punctum, contesto e identità visiva, come distinguerli nel nostro razzo? Coincidono. Sono qui inseparabili, sinonimi, doppi, come avviene in tutti i capolavori. Sono due fiction speculari – la messa in scena teatralizzata, patetica, dell'indigenza, e quella del lusso – che però non si riflettono. Sono uno specchio rotto, sono quel che vediamo nei suoi cocci.

E ciò che vediamo è un virus, sì, ma dell'anima, che fraziona e finziona ogni collante umano, con i luoghi fisici che contengono senza più generare appartenenza, scambio, empatia. Il fatto che l'autore sia anonimo non fa che incrementare la potenza iconica, come nei testi sacri e negli antichi miti.

Un virus e un razzo, abbiamo detto. Come quelli spediti tra le stelle per dire di noi, del tempo vissuto e della sua maggior parte smarrita, dissipata nella duplicazione, tra i pixel, in cui cerchiamo ciò che amiamo (i nostri totem, i nostri tabù) discostando lo sguardo da ciò che disprezziamo, forse perché fa paura; se a noi ancora sfugge, lo scopriranno eventuali civiltà aliene quando apriranno lo scrigno un po' acciaccato del veivolo, riesumando i resti di un'antica civiltà sfiorita sul pianeta Terra.

Magari, assieme alla fotografia, potremmo aggiungere una sinfonia di Beethoven, l'equazione di Einstein e un video di Umberto Smaila che canta Maracaibo, a una serata al Billionaire. E poi via, destinazione universo!

 

Giornalismo

 


La Ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina continua a insistere sul fatto che “le scuole sono sicure”, aggiungendo: “la Campania deve ripensarci”.

L’affermazione non so se sconti una rielaborazione sintetica da parte della stampa, ma detta così mi sembra ambigua. Una sua versione estesa mi appare più corretta: l'apertura degli istituti scolastici non genera nuovi contagi da Covid-19, e, quindi, il Presidente della Regione Campania De Luca dovrebbe ritirare l'ordinanza che prevede la sospensione (non la chiusura) della didattica in presenza, con contestuale implementazione di quella a distanza.

Molto più chiaro, no? Peccato sia anche falso.

Da studi documentati e documentabili del Comitato Tecnico Scientifico, risulta che la didattica in presenza incrementi l’indice di trasmissione del contagio, il famigerato RT0, nella misura di 0,4 punti.

Un valore significativo ma non drammatico, generato – ma è solo una mia supposizione – più dagli spostamenti per raggiungere gli edifici scolastici che non dalla permanenza sui banchi. Rimane in ogni caso il dato: 0,4. Che viene incorporato nel valore di 1,45 raggiunto a oggi sul territorio italiano, con leggere variazioni su scala regionale; ma non più marcate come a marzo.

Gli epidemiologi spiegano però che la cifra, se non verranno attuate misure immediate di contenimento, è destinata crescere, fino a raggiungere un RT0 di 1,75 nel corso delle prossime due settimane. Che tradotto in posti letto nelle terapie intensive e morti: una sconfitta!

La mia critica non è dunque rivolta solo alla Ministra Azzolina – in fondo, come tutti i pentastellati, ha una cultura scientifica approssimativa, se non una cultura approssimativa tout court –, ma ai giornalisti che la intervistano.

Negli Stati Uniti, un’affermazione palesemente falsa come la sua avrebbe ottenuto l’immediata risposta del giornalista: “Mi scusi, ma ciò che dice non corrisponde a verità. La didattica in presenza contribuisce per un valore di 0,4 all’indice di contagio. Se vuole mantenere le scuole aperte, mi spieghi allora come intende arginarlo, già che l’RT0 va al più presto riportato sotto il valore 1.”

L’assenza di capacità interlocutoria (ovviamente puntuale e motivata) da parte della stampa è una vecchia tara del nostro Paese. Che purtroppo contribuisce alla crisi sanitaria, economica e umana che stiamo vivendo.

venerdì 16 ottobre 2020

Le parole sono importanti

Chiudere le scuole. Trovo sbagliato insistere su questo termine: chiusura. E chi parla male, ci ha insegnato un vecchio film, pensa male e vive male.

Continuare ad agitare lo spettro verbale della chiusura genera infatti malumori, oltre a numerosi equivoci. La scelta lessicale appropriata mi sembra piuttosto quella di mutazione. Mutare la didattica: da presenza, fisica, a una speculare presenza, ma cognitiva, virtuale.

Io ho frequentato tutti i possibili ordini e gradi di istruzione – elementari, medie, superiori, università –, ma anche numerosi corsi in cui la didattica era a distanza. E devo dire che mi sono sempre trovato bene.

Certo, per questo approccio è necessaria maturità tecnologica e autonomia umana, ed è dunque impraticabile nella scuola primaria. Per quanto riguarda le medie, ho invece molti dubbi… Parliamone.

Su scuole superiori e università le incertezze si diradano: funziona, la didattica a distanza è pratica ed efficace; compreso il rapporto interattivo col docente, lo scambio di contenuti (e perfino giochetti verbali) tra i compagni.

Inoltre. L’utilizzo della piattaforma Zoom rappresenta un problema per ferri vecchi come me, non certo per un ragazzo di quindici o sedici anni. Non è la soluzione a ogni problema, si intende, ma un piccolo concreto passo per ridurre la diffusione del contagio; una mutazione che non ha ricadute economiche, oltre a essere un buon compromesso formativo – ripeto: on-line le nozioni si trasmettano per davvero, e anche alcuni aspetti relazioni ed emotivi; non tutti, ovviamente.

Tito Boeri, ospite ieri sera a Piazzapulita, paventava però scenari drammatici: se sospendiamo la didattica in presenza, i nostri giovani rimarranno anime perse e neglette; senza un titolo di studio non troveranno mai lavoro... Una generazione di clochard, in pratica.

Ecco, se penso a un esempio di cattiva informazione è proprio questo: associare contenuti inesatti a emozioni basiche, senza nessuno che lo corregga.

Rimane il nodo di bar e ristoranti. Perché si va infatti al bar? Perché ti manca la birra casa, o magari la Sambuca, il caffè… No, per socializzare. E qual è la prima regola, nota anche alle tribù africane, nel caso della diffusione di un’epidemia? Semplice. Ridurre i contatti, limitare al minimo le relazioni fisiche tra persone.

Ora si deve decidere da quale parte tirare la coperta, o, se vogliamo cambiare di luogo comune, avere la botte piena oppure la moglie ubriaca. Entrambe le cose – socialità e riduzione dei contagi – dovremmo avere ormai capito che non le possiamo avere. E neppure gli introiti fiscali che derivano da quelle attività, che andrebbero indennizzate per le perdite subite.

Essere in democrazia, essere adulti in un pase civile non significa protestare sempre e comunque – un’attività che sanno fare benissimo anche i bambini, perfino prima di parlare – ma scegliere. Possibilmente, scegliere con responsabilità. Un altro termine su cui ci si sarebbe molto da dire…

giovedì 15 ottobre 2020

14600


È da più di vent'anni che convivo con dei cani. Tre cani, per la precisione: Baruzza, Peppa e Mela, che si sono succeduti in quest'ordine in un appartamento di novantasette mq senza giardino. Dunque è stato, e, tuttora, è necessario accompagnarli ai giardinetti, per i bisogni. Facciamo in media quattro bisogni piccoli e due grossi – tutti i giorni. Che moltiplicati per vent'anni fanno 29200 pisciatine e 14600 cacche. A cui sono seguiti quattordicimila e seicento sacchettini neri cavati dalle tasche di jeans, giubbetti, piumini, a seconda della stagione; quattordicimila e seicento piegamenti in avanti del busto; quattordicimila e seicento volte la mia mano ha carezzato uno stronzetto ancora tiepido e sodo – quando andava bene, e non era liquefatto in diarrea – prima di trovare il verso giusto con cui raccoglierlo nel palmo e chiudere con un piccolo nodo il sacchetto, per gettarlo finalmente nel cestino. Temo di aver trascorso più tempo a raccogliere merda che a elargire baci.

mercoledì 14 ottobre 2020

No ai semafori rossi!

Devo ringraziare il movimento no mask, e in particolare quei simpatici mattacchioni di Sgarbi, Montesano e lo Fusaro, per avermi fatto prendere coscienza che l'utilizzo imposto della mascherina rappresenta una pericolosa revoca delle libertà personali, sale di ogni democrazia. In quanto tale, aggiungono i tre moschettieri del diritto, è l'arrischiata premessa a una deriva autoritaria; il prossimo passo sarà l'obbligo di lavarsi le mani dopo aver fatto la cacca, per arrivare alla prescrizione dei cotton fioc quanto qualcuno ti dice coglione e tu rispondi cooosa, puoi parlare più forte! Una deriva che di certo condurrà a un nuovo paventato regime fascista.
    Ora che ho finalmente aperto gli occhi su questo governo brutto e cattivo e virologista, oltre a non mettere mai più la mascherina (a proposito, qualcuno vuole acquistare dieci FFP2, gli faccio un buon prezzo, le avevo ordinate quando ero ancora un cucciolo ignaro di filosofia politica) non arresterò neppure la corsa della mia automobile al cospetto dei semafori rossi, che pretendono di limitare il mio slancio ad andare dove mi pare e soprattutto quando mi pare. Un'inaccettabile soperchieria partorita dal neo-pluto-turbo-capitalismo-radical-chic, che governa le nostre vite da lussuosi attici in Strasborgo e Nuova Iorche.
    
Popolo del web, siamo in tanti, siamo una mitragliata di selfie in attesa di un occhio che ci guardi: ma diventiamo finalmente un film sonoro: facciamo sentire la nostra voce, ribelliamoci! D'ora in poi, anche voi, pigiate forte sull'acceleratore, e scordatevi una buona volta del freno. Non pieghiamo più la testa di fronte al giogo illiberale dei semafori rossi.

giovedì 8 ottobre 2020

Amarcord

La settimana scorsa hanno abbattuto un capannone, l'ultimo rimasto, vicino a casa mia, gli abitanti del quartiere ne hanno gioito per via del tetto in grigi pannelli di Eternit. Quando i miei genitori aderirono al progetto edilizio di una cooperativa di maestri elementari, il lotto prescelto per la costruzione dell'edificio si trovava ai margini meridionali della città, ma ora ha già quasi raggiunto il centro, secondo il principio fisico dello smottamento delle periferie; come l'Africa, la cui faglia preme sull'Europa causando i terremoti, nessuno, neppure l'urbanistica che è una mosca impigliata in sottili ragnatele di tubi zincati, cavi elettrici, bave di cemento riversate su una piccola borghesia prima affluente e poi indigente, davvero nessuno riesce a stare fermo e composto al proprio banco, a maggior ragione adesso che ci hanno messo le rotelle. E io ci passavo appunto davanti, al capannone, quello che ora non c'è più con il tetto in stramaledettissimo Eternit, per raggiungere la scuole di via Vanoni, con una cartellina blu sulle spalle su cui avevo incollato l'adesivo di una nota marca di blue jeans. Ricordo così perfettamente il giorno in cui comparve una scritta, era allora una cosa abbastanza frequente, ma in fondo anche adesso, una scritta nera realizzata con la bomboletta spray sopra la parete che dà a nord su via Mazzini, le parole erano le seguenti: "Kossiga boia e sua moglie troia". Come suonava bene la rima baciata, come doveva apparirci trasgressiva e libertaria e sottilmente peccaminosa, e così io e il mio amico Federico prendemmo a ripeterla come un rosario – Kossiga boia e sua moglie troia, Kossiga boia e sua moglie troia... –, la sussurravamo tutti i giorni andando e ritornando da scuola; sulla sua cartella mancava l'adesivo della nota marca di jeans (chi mi ama mi segua era lo slogan impresso sotto a un bel culone di giovane donna), per il resto, a uno sguardo esterno, saremmo apparsi identici, fino alla punta scamosciata delle Mecap, le prime scarpe con la suola ricavata da un unico blocco di poliuretano candido e leggerissimo, in stile asse del water. Ripensandoci ora, mi accorgo che la moglie di Francesco Cossiga doveva essere una donna mite e vulnerabile, ai maschi preferiva forse il Cannonau, lo Stock 84, la Sambuca Molinari e il Biancosarti, l'aperitivo vigoroso bevuto dal tenente Sheridan, col suo spolverino crema dai revers perennemente sollevati. Quante stupidaggini si scrivevano anche allora, senza la complicità della parete di pixel che ci offrono oggi i social network, e la bomboletta di un dire sempre più vaporoso e insinuante...

domenica 4 ottobre 2020

La grandezza


A volte, ma non spesso, mi capita di conoscere qualcuno con cui avverto che potrei avere una grande amicizia, un grande amore oppure un grande conflitto. Lo avverto già da subito: nessuna tonalità intermedia, solo manifestazioni estreme. Potrebbero essere anche le tre cose assieme, o, ma forse è lo stesso, in successione, secondo l'adagio filosofico per cui nella parte riverbera il tutto. Immagino sia una sensazione comune, che però a me turba.
Ripensandoci a posteriori, comprendo che non sono l'amicizia, l'amore o il conflitto in sé a suscitare il mio turbamento – ho luna e sole in ariete, in fin dei conti – ma l'aggettivo con cui si accompagnano: grande, come la domanda che gli adulti pongono ai bambini: cosa vuoi fare da grande?
Ed era un grande senza confini, quando il bambino ero io la grandezza mi appariva illimitata, astratta, consegnandomi a risposte balbettanti, a cui non ho mai creduto per davvero: l'astronauta, il domatore di leoni, il pilota di Formula 1...
Forse perché mi imponevano di superare un limite di cui già avevo compreso la confortevolezza, un limite che non è tracciato da nessuna parte ma con il quale, pure, sempre finisco col misurarmi, quando la linea è sbiadita la rinnovo col pennello intinto nella vernice dell'abitudine. Come in quei film dove l'ergastolano, una volta spalancato il portone del penitenziario a fine pena, vorrebbe ritornare in cella.