sabato 28 luglio 2018

Codesto solo oggi possiamo dirti, o su ciò che rimane dei radicali

Ormai a un passo dallo loro vanificazione numerica, mi piacerebbe fare una veloce riflessione sulla parabola del Partito Radicale. Ma forse, più che l'attribuzione partitica, sarebbe opportuna quella di movimento, in largo anticipo sulla tendenza attuale. Dei movimenti era infatti presente – parlo al passato, i pochissimi radicali superstiti mi scuseranno – era presente e operante una certa disinvoltura nella visione economica e strutturale della cosa pubblica, a fronte della mobilità strategica, quasi cangiante, che li portava a concentrare l'azione su concrete e benemerite iniziative civili, seguendo un'erranza emotiva tipica del sentimento amoroso.
Era insomma, quella dei radicali, la trasvalutazione non tanto dei valori storici, come qualcuno gli rimproverava parafrasando la celebre definizione nietzschiana del nichilismo, ma degli umori irrequieti di quel geniaccio politico di Pannella, che con il suo movimento aveva saputo costruire uno specchio riflettente; purtroppo a volte incrinato dallo sguardo di Narciso, o da un certo spirito sottilmente ricattatorio che emergeva nei digiuni.
Così come quella debordante del loro istrionico fondatore, la libertà delle vite particolari e incarnate, tra cui la libertà anche di farsi male ma sempre in nome proprio (droghe, eutanasia), o di farsi gioiosamente i cazzi propri al netto di una morale corrente ancora intrisa di umori confessionali e un po' codini (libertà sessuale), era diventato il loro credo pubblico. Detto in altre parole, io in luogo di noi. 
In ogni caso, il rifiuto vitalistico e solare di una ideologia in cui pigramente adagiarsi, avendo quale ombra l'incapacità di elaborare una visione stabile e coerente dei destini collettivi, a cui protendere tramite la prassi organizzata dell'agire politico, facevano dei radicali un movimento di assoluta modernità, come una nave che salpi senza alcuna rotta o anche solo idea del porto di approdo. Puro mare e vele e vento, in cui muoversi all'impronta.
Credo che sia questo il motivo per cui, pur avendo sempre guardato ai radicali con curiosità e talvolta anche stima, non sono mai riuscito a condividerne per intero le intenzioni, tanto meno a ricambiare l'amore che Pannella riversava nello specchio. Forse perché mi ricordavano troppo me stesso, oltre alle parole conclusive di una delle più celebri poesie di Eugenio Montale: "codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo."

mercoledì 25 luglio 2018

We are all fake, o sull'impossibile verità


Il 24 luglio Oksana Shachko è stata ritrovata senza vita nel suo appartamento di Parigi. Suicidio, ogni indizio sembra confermare. Aveva 31 anni ed era una delle fondatrici del movimento femminista delle Femen, da cui si era allontanata negli ultimi anni per dedicarsi interamente all’arte, dopo aver raggiunto la capitale francese.
“Era la più coraggiosa e più vulnerabile del gruppo” ha dichiarato Anna Hustol, un altro membro del collettivo femminile nato in Ucraina nel 2008, per estendersi poi al resto del mondo.
Probabilmente era anche la più bella – lineamenti sottili, carnagione chiarissima, capelli lisci, lunghi, scuri, a incorniciare occhi azzurri e affilati –, ma questa nota estetica non l’avrebbe quasi certamente gradita, considerando lo sguardo sul corpo femminile un residuo della menzogna patriarcale, da cui la nostra società è ancora afflitta.
Prima di morire ha scritto un messaggio. “You are all fake”. Siete tutti fasulli, delle caricature della verità.
Guardo le fotografie che la ritraggono. Il più delle volte sono a seno nudo, la pelle invasa da scritte che inneggiano all’autonomia e alla dignità delle donne, nel tentativo (mediaticamente riuscito) di trasformare il suo corpo da oggetto del desiderio maschile a soggetto di un discorso personale. Eppure c'è qualcosa che non quadra, sono frasi smozzicate, slogan ascoltati troppe volte e con declinante convinzione, come l'erba brucata di giorno che nella notte ritorna dall'abomaso della giovenca... 
Mi accorgo allora, in un attimo di digressione, che anche le parole gridate dal megafono della propria carne erano un fake, pura retorica funzionale alla bulimia delle news, che potevano a questo modo sbattere un paio di capezzoli rosa in prima pagina, in quell'infinito riproporsi dell’identico pubblicitario che chiamiamo informazione.
Il suo you are all fake scoccato in punto di morte, nella nostra prospettiva di interpreti di segni sempre vaghi, rabdomanti di un qualche senso da far sgorgare scavando con le mani, finisce così col suggerire la consapevolezza che non si possa essere altro che fake, la vita è un'infinita recita della verità. A quel punto molto meglio essere nulla, come già aveva concluso Carlo Michelstaedter nei primi anni del secolo scorso, togliendosi anch’esso la vita.
Possiamo quindi avvertire un’eco ancora più remota, che ci conduce tra le brume del palazzo di Otello, dove udiamo la voce di Iago dichiarare serafica: “I am not what I am”, io non sono quel che sono. Ma allora sei un falso, siete tutti falsi, il mondo è solo rappresentazione e ha ragione Oksana!
Per essere ancora tra di noi, le è dunque mancato il coraggio ulteriore e terribile di trasformare il pronome di seconda persona plurale in prima: We are all fake.
Un riconoscimento dolentissimo, come quello a cui gli alcolisti anonimi costringono i candidati – confessare davanti a tutti la propria dipendenza –, che da grido rabbioso avrebbe mutato la sua voce in sussurro sommesso e infinitamente tollerante verso il genere umano, ricalcando le parole conclusive di una delle più belle poesie di Milo de Angelis: “se ti tolgono ciò che non è tuo \ non ti rimane niente”. 
Ma lo sguardo di Oksana Shachko reclamava invece tutto, e più di tutto la verità. Per questo, dopo averci provato altre due volte negli anni scorsi, ci ha lasciati. Pace a lei e a chi le ha voluto bene.

martedì 24 luglio 2018

Gira l'Olanda


Per minacciare uno schiaffo, un tempo, con intenzione scherzosa, si usava dire ti cresimo, che è quanto fa in effetti il prete durante il sacramento, rilasciando sulle guance del cresimato quella che (per intensità) si rivelerà poco più di una carezza.
Chissà se esiste un cimitero per le espressioni obsolete… Nel caso, deve essere seppellito lì anche l'imperativo con cui si rivolgeva a noi la suora a dottrina, ci andavamo in preparazione a quello schiaffetto esangue della cresima, giovani atleti di un'arte marziale esotica e misteriosa. Era il 1978, di questo e poco altro sono certo, e io frequentavo l'oratorio dell'Angelo custode, situato nella zona storica di Sondrio. Non ricordo neppure il nome della religiosa ma solo la buffe espressioni che ripeteva di continuo, tra cui la più frequente era gira l'Olanda. 
Ti scappavano di tasca le chiavi della bicicletta? Gira l'Olanda! Venivi scoperto a bisbigliare in chiesa con un amico? Gira l'Olanda! Arrivavi in ritardo, quando gli altri stavano già intonando il Padre nostro? Gira l'Olanda! Ogni occasione, le più varie e anche incongrue alla frase, erano buone per scoccare il suo gira l'Olanda.
Al termine delle lezioni potevi acquistare i Chupa Chups che rigirava in bocca il tenente Kojak quando non riusciva a trovare il bandolo della matassa, oppure spumoni bianchi e rosa, lunghe spirali di liquirizia, era sempre la suora a venderli, ma quest'ultimi ci sembravano un po' una cosa da bambini, perciò li lasciavamo ai catechisti che si preparavano alla prima comunione. La taglia dei banchi era a loro misura, e a me e Redaelli, un ragazzone che a dodici anni aveva già il 44 di piede, premevano le ginocchia da sotto, eravamo compagni anche a mini basket. Per questo venivamo a dottrina già con la borsa della Sondrio Sportiva, gli allenamenti iniziavano subito dopo e il librone con impresso il volto pacioso di San Rocco si mescolava con le All Star e le braghette corte di raso.
Fu in quel limbo tra l'altare e la palestra – l'architettura barocca e logora a cornice del minimo chiostro dell'Angelo custode – che venni a saperlo, era un tiepido pomeriggio di fine maggio e a dircelo fu la stessa suora, l'espressione accigliata e grave: "Aldo Moro è morto." Non disse altro. Aldo Moro è morto.
Lo statista democristiano era appena stato ritrovato nel baule di un' R4 rossa parcheggiata in via Caetani. Il suo corpo, supino e ripiegato come l'abbiamo visto centinaia di volte in seguito, colpito da undici colpi sparati da una pistola mitragliatrice a breve distanza. Nessun organo vitale era però stato centrato e si era così spento lentamente, come una candela sotto l'altare degli ex voto.
Quattro anni prima, in trasferta nella Capitale per accompagnare un gruppo di atleti valtellinesi ai Giochi della gioventù, mio padre si era fatto fotografare assieme a lui tra le statue del Foro italico, la luce radente della sera e il sorriso enigmatico e lontano. A sinistra nell'immagine, mio padre indossa una tuta azzurra a bande bianche, ha gli occhi di un raccattapalle a cui il bomber ha appena firmato il pallone. Era solo orgoglio per esposizione riflessa alla fama e il successo non propri, o in quello sguardo si celava il principio misterioso di una qualche forma di felicità? Ma in fondo si gioisce sempre per qualcos'altro… Accanto Aldo Moro sigillato in un completo grigio, troppo stretto perfino per la moda di adesso.
Ancora non sappiamo se a premere il grilletto fu il capo della cellula brigatista romana Mario Moretti, oppure, altri affermano, il criminale comune Giustino de Vuono. A maggior ragione non sapevamo nulla allora, distratti, tra l'incalzare delle notizie dei telegiornali e l'oasi quieta di Happy Days, dai primi skateboard, gli omini oscillanti del Subbuteo, Tony Manero che balla finalmente libero sulla pista illuminata della discoteca, ignaro di aver contratto il virus del sabato sera. Le parole della suora aprivano dunque una breccia, si insinuavano nella carne viva, o forse la richiudevano, suturando e dando forma alla ferita. 
Eppure nessuno di noi si mosse o chiese chiarimenti. Probabilmente ci aspettavamo che dicesse ancora qualcosa, accompagnando la dichiarazione con una delle sue espressioni buffe, che però non arrivò mai. È come quando stai ascoltando una canzone alla radio, ma va via all'improvviso la corrente del palazzo. E così, da quel giorno, ho l'impressione che la mia canzone sia stata ingiustamente tagliata, e attendo vanamente qualcuno che mi sussurri un ultimo gira l'Olanda.