mercoledì 29 dicembre 2010

Lettera aperta a Beppe Sebaste



Caro Beppe,
tu ed io non ci conosciamo di persona, ma per quella confidenza immaginaria che nasce dalla prolungata intimità con le pagine di un libro che hai molto amato, ti sto scrivendo una lettera aperta dal tono forse un po' troppo confidenziale, appunto.
Il libro in questione è Porte senza porta, che possiedo in una vecchia stropicciata edizione Feltrinelli. Ora ho appena iniziato a rileggerlo nella sua versione aggiornata (“rewind”) e una cosa, subito, mi ha colpito ascoltando il cd allegato al volume. Vorrei così parlartene senza pensarci troppo su; ancora a cavallo della bestia, come si dice. E' quando tu confidi della difficoltà di incrociare degli autentici maestri dentro la professione in cui forse più ti riconosci, quella di scrittore o in generale di artista, tanto da chiamare “fratelli maggiori” alcuni tuoi compagni di strada.
Vero, è una considerazione che anche a me è capitato fare di frequente. Imbarazzante la distanza che si apre tra le pagine di un libro di Aldo Busi, mettiamo, e le sue comparsate televisive. E come è riconoscibile lo sconforto di Paolo Villaggio che, dopo un intensa e asimmetrica amicizia con Federico Fellini – è lo stesso Villaggio a chiamarlo sempre maestro –, così conclude: “Fellini era un uomo che non aveva niente da darti.”
Ma come in tutte le intuizioni felici, subito vengono in mente casi particolari che le smentiscono e sembrano farti no no con il ditino, come le teste di certi cagnetti di pezza che venivano incollati sul lunotto posteriore delle automobili, sembrano passati un milione di anni. Marco Lodoli ad esempio e per restare all'attualità italiana. O per contiguità geografica penso a Eraldo Affinati e al suo quasi omonimo, non solo per l'onomastica, Edoardo Albinati. Beh, io trovo questi scrittori degli splendidi maestri, non sei d'accordo con me, Beppe?
Eppure eppure... al fondo hai proprio ragione tu: le qualità necessarie al magistero dell'esperienza, diciamo così con una formula vagamente altisonante, non hanno alcuna omogeneità con il talento artistico, e a maggior ragione con la sua espressione. Per riprendere quanto proponi già dall'epigrafe del tuo libro, maestro è infatti "colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa”.
Verrebbe da aggiungere, in un tentativo ironico, ma non troppo, di collocare prossemicamente tale affermazione nello spazio, che maestro è chi si rivolge a un Tu nella convinzione che possa tradursi in un Egli. Meglio ancora: maestro è chi rivolgendosi a un Tu rotolante nello spazio (“like a rolling stone”) per effetto della propria interferenza crea le condizioni gravitazionali affinché Tu possa diventare Egli; Egli sarebbe cioè colui che cessa di rotolare e ritorna alla stabilità domestica. Tanto che potremmo a questo punto anche invertire i termini pronominali, visto che nel gesto del rincasare è presente l'intuizione che Egli fosse, già da sempre, Tu; almeno a un livello narrativo potenziale.
Jodorowsky sintetizza questo aspetto del magistero con il concetto di “io essenziale”. Ciò che noi abbiamo chiamato Egli, in altre parole, non sarebbe altro che l'identità più genuina dell'allievo, implicata al suo interno come vocazione individuale che può manifestarsi solo nel momento in cui prende consapevolezza di sé. Ma ciò può avvenire solo attraverso una sorta di processo di deprogrammazione, di cui tu Beppe parli diffusamente, che potremmo interpretare anche come ripulitura dalle incrostazioni sociologiche e dalle scorie culturali, di cui era inizialmente gravata e dunque anche falsificata l'identità iniziale o presunta. Così da sospettare che l'interlocutore del maestro – il Tu a cui si rivolge - fosse già da subito tale essenza sopita. Un'essenza, se ho ben inteso, che si attualizza solamente nell'interazione umana con il maestro, e non va perciò interpretata come cosa in sé già costituita, ma appunto come racconto che raccontandosi accade.
Bene, se, per approssimazione, mi sono avvicinato allo schema cognitivo della dialettica maestro allievo come da te descritta, provo ad avventurarmi in uno schema speculare che racchiuda quella che si sviluppa tra artista e pubblico. Che io mi sento così di proporre: artista, “vero artista”, è colui che, parlando a un Voi più o meno definito, trasforma il Voi in Loro. Non c'è infatti Tu per l'artista, ma solo una pluralità umana genericamente approcciata come identità culturale e civile di una comunità realizzata su base storica e geografica – ed è molto importante tale aspetto di attualità crono-geografica, specie nell'idea moderna di romanzo – che grazie anche alla relazione con la voce dei propri artisti è in grado di precisarsi e riconoscersi, e cioè ancora una volta di autotrascendersi attraverso il processo della narrazione.
Sì, certo, il personaggio narrativo appare individualizzato - e in effetti lo è, almeno negli esisti più riusciti dell'attività letteraria - ma non sulla base di sue presunte qualità essenziali, quanto nel reagire all'insinuarsi in lui delle voci circostanti, al rifiuto dei valori prevalenti nella collettività o nella famiglia di origine, che avverte come indebiti. Lo schema romanzesco, con una spregiudicata semplificazione, potrebbe essere ricondotto al tentativo del personaggio di sottrarsi alle influenze esterne, che cercano di conformarlo a un modello precostituito e impersonale, spesso anche ingiusto e violento. Potremmo insomma sospettare che la scaturigine romanzesca stia nel mito di Antigone che si oppone a Creonte.
Ma stiamo appunto parlando di opposizione, di un effetto che potremmo definire "di ritorno". E' come se il personaggio risultasse autentico solo nel gesto di rifiutare il falso. Si rifiuta di diventare ciò che non è, ecco. Ma sull'essenza cava della soggettività la narrativa, quanto le arti figurative e cinematografiche, sembrano afasiche, incapaci di pronunciare una parola realmente decisiva. Forse perché l'opposto del falso non coincide necessariamente col vero, e anzi finisce con il mantenere memoria dell'inautenticità d'origine da cui si è contro-definito, come intuì Nietzsche attraverso l'icastica formulazione di "malattia delle catene"; nel moderno linguaggio psicanalitico potremmo forse tradurre con formazione reattiva. Ciò che ci può dunque indicare l'espressione artistica, al suo meglio, è semplicemente che si deve andare avanti, continuare, proseguendo a dire l'indicibile e a mostrare l'invisibile, così come conclude Beckett la sua trilogia. Continuare cioè a confrontarsi con l'invadenza omologanate del noto alla ricerca di qualcosa di sconosciuto e di proprio, di qualcos'altro...
A me sembra così che il nocciolo della relazione tra artista e pubblico stia in questo aggettivo indefinito: altro. Al punto di reificarlo in sostantivo, come fa lo psicanalista Jacques Lacan quando sintetizza la formula di “Grande Altro”. A significare l'apparato di conoscenze, simboli, pregiudizi, timori, interessi economici e politici e sessuali che vanno a definire lo sfondo culturale inconscio di ogni socialità organizzata, ossia lo schema implicito dei suoi poteri. Il vero interlocutore dell'arte - il Creonte a cui si oppone - non sarà allora proprio il potere, inteso come quel Grande Altro che, interferendo subliminalmente con le nostre vite, contribuisce a determinarle?
Arte come interferenza di ritorno al potere simbolico, dunque. Che può essere critica quanto apologetica, naturalmente: l'arte non è necessariamente contro, ma direi piuttosto di contrasto, alla maniera dei reagenti utilizzati nell'analisi di laboratorio, che portano in evidenza e dunque favoriscono la dinamica delle forze in campo. Ciò significa che l'arte, per riprendere un'altra bella immagine dal tuo libro suggerita nell'intervista al filosofo Aldo Gargani, come nell'incontro da tra due onde di frequenza può entrare in fase con il potere, potenziandolo, quanto in una interferenza distruttiva che ne favorisce una diversa ricomposizione. In ogni caso l'arte, che ancora una volta dobbiamo distinguere dal mero esercizio calligrafico, non scorre mai neutrale come un ruscello accanto al grande fiume del potere, tanto da concludere che un gesto artistico realizzato è quello che riesce a rendere l'apparato simbolico del potere, anche solo di un piccolo poco, altro da ciò che è, ovvero a spostarne il limite. Ma per quanto venga di continuo riposizionato, il limite, a questo modo, viene anche confermato.
L'arte è insomma lo strumento che gli uomini si sono dati per rendere altro il Grande Altro, e con ciò garantirne l'esistenza. Mica male, come sfida!
Istituita la nostra modesta proposta ermeneutica, almeno nella sua cornice concettuale, non ci rimane che cogliere alcuni effetti derivati, andando così forse a rischiarare anche la tua originaria e felice intuizione: “quasi mai gli scrittori sono dei maestri”, pronuncia la voce bassa e profonda di Beppe Sebaste dalla casse acustiche della mia autoradio. E ciò dipende probabilmente dal fatto che il risveglio di quell'identità essenziale che un maestro provoca nel momento in cui si rivolge al Tu dell'allievo, consapevole o meno di esserlo, allievo ma anche maestro, è un effetto di rimozione cosciente proprio di quell'apparato simbolico e culturale che l'arte contribuisce a ridefinire: il Grande Altro del potere, di ogni potere, che è all'origine una semplice legislazione del dire e del significare, una macchina mitologica con le pale ancora impastate di sogno e d'argilla.
Se l'artista dunque mette, pone, reintegra e definisce criticamente, in questo simile al vasaio, il maestro spirituale toglie, alleggerisce, smantella come lo scultore. E ciò anche quando formalmente sia impegnato a trasmettere un insegnamento codificato, ossia ad "educare insegnando". La dimensione dell'autentico più volte richiamata nel volume, starebbe dunque nell'autenticità del possibile, inteso come uno spazio vuoto da ricolmare con un'intenzione spogliata da ogni incrostazione spuria.
Vengono alla mente i potentissimi versi contenuti in una poesia di Milo de Angelis, che riferendosi a un gruppo di medici chirurghi incrociati in un corridoio d'ospedale, tra lo scalpicciare degli zoccoli e l'odore penetrante dell'alcol tra le bende, mescolato alle risate e al cazzeggio di chi ancora una volta l'ha fatta franca nella partita con quel diverso Grande Altro che è la morte, conclude con queste disarmate parole: “... se ti togliamo quel che non è tuo \ non ti rimane niente”.
Ecco, il niente, per un artista, è inconcepibile! L'arte rifiuta la morte, intesa come annichilimento, come morte che immortala, bloccandole, le possibilità drammaturgiche di una storia, e afferma la vita come necessità della forma di forgiarsi in altre forme. E ciò anche al prezzo di modellare una materia che in effetti "non è tua", che non sei tu ma il riflesso che il mondo, l'Altro, il differente, ha su di te. Con l'unica eccezione della poesia, non a caso spesso accostata, anche nel tuo bellissimo libro, al magistero spirituale. La fiducia del narratore nell'epos sociale, nelle possibilità espressive e semantiche di una lingua e di un apparato di segni condiviso, lo portano invece al bisogno di uno scambio, anche conflittuale, appunto, come abbiamo visto, con le strutture significanti del potere. Ma mai a mettere in discussione che ci sia un potere – un potere Altro – e che questo Altro abbia una qualche funzione determinante le vite individuali. L'artista crede insomma in una polis, in una civitas e soprattutto in una lex, anche quando apparentemente vi irride posando in una gestualità eccentrica e autoriferita.
Al contrario un maestro esercita il suo magistero più prezioso nel momento in cui ricorda che, se ti togliamo quel che non è tuo, non ti rimane niente. Perché è proprio sulle fondazioni di quel niente che la pratica avviene, e che l'allievo diventa finalmente quello che è.



lunedì 13 dicembre 2010

Destra e Sinistra, o sul ventre cavo dei gazometri


Destra, sinistra, accidenti... A furia di girarli e rigirarli come una matita in attesa di una buona idea, i concetti geometrico-spaziali sembrano frantumarsi tra le dita, esplosi e decomposti in tante minuscole schegge di legno e grafite. O forse sono i concetti tout court, a rivelarsi inadeguati a illuminare la nuova scena politica. E' come se all'occhio dell'osservatore si presentassero ormai solo immagini decomposte, frante, e il suo compito quello di ricomporle dentro il puzzle di un quadro astratto. Un Lego, meglio, un meccano, dove dagli stessi materiali si può pervenire a infinite forme.
Esperienza che ha nella narrativa, in quanto gesto discrezionale nello stabilire rapporti significativi tra le cose, il suo riferimento più immediato. Non più la Storia, con i suoi legami certi di causa ed effetto, o la scienza politica, ma politica come arte, come costruzione del caso e della sensibilità. E sono allora le storie, a occupare la piazza deserta della polis.
In fondo ciò che si cerca da una buona politica è l'applicazione concreta, all'interno della vita di una comunità più o meno strutturata, di categorie come bello, buono e soprattutto giusto. Nozioni anch'esse sgretolate dal rullo compressore della decostruzione novecentesca. Lasciando al suolo solo macerie, frammenti di un racconto possibile, eventuale o addirittura fantastico, impossibile. Scriveva Lacan: “l'impossibile a volte accade”.
Provo allora a chinarmi sulle mie, di macerie, e a cavarne qualcosa come una minima storia politica, forse un apologo.
Io abito in un quartiere della periferia nord di Milano. Si chiama Bovisa, il mio quartiere. In tempi lontani ha preso il suo nome dall'attività agricola e di allevamento bovino che vi si svolgeva. Una zona poco edificata e molto nebbiosa, qualche prospera cascina, pascoli verdi e saporiti. Poi, nei primi anni del secolo scorso e con più forza nel secondo dopoguerra, Bovisa si è trasformata in area artigianale e di piccola e media industria; con una forte prevalenza del settore chimico. Ha dunque profondamente risentito, a partire dai primi anni settanta, della crisi industriale ed energetica, che ha portato alla ristrutturazione e alla Milano da bere degli anni ottanta.
Un quartiere bovino senza più buoi, ecco cosa rimaneva della Bovisa. Ma anche senza più fabbriche, e con laboratori artigianali che preferivano ingrandirsi nella più accogliente Brianza. Lo scheletro scintillante e vuoto dell'impianto di refrigerazione dei gazometri è forse l'emblema di tutto ciò. Come l'enorme colonna vertebrale di un Tirannossaurus rex, a ricordarci che è esistito un tempo diverso e remoto. Non necessariamente migliore.
Infine l'arrivo del Politecnico, una scommessa urbanistica coraggiosa e dall'esito incerto, con i muscolosi dipartimenti di ingegneria, architettura e design, che istallandosi nei vecchi opifici abbandonati hanno saputo risollevare la schiena del vecchio sauro, riconnotando il quartiere in funzione studentesca e di piccola borghesia; una zona dove fare buoni affari, per gli immobiliaristi che vi scorrazzano con scarpe lustre dalla punta rettangolare. C'è chi addirittura parla di futura silicon valley milanese.
Non so se cedendo alla lusinga di quelle scarpe ortogonali e imbarazzanti o a una periferia ruvida e confusa, che non ha ancora deciso cosa fare\diventare da grande, eccomi dunque a Bovisa, pure io. Con il mio appartamento da ricco e il mio portafoglio cronicamente vuoto, tale quale al ventre cavo dei gazometri.
Per mangiare, a mezzogiorno, funziona così. Più ti avvicini a uno dei numerosi edifici dell'università, più aumenta, proporzionalmente, anche l'incidenza di piccoli bar, trattorie, tavole calde dove pranzare con pochi spiccioli. Il mio preferito si chiama Speranza, chiaramente per il nome. Ma anche per il magnifico minestrone, nella doppia versione con o senza riso, cucinato dall'anziana madre di Paolino, il titolare del locale. Primo, secondo e contorno fanno sette euro e cinquanta. Che diventano nove se ordini anche una caraffetta di vino rosso. Io per me lo prendo, voi fate come vi pare.
Un altro posto dove vado spesso è la Montagnetta bis, da cui si deduce una primogenitura disseminata da qualche altra parte, sorta di archetipo platonico a cui tutte le Montagnette seguenti possano ispirarsi. Agli originali io ho comunque sempre preferito le copie, come per i Rolex o gli Adriani Celentani, di cui ogni bar Sport contempla una versione da esportare ai concorsi estivi per imitatori. Insomma, vado alla Montagnetta bis. Dove una volta ho mangiato: un piatto di spaghetti alle cozze seguito da pesce spada alla piastra con contorno di patate al forno al rosmarino; ma anche una porzione di spinaci saltati con aglio, olio e peperoncino, quale doppio contorno a cui avevo “diritto”; il tutto condito dal solito quartino di vino rosso; caffè; correzione di grappa. Quando sono andato alla cassa per pagare, sul mio scontrino ci stava scritto nell'angolino in basso a destra: otto euro.
Con otto euro, giuro, se io faccio la spesa riesco a comprarmi al massimo quattro budini di soya all'aroma di vaniglia; forse perché vado in posti dove vendono quei cibi da stronzi tipo budino di soya alla vaniglia, per ipocondriaci alimentari e gente priva di immaginazione gastronomica come me. In ogni caso: pesce spada, cozze, otto euro... Mica l'ho ancora capito come fanno.
Per penetrare dentro i segreti della loro economia domestica, ho così iniziato a fargli qualche domanda, dilazionata nel tempo e quando non stanno sparecchiando o servendo ai tavoli dove si accalcano gli studenti del Politecnico. Non che siamo proprio amici ma si è creato un buon rapporto, tra me e quelli della Montagnetta (la Montagnetta bis, sia chiaro!).
Sono quasi tutti egiziani e imparentati tra di loro, i montanardi. Il più anziano, come sempre succede, è arrivato per primo una quindicina di anni fa, e risalendo la scala dei lavori più umili deve essere riuscito ad aprire la Montagnetta; parlo di quella originale, l'archetipo gastronomico. Quindi sono arrivati tutti gli altri, che con il parente iniziale – “l'archetipo antropologico”, diciamo così per estensione – condividono poche certezze. La prima è il tifo incondizionato per la squadra del Milan. Il secondo, la passione politica per Berlusconi. E pur intuendo un nesso tra le due cose, non ho ancora capito quale viene prima e quale dopo, la causa e l'effetto. Per la costruzione della mia storia bastano però questi soli dettagli, di cui prendo atto e me li segno da qualche parte: otto euro; immigrati egiziani; Berlusconi; Milan. Prima o poi, vedrete, ci torneranno utili.
Quindi faccio un'ellisse spaziale e temporale, raggiungendo un altro locale presente nella zona. Si chiama Scighera, equivalente milanese per nebbia, ed è un circolo Arci piuttosto noto e attivo da queste parti, distinguendosi nell'organizzazione di numerose e belle iniziative serali. Si tratta perlopiù di concerti, ma anche teatro, conferenze, presentazioni letterarie o serate a tema di gastronomia regionale; oltre che il consueto menu diurno per studenti e lavoratori.
Una volta ci sono andato anche io, per pranzare alla Scighera. Ma osservando la lavagnetta in cui è esposta la lista dei piatti del giorno con i relativi costi, mi sono accorto che se mi fossi fermato a mangiare non me la sarei cavata con meno di quindici euro; anche più di venti, per un trancio di pesce spada e tutto il ben di dio che ti danno gli egiziani. Così sono tornato indietro e sono andato da Montagnetta bis, o da Speranza, ora non ricordo.
Con l'andar dei giorni si è però creato un rapporto di cordialità e simpatia anche con il personale della Scighera, che immagino ovviamente di sinistra; insomma, non so per quale squadra tifino, ma di certo non votano Berlusconi. Dovendo organizzare una serie di seminari sullo studio comparato delle principali religioni e tradizioni spirituali – sarebbe forse più giusto parlare di “fenomenologia del sacro”, ma non facciamola troppo lunga – ed essendo venuta meno la sala in cui il filosofo Gianfranco Bertagni avrebbe dovuto tenere le lezioni, mi è venuto in mente di domandare a quello che a me appariva come il capo della baracca se mi affittava, per un paio di domeniche o poco più, l'ampia sala che si allunga dietro una piccola porta alla Scighera.
La sua risposta è stata: “Da noi, religioni... Stai scherzando, vero?”
“In che senso?”, ribatto io come quando tutti ridono dopo una barzelletta, di cui tu non hai capito il finale.
“Guarda, se vuoi posso darti una mano a trovare un locale dove tenere i tuoi corsi”, risponde questo uomo alto e con la barba, gli occhi rapidi e svegli dietro la montatura spessa degli occhiali; un uomo o forse un ragazzo che come me dimostra probabilmente più anni di quelli che ha; una quarantina forse appena scavallata, così a naso. “Ecco, prova al circolino nella parallela a via Candiani”, continua lui, “forse loro possono affittarti la sala. Ma noi, religioni, proprio non se ne parla. Mi dispiace”.
E così, negli appunti per la mia storia, io mi segno: circolo Arci; sinistra; religioni; “proprio non se ne parla”. Ma anche: primo, secondo, contorno: euro sedici. Il doppio esatto della Montagnetta bis. Ma in fondo anche “mi dispiace”, perché era un uomo o forse un ragazzo gentile.
Provando ora a tirare qualche somma (narrativa) da questi eventi completamente slegati tra loro, con una certa sorpresa mi accorgo che un soggetto, per quanto ricreativo e non direttamente politico, ma che comunque si richiama ai valori e alla storia della sinistra, si rivolge a una clientela che non è ciò che un tempo si sarebbe chiamata “base popolare”. Io, ad esempio, che pure possiedo una casa da ricco e ingurgito cibi da stronzi come il budino di soya alla vaniglia, non posso permettermi di pranzare alla Scighera, che ha prezzi doppi a quelli che si possono trovare in quasi tutte le trattorie che trapuntano il quartiere.
Eppure il circolo Arci della Scighera è effettivamente di sinistra, e me ne accorgo osservando con quale impeto viene difeso un tema che, fino a pochi attimi prima, io avrei giudicato anacronistico e del tutto estraneo alla scena politica odierna, quale è appunto l'idiosincrasia curiale che deriva da una convinzione di assoluta laicità (ma sarebbe forse più giusto dire "casualità") della condizione umana; che, tra parentesi, è cosa diversa dall'indipendenza religiosa a cui sono tenute le istituzioni democratiche. Una posizione che nella storia dei movimenti di ispirazione anarchica o marxista ha portato a una viscerale idiosincrasia per qualsiasi riflessione si insinui sopra a tale apodittica certezza: oppio di popoli, le religioni. Punto e a capo e non se ne parli più.
Ma se seguiamo il filo logico dei pensieri, è ugualmente doveroso riconoscere che anche gli egiziani della Montagnetta bis sono effettivamente di destra – votano a destra, hanno sogni e aspirazioni di destra, alle pareti stanno aggrappati televisori che inondano la sala di programmi e telegiornali di destra – nonostante i prezzi popolari della loro cucina, e le pezze al culo con cui probabilmente sono arrivati alla rincorsa della loro legittima fettina di modernità.
Ed è così che la nostra storia è tenuta a una svolta, un'agnizione. Non è vero, non lo è più, almeno, che i termini destra e sinistra qualificano dei comportamenti, una prassi non necessariamente morale ma comunque effettiva – che ha ricadute in ciò che chiamiamo realtà – quanto a me pare un'estetica, uno stile. Esiste cioè qualcosa come una coniugazione solo apparentemente contrapposta del gusto, o se vogliamo precisare psicologicamente il concetto io direi che si tratta del "principio di piacere". Tanto che questa cosa, questo piacere, può essere di destra in base a un semplice accordo, perlopiù implicito, attorno a una figurazione aggiornata del “godimento”, come direbbe ancora Lacan. O come sua alternativa, un godimento e un piacere formalmente di sinistra (ma visto che la sinistra possiede questa tendenza a dividersi e disperdersi, ne ricaviamo più godimenti, più tribù del gusto).
Potremmo perfino definirla una “moda”. La moda di sinistra è incompatibile con l'estetica religiosa, gli incensi, l'iconografia storica del sacro per il semplice fatto che siamo abituati a vederci allo specchio in questo modo, ereditato dalle fotografie seppiate di vecchi anarchici mangiapreti. Stiamo insomma facendo una citazione, come Giorgio Armani quando citava il taglio delle giacche dei gangster degli anni venti. Gli eventuali contenuti religiosi o spirituali prescindono totalmente da questo giudizio di superficie, ma non necessariamente superficiale. Essere al mondo, nel mondo, significa infatti e prima di tutto assumere una forma, una postura estetica. E i termini destra e sinistra fotografano ormai unicamente tale forma.
E' come se la trivella dell'esperienza si fosse arrestata alla scorza degli eventi, che vengono riconfigurati nel linguaggio non per i loro effetti, la loro presa sul reale e sulla storia, ma incisi sopra la tavolozza di una meta-storia che coincide perfettamente con i codici della narrazione: una sorta di tautologia simbolica, di ornamento lessicale. Se togliamo così dall'orizzonte della sinistra radicale i suoi oggetti concreti di rifermento – il popolo, la rivoluzione proletaria e la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio – otteniamo un'impressionante implosione semantica, che viene colmata attraverso l'estetizzazione della propria vicenda politica. Non c'è nemmeno più bisogno di un Andy Warhol, per rendere del tutto afasica l'icona di Che Guevara che occhieggia dalla t-shirt stropicciata in un centro sociale. Pura moda.
Ma la stessa cosa, certamente, vale anche per la destra. Attraverso quella singolare novità testuale costituita dal berlusconismo, la destra si è trasformata in una schiumetta a pelo d'acqua allettante la sensibilità con i soli codici del piacere sensoriale: il sesso, il cibo, l'avvenenza esteriore e di status. E ovviamente e ancora la moda, di cui ha spostato i codici espressivi fatti di vincoli non causali, azzeramento delle gerarchie (cronologiche, significative, di valore) e centralità mistica del corpo, mentre la ritualità con cui si manifesta è al netto di una mitologia sottostante. Richiamandosi infine a una tradizione, il liberalismo, del tutto reinventata nella sovrapposizione di riferimenti politici del tutto incongrui.
Ma cos'è una tradizione che ha interamente perso ogni aderenza con la realtà vissuta che l'ha originata, se non folclore? Folclore di destra e folclore di sinistra, naturalmente. Comunque folclore.
Eppure, oltre al folclore e ai codici della moda a cui tacitamente si richiama, altri termini potremmo scovare dentro i nostri vocabolari quotidiani sempre più sfiniti. Termini antitetici, che dunque implicano il principio di responsabilità e una libera scelta, quali buono o cattivo, giusto o sbagliato, bello o brutto, vero o falso... Li abbiamo già incontrati, sì, nel nostro quasi racconto. Sembravano inservibili reliquie da un altro evo linguistico, e invece si dimostrano più che mai necessari. Perché è sopra a tali termini che diventa ora importante misurare le ricadute dei comportamenti individuali, l'aspirazione a un linguaggio che faccia nuovamente perno sulle cose. Le appartenenze politiche sono ormai dei semplici guardaroba, di nuovo come lo scheletro cavo dei gazometri: simulacro di ferro e bulloni, tralicci sospesi sul nulla che vedo sfilare all'orizzonte mentre rientro al mio appartamento da ricco alla Bovisa, con le tasche vuote.
Si può essere buoni e di destra, penso allora mentre estraggo dal frigor un budino di soya alla vaniglia, cattivi e di sinistra, giusti o veri o belli e di centro... E' solo nel sistema della moda che esiste questa ossessione del fare pendant, gli accostamenti suggestivi. Nell'etica individuale e politica contano molto più le ricadute delle azioni, non la coerenza espressiva ma quella tra propositi e risultati, tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, come suggeriva qualcuno.
Quanto a destra e sinistra, ognuno si tenga pure la moda e i gusti che preferisce. Io, per dire, io preferisco il minestrone che prepara la vecchia mamma di Paolino, quando plana fumante sul mio tavolo apparecchiato alla Speranza.

(ps - Ah, per la cronaca: i seminari sulle tradizioni spirituali sono stati organizzati per davvero. Chi fosse interessato può cliccare qui per informazioni, o scrivere o telefonare direttamente a me per adesioni o dubbi. Al link appena lasciato - di nuovo qui - trovate in ogni caso tutti gli estremi.)

domenica 29 agosto 2010

Contemporanei


Il 26 agosto è morto Raimon Panikkar, lo scopro soltanto ora.

Tempo fa, chiedendomi in quale cavolo di epoca fossi ruzzolato, mi ero dato questa provvisoria risposta: sono vivo, mangio, respiro mentre mangia, respira e vive anche Raimon Panikkar.

E' un mio contemporaneo, insomma. E trovavo consolante questa sensazione.

Contemporanei come Dante e Guido Cavalcanti, come Bacon, Shakespeare e Cervanes; gli ultimi due morti addirittura lo stesso giorno, il 23 aprile 1616. Oppure come Topolino ed Eta Beta, il cui nome esteso è Pluigi Psalomone Pcalibano Psallustio Psemiramide Pluff, e condivide le rogne di Topolino con Pietro Gambadilegno pur provenendo da un tempo futuro, il 2447.

Cosa Topolino faccia esattamente nella vita però non l'ho mai capito, e a maggior ragione Eta Beta; a parte sgranocchiare palline di naftalina e starnutire ogni volta che vede una banconota, a cui è allergico.

Raimon Panikkar invece è stato un grande teologo spagnolo. Ma anche un chimico, un letterato, un filosofo; tutte materie in cui aveva conseguito una laurea, oltre alle svariate honoris causa. Pare inoltre che parlasse una ventina di lingue, anche se lui si schermiva all'argomento, spiegando che in modo fluente e corretto non più di una decina, tra cui l'italiano.

Il nucleo del suo pensiero teologico si può riassumere nel concetto di “cosmoteandria”, presente anche nel titolo di uno dei suoi numerosi libri, qui pubblicati solo in parte; di ciò bisogna ringraziare Jaca Boock per il prezioso lavoro di traduzione. Scomponendo questo termine spigoloso che sembra uscito da un fumetto di Eta Beta, otteniamo tre elementi distinti. Vale a dire il mondo o meglio la realtà materiale (cosmos), Dio (theos) e l'uomo (anthropos).

Nessuno di essi, come in una trinità innervata, reificata nell'ordine manifesto delle cose, può però darsi in modo indipendente dagli altri. E' la relazione, come già aveva intuito Agostino, a costituire l'identità delle singole parti, e parlare di gerarchie spirituali non avrebbe dunque alcun senso. Dio ha bisogno dell'uomo quanto l'uomo di Dio. E il mondo, questo mondo, è il luogo del possibile incontro.

Lo spirito - santo o meno - rappresenta così il tramite di tale relazione tra uomo, Dio e mondo, il cui effetto sta semplicemente nella consapevolezza della sintesi: tornare alla casa del Padre non significa altro che tornare a casa propria, come per gli alchimisti rinascimentali.

Oltre alle suggestioni alchemiche, il pensiero di Raimon Panikkar si nutre della tradizione speculativa orientale, da lui approfondita per origini biografiche (il padre era un aristocratico indiano), studi e lunghi soggiorni a Varanasi, la città santa nei pressi del Gange. A chi gli chiedeva come potesse dichiararsi vicino alle posizioni buddhiste e induiste, senza negare il Cristianesimo a cui si era votato come sacerdote e gesuita, lui rispondeva che la spiritualità non procede per opposizioni logiche:

"Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindú e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano".

Come a dire che se, nella carne, non si può essere vivi e morti allo stesso tempo, nell'anima questo non solo è possibile, ma necessario. Tanto che il Cristianesimo sarebbe davvero una piccola cosa - una cosa morta - se chiudesse le finestre allo spirito, quando soffia all'esterno delle proprie stanze. O come amava dire, la religione è qualcosa che lega (religio) ma anche slega, libera ed espone al libero flusso delle cose, soprattutto quelle che più ci appaiono estranee. In questo immetterci al cospetto dell'Altro, in tutti i sensi, il Cristianesimo scorge ciò che gli è proprio. Ed è il sublime paradosso religioso, la folle scommessa.

Ecco, più che un teologo sincretico, occupato in costruzioni meccaniche con elementi spuri, Raimon Panikkar appariva allora come qualcuno che spalanca porte e finestre e si dispone alla brezza dello spirito, che per definizione soffia dove gli pare. Sì, un uomo che amava respirare, vivere, forse anche magiare come il Buddha storico, che dicono sia morto per un'indigestione di funghi.

E così pure io continuo a mangiare, vivere, respirare. Ci mancherebbe. La sera mi capita di leggere qualche pagina di Dante, Shakespeare, Cervantes o più spesso Topolino - ma chissà che fine ha fatto Eta Beta, non se ne parla più... E canticchio una canzone triste e leggera, perfino, ma solo ogni tanto.

La parole di quella canzoncina però continuano a sfuggirmi, e anche la nostra epoca senza boccaglio. Dove Raimon Panikkar ha smesso di aprire porte e finestre e poi semplicemente respirare. Ma anche di pensare all'ossigeno che mette in relazione il cielo con il cuore, di scriverlo in lunghi e profondi volumi, e di pregarlo di continuare a soffiare in questo tempo, già che un altro tempo non è dato.

L'unica felice eccezione è Eta Beta, naturalmente, che ha in tasca un biglietto di ritorno per il 2447.

E' allora grazie anche a Raimon Panikkar se ho capito che questa è la porzione di orologio a me assegnata, la mia chance e unica scheggia di eternità. Ma con chi posso condividere il ticchettio delle lancette, gli scossoni del viaggio, adesso che lui è tornato a casa? Vediamo quali compagni di scompartimento sono rimasti: Denis Verdini, forse... O Maria de Filippi, Lapo Elkann, Belen Rodriguez.

Ma soprattutto mi mancherà il suo sorriso, il sorriso di Raimon Panikkar. Lo schiudersi della labbra in quel modo che nemmeno dopo anni di actor studio, no, in quel modo lì sorrideva solamente lui... Un uomo di cui era bello sapersi contemporanei.

(PS - Segnalo questo breve e intenso filmato su Youtube, dove è possibile trovare molto altro materiale sul teologo scomparso, tra cui lo spezzone di una bella intervista realizzata da Franco Battiato. Ricordo inoltre, e raccomando, anche l'ottimo sito curato da Gianfranco Bertagni. In cui è presente una mirata selezione di testi in italiano di e su Raimon Panikkar)

martedì 24 agosto 2010

Antigone o Creonte?, o sul dilemma etico degli autori Mondadori


Nel mio post precedente ho fatto riferimento a un utilizzo alternativo e più occasionale di questo blog, non certo a un congedo definitivo, come da alcuni è stato inteso. In particolare, verranno pubblicati testi con una genealogia indipendente - il mio è insomma un congedo dall'attività di blogger, che alla lunga ho trovato sterile e dissipativa. Coerentemente a quanto anticipato inizio col presentare un mio commento inserito sul sito web dello scrittore Fulvio Abbate. Il tema era quello degli autori pubblicati da Mondadori, in seguito alla richiesta di chiarimenti amministrativi, o più in generale etici, del teologo Vito Mancuso.


Caro Fulvio,
in questo tuo ultimo intervento sul problema di coscienza che coinvolge gli autori Mondadori, sollevato dal lucido e appassionato articolo di Vito Mancuso sulle pagine de
la Repubblica, in cui rilanciava interrogativamente la questione, tu suggerisci una soluzione (univoca) che potremmo definire etica, e così riassumibile:

andarsene da Mondadori. Punto. Stop.

Ascoltandoti con il consueto interesse, a me è venuto però da spostare l'asticella del dubbio ancora più a monte, chiedendomi a quale etica tu e Vito Mancuso faceste riferimento...?

Non è una provocazione, davvero, ma un dubbio serio e argomentabile. Infatti, mentre Mancuso manifesta un'incertezza quantomeno procedurale, tu emetti una sentenza che non contempla margini di discussione. Aderendo quindi, senza esitazione, a un orizzonte pubblico e civile dell'idea di bene, che come un uovo di Pasqua già contiene in sé la sua risposta.

Ma esiste anche un'etica dei rapporti umani concreti e individualizzati, ciò che un tempo si sarebbe forse chiamato "onore". Proviamo allora, anche solo per gioco, a osservare tutta la faccenda in una particolare definizione policentrica dell'etica, così come prospettata dalla riflessione filosofica di Immanuel Kant. E cioè seguendo l'ipotesi, suggerita dagli stessi autori Mondadori, che nella specifica situazione siano presenti non una ma due figure di bene, o di virtù laica, tra loro in tacita competizione.

La prima figura di bene, unanimemente addotta dal coro dei mondadoriani, è una sorta di adesione prerazionale ai valori di amicizia e di riconoscenza umana. Che si accompagna a un giudizio netto e coerente in merito ai redattori, capi redattore, direttori di collana e funzionari Mondadori, tra cui lo stesso Antonio Franchini da te giustamente ricordato. Ecco, la ragione da loro implicitamente sostenuta sarebbe quella che non si tradisce chi ti ha trattato con rispetto e favore, non si voltano le spalle all'amico che ha così consentito, negli anni, la tua massima libertà espressiva.

Sull'altro piatto della bilancia kantiana, abbiamo però la presunta - anzi probabile - negligenza amministrativa dei vertici aziendali, che grazie agli appoggi politici (in questo caso sono molto più che appoggi, direi una coincidenza di stato), che grazie insomma alla nota condizione del conflitto di interessi, si configurerebbe ora come zavorra di un male non più personale ma collettivo.

Una legge che non mira, come dovrebbe, all'interesse pubblico. Ma a una utilità privata, meschinamente aziendale.

Abbiamo a questo modo due figure di bene che confliggono. La lealtà ristretta e individualizzata a un altro concreto, umano e professionale, di contro alla lealtà all'Altro universale e indotto: il popolo, la società civile, le istituzioni democratiche e perfino un'idea trascendentale e assoluta di giustizia. Ma abbiamo anche due figure di male altrettanto esclusive, quali il disonorevole tradimento dell'amicizia e della riconoscenza umana (andando via da Mondadori), che si contrappone al tradimento dei patti di equivalenza, anche ma non solo economica, di una comunità organizzata su basi formali (rimanendo in Mondadori).

Questo breve esempio, magari un poco ingenuo, lo trovo comunque utile per spostare il giudizio da un piano che a me appare eccessivamente astratto - una vaga idea di bene e di virtù - a uno specifico aspetto della questione, più sdrucciolevole ma anche più preciso, incarnato. Che porta a un esito non meccanico e moralistico, ma ineludibile nella sua forma logica, nella sua cogenza interrogativa.

Infatti gli autori che decidessero di continuare a pubblicare i loro libri con l'editore Mondadori, considererebbero, anzi considerano il bene privato - la lealtà all'amicizia - superiore al bene pubblico, pur non negando necessariamente la virtù civile che viene così subordinata. Darebbero insomma una risposta "filologicamente" di destra, intendendo con destra quella corrente storica del pensiero che fonda l'idea del bene nella fedeltà cameratesca all'amico, e cioè nella parte rispetto a un tutto percepito come artificioso e lontano.

Ed è una prospettiva tribale, da moralità del sangue e della terra. Dove l'interlocutore si limita all'orizzonte della sua visibilità fisica, all'esperienza vissuta tramite i sensi.

Mentre chi optasse per un cambio di editore, come don Andrea Gallo, reputa, almeno da un punto di vista gerarchico, il bene pubblico quale bene superiore. E dunque vincolante i comportamenti personali, in conseguenza dell'intellettualizzazione e astrazione dell'immagine dell'altro, come credeva lo stesso Kant. Un bene maggiore, se non un bene assoluto, e per tale ragione un bene democratico. Ma più mediato e slegato dall'esperienza diretta e viscerale del mondo.


O se vogliamo dirla con una battuta: gli autori Mondadori si trovano ora a dover scegliere tra Antigone e Creonte, e non è detto che i ruoli siano così scontati...

lunedì 16 agosto 2010

(...)




Come già anticipato nel post del 14 agosto, Fontana con soldino termina qui. Non essendosi stabiliti significativi legami di reciprocità, diciamo così, non mi sembra di dovere alcuna ulteriore spiegazione. Se non forse a Carlo, l'unico assiduo e partecipe frequentatore di questo blog, che essendo anche mio amico e complice libraio, avrò di certo occasioni in ciò che chiamano "vita vera". Un'espressione che fino a qualche tempo fa trovavo nauseante e sciocca - come se non ci fosse verità, perfino più verità, in una pagina di Faulkner che in una domenica pomeriggio in visita a un ipermercato - ma che sto invece tornando a rivalutare. Massi, caviamocela a questo modo: saluto e ritorno alla vita vera, o almeno ci provo ad averne una come dio comanda. Quanto a Fontana con soldino, ho deciso di non chiudere in via definitiva. Di cancellare tutto, insomma. Oltre alla memoria in archivio di questa esperienza, che in ultimo valuto come positiva e perfino emozionante, è possibile, anzi probabile, che in futuro io faccia qui confluire i testi che andrò via via realizzando, il mio lavoro giornalistico e narrativo. Le cui finalità e cadenza, trovo importante sottolinearlo, saranno però autonome ed estranee alla curiosa genetica di un blog. Saluti, dunque. E buone cose.

sabato 14 agosto 2010

Capriole, o sui dubbi ginnici del blogger


Mi sono accorto, stavo verificando il numero delle visite quotidiane su questo blog, c'è un contatore elettronico che se ne occupa non devi fare nulla, solo inserire un codice html e poi accenderti una Marlboro, se fumi, io no, mi sono accorto che questo blog raggiunge una media di contatti intorno alla cinquantina, almeno quando pubblico un nuovo intervento. Che, pensavo, è più o meno il numero di persone presenti durante l'ora di ginnastica a scuola, quando vengono unite due classi normali da venticinque. Metà della palestra viene poi occupata dalle femmine con una professoressa tutta per loro. Di solito batte un tamburello, o perlomeno nei primi anni ottanta funzionava così, per qualsiasi cosa le professoresse di ginnastica battevano un tamburello, e vestivano in tuta. Ma questo non solamente nelle ore in cui erano impegnate dalle lezioni, anche di pomeriggio, la sera quando vanno a cinema con il fidanzato, sempre con una tuta attillata per evidenziare i muscoli tonici e scattanti, geometrica compostezza femminile che assale pure le compagne, impegnate in esercizi ortogonali da raduni del sabato fascista, con Starace che balza nel cerchio di fuoco a torso nudo e pantaloni immacolati e lunghi. L'altra metà della palestra è invasa da maschi scatenati e sciolti, il professore legge la gazzetta e si accende una Marlboro, se fuma, io ora non più, mentre gli scatenati giocano a pallone con regole autarchiche, o fanno le capriole sopra a un materassino verde. Chi già frequenta un corso di judo, è sempre più bravo degli altri a fare le capriole sul materassino verde - giocando a basket, a me venivano così così - mentre quelli che ascoltano la musica dark non la fanno proprio ginnastica, dicono che è una roba inutile volgare rozza, restano in disparte a fumare Rothmans, Chesterfield oppure Dunhill. Gli altri, terminate le loro capriole, rispondo a quelli che ascoltano la musica dark, il ciuffo cadente fin sopra agli occhi e gli abiti neri, anelli e collane ma non pesanti come quelle dei metallari - i tatuaggi ancora non dilagavano, e nemmeno il piercing -, gli altri rispondo con una parola in dialetto di queste parti che suona più o meno così: "fruscett", credo si capisca cosa vuol dire. Io invece ascoltavo Bruce Springsteen e facevo le capriole sul materassino verde e giocavo a basket. Fumavo anche Marlboro, allora. Insomma stavo a posto. A parte questo, mi sono accorto dal mio contatore delle visite - sta in basso a destra, la scritta ShinyStat - che ogni volta che pubblico un nuovo intervento è come se facessi una capriola davanti a tutti, ragazze e ragazzi, durante l'ora di ginnastica. O come se leggessi il mio temino davanti alle due classi nuovamente ricomposte e distratte: i maschi non vedono l'ora di tornare in palestra la settimana successiva, fare le capriole e giocare scatenati al pallone, la professoressa in tuta, sotto sotto si intravedono le mutandine, forse sono di pizzo, il tamburello tum tum tum, i dark che fumano pigramente Rothmans, Chesterfield oppure Dunhill. E le femmine, le femmine non so... Davvero, non so, continuo a non sapere e non capire. Eppure, attraverso questa memoria scolastica, mi sembra di poterlo percepire, lo vedo prima ancora di sentirlo, una cartolina dagli anni ottanta che mi ha lasciato un po' di malinconia e molti dubbi. Non so dunque se continuerò ad andare avanti col mio blog, Fontana con soldino è possibile che finisca qui. Non c'è progetto, relazione, gioco. E nemmeno riconoscimento, diciamolo pure. Un esercizio ginnico senza disciplina del corpo e umana condivisione. Sì, faccio sempre più fatica a comprendere le ragioni di una capriola. E non avendo fatto judo, non ho mai imparato a cadere in piedi.

venerdì 13 agosto 2010

Sara

Nel telefonino, a me la rubrica elettronica nel telefonino,
almeno all'inizio, a me sembrava una grande invenzione:
semplice, tecnologica, svelta e tutto quanto:
ti viene in mente qualcuno e premi un tasto
e scorri un elenco e premi un altro tasto
e dall'altra parte vien fuori il tuo nome,
sopra a un altro telefonino.
Ecco, io pensavo, almeno all'inizio,
che doveva essere così per ognuno.
Ma la mamma, vedo mia mamma
lei continua a ricopiare i numeri su un foglietto
di carta ingiallita, con le righine piccole, da computisteria.
Così quando le vien da chiamare Pincopallino, la mamma
cerca il suo foglio di computisteria nella borsa,
dove ha segnato tutti numeri di telefonino
di tutte le persone che conosce
e anche il gruppo sanguigno, se la investono.
In questo modo, mia mamma, ma solo certe volte,
quando trova il foglietto ingiallito nella borsa,
le è passata anche la voglia di chiamare,
si accorge di non avere mica niente da dire
a Pincopallino, e rimette nella borsa il suo foglietto.
Da alcuni giorni - perché non provare mi sono detto -
ho iniziato a praticare anche io questo sistema:
quando mi vien da telefonare, qualcuno che conosco,
sta nella rubrica elettronica del mio telefonino,
prima cerco un foglietto, un pezzo di carta qualsiasi,
nel portafoglio o in tasca o perfino in terra,
tanto non cambia nulla, è per prendere tempo...
rimandare.
Fino a che, ieri, non incontro uno
- stavamo al supermarket -
uno gentile, mi vede chinato mi dice Cosa stai cercando,
posso darti una mano, lo faccio volentieri?
E guardava anche lui per terra,
sotto gli scaffali, dove ci sta lo shampoo antiforfora
e a me veniva un po' male, mandarlo via così, era uno gentile
doveva essere lì a causa della forfora e insomma
gli rispondo Sì, grazie, sto cercando Sara:
dopo Sabrina e prima di Stefano.

giovedì 12 agosto 2010

La cagna di nove anni

La cagna di nove anni oggi mi ha detto che non voleva entrare nella fontana per bagnarsi la pancia. In realtà non me l'ha proprio detto, ma è la prima volta che la cagna di nove anni non entra nella fontana, quindi si accovaccia come uno che entri nel mare, prima di tuffarsi, prima di tuffarsi uno si bagna le braccia e poi la pancia e poi il petto. Infine il tuffo. E' la prima volta che la cagna di nove anni non vuole immergersi nella fontana come un bagnante appena entrato in mare, a piccoli pezzi, provvisori compartimenti di sé, con le ondine che gli arrivano ai coglioni e lui saltella all'arrivo di ogni nuovo frangente, che gli lascia un alone umido sul costume, come se si fosse fatto la pipì addosso. Così, pensavo, la vita di un cane somiglia un po' a quella di chi sia lì lì per fare un tuffo: prepararsi e aspettare saltellando il proprio momento, prepararsi e aspettare racchiuso in parti, recinti, scatolette e bocconi, con il guinzaglio in bocca e il solletico ai coglioni delle ondine. Sì, pure io sono un po' stufo di bagnarmi sempre e solo la pancia, ho risposto alla cagna di nove anni.

martedì 10 agosto 2010

Divagazione patetica che più patetica non si può, o sulla fisica dei solidi



Oggi ho visto la mamma di Franca che non riusciva a salire sopra alla sua bicicletta.

Franca è una mia compagna di scuola delle elementari. Piccola, graziosa, minuta. La mamma di Franca è sempre stata tutto il contrario: un donnone dall'aspetto contadino, direi romagnolo. Anche dal cognome si intuisce che non sono originari di queste parti, ma non saprei bene dove collocarli, né quanti anni potesse avere allora.

Alle elementari le coordinate spazio-temporali sono come fluttuanti, e si precisano solo dentro la presenza di un corpo.

Ginevra aveva capelli lunghi, soffici e luccicanti. Ricordava la protagonista di un carosello che inizia con un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, e continua con una famiglia scandinava che lancia sassetti dentro l'acqua. La ragazza del carosello però era bionda, mentre i capelli di Ginevra neri neri, del colore del corvo. Un giorno Ginevra denunciò la maestra per averle strappato una ciocca dei suoi scintillanti capelli corvini, e si presentò a scuola con un taglio a caschetto, alla Caterina Caselli. Non sono certo dell'autenticità dell'episodio, ma l'immagine della maestra che impugna i lunghi capelli di Ginevra e poi la strattona da una parte all'altra della classe, mi sembra possedere qualcosa di familiare.

Sì, familiare come un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, mentre una famiglia scandinava lancia sassetti levigati sopra al pelo dell'acqua, rimbalzano e rimbalzano ma non vanno mai a fondo. Restano come sospesi nel tempo.

Oppure è il busto esile e dritto di Giovanni, che spunta appena dallo schienale curvo e sottile, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano le sedie e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto. Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il luogo dell'ispezione, e già da quello intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi in classe, sempre più intenso e penetrante.

Farsi la cacca addosso, già, in seconda elementare.

E poi la gioia feroce di essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli - inizio a ridere insieme agli altri, a schernirlo e a dargli del puzzone smerdolone - mentre da sotto la montatura pesante dei suoi occhiali in celluloide spillano i primi goccioloni. Ma lui continua a rimanere immobile, con una lava marroncina che spunta e cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia.

Un totem, un vulcano senza sonoro. Questo è Giovanni. Da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Di Corrado rimane la minuscola cicatrice di quando mi morse un avambraccio. Stavamo al doposcuola, fino alle quattro e mezzo del pomeriggio tutti i giorni, tranne il sabato e il mercoledì, poi iniziava Zorro in tv. Un Pitbull che non molla la presa, in tre cercavano a turno di staccare Corrado dal mio avambraccio, di aprirgli le mascelle con un righello o un compasso. Dovette arrivare il bidello, che mi liberò come l'amo dalla trota. I miei genitori, con prudenza e una sottile aristocratica vena di razzismo - le condizioni igieniche in cui viveva la famiglia di Corrado apparivano quantomeno dubbie -, mi costrinsero a seguirli poi al pronto soccorso, per l'iniezione antitetanica.

L'unica differenza tra Zorro e il carosello di Ginevra è che Zorro aveva un cavallo nero. Mentre Corrado, lo chiamavamo Calimero.

Isacco invece era sempre l'ultimo a terminare il compito. Chi prima chi dopo, consegnava il suo foglio dove Pierino ha cinque mele, ne mangia due, quante ne rimangono? Cose così, lieve brezza per i neuroni. Ma evidentemente non per Isacco. Che dopo svariati minuti di penosa concentrazione iniziava a sudare, a sbuffare, ad ansimare. Infine, rassegnato ma non per questo meno rabbioso con se stesso, ribaltava in terra il suo banco di formica verdina, esibendo il vasto firmamento delle cicche appese là sotto.

Un' eredità calcinata e rosa pallido, quella che Isacco ci rivelava, appartenuta a chissà quali precedenti scolaresche. Che ci passavano le loro deiezioni alimentari come il testimone dell'atleta nella staffetta.

E poi l'abito di Silvia una mattina di carnevale. Un vestito lungo e azzurro e ricamato, da damina incipriata alla corte del re Sole, con la sottoveste in pizzo e un'anima conica di metallo a sostenere il tutto. Ricordava la struttura della gondola lariana dei Promessi sposi (l'immagine era presente nell'abecedario alla voce B di barca), ma il viso era quello ovale e splendido di una piccola matrioska, più bella di Orietta Berti. E vederla così, per la prima volta senza l'offesa di una pecetta bianca incollata all'interno di una lente, che gli oculisti in quel tempo amavano infliggere ai bambini.

Corpi, sì, solo questo. Corpi da vedere e da annusare.

Come quello della mamma di Franca, che oggi non riusciva a salire sulla sua bicicletta. Non la incontravo da anni, di lei solo il ricordo di quando raggiungevo la figlia per i compiti e invece di una Brioss ci offriva un caco arancione e sfatto, nelle interminabili merende. Franca invece non l'ho più vista, ma mi diceva un altro compagno - Claudio, i capelli ancora tutti neri e conficcati sul cranio minuscolo e appuntito - che Franca, 43 anni, è già diventata nonna. La mamma di Franca è dunque la bisnonna. Ci prova e ci riprova, alla maniera di chi tolga le rotelle alla Graziella per la prima volta, ma il corpo pesante e vecchio viene ogni volta reclamato dalla terra.

Non come i sassetti della famiglia scandinava, che stanno ancora adesso rimbalzando, il cavallo bianco correndo a briglia sciolta sul bagnasciuga, senza nessuna forza di gravità, nessuna divinità marina o ctonia a ricordare che il prestito è scaduto.

La cosa veramente strana, allora, non è vedere i tuoi genitori invecchiare prima di sprofondare con un ciuf. A quello ti abitui giorno per giorno, il peggio viene dilazionato nello specchio dell'abitudine. Strano e doloroso è incontrare i genitori dei tuoi compagni di scuola delle elementari, ma non sapere infine cosa dire, se ti hanno riconosciuto anche con i capelli diradati, la mimetica da mercenario vezzoso, mentre loro stanno arrancando verso la vetta di un sellino. Né se abbia senso un gesto, una mano.

Ed è ancora il fermo immagine di Giovanni, caro Giovanni, il suo imperturbabile monumento di merda e lacrime, a venirmi in aiuto. Perdonami Giovanni, ci ho messo trentasette anni a capire che l'arguzia non è la migliore tra le virtù, né tutti i luoghi comuni sono stupidi e superficiali. Ad esempio quello che dice cacca di bimbo cacca di angelo, e tu avevi solo perso qualche piuma...

L'altro un po' meno

L'autista di quel furgone ha un braccio abbronzato
e l'altro un po' meno, tutti giorni fa consegne
suona al mio citofono, mi dice Prego scenda
ho un pacco per lei deve firmare il bollettino
dice l'autista di quel furgone parcheggiato
in seconda fila, e io scendo immediatamente.
La lieve incrinatura nel tempo quotidiano
che trasforma in dono ciò che da mesi era atteso
ma non meno sorprendente, come una promessa
mantenuta malgrado il tempo, che non è mai
quotidiano. O forse è il presente, somiglia un poco
all'autista di quel furgone che mi fa cenno
con la mano come dire Sei tu? Finalmente
non sai da quanto ti cerco, vengo da lontano.
E lo si vede proprio che il braccio è più abbronzato
al sole tiepido in aprile dal finestrino
l'altro un po' meno, mi dice firmi il bollettino.

venerdì 6 agosto 2010

Carburatori, pistole, cartelle maculate & torta di mele (dimenticavo: orzata)


Sfogliando un forum di discussione su internet, scopro che una mia amica, scrivendo pubblicamente a una conoscente comune, la chiama tesoro. Non avrei mai detto che questa mia amica utilizzasse l'espressione tesoro. In genere la usano gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne nelle commedie americane degli anni cinquanta, la traduzione italiana per darling. Nei film recenti credo si siano invece messi a tradurre darling con cara, se non sono gli americani stessi che ora dicono dear, non so, ma davvero non me l'aspettavo che la mia amica avesse questa espressione tra le sue corde.

O forse, più che nelle corde, un'espressione sta tra le gambe delle persone, come per gli sportivi. Ci sono quelli che hanno nelle gambe i cento metri in meno di undici secondi. Magari non li faranno mai, resteranno tutta la vita sprofondati dentro un divano a sgranocchiare pop corn e a guardare Elisir in televisione e poi la moviola, la domenica sera, e però continueranno ad averceli tra le gambe: i cento metri in meno di undici secondi, come Mennea che a vederlo non l'avresti detto mai.

Dopo che mi sono imbattuto in questo forum di discussione su internet, ho iniziato a pensare che la mia amica aveva tra le gambe l'espressione tesoro anche tutte le volte che siamo usciti assieme: all'Excelsior per un film, l'unico film che si può vedere qui; il miglior margarita al Jom Bar di Tresivio; Morbegno la sera a camminare e a bere acqua fresca con l'orzata, parlando di libri nel senso di come si impilano ed espongono, si catalogano in una grande libreria. Ecco, tutte quelle volte lì a me è venuto il dubbio che lei sotto sotto pensasse la parola tesoro, come gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne dentro i film americani degli anni cinquanta, quando vanno incontro al marito sullo zerbino con la scritta welcome e gli annunciano radiose che la torta di mele è venuta uno splendore: "a shining apple cake", chissà se dicevano così...

Tesoro però lo dicevano di sicuro, e anche la mia amica, l'ha perfino scritto, in un forum di discussione su internet.

Il grande scrittore tedesco Uwe Johnson ci ha lasciato dei libri bellissimi, come Schizzo per un infortunato. Anche il protagonista del libro è uno scrittore tedesco, riuscito a sfuggire negli Stati Uniti dalla Germania nazista, dove ha poi ucciso la moglie per averne scoperto il tradimento con un politico fascista. Nella realtà, non so se Uwe Johnsonne ne fosse già al corrente scrivendo il suo racconto, ma la sua stessa moglie aveva una relazione con un funzionario dei servizi segreti della DDR, a cui spediva delle informative che riguardavano la vita privata del marito, sorvegliato per tutti i lunghi anni del suo soggiorno americano.

Ogni cosa è diversa da come sembra nei libri e nella vita di Uwe Johnson. Tua moglie, la donna che ti aiuta a mettere un cerotto quando inciampi in quel maledetto foruncolino facendoti la barba, ti spia e tradisce con il peggior nemico, gli affetti si tramutano in conflitti. Ma i conflitti non esplodono mai e restano sopiti, inespressi, come i centro metri tra le gambe mentre guardi Elisir in televisione, pescando dentro un sacchetto gonfio e unto di pop corn.

Walter Guastaldi invece era uno che non te le mandava a dire. Una volta, in terza media, l'ho visto estrarre una pistola da una cartella ricoperta con il pelo maculato di un'animale e puntarla in fronte a uno che il giorno prima gli aveva pestato un piede o detto qualcosa di sbagliato. Era la prima volta che tutti noi ci trovavamo davanti una pistola vera, ma la scena non ci impressionò davvero più di tanto. Se uno il giorno prima uno ti pesta un piede o dice qualcosa di sbagliato, è normale che il giorno dopo gli punti una pistola tra il naso rosso per il raffreddore e l'attaccatura bassa dei capelli. In televisione funziona così, non sto parlando di Elisir.

Poi suonò la campanella e rientrammo in classe al termine dell'intervallo. Anche quello con l'attaccatura bassa dei capelli, fortunatamente ancora vivo e col suo bel nasone rosso, cercando di non starnutire mentre camminava trascinando i piedi al fianco di Walter Guastaldi, attento a non ripestarglieli. Lui al primo trillo si era affrettato a riporre con cura la sua pistola tra il pelo bianco e marroncino forse un giorno appartenuto a un cavallo, o a una capretta sardo-maltese.

Adesso Walter Guastaldi fa il meccanico, è sempre alto ma non è più magro magro, i capelli completamente ingrigiti e sottili baffetti da giocatore di bocce francese, carezzati con soddisfazione dopo un boccia-punto millimetrico in un vicolo acciottolato di Marsiglia. Anche in terza media Walter Guastaldi faceva il meccanico, entrava in aula con le mani orgogliosamente adornate dall'alone di grasso di un carburatore difettoso, ma l'officina era del padre e lui lo aiutava soltanto; almeno quando non era occupato a puntare una pistola in fronte a qualcuno. Le volte in cui l'Opel Corsa di mia mamma perde colpi, lei dice non portarla alla Opel, quelli non capiscono niente, ci prendono i soldi. Portala da Walter che è uno onesto e svelto e insomma è un bravo meccanico. Questo pensa mia madre di Walter Guastaldi, e lo penso anche io.

L'officina si trova poco prima del ponte sull'Adda andando da Sondrio verso Albosaggia, a ridosso di un enorme pornoshop. Quando ci vado, in officina, non nel pornoshop, lui mi riconosce immediatamente dall'automobile, e mi dice ciao caro. Appena apro la portiera e gli vado incontro per stringergli il dito mignolo sollevato come per vedere se c'è vento - i meccanici non ti danno mai la mano, questa è la prima regola - lui mi dice sempre e solo così: Ciao caro. Che a me quando un uomo ti dice ciao caro, non so perché, ma di più quando me lo dice uno che in terza media arrivava a scuola con una pistola nella cartella di pelo maculato marrone e nero e bianco, a me viene un po' da ridere. Ma un ridere bello, che mi lascia contento anche dopo.

Invece se uno mi dicesse tesoro non credo che sarei tanto contento. Lo dicono gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oltre alle donne nelle commedie americane degli anni cinquanta. Ma lo scrive anche la mia amica su internet. Ricordo che quando le ho offerto un bicchiere d'orzata nella veranda di un piccolo baretto di Morbegno, era la prima volta che assaggiava quella bevanda. Ecco, un'altra di quelle cose, non ho mai capito bene il motivo, ma sei contento quando sei tu a far scoprire a qualcuno a cui tieni una cosa che a te appare come un prezioso segreto. E l'orzata è certamente una cosa preziosa, forse non segreta ma buona, e perfino bella: se ti trovassi a giocare bocce insieme a Walter Guastaldi per un vicolo di Marsiglia, potresti scambiarla per un pastis.

Eppure un'orzata non è un pastis, una moglie non è un'agente segreto che ti spia mentre fai la barba, un'amica non dovrebbe usare espressioni come tesoro e un meccanico salutarti con ciao caro, a distanza di trent'anni da quando l'hai visto puntare una pistola in fronte a un tuo compagno di pallamano. Così, più ci giro intorno, e più un finale a questa storia davvero non riesco a trovarlo. Ma tutto ciò mi procura una strana e misteriosa confusione, uno stordimento che diventa il principio di una serenità sommessa. La quale sfoca e mescola i pensieri come lo sciroppo d'orzata, quando affonda e si disperde dolcemente in un bel bicchiere di acqua fresca.

giovedì 5 agosto 2010

Il Bar vecchio e il Bar nuovo


Il Bar vecchio sotto casa mia l'hanno comprato anche quello i cinesi. Ora mia mamma lo chiama Bar nuovo, ma al pomeriggio ci stanno sempre i pensionati che giocano a briscola, le carte unte e ingiallite, con in palio il giro dei frizzanti corretti Aperol o per i più ostinati Campari. La rivincita a scopa.
La sera, però, già a partire dal tardo pomeriggio, da quando il Bar vecchio è diventato il Bar nuovo sono arrivati anche gruppi di giovani marocchini, giovani albanesi, giovani macedoni e giovani "dei nostri", come si dice da queste parti. Più che altro, giovani.
Mia mamma pensa che sia per via della cameriera del Bar nuovo: è piccola, graziosa, gentile e con un sorriso largo e contagioso, che scatta come il braccio del Big Jim quando viene pigiato il tasto nascosto sulla schiena.
In questo caso, il sorriso della cameriera del Bar nuovo scatta quando vede qualsiasi cosa che si muove. Lei sorride. Automaticamente. Pavlovianamente. Come se avesse solamente due opzioni espressive: sorriso on \ sorriso off.
Alcune sere fa sono entrato al Bar nuovo per acquistare una bottiglietta di acqua minerale, da sorseggiare durante un viaggio in automobile fino a Milano. Appena ho attraversato la porta di ingresso è partito il braccio del Big Jim, e la cameriera del Bar nuovo mi ha offerto uno dei sorrisi più sorridenti che, giuro, mi ha fatto mai uno "dei nostri", come dicono da queste parti.
"Desidero una mezza minerale da portar via" ho detto subito io. "Non gasata, per piacere".
"Come ti chiami?" mi ha risposto la cameriera del Bar nuovo, un po' parlando e un po' sorridendo: on, off, on, off...
"Mi chiamo Guido" le ho detto ricambiando con poca convinzione il sorriso. "E tu, posso sapere anche il tuo nome?"
Mi ha risposto con un suono quasi immediatamente scordato, ma sono certo che non fosse un nome cinese. Ci ripenso mentre pago la bottiglietta di acqua Levissima, non gasata, tra me e me penso che quel nome subito infilato nel cestino dei pensieri pareva quasi un nome d'arte, da spogliarellista; ma non lo dico a mia Mamma che se no poi pensa le cose strane, chissà...
Il giorno dopo, rientrato a notte tarda da Milano, sono ripassato di fronte al Bar nuovo, che sta sotto a una pensilina rovente e affiancato da molti negozi evidentemente poco appetibili, alcuni dei quali con un cartello affittasi esposto da mesi. Al termine della pensilina ci sta l'edicola dove prendo tutti i giorni la Repubblica, Zagor Te-Nay una volta al mese e a cadenza settimanale i dvd di filosofia del Corriere; mia mamma dice che è perché ho smesso l'università e non mi va ancora giù.
Mentre superavo l'ingresso spalancato del Bar nuovo, ho sentito una voce, da dentro, ormai avevo già oltrepassato la porta, che gridava:
"Ciao Guidooooo..."
Torno indietro di pochi passi e infilo la testa dentro. Ci stanno i pensionati che giocano a briscola, la rivincita a scopa, frizzante Aperol Campari tutto in regola; un giovane albanese infila qualche euro nella slot machine, mentre con l'altra mano impugna una lattina stretta e alta, credo sia una bevanda energizzante, il braccio molle lungo il fianco; la proprietaria di un negozio di scarpe all'angolo della pensilina tiene una sigaretta spenta tra le dita, ordina due caffè, di cui uno macchiato, e conversa con una conoscente facendo finta di litigare per chi paga, la sigaretta spenta brandita come un pugnale. Infine c'è il sorriso della cameriera del Bar nuovo nella modalità on, il braccio del Big Jim che cala il suo colpo di karate con la certezza che nessun legno può resistervi, prima di tornare provvisoriamente in posizione off e ripetere piano:
"Ciao, Guido".
"Guido"rispondo io, "ti ricordi il mio nome?"
"Certo, io ricordo tutti i nomi".
"Puoi ripetermi allora per gentilezza il tuo?", e a quel punto ho già raggiunto il bancone, le sono di fronte separato solo dalla parata di bustine dolcificanti: zucchero normale, di canna, al fruttosio e ora anche piccole buste colme di miele d'acacia, per i più snob.
"Milou, io mi chiamo Milou. E' Un nome francese", dice lei.
"Francese, sì, certo. Come il titolo di quel film: Milou a maggio, lo conosci?"
Mi sorride. Non capisco se stia per un sì oppure per un no. O forse è un modo per dire che non le importa, tutto quello che sta fuori l'istante in cui stiamo respirando le appare come ridondate. E qui e ora ci stanno solamente due persone che un po' respirano un po' parlano un po' sorridono, e i loro nomi come sospesi sullo zucchero.
Milou.
Guido.
"Ora devo andare, ti auguro una buona giornata Milou", aggiungo dopo il suo lungo silenzio sorridente.
"Buon giorno a te, Guido."
Mi avvio lungo la pensilina rovente, alle spalle il tintinnio delle monete del giovane albanese che ha finalmente vinto qualcosa, le vetrine con i cartelli affittasi e il dvd di filosofia che mi attende incelofanato all'edicola; oggi dovremmo essere arrivati a Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro me.
Ma in fondo basterebbe forse anche meno, penso mentre la proprietaria del negozio di scarpe continua a fingere di bisticciare con l'amica - la-prossima-volta-pago-io-non-si-discute! -, e uscita dal locale può finalmente accendere la sua sigaretta. Basterebbe che i "nostri", tra noi, insomma, come si dice da queste parti e anche senza sorridere, basterebbe provare a chiamarci ogni tanto per nome.
E poi respirare.

mercoledì 4 agosto 2010

Profondità, superficialità... provando a fare un po' di ordine


Ok, vada per la profondità. Quelli che, come il grande critico e saggista francese George Steiner, quando parlano di filosofia lo fanno in greco o in tedesco; discutono di teologia patristica in latino; citano in italiano interi lunghi passi dell'opera cantata; ma per i discorsi di cucina naturalmente il francese, e l'inglese per tutto ciò che viene dopo la seconda guerra mondiale. Ecco, verso questo tipo di profondità provo una normale ammirazione, anche se mi incute un poco di timore.

Mi è diversamente ostile la superficialità di tutto quanto si avvicini a Simona Ventura. Quello è il mio barometro semantico, più sento odore di Simona Ventura e dei suoi amici stilisti, manager automobilistici, calciatori e per non dire degli stacchetti danzanti e i gridolini compiaciuti, la prosopopea dell'indignazione facile col ditino alzato, più effettivamente non trovo altro termine per definirla: superficialità.

Eppure ho l'impressione che questi termini polari - profondità \ superficialità - non corrispondano ai tratti dominanti di questo tempo, che più spesso si assestano su forme sfumate e ad essi intermedie. Bisognerebbe trovare allora dei termini più appropriati, più autentici.

Esiste ad esempio una particolare forma di superficialità che consiste nel navigare a vista, prestando attenzione alle mutevoli condizioni del mare, alla forma esatta e sempre diversa dell'onda, il suo frangersi disuguale. Persone, cioè, che pur essendo sprovviste di una cultura enciclopedica, mantengono vivo l'interesse e l'attenzione verso il dettaglio, ascoltano quel che gli viene detto ed è piacevole ascoltare. Verso questa vigile attitudine per le superfici dell'accadere, ipotizzo un termine diverso, un sostantivo più appropriato.

Chiamiamola provvisoriamente "superficiosità".

A tale atteggiamento di serietà fenomenica, è accomunabile, per contrasto, la profondità di chi affastelli semplicemente immersioni nei saperi, ma si distingue dal nozionismo per una postura riflessiva, discriminatoria e compiaciuta. Una sorta di seriosità noumenica, diciamo così.

E siamo giunti al cospetto di una presunta élite del pensiero. Alcuni hanno voluto chiamarla "radical chic", ma è un termine ugualmente limitato, riferendosi a una cultura settaria esclusivamente di sinistra. Io lo trovo invece un atteggiamento universale dell'umano, che fa della pensosità corrucciata la propria griffe di appartenenza. Una boutique affollata dove incontriamo la vocazione ad entrare nella dimensione sommersa degli eventi, scandagliando le componenti non manifeste dell'iceberg, le cause prima degli effetti. Il problema è che a molte di queste persone manca un vero talento d'apnea, e, a differenza del buon George Steiner con i suoi molti e profondissimi idiomi, si limitano agli elementi estetici del conoscere.

Come se Celentano desse lezioni d'inglese attraverso il testo della sua canzone Prisenensicolanciusol.

Ecco, questo atteggiamento del pensiero, più che al pensiero stesso si riferisce all'induzione ipnotica di un suono, o meglio ancora alla colonna sonora del pensare. Abbiamo così diversi stili musicali del pensiero profondo, che forse anche in questo caso dovremmo battezzare in modo alternativo alla profondità.

Può andare, "profonditudine"?

E' ad esempio un segnale inequivocabile di profonditudine quello di chi entri in libreria e chieda l'ultimo libro uscito dell'editore Adelphi; un editore che ha fatto della profonditudine un suo stemma fulgido di riconoscimento. Ma esiste anche una profonditudine Feltrinelli o Einaudi o per non parlare di certi lettori del Manifesto, che si avvicina in effetti alla categoria già incontrata del radical chic.

In linea più generale, potremmo riconoscere nella profonditudine l'atteggiamento di chi voglia ricollocare immediatamente l'esperienza dentro categorie già preformate; e attraverso le stesse categorie, emulare il gesto anticonvenzionale di chi si sottragga alla corrività dei pensieri superficiali, da esso biasimati come il male peggiore.

Il finto profondo, o "profondituto", è così in buona sostanza un superficiale, ma di secondo grado. Una persona mediamente scolarizzata, aggiornata, perfino arguta e rapida nel cogliere l'andazzo generale. Qualcuno però che ha la necessità di un navigatore satellitare di ultimo modello, preimpostato dalla tribù sociale d'appartenenza. Con le cartine ben dettagliate, può così avventurarsi lungo le rotte battute dell'ovvio, sollazzarsi alle rotonde del banale.

A questo livello ci imbattiamo in un'illuminante convergenza con una nozione più volte incontrata in questo blog, quella di kitsch. Come già abbiamo avuto modo di definirlo, il kitsch rappresenta infatti un’adesione enfatica, ma depurata da ogni elemento di problematicità o di sforzo interpretativo, ad un modello alto e riconosciuto, a cui si accordi un consenso preventivo.

O detta in forma più icastica, con le parole di Abraham Moles: “il kitsch è l’eccesso nella mediocrità”.


Provando dunque a ricapitolare. Abbiamo alcune persone, autenticamente colte e curiose, che utilizzano gli strumenti del sapere per entrare nel profondo delle cose. Per loro la cultura corrisponde alla zavorra del sub: li aiuta a penetrare negli abissi opachi del mondo, a cui aspirano per genuino desiderio di conoscenza.

Quegli stessi saperi, per altri, si traducono invece in uno scafandro, che dopo averli accompagnati in profondità lì anche infine li trattiene, come prigionieri dei troppi libri letti. Una condizione simile a quella descritta da Platone nel mito della caverna: si guardano in giro pensando che siano quelli i fondali marini, ma si tratta invece della tappezzeria dello scafandro. Sempre più chiusa, opprimente. Ma soprattutto senza la sferzata di una ventata fresca e vivificante di ossigeno.

Abbiamo quindi i veri superficiali, su cui non è nemmeno il caso di ritornare. Sono superficiali e basta, dicono cose superficiali, balbettano la loro esistenza dentro una lingua semplificata ed imitativa, che ricavano dalla figure prevalenti del consenso e dello svago. Ma di questa esistenza piccina piccina, in fondo, si accontentano.

La palma della mia simpatia va infine ai "superficiosi". Uomini e donne che sembrano trascurare gli abissi del pensiero, la concentrazione intellettuale. Eppure sono tutto all'opposto che superficiali. Non si affidano infatti a uno dottrina estrinseca o imposta, ma provano a guardare le cose negli occhi di volta in volta. Sì, stanno in superficie. Ma solo perché hanno compreso che nel finale del Piccolo principe si annida un luogo comune pericoloso, di quelli che piacciano tanto alle persone che si stimano profonde.

Loro sanno che l'essenziale è invece ben visibile agli occhi. E come Spinoza confidano nei saperi artigianali, nell'arte sottile dell'ottico. Quindi semplicemente provano a mettere a fuoco.

Un corpo è un corpo è un corpo, o su come lo sguardo mette alla porta l'altro


Nella savana di Facebook, da qualche tempo mi sono accorto del diffondersi di una nuova specie. Si tratta di un'abitudine, femminile in particolare, che riguarda donne che in molti casi considero e ammiro, e di cui seguo il lavoro quando me ne capita l'occasione. Coinvolge infatti scrittrici, poetesse, intellettuali. Donne dai molti e articolati interessi, ma soprattutto di buone parole.

Qui però invece di parlare, di scrivere come sanno fare - e lo sanno fare bene, appunto - hanno cominciato a mostrarsi, a fotografare i minuti dettagli del loro corpo. C'è come un'ossessione centripeta in questi scatti, un'introversione dello sguardo che seziona il "condominio di carne" di cui sono provvisorie inquiline, per usare una bella espressione di Valerio Magrelli, con una perizia analitica che lascia spesso sorpresi. Ma che non può non indurre a un confronto con narratrici altrettanto grandi del passato.

Emily Dickinson, ad esempio. Immaginarsi Emily Dickinson mentre si fotografa un piede, un ginocchio, la curva del collo o quella leggera di un seno. Eppure anche Emily Dickinson ha trascorso l'intera e reclusa esistenza a studiarsi, ad analizzare il suo corpo minuto e pallido nelle infinite possibilità di senso.

Possibilità, a me sembra dunque questa la parola chiave. E significato.

Emily Dickinson ma anche Sylvia Plath, Elsa Morante, Flannery O'Connor, Cristina Campo, Karen Blixen, Marguerite Duras... Nella prosa femminile delle maggiori artiste del secolo passato, la ricognizione letteraria si dava spesso come tentativo di comprendere le possibilità del corpo; possibilità di sottrarsi al puro dato sensibile, per coniugarsi in una relazione significativa.

Perfino nella furia collettiva e personale di eventi drammatici, Anna Frank non si scorda mai del corpo - del "suo" corpo - e ne scruta le metamorfosi nel particolare. Ma anche qui, il pronome possessivo ha la necessità di essere incorniciato dalle virgolette. E infatti da qualche parte, sotto altri cieli o bombardieri della Luftwaffe, è sempre presente un corpo diverso, il fantasma di un innamorato o semplicemente di un altro, che restituisca al corpo il potere di semiosi.

Eraclito sosteneva che il fulmine governa ogni cosa, ed è come se questa diversa polarità della carne avesse il potere di suscitare la scintilla, originare il flusso del racconto. Se non ci fosse un altro, implicato nella grande letteratura femminile, il corpo resterebbe muto, crogiolo organico ma privo di radianza espressiva. Un enigma geometrico per lo sguardo, il contenitore vuoto ma per saturazione del contenuto, o viceversa.

Enigmaticità intransitiva di cui si caricano invece le fotografie dei corpi su Facebook. Le giovani e brave artiste che espongono qui i loro scatti, sembrano interessate alla ricognizione di un pre-testo fisiologico, una grammatica dei tessuti intesa forse come occulta morfogenesi dell'identità verbale, più che allo sviluppo di una fabula erotica e sensuale. O comunque dedite a una biografia assoluta - ciò che succede quando non succede nulla, o almeno nulla che mi tocchi in ciò che mi è proprio e proprio mio - di cui l'immagine è lo strumento privilegiato, indiscutibile nella sua inesplicabile flagranza.

Il loro corpo è così davvero e finalmente loro. Racchiuso, conchiuso, spesso raffigurato in posizione fetale, o nell'articolarsi di una specularità senza sbocco. Un femminile che prescinde da ogni confronto polare, antropologico, storico e politico. Tanto che ai confini dell'immagine è come se fosse presente un cartello con la dicitura: NON TOCCARE, ACHTUNG, PERICOLO!

Una volta si poteva magari semplificare pensando che l'uomo fosse “storia”, mentre la donna “geografia”. Dall'unione di storia e geografia scoccava la vampa del fulmine, e i carretti colmi di pomodori e zucchine cominciavano a trascorrere lenti e cigolanti sopra ai ponti, qualcuno faceva ciao ciao con un fazzoletto bianco dal finestrino di un treno, o dalla poppavia di un traghetto nello sbuffare nero e pesante del fumo Ora invece rimangono questi corpi inviolabili e condensati, come il riccio quando incontra la volpe. La muta interrogazione delle donne allo specchio della comunicazione globale e istantanea.

Mentre il cielo, là sopra, appare sempre più blu. Temporali all'orizzonte nemmeno l'ombra.


(L'immagine è della fotografa statunitense Francesca Woodman)

Sussunzioni


In una fase in cui i rapporti con gli altri - uomini, donne, familiari, politici, internauti, automobilisti, zanzare, ex colleghi di lavoro ed ex amici - sono all'insegna del più completo disincanto, per non dire di una delusione vera e profonda con cui è forte la tentazione di sussumere la categoria generale dell'umano, l'essermi per caso imbattuto in questa video-intervista a Michel Bitbol mi ha almeno un poco rincuorato. Non è l'umanità a fare schifo, ma la mia vita.

venerdì 30 luglio 2010

Eutanasia della corrida, o sulla differenza tra mito e folclore


La Catalogna abolisce la corrida per decreto parlamentare. E' noto, se ne è parlato diffusamente nei giorni scorsi. Ma forse non è ancora propriamente una notizia. Per esserlo, per configurarsi quale notizia, un avvenimento deve infatti sovvertire un ordine atteso. Il cane che morde il bambino non è un notizia, il bambino che morde il cane invece lo è. O se vogliamo utilizzare una diversa metafora, perché si compia un omicidio la vittima deve essere, se non proprio in buona e robusta costituzione, almeno viva. Non è contemplato l'omicidio di un cadavere.

Sorvolando sui numerosi commenti letti, alcuni certo interessanti come quello dello scrittore andaluso Antonio Muñoz Molina, una buona domanda a me pare quella di chi si interroghi sulla linea encefalografica della corrida; prima che il parlamento catalano ne staccasse definitivamente la spina, intendo.

La mia idea è che la corrida fosse in coma già da diversi decenni, o comunque estranea a quel tessuto sottile ma tenace su cui si sviluppano i ricami della Spagna post franchista. Riferendosi invece a un ordine sociale, un sistema di segni ed emozioni profonde, la cui struttura è da riferirsi a un'organizzazione umana precedente. Costituita dal riverbero di simboli antichi dentro un crogiolo di passioni, regole d'onore, stati d'animo collettivi che senza timore potremmo classificare come premoderni e mitici.

Ma sarebbe forse utile chiarire meglio anche quest'ultimo termine, il mito alla cui tavola banchettavano gli dei. Euripide, in una celebre sentenza, afferma che “gli dei sono in tutte le cose.” E diversi secoli dopo Agostino risponde che la verità si ritrova all'interno dell'uomo: “in interiore homine stat veritas”.

Questa corrispondenza tra interno, o se preferiamo anima, coscienza, psiche e l'esterno fluttuante delle cose del mondo, è propriamente la mitologia, con il rituale che ha funzione di spoletta di raccordo. Un'arte analogica dunque, il gioco sottile di richiami tra dentro e fuori, tra fantasmi della mente e lenzuola che si gonfiano ai sospiri di un carrugio.

Se prendiamo per buona l'interpretazione genericamente ispirata alla prospettiva analitica junghiana, vediamo così come ogni rappresentazione mitica si allontani dall'idea moderna di intrattenimento, che diversamente si associa al concetto di distrazione, svagato congedo dalla propria interiorità. Nel mito invece tutto si addensa, il fuori rimanda al dentro, sempre più all'interno, concentrato. Fino a che l'anima, al culmine di questo spasmo introverso, non viene come sbalzata in un territorio senza più coordinate certe, ma proprio per ciò tanto più autentico e familiare.

Potremmo anche trovare nell'esperienza mitica una corrispondenza con il precetto evangelico per cui ci si deve perdere per potersi ritrovare. Ed è esattamente quanto doveva avvenire nel pubblico catalano durante l'esibizione della corrida, almeno fino a quando Hemingway ci arrivava dopo il consueto giro di aperitivi. Ritrovare la via di casa in un intrico di simboli sessuali, arcaici, primitivi. Con un Teseo\Apollo nella veste del torero che, nell'esattezza affilata della forma, cerca di contenere e poi sconfiggere il proprio drago, infilzare il Minotauro\Dioniso incarnato nella vitalità irredenta di un toro. Il quale - ecco perché deve essere infine ucciso - ha una funzione sovversiva dentro l'ordine patriarcale del discorso civile.

Ma poi?

Ma poi più niente. Non so quando questo sia accaduto, né perché, ma tutti i commentatori sono concordi nell'affermare che lo spettacolo tradizionale delle cinque della sera, già da molto tempo a questa parte, ha cessato di smuovere sensazioni dentro le viscere degli spagnoli, prima ancora che nella loro testa. Non che nessuno assista alla corrida, però. Viene ancora seguita, allo stesso modo in cui il vecchio cane segue l'ombra del padrone defunto, a cui rimane fedele in altri e più svelti passi. La corrida ha smesso semplicemente di accadere.

In altri termini, l'essenza mitica e palpitante contenuta nel preciso rituale della tauromachia si è come ritirata, lasciando sulla spiaggia l'orma della sua sola struttura, che ha così finito con l'ossidarsi in stereotipo. Abbiamo a questo modo un evento originalmente vitale e profondo ridotto al suo sfinito simulacro, un cavallo di legno da cui tutti i guerrieri sono sgusciati fuori la notte. Ma invece che dar fuoco alla città, violentare le pallide vergini frementi, ora si trovano a piluccare hamburger e patatine fritte, in un bar con la televisione accesa.

E tutto ciò ha un nome ben preciso: folclore.

Il folclore è infatti il contenitore, l'involucro di un evento carico di profonde risonanze umane, psicologiche, simboliche e culturali, ma al netto della sostanza per cui la forma ha preso quell'aspetto. Insomma, il folclore ha una funzione unicamente ornamentale, e pertanto allontana dall'interiorità - distrae - almeno quanto l'esperienza mitica concentrava e rendeva prossimi a sé, sperdeva per ritrovare.

Il punto davvero interessante a me appare proprio questo. Se una rappresentazione a sfondo mitico, come appunto la corrida, ci conduceva in uno stato mentale in cui potevamo avere un'esperienza intima e profonda di noi stessi, per quanto in forme allusive e prerazionali e perfino crudeli, nel folclore abbiamo un esito del tutto ribaltato. Ma se capovolgiamo la verità otteniamo l'inautentico, e cioè una logora finzione programmata ad uso turistico; quando si sa che il turista, al contrario del viaggiatore, non desidera esporsi al vento dell'esperienza ma un semplice ventaglio colorato, che ne confermi le aspettative indotte. E così la corrida, che da uragano mitologico si era ridotta allo sbuffo regolare - e regolato - di un ventilatore elettrico.

Una barca a vela che nasconde il ronzio di un'elica, meglio, nello spossato afflosciarsi delle vele.

Trascurando provvisoriamente tutte le ragioni legate al rispetto degli animali e alla loro sofferenza - ragioni benemerite, attenzione, per quanto ipocritamente agite solo in direzioni particolari - e allo sfondo politico del decreto catalano, che anche in questo modo ha voluto affermare una propria distinzione dalla centralità repubblicana percepita come ostile, cosa rimane?

Riamane uno stereotipo ormai totalmente svigorito, immemore della potenza evocativa che pure un tempo possedeva e irraggiava, e verso cui le nuove generazione hanno giustamente perso ogni interesse. Ossia un rituale kitsch agito da maschi adulti pieni di lustrini carnevaleschi, mossette vagamente comiche se non omoerotiche e certamente caricaturali, con l'unica verità costituita dal lungo protrarsi della pena di un animale umiliato.

E se qualcuno ancora rimpiange tutto ciò, sostenendo che gli ricorda Hemingway con il suo basco nero e un poco obliquo, la macchina da scrivere posata sulle ginocchia come un gattone che fa le fusa, forse è il caso di offrirgli un bel mojito. Anzi, due o tre.