giovedì 21 maggio 2020

La sfumatura

Al principio era la sfumatura. Magari non dell'universo, ma di un bel romanzo di alcuni anni fa. A scriverlo non è stato uno scrittore ma un regista cinematografico, Paolo Sorrentino, che ne attribuisce la disposizione al suo formidabile protagonista: Tony Pagoda.
Negli anni sessanta e settanta ha riscosso un certo successo come cantante nei night club, un crooner direbbero gli americani, ora è però scivolato in un tempo che non comprende la sua arte sussurrata, e da lui non compreso. Si muove così con idiosincratico impaccio, affermando di detestare ogni cosa, ma proprio tutte, ne fa un lungo dettagliato elenco nel prologo del libro.
Non sopporta i vecchi ma neppure i giovani, gli adolescenti, i bambini e i loro genitori apprensivi, non sopporta i lavoratori quanto i disoccupati, i politicizzati, i manager, i piccolo borghesi, non sopporta i fidanzati perché ingombrano, non sopporta le fidanzate poiché intervengono, non sopporta niente, nessuno. Solamente una cosa lumeggia sulla superficie del setaccio che immerge nel fiume inquinato della tarda modernità, una minuscola pepita d'oro, ed è appunto la sfumatura.
In ciò il personaggio riflette forse l'autore, già che la sfumatura dovrebbe essere la lente con cui tutti gli artisti guardano al mondo, cercando poi di ingigantire i chiaroscuri per essere colti anche dai lettori, o dagli spettatori, non c'è in questo molta differenza tra le arti, che a differenza del diavolo si mostrano sempre nei dettagli.
Ripensavo all’insofferenza di Tony Pagoda, nella versione in audiolibro la voce appartiene a Tony Servillo, mai così in parte, insofferenza verso l'esibito, il netto, il non sfumato come emblema della crisi che sta investendo l'arte contemporanea, incapace di agganciare la realtà per rifletterne le sfumature. Ma se la realtà assume il volto, mettiamo, di Donald Trump, come comportarsi?
L'assoluta flagranza di una personalità di tale fatta, assurta a cifra non solo simbolica dell'epoca presente, rende a un tempo impotenti gli artisti e fervidi i paranoici, i quali inventano sfumature, complotti, là dove non c'è proprio nulla da leggere tra le pieghe, tutto galleggia in superficie come bottiglie di plastica sull'oceano.
Mi sembra così sintomatico, quasi una nemesi, che il peggiore film di Sorrentino nasca da un suo tentativo di sfidare proprio la legge della sfumatura: già, nemmeno in Berlusconi ci sono sfumature, e al termine della pellicola dedicata alla sua persona (Loro) lo spettatore non realizza nulla di inaspettato e nuovo, era tutto e da sempre in formato macroscopico, a misura di sguardo, e il film non fa altro che ricapitolare luoghi comuni –non sbagliati, ma appunto già decantati sulla retina prima di farsi chiacchiericcio da Happy Hour .
Non mi stupisce allora che molti artisti scelgano percorsi retrospettivi, e, preso atto che il presente, come il re della favola, è nudo, cerchino la sfumatura nel passato prossimo. Ed è qui che Sorrentino è andato invece a segno, ricostruendo in un percorso ellittico e immaginifico la vicenda di Giulio Andreotti ne Il divo, come fa ora 
Davide Orecchio nel suo ultimo bellissimo romanzo, Il regno dei fossili.
In Andreotti tutto è sfumatura, ambiguità, bianco e nero che non trovano sintesi dialettica nel grigio, continuando a rimbalzare l'uno nell'altro senza fondersi mai. Andreotti è insomma il simbolo incarnato del Tao, e ogni artista ma, in fondo, ogni essere umano consapevole di essere immerso in un sistema complesso e non di rado paradossale, ha molto da imparare da entrambi. Ma soprattutto da Tony Pagoda, che come un maestro parrucchiere insegna l'antica arte della sfumatura.


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