mercoledì 30 giugno 2021

Carnevale permanente

 

Osceno, cosa è osceno? E come si è trasformato, negli anni, il concetto di osceno?

Mi facevo queste domande dando una rapida scorsa alle migliaia di pompini pubblicati su YouPorn, con sborrata in faccia finale e sperma che cola mescolandosi al mascara dagli occhi di ragazzine che sorridono inermi, come chi abbia appena ritirato la pagella con un bel voto in condotta.

Immagini a tutti accessibili, dunque sono in scena continuavo a riflettere, hanno smesso di essere o-scene, e cioè, seguendo la pseudo etimologia del termine inaugurata da Carmelo Bene, l'osceno non corrisponde a ciò che è sessualmente scabroso, o meglio non vi corrisponde più. Un'identità che valeva nel secolo scorso e ancor più due secoli fa, in epoca cosiddetta vittoriana, quando venivano ricoperte anche le gambe delle poltrone giudicandole una subdola metonimia del corpo umano, in grado di turbare i sensi.

A essere sorvegliate, ora, non sono però le opere di falegnameria e piuttosto le parole: chi le utilizza in modo difforme da una sorta di dettato medio (chiamiamolo pure politically correct) viene immediatamente posto fuori scena, messo a sedere a bordo campo come avviene nelle penalità del gioco dell'hockey, da cui i social network hanno forse tratto ispirazione –hai scritto qualcosa di sconveniente su Facebook? In panchina per una settimana, così ti impari a stare più attento!

Solo a chi mette in scena e concerta la comunicazione – chiamiamolo pure il Potere, per quanto disseminato in forme apparentemente umili e democratiche, come Lupo de Lupis che è lupo, sì, ma pure tanto buonino – è consentito un uso libero e autonomo del linguaggio, che in un certo senso viene fondato proprio a tale occulto livello discorsivo, Lacan lo chiamerebbe le Grand Autre.

Ne ricaviamo che chi sta al centro della scena pubblica è sempre corretto, mentre a chi sta ai margini è consentita la sola funzione di eco confirmatoria, altrimenti diviene osceno. E le numerose trasgressioni satiriche – penso a Fiorello, Crozza & C. – come classificarle allora, in fondo si prendono gioco proprio della lingua del Potere?

L'impressione è che, più che giullari intenti a scoprire la statua della Verità dalle sue numerose velature, siano l'equivalente di un eterno carnevale, in cui per mezzo di una trasgressione soft il limite viene continuamente rimarcato; ricordano in questo caso un diverso sport: il tennis, e in particolare la ripulitura delle linee bianche nei campi in terra rossa, mentre i giocatori prendono fiato tra un game e l'altro, un giocatore cinese si mangiava nel frattempo una banana. L'arbitro può così vedere meglio e sanzionare l'errore, e il Potere appare tollerante, illuminato il sovrano.

Tocca così rimpiangere i tempi in cui, per essere corretti, conformi a quello che veniva allora chiamato il Sistema, all'uomo medio bastava vestire Facis o Marzotto. Era tutto molto più limpido e onesto, un conformismo dal volto umano.

lunedì 28 giugno 2021

Inconscio politico

 


Questa notte ho fatto una scoperta. Contrariamente a quanto pensava Freud, ecco la mia scoperta, l'inconscio non mira solo al soddisfacimento di una pulsione sessuale più o meno occulta, ma è anche politico. Lo ricavo da un sogno, che mi sembra la miglior risposta alla rimostranze vaticane sul Ddl Zan.

Sono a Roma, vago tra chiostri e chiese di dimensioni enormi, cupole sontuose, mi accompagna un conoscente omosessuale. Traversando uno di questi luoghi ci imbattiamo in due preti, le gambe sono immerse in una vasca dall'acqua tiepida, i lembi inferiori dell'abito talare galleggiano neri in superficie, la sensazione fradicia di un naufragio. Si tratta forse di terme o qualcosa di simile.

I due preti ci invitano a fare lo stesso, ma io indugio all'orlo di marmo stondato della vasca mentre vedo il mio amico omosessuale, chiamiamolo Giovanni, sedersi accanto ai preti con cui inizia a conversare, ha arrotolato i pantaloni come fanno i ciclisti quando montano su una bicicletta senza carter.

Ci sono molte piaghe in questo mondo dice uno dei due preti, e conclude la frase con un sospiro.

Con un testone un po' spelacchiato Giovanni annuisce, sì sì, molte piaghe.

Il consumismo dice l'altro prete.

Il consumismo, come no, ripete Giovanni.

L'arrivismo, di nuovo il primo prete. L'arrivismo fa eco Giovanni.

- Il comunismo.

- Il comunismo.

- L'egoismo.

- L'egoismo.

- L'indifferenza.

- L'indifferenza.

- L'omosessualità.

- ...

L'omosessualità ripetono i due religiosi all'unisono, fissando Giovanni in attesa che dalla sua bocca esca il medesimo stigma. L'omosessualità...

Ed ecco, dopo un lungo silenzio, gli occhietti furbi che lampeggiano nella penombra del locale, Giovanni finalmente parla. E dice: I preti.

domenica 20 giugno 2021

I nomi e le cose 2

Nei giorni scorsi ho scritto su Facebook un post in cui rispondevo a Lisa Ginzburg, ricordandole gli ostacoli e i privilegi, spesso involontari, connessi a quella parolina che qualifica la nostra funzione in società, e che chiamiamo cognome. Quel mio intervento ha ricevuto un numero impressionante di like e di commenti, quasi divenendo un piccolo caso da social, un "casino" potremmo dire visto un non intendersi diffuso.

Confesso che il successo mi ha sorpreso, anche perché ero critico ma non polemico nei confronti della Ginzburg, e Facebook premia le zuffe da cortile. Alcuni di questi commenti prendevano vie proprie ed estranee al testo, oppure erano battute, tifo da stadio, acclamazioni. Alla fine mi è venuto il dubbio che il mio pensiero venisse fuorviato, e provo allora a precisarlo già che ritengo la questione di offuscata e generale attualità; Lisa Ginzburg, intendo, senza forse rendersene conto ci chiama in causa. Ma noi non siamo lei, Madame Ginzburg n'est pas moi!
Partiamo da un dato sociologico terra terra: se io mi chiamassi Ginzburg avrei compiuto studi migliori (dopo le medie avrei voluto fare il Liceo, mio padre mi iscrisse a Ragioneria); avuto professori più capaci e in grado di catturare la mia attenzione, che con materie come stenografia e diritto commerciale è un po' scemata; spartito i banchi con compagni dalla dolcevita nera, l'aria imbronciata o la camminata internazionale di Totò quando viene accolto a Capri nella villa di Franca Valeri. Quindi avrei compiuto viaggi in effetti a Rimini ci andai una volta terminata Ragioneria e prima d'iscrivermi a Filosofia, ottenendo la solita domanda: ma che cavolo di lavoro è, il filosofo? , imparato lingue straniere, ricevuto buone dritte di lettura senza dover fare ogni volta come il barone di Münchhausen, che si pigliava per la collottola da solo per non precipitare. Nel mio caso l'abisso era costituito da una provincia avvertiva, da principio, come tiepida e confortevole, ma poi sempre più digrignante, mostruosa.
Anche Lisa Ginzburg dice di aver seguito questa pratica bizzarra, di essersi fatta come si dice da sola; niente di ciò che ha ottenuto era fuori dai suoi sforzi e grazie alla famiglia, sottolinea più volte. E su un aspetto possiamo crederle: non ha ricevuto quelle raccomandazioni che mio padre aveva invece in serbo per me, utili a confinarmi in qualche banca valtellinese da cui sono riuscito a sottrarmi. E già che conosce il francese molto meglio del mio balbettio, forse conosce anche il concetto di petit décalage, piccolo scarto, che secondo Sartre corrisponde al grado di libertà con cui possiamo fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Ma è qui che perfino Sartre si sbagliava, almeno in termini quantitativi. Perché lo scarto è piccolo piccolo per una Ginzburg ma enorme per uno come me, almeno se non vuole corrispondere alla destinazione scritta nel proprio cognome, che fa di ogni nascita un pacco postale con l'indirizzo già scritto.
Mettiamo dunque e come premesso che il mio cognome, Bussoli, poi cambiato in Hauser da Kaspar Hauser, il senza famiglia per definizione, fosse invece stato Ginzburg. Ma mettiamo ancora che anche in quella fortunata circostanza fossi rimasto il fantozziono ragioniere che sono; il me della finzione (personaggio) coincide col me che sta scrivendo (autore). Ebbene, anche in tal caso e senza alcun aiutino da parte dei miei illustri quanto ipotetici famigliari, ma semplicemente perché il sistema culturale è più realista del re, ora io starei scrivendo, pagato, su qualsiasi giornale o rivista del mondo. E sottolineo PAGATO ma anche QUALSIASI, già che pure da ragioniere, vai tu a sapere come e perché, ho comunque maturato abilità nella scrittura; scrivo insomma bene e lo so, nessuna mano di vernice su quel sepolcro che si chiama falsa modestia.
La mia non è una querimonia, ci sono molti altri ragionieri (Montale) che scrivono altrettanto bene se non meglio di me, ma la maggior parte può mingere i propri pensierini solo dentro l'orinatoio di un social network, dove leggiamo che una Ginzburg non ha avuto alcun vantaggio dai propri natali, nessun abbrivio famigliare. È una self made woman. A uno un po' gli girano, dai.
No cara, direbbe allora Pasolini con lo stesso tono con cui si rivolgeva ai rampolli borghesi di Valle Giulia, se fossimo dei Ginzburg noi non dovremmo scrivere interventi come questo, non vedremmo totalmente disconosciuto il nostro talento, per tornare a vivere a cinquant'anni con la mamma (perché siamo disoccupati, esodati dal flusso di gesti e parole pubbliche che fanno mondo), non faremmo in sintesi la vita che facciamo ma un'altra con più occasioni, riconoscimenti e anche vantaggi materiali, diletti; Parigi è meglio di Sondrio, parliamoci chiaro.
Aggiungerebbe Lacan che se ciò che amiamo nell'altro è sempre il nome ("l'amour est toujours l'amour pour le nom"), è il cognome a essere remunerato, obliterato quale oggetto sociale di scambio e consumo, brand. Il nome, utilizzando ancora le evocative categorie dello psicanalista francese, si iscrive così nella dimensione dell'immaginario, dove tra un io e un tu non vi è alcun filtro se non le reciproche proiezioni, mentre il cognome è ricompreso nella sfera del simbolico, le Grand Autre, rappresentata dall'ordine implicito su cui si fonda il potere, un potere sedimentato nella parola. La parola ci parla infatti prima ancora di essere parlata, proprio come avviene nel cognome che è arruolato nell'esercito del Grande Altro, autentico e leggendario re del mondo. Ma ci sono cognomi soldato semplice e altri generale.
Mi sembra incredibile dover ricordare che nascere dentro la divisa con le quattro stellette di un Ginzburg significa essere dentro una particolare forma di potere. Possiamo ingenuamente avvertirlo come naturale, ma in realtà è un potere storicamente determinato che a livello accademico ed editoriale apre porte anche senza alcuna mano fisica, telefonata, raccomandazione a premere sulla maniglia. E questa è politica, non un gioco araldico da salotto del barrio alto.

Amici addio

 

Romano Madera, in una lezione presso Philo, l'associazione di pratiche filosofiche da lui fondata, suggerisce che la pandemia è stata sociodelica, e cioè ha contribuito a portare in superficie (quindi rendere evidenti) le strutture sociali sottostanti, il dispositivo lo chiamerebbe Foucault.

Non è necessario ascoltare i filosofi per avere una vita ricca e piena – si può campare fino a cent'anni senza aver mai letto Freud, cantava Rino Gaetano – ma tutte le volte che ascolto la voce pastosa di Romano Madera mi sembra di sentirmi non tanto più intelligente, ma bello. E quando si entra nella scia della bellezza, il corpo, di cui il cervello fa parte, ha reazioni simili a quelle dei danzatori: inizia a muoversi per integrarla con propri ricami, che non ne oscurano la matrice originaria ma la fanno fiorire.

Nella circostanza, ho aggiunto al quadro il dettaglio che, oltre a essere sociodelica, la pandemia è stata anche antropodelica, rivelandoci un lato nascosto nelle persone che conosciamo, o meglio pensavamo di conoscere e ora si mostrano con un volto nuovo, spesso inquietante. Per accordarci al pensiero di un altro filosofo, potremmo vederla come un'estensione della metafisica del tragico proposta da Lukács, in cui il significato dell'esperienza si offre per illuminazioni puntuali e spesso drammatiche, nelle quali vengono ricapitolate porzioni di vita molto più ampie.

La pandemia, dunque, come ricapitolazione del nostro tempo e dei nostri amici, a volte meno amichevoli di quanto eravamo portati a credere. Ma in fondo una crisi dovrebbe avere proprio questa funzione: distinguere, discriminare (krino) il grano dal loglio. Quindi scegliere cosa tenere e cosa buttare, perché ormai inservibile o trascorso.

I nomi e le cose

 


Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg, nipote di Leone Ginzburg e Natalia Levi, meglio nota come Natalia Ginzburg, scrive su Facebook di essere orgogliosa di "provenire da una famiglia dove nessuno mai ha mosso un dito per aiutare un familiare per motivi di lavoro. Dove tutto quel che si raggiunge (o non si raggiunge) e’ frutto unicamente di se’ stessi, del proprio impegno e talento individuale."

Ho letto più volte questo post, pensando che ci fosse un errore e le sue parole fossero una citazione; che so, da Aldo Busi, cameriere in giro per l'Europa per trovare una voce autoriale ma soprattutto i soldi per acquistare qualche libro, di cui la libreria di casa era sfornita; ammesso che una libreria vi fosse su cui posare i centrini ricamati.

Invece no, Lisa Ginzburg è davvero convinta che nascere con un pedigree intellettuale sia lo stesso che nascere meticci, dovendosi inventare da soli il nome della propria razza. E così mi è venuto in mente quando, anni fa, dovevo pubblicare un libro di poesie con la prefazione di Valerio Magrelli. Alcuni mesi prima Valerio Magrelli mi aveva intervistato per Avvenire –lui me, non io lui, quello che si dice il mondo all'incontrario –; c'eravamo stati subito simpatici e ci sentivamo di tanto in tanto.

Senza quella conoscenza e quella prefazione, a nessuno sarebbe venuto in mente di pubblicare le mie poesie; e nessuno, in effetti, le ha mai pubblicate, già che dopo averle rilette ho chiamato Magrelli: "Valerio, non se ne fa più nulla. Come poeta io non valgo un cazzo. Va bene così, grazie comunque."

Ora io non voglio insinuare che Lisa Ginzburg, come scrittrice, valga quanto me come poeta, ma certi cognomi in certi ambienti sono molto più di un dito mosso: sono un'intera mano, un braccio, un esercito di bicipiti; non hai nemmeno bisogno di una persona meravigliosa come Valerio Magrelli per scriverti una prefazione, il tuo cognome è già una prefazione.

Ecco, volevo dire solo questo. Lisa Ginzburg continua a essermi molto simpatica, ha un bellissimo sorriso e la trovo anche brava in ciò che fa. Ma a volte dà l'impressione di essere uscita da un film di Ken Loach, di provenire dai quartieri spagnoli delle lettere e non dal barrio alto. In fondo basterebbe dire: grazie, sono una privilegiata, sono nata con la camicia anche se ho poi saputo trasformarla in aquilone, con la complicità involontaria di quel vento che si chiama famiglia Ginzburg.

Equivalenze

 

Questa sera guardavo la tivù e dentro la tivù ci stava Capezzone a starnazzare come fa sempre Capezzone quando sta dentro la tivù. Allora ho pensato che se scrivevo, su Facebook, di Capezzone che starnazza dentro la tivù, e di quanto è antipatico, di più, odioso, una gallina odiosa o ancora meglio un'oca, le galline sono più miti, una stupida aggressiva odiosa oca che starnazza dentro la tivù, se lo scrivevo il mio post avrebbe raccolto molti like e io mi sarei addormentato contento pensando di avere fatto la cosa giusta, di avere fatto giustizia. Poi però mi è venuto un altro pensiero. Se invece di guardare la TV, credo fosse Rete 4, oggi avessi letto il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein scoprendo un'interpretazione inedita e singolare dell'asserzione sei, quella che parla della funzione di verità, se io avessi scoperto oggi che la funzione di verità di Wittgenstein è sbagliata e ne avessi individuata una diversa e corretta e al posto di Capezzone che starnazza avessi scritto di quella, della corretta funzione di verità che ho scoperto io lasciando perdere Capezzone, le oche, la giustizia e tutto quanto, ecco il mio secondo pensiero che metteva a rischio il primo, avrei probabilmente perso tutti i miei like come in quella sequenza in cui Fantozzi accompagna il Duca Conte Semenzara al Casinò di Monte Carlo e, mentre il Duca Conte vince alla roulette, Fantozzi viene promosso, passa prima a capoufficio, funzionario, direttore fino a raggiungere "la soglia della dirigenza, vale a dire: serra di piante di Ficus e poltrona in pelle umana, quando la fortuna voltò rovinosamente le spalle al Semenzara" e Fantozzi vede via via svanire tutti i simboli di status aziendale con cui già si crogiolava in una pappa di sogno, così io con i miei like. Per questo mi sono sentito un po' un'oca pure io e, in un rigurgito di dignità, ho deciso di non scrivere più di Capezzone, anche se in effetti l'ho già fatto ma voi provate a dimenticare, distraetevi, può aiutare ripensare a cosa avete mangiato per cena, qualsiasi pensiero tranne l'immagine di quell'odiosa oca starnazzante. Ma non scriverò neppure di Wittgenstein di cui, in effetti, oggi, né ieri, insomma non ho mai letto il Tractatus Logico-Philosophicus e l'unica verità che ho compreso è che un social network funziona come Rete 4, uguale uguale. Solo, al posto dei contratti della pubblicità, a tenere in piedi la baracca e stabilire il palinsesto, ci stanno i pollicioni blu. 

I buoni e l'amore

Nei romanzi del secolo scorso o meglio ancora di due secoli fa, per attribuire valore a una persona – un valore di scambio proprio, e cioè da spendere nel mercato dei commerci sentimentali – si aggiungeva l'aggettivo buona: una donna buona, un uomo buono, tanto più ricercati per le loro qualità morali.

Ma che il richiamo alla bontà fosse, già allora, più dichiarato che sentito, lo possiamo intuire da quei personaggi manipolatori, sono spesso dei maschi: le facce da schiaffi, gli avventurieri, i Barry Lyndon, di cui le donne avvertivano il fascino per poi lamentarsene una volta tradite, rimpiangendo di non avergli preferito un uomo inerme come Carlo Bovary.

Il tipo narrativo e ancor più cinematografico della dark lady o della gatta morta, introducono dei dubbi anche sulle reali preferenze del desiderio maschile, in cui la bontà è una variabile davvero poco significativa, superata non solo dall'involucro (lo slittamento è di una sola vocale, senza la quale, da buona, la donna diviene bona) ma anche da risvolti abrasivi del contenuto, che difficilmente siamo disposti ad ammettere a noi stessi.

L'unica differenza, forse, è che quando un uomo viene prima sedotto e poi abbandonato è portato a distruggere il giocattolo rotto, mentre la distruttività femminile tende piuttosto a rivolgersi contro di sé, accanendosi per redimere un carnefice in cui, al fondo, negli abissi cardiaci, continua a voler scorgere il proverbiale uomo buono, che lei e solo lei sarà in grado di far emergere.

La mutazione antropologica presentita da Pasolini, ho però l'impressione che abbia finito col modificare anche queste dinamiche, e sono così sempre più frequenti le donne che fanno tutt'uno con i loro stronzissimi maschi. Non perché siano eroine romantiche recalcitranti ogni sigillo reale o papale, come la Bonnie inseparabile dal suo Clyde, ma perché del maschile sono divenute una contraffazione indistinguibile, alla maniera di certi western così detti spaghetti.

Nel nostro caso si vorrebbe così pigiare il telecomando per cambiare canale – basta pistoleros, non se ne può più di cattivi in amore! – saremmo perfino disposti a sorbirci una televendita di materassi. Se non fosse che di quel film ne siamo gli inconsapevoli interpreti, tutti nel ruolo del Brutto e del Cattivo. E il Buono? Non pervenuto, come la temperatura di Cagliari nelle previsioni del tempo che fu.

giovedì 10 giugno 2021

Big Babol

Dopo un anno e mezzo di pandemia mi sono accorto di avere scordato molte cose. I baci, ad esempio, sarò ancora capace di baciare una donna? Controllo: le labbra, quelle, ci sono ancora. Non era così scontato. A Mick Jagger, che aveva due canotti, sono diventate piccole piccole, quasi ricomprese nella bocca alla maniera di un K-Way. Ancora peggio andò a Nicky Lauda, dopo l'incidente al Nürburgring si ritrovò senza labbra, per baciare usava forse la faccia come fanno i gattini quando si strusciano. Io invece ho ancora le mie labbra, adesso devo trovare solo delle altre labbra, prima magari mi esercito con il cavo cubitale, lo si vede fare agli adolescenti in quei film ambientati nella provincia americana degli anni cinquanta. Nel mio caso esiste però una memoria del corpo, lo stesso che andare in bicicletta: non sai spiegare come si fa ma dopo la prima pedalata ti ricordi di tutto il movimento, l'equilibrio precario tra precipitare da una parte oppure dall'altra. Speriamo... Nel frattempo, a tre settimane dalla prima dose di Pfizer, per il Parlamento Europeo sono di nuovo un baciatore internazionale, ne ho (mi comunicano) licenza. Adesso tocca passare, direbbe Aristotele, dalla materia in potenza alla forma dell'atto. Ma siccome ho sempre parteggiato per Platone, me la racconto così: i miei baci stanno a una donna come una Big Babol sta a una mongolfiera.

mercoledì 9 giugno 2021

Archeologia del presente

 

Si fa sempre più forte la mia convinzione che, tra duecento anni, cento, anche solo venti o trenta vista l'accelerazione storica del presente, per comprendere il nostro tempo non si guarderà alle arti cosiddette alte (pittura, scultura, letteratura, teatro) ma nemmeno a quelle popolari, come il cinema, o popolarissime come i videogiochi e le serie TV.

Qualcosa di noi riuscirà forse a restituire l'architettura  i centri commerciali, Gardaland, le villette geometrili nell'infinita periferia mondo  ma soprattutto la pubblicità e le incisioni rupestri che iscriviamo sui social network. In particolare, preziosissimi per gli antropologi saranno quei luoghi virtuali in cui si ricerca ciò che in un evo remoto veniva chiamata anima gemella, e, ora, più pragmaticamente prende il nome di match, da combinare in un social con esplicita propensione al dating, secondo le modalità del casting per un nuovo dentifricio; tradotto: non perdiamo tempo con fumose volute di parole, e andiamo subito al sodo!

Per capire cosa stiamo diventando, anzi già siamo, io continuo dunque a frequentare Facebook Dating, appuntandomi profili come il seguente. Verso la persona che con tale osceno candore si offre  non è forse il mio tipo, di certo io non sono il suo  provo sincera gratitudine e perfino un'identificazione che possiede qualcosa di necessario, dolente al di là dei toni garruli e quasi sfrontati. Perché davvero è uno specchio specchio delle mie brame, in cui, dentro la parte, si riflette il tutto del reame:

Femmina, 46

"Divertente, solare e ironica. Non cerco il principe azzurro, non sopporto il telefono, per cui non mi chiedete ore a chattare o telefonare. Preferisco vedere le persone.

Di nascita monogama, ma nella realtà di oggi è un illusione. Allora mi adatto come diceva il buon Darwin... per cui non sarai il solo con cui uscirò! Meglio saperlo subito 😂 poi se ho la fortuna di trovare una persona con cui sto veramente bene allora ne possiamo parlare! Amo ironia bellezza e classe... per cui 😂"

Età: 46

Luogo: Modena

Diploma di scuola superiore

Non ha bambini

Non fuma

Interessi: cucina, lettura, cinema, viaggi

martedì 8 giugno 2021

Raul e io e la paura della paura

 


Lo scrittore Raul Montanari, con grande candore biografico, racconta su Facebook di aver sofferto di attacchi di panico, tutto è cominciato il 28 maggio del 1991. Stava in un negozio e ha sentito il cuore sussultare, il braccio sinistro irrigidirsi ed è scivolato a terra. "Ah, è così," ha pensato. "È questo, morire." All’ospedale gli hanno diagnosticato un attacco di panico.

Un’esperienza difficile da spiegare a chi non ne abbia mai sofferto, e che come lui racconta ha sempre una data d'inizio, un battesimo, ma raramente un termine altrettanto certo.

Nel mio caso, il battesimo del panico è avvenuto il 2 maggio del 1983 (sempre maggio, che c’entri qualcosa la primavera, il mese delle ciliegie?) durante una lezione di matematica nel collegio di Celana; o magari si trattava d'inglese, chi se lo ricorda più… E in effetti forse non era nemmeno il 2 maggio, per quanto l’anno scolastico stava per terminare, i cespugli di sambuco, vicino alla recinzione da cui sgattaiolavamo fuori per fumarci una Chesterfield, erano in fiore.

Da quel giorno, la mia vita, come quella di Raul non è stata più la stessa, anche se in genere si riesce a trovare un compromesso con il panico, un armistizio. Il più comune è portarsi appresso una capsula di Tavor orosolubile, o più in generale un ansiolitico. Tanto non lo userai, ti basta sapere che c’è, all’occorrenza, e questa consapevolezza è sufficiente a scongiurare i sintomi più allarmanti, che sono quelli da lui descritti accompagnati alla sensazione che tutto sia perduto.

Lo so che detta così può apparire un po’ retorico, quando il quadro clinico si risolve alla fine in nulla. Un nulla di cui però rimane un’ombra, che nessun Tavor o psicoterapia – quelle servono davvero a poco, ma è buffo ascoltare l’ottusa fiducia dei terapeuti nelle loro rispettive teorie, buffo ma un po' dispendioso... – riusciranno mai a fugare.

Dopo oltre trent'anni di convivenza con l'ombra della paura, o meglio e come viene detto la paura della paura, l’immagine metaforica che mi sono formato è quella dell’ammaestramento di un cavallo. Prima di essere montato, viene legato a una corda e poi fatto girare in tondo nel maneggio: al passo, al trotto, a volte perfino al galoppo allungandogli la corda, tanto che il cavallo potrebbe avere l’illusione di essere finalmente libero.

Ma è appunto solo un’illusione, perché la sua vita equina rimarrà da quel giorno racchiusa dalla circonferenza mobile del cerchio; in alcuni momenti si dilata, in altri restringe, ma anche quando non la vedi la corda c’è sempre, e basta prestare attenzione al solco lasciato in terra dagli zoccoli per capire che il tuo mondo si è fatto piccolo piccolo e tondo. Dal 28 maggio del 1991, per Raul. Dal 2 maggio del 1983, per me. O comunque era nel mese delle ciliegie e del sambuco.

L'orrore quotidiano


La stupidità è un fantasma ubiquo e trasversale, lo ricordavano Fruttero e Lucentini in un aureo libretto sulla prevalenza del cretino, si intitolava proprio così. Già dal titolo si ricava che, cretini, si trovano a tutte le latitudini del sapere, anche (se non soprattutto) nei cattedratici. Questo non dovrebbe però indurci a credere che le persone cosiddette semplici siano migliori. Ma cosa significa, in campo umano, nei talk show, una parola che viene continuamente tirata in ballo, sia in forma di aggettivo che di sostantivo brandito come un randello: semplice, semplicità?

Semplificando il semplice, potremmo vedere la semplicità come congruenza al proprio ambiente, tanto fisico quanto storico e sociale. La semplicità produce dunque ottime persone in epoche virtuose. Socrate era la semplice espressione di un tempo complessissimo, e il daimon da cui diceva essere guidato rappresentava la sua speciale intelligenza, frutto di una resa alla sensazione (più che al concetto) da seguire per portarla alle sue logiche conseguenze.

Ma in un'epoca degradata come la nostra, i semplici, i congruenti, diventano purtroppo anche i peggiori. E ancora una volta basta sbirciare dentro un social network per farsi un'idea. Una persona semplice non scrive più la mia mucca ha partorito un vitellino questa notte e io sono felice, ma ehi, raga, qualcuno sa consigliarmi un buon tatuatore, voglio farmi lo stesso tatuaggio di Fedez.

Magari la prima voce che ci giunge da un'ideale cascina primo novecentesca, come quella messa in scena da Ermanno Olmi ne L'albero degli zoccoli, non era più intelligente della seconda. Ma la sua sintonia al trascorrere lento delle stagioni, le nascite, le morti, il latte appena munto da spartirsi con il vitellino, aggiungeva bellezza a un mondo già incantato, che col suo ignaro protendersi sulle cose si consegnava agli orrori della prima guerra mondiale. Mentre la seconda voce è già parte dell'orrore, un orrore che, come scriveva Ingeborg Bachmann, non deve neppure essere dichiarato, ma proseguito su Facebook. Un orrore quotidiano a cui con queste parole sto contribuendo.

Non ho niente da dire, e lo dico

 


Su Facebook è divenuto di moda burlarsi di quei genitori che, sullo stesso social e sempre più numerosi, celebrano le specialissime virtù dei loro figli. A volte il dettato è semplice e impressionistico – basta una fotografia –, ma in altri casi la scelta stilistica si fa sofisticata, come quando vengono imbastiti dei dialoghi sul modello platonico in cui anche piccolissime creature già danno prova di acume, arguzia, umorismo, talento, epistemologia, euristica e chi più ne ha più ne metta.

Si potrebbe obiettare che questa forma di ironia contiene il medesimo vizio d’origine: guardate come sono intelligente, più intelligente di un bambino che si vorrebbe intelligentissimo; ma io ho colto nel segno del vostro ingenuo orgoglio di mamme e papà e ora rido di voi, o meglio ancora vi de-rido in un gesto ugualmente pubblico, e cioè mirato all’universale. Per questo, ho l'impressione, i due comportamenti sono più omogenei di quanto sembri.

Sì, procurano imbarazzo i post di quei genitori che srotolano tappeti rossi di parole sotto ai piedini incerti dei figli, allo stesso modo in cui imbarazzano la maggior parte degli altri post, dove sul tappeto rosso viene fatto sfilare il nulla dei nostri pensierini da nulla; e se proprio non c’è nient’altro da scrivere, prendiamo per il culo gli altri, i genitori, i figli, tutti quanti. Alla fine del gioco al massacro resterà in piedi solo un pronome: io.

Tutto negativo, allora? Sì e no. Perché Facebook nasce proprio come diario pubblico; si scrive, pubblica, sgomita tra infiniti altri segni sul punto di annegare nel mare dell’insignificanza, alla ricerca di un like che faccia da salvagente: vengo spuntato da un pollicione blu, e dunque sono. Perciò io credo che vada bene così, the medium is the message. Quando il messaggio è lo stesso di una celebre battuta di John Cage: non ho niente da dire, e lo dico.


lunedì 7 giugno 2021

Eugenetica

 



Nonostante i tre vaccini approvati, la cui somministrazione, negli Stati Uniti, è da mesi disponibile a ogni fascia di età, continuano a registrarsi nel Paese di Homer Simpson una media quotidiana di cinquecento morti per Covid. Possiamo immaginare che le vittime recenti abbiano scelto in maggioranza di non vaccinarsi, particolare che introduce una variabile sottaciuta nel dibattito in corso: l'eugenetica.

Dopo che il virus ha fatto piazza pulita dei fragili e degli anziani a gravare sull'erario – negli Stati Uniti, in realtà, il sistema pensionistico è privato, ma rimane la metafora dell'alleggerimento della mongolfiera – adesso è la volta degli ignoranti, i no vax, i bravi ragazzi del '56 cantati da Miguel Bosè, insomma di varie ed eventuali zavorre sociali senza cui ne uscirà una nazione più giovane, sana e perfino ricca e intelligente.

Ovviamente non c'è nessun complotto, chi è causa del suo mal, come si dice, pianga sé stesso, ma trovo la coincidenza ugualmente inquietante. Più che Hitler e Eugen Fischer, poté un virus che più razzista non potrebbe essere.

Coloro che si appellano agli eterni cicli di creazione e distruzione (lasciamo andare le cose secondo necessità), hanno così l'occasione per comprendere che la natura è intimamente destrorsa, come avevano intuito Leopardi e Nietzsche. In odore di orbace e passo dell'oca lo sono anche i riottosi alla scienza, i quali antepongono i loro dubbi superstiziosi alla certezza che esistono gli immunodepressi, oltre ad altre categorie a cui il vaccino è interdetto.

Ma dubito che la storia sia davvero magistra vitae, se è vero che chi potrebbe imparare dalla pandemia coincide con la seguente formula: colui che, nuocendo agli altri, riesce a nuocere anche a sé stesso. Formula che per Carlo M. Cipolla corrisponde al termine scemo.

venerdì 4 giugno 2021

Destra e sinistra, una precisazione

 


Faccio un’integrazione al post che ho pubblicato ieri su destra e sinistra, in cui associavo la sinistra contemporanea a Lupo de Lupis: un lupo, sì, ma pure tanto buonino.

Il ragionamento prendeva le mosse dalla questione dell’identità transgender, che è divenuta un elemento di discrimine per gli schieramenti politici. Io sono ovviamente favorevole a ogni forma di diversione rispetto a un ordine illusorio – è come si dice una battaglia di civiltà, specie nei diritti connessi – ma mi chiedevo se lo stesso domandarsi “chi sono io” in relazione al corpo e ai suoi appetiti, non contenga già a monte un’opzione politica di natura implicita. E, in quanto implicita, non è mai stata messa seriamente a tema, introducendo un ribaltamento dei tradizionali indicatori di destra e sinistra.

Agli albori della rivoluzione industriale, dove si pone per la prima volta la suddivisione tra destra e sinistra, l’identità personale si giocava in buona parte in relazione alla stirpe e al lavoro, e il concetto di alienazione corrisponde proprio a un mancato riconoscimento dell'individuo nel lavoro divenuto seriale. L'individuo, oltre alla povertà, pativa così anche il disconoscimento del suo gesto nel processo di produzione, e con esso un disconoscimento più generale dell'essere persona.

Il fatto che si presenti ora una richiesta di riconoscimento fuori dal lavoro e dalla stirpe, da intendersi come quel noi senza cui l'io manca di uno specchio in cui riflettersi, potrebbe far pensare che a quel livello non esistano problemi: la stirpe si è risolta in una fraterna appartenenza dentro il cerchio dell’umano, e il lavoro non è più rilevante, i soldi ci sono, arrivano, non importa come e da dove, secondo il modello della società affluente. Solo a quel punto la ricerca dell'identità può essere trasferita al corpo, nel desiderio del corpo o meglio ancora nel suo godimento, per seguire l'intuizione di Lacan.

In effetti esiste una componente sociale per cui le cose stanno a questo modo: i ricchi. Per i poveri, i problemi del lavoro e della stirpe (non di rado sovrapposti, ad esempio nella percezione che gli “extracomunitari ci portino via il lavoro”) sono ancora impellenti, ma trovano udienza solo negli slogan politici di destra. Risposte spesso rozze e semplificate, ma comunque risposte.

E se a uno spiantato fosse attratto dalle persone dello stesso sesso, o di entrambi i sessi, qualcuno mi obiettava. Non ho dubbi che ciò accada, e anche di frequente. Ma sospetto che la propensione erotica, in questo caso, non venga accompagnata da un ruminare attorno alla propria identità e alla sua pubblica affermazione: si fa e basta, con la stessa vitale noncuranza con cui i sottoproletari romani montavano sulla Giulia GT di Pasolini, per andare a fare sesso in qualche campetto della periferia. Quando rientravano sporchi di sperma e di sudore, immagino non si chiedessero se fossero gay, queer, transgender, ma si spendevano i quattro soldi della marchetta in Marlboro e Sambuca Molinari; se rimaneva qualche spicciolo lo infilavano dentro al juke-box, per ascoltare l’ultimo successo di Peppino di Capri.

Cercare risposte alla domanda di senso sul proprio essere con altri, cercarla al di fuori dalla stirpe e dal lavoro, rappresenta dunque un superamento del piano materiale di esistenza, ossia una condizione in qualche modo privilegiata, almeno nel presente. Ciò non ne scredita il valore, e anzi dovrebbe essere l'obiettivo di una società virtuosa: emanciparsi dai vincoli anche psicologici determinati dai rapporti di forza, rapporti politici ed economici e produttivi, in cui trovare collocazione sullo scacchiere di un mondo sempre più allargato. Il fatto è che quella società è a tutt’oggi un’utopia, e i problemi di lavoro e stirpe sono più urgenti che mai.

La destra si rivolge a chi vive ancora tali problemi, problemi materiali, problemi che per Marx determinano la sovrastruttura ideale e quindi l'identità, come ha sempre fatto la sinistra storica ispirata dal materialismo dialettico; la stirpe veniva chiamata classe, ma cambiava poco. Mentre la nuova sinistra post tutto intercetta problemi diversi, ugualmente urgenti e rispettabili ma, come dire, un po' da ricchi, da chi ha la botte piena e ora vorrebbe anche la moglie ubriaca. E in una società sempre più impoverita e incerta, è condannata a perdere.

giovedì 3 giugno 2021

Lupo de Lupis, o sulla nuova cultura di sinistra


Su Radio3, questa mattina, una trasmissione sull'identità transgender; un giovane uomo intervistato racconta le difficoltà psicologiche e sociali e soprattutto familiari per vedersi riconosciuta la fluttuazione tra i generi. E cioè per essere riconosciuto tout court.

E le difficoltà materiali?, mi chiedevo ascoltando il programma.

L'uomo non vi faceva mai riferimento, dando l'impressione che esistesse un costante e spontaneo flusso di denaro – la cosiddetta società affluente – a consentirgli il salto di scala; Marx chiamerebbe questo piano sovrastruttura, con le connesse dinamiche di formazione di un pensiero critico, affermazione personale, identità sessuale o meglio ancora sessuata.

Come se questa fosse l'unica identità ancora possibile, dopo che, per oltre due millenni, l'identità si è posta in relazione alla stirpe e quindi al lavoro. Con la stirpe che è divenuta nel frattempo nazionalismo, dobbiamo dedurre che i problemi legati al lavoro siano stati nel frattempo risolti?

Se fossi stato il conduttore del programma di Radio3, avrei girato la domanda alla famigerata casalinga di Voghera, oppure a un metalmeccanico di Piombino, una sarta di Sesto San Giovanni, un bidello di Reggio Calabria, o alla schiera di pony express che mi portano i pacchi di Amazon.

La risposta non è ovviamente arrivata, ma ho provato a identificarmi per un momento anche con queste persone, ricavandone l'impressione che del travaglio di un transgender, a la maggior parte di loro, non gliene importi poi molto, avendone già abbastanza dei propri che stanno a un livello molto più basso e concreto, in cui non esiste alcun flusso spontaneo di denaro di cui essere ignaro bacino di raccolta.

Intuendo ciò, ho anche intuito come mai la sinistra sarà destinata a perdere, almeno finché ci saranno problemi di sinistra che ricevono risposte di destra; risposte rozze e svianti, ma comunque risposte, del tipo che i transgender in fin dei conti sono solo froci, e bisogna occuparsi dei "problemi reali della gente".

No, i transgender NON sono froci (nessuno è frocio!) e anche loro fanno parte della gente, i problemi in cui si dibattono sono reali e meritevoli di attenzione. Ma come negare un tratto che abbiamo definito sovrastrutturale nella loro condizione, che non è un'onta ma presuppone l'appianamento di problemi anteriori. Ed è così che il travaglio identitario raccontato nella trasmissione radiofonica, viene forse avvertito come lussuoso dalla casalinga di Voghera, il metalmeccanico di Piombino, la sarta di Sesto San Giovanni, il bidello di Reggio Calabria, i corrieri Amazon e soprattutto i disoccupati di ovunque.

Quella che ho appena fatto è però un'affermazione oscena per il nuovo pensiero di sinistra, anch'esso ormai totalmente identificato con i problemi, come già detto reali, di un'immaginaria società affluente. E cioè senza tanti giri di parole: con i ricchi, e però sensibili. Come Lupo de Lupis, che è lupo, sì, ma pure tanto buonino.

mercoledì 2 giugno 2021

E se Facebook fosse una mela? o su conformismo e formazione

 


È sempre interessante osservare il funzionamento di Facebook. Se un post, appena pubblicato, viene subito letto e timbrato con un pollicione blu, questo post viene rilanciato con maggiore vigore dal famigerato algoritmo, e quindi letto e timbrato da un numero sempre maggiore di persone. Diversamente, sbagliando l'orario di pubblicazione o ancora peggio dimenticando di fare il simpatico, il battutaro, il cazzone, oppure di essere polemico, ruffiano, lillipuziano, gnomico, sul pezzo, sentimentale, politicamente corretto (mi raccomando le quote rose e i palestinesi), amante dei bambini, o, meglio, delle cose buffe che dicono i propri bambini, quelle che fanno i gattini e, ma questo vale solo per le donne, eroticamente ammiccante (mi raccomando le foto mentre andate in bicicletta con un abitino di cotone a fiori), l'algoritmo di Facebook è come se accantonasse il tuo post in attesa di tempi migliori, rilanciando quelli caratterizzati dai contenuti sopracitati, che immediatamente fanno breccia.

Il risultato è che davvero il mezzo diviene il messaggio, secondo la felice intuizione di Marshall McLuhan. Ma ciò che io trovo inquietante è che la stessa dinamica di marginalizzazione preventiva dell'eccentrico  eccentrico in senso letterale, fuori centro, da non confondere con la bizzarria, sempre gradita in quel carnevale esteso che sta divenendo il mondo , l'eccentrico è a ogni livello confinato, seguendo la medesima strategia di ratifica delle scorciatoie del consenso, che come una valanga monta il successo per autogenesi cumulativa.

Pensiamo all'editoria, un tempo la circolazione di un libro era determinata dai giudizi lusinghieri della critica, ora sostituiti dalla collocazione nella classifica di vendita; viene seguita anche dai librai più pigri per indirizzare l'acquisto: prenda un Carofiglio appena sfornato, è secondo in classifica, vedrà com'è soffice e ben cotto, non resterà deluso. Ma a questo modo chi vende subito continuerà a vendere sempre più, non c'è nemmeno un complotto alle spalle, sono i lettori a stabilire la loro sorte. Potremmo dire con un gioco di parole che il con-formismo ha sostituito la formazione, che ha la necessità di un procedere lento e meditato.

Sensazione dunque, rapporto stimolo risposta, behaviorismo da slogan pubblicitario, in cui i pubblicitari che determineranno la sorte dei prodotti sono gli stessi consumatori. Se vogliamo che i nostri post vengano letti e i romanzi pubblicati, facciamoci allora una domanda: chi sarà il primo a leggerli, a che ora aprono le librerie? Perché nel primo boccone, come per Adamo ed Eva con la mela, è già compreso il destino del frutteto.

martedì 1 giugno 2021

Giovanni Brusca, o su specie e natura

 


Giovanni Brusca è un uomo libero. Dopo venticinque anni di detenzione e con quarantacinque giorni di anticipo, il boia di Capaci è stato scarcerato oggi, adesso dovrebbe seguire il reinserimento nella comunità umana di appartenenza. Ma Brusca è l'emblema del non umano, qualcuno obietta, Brusca non ci appartiene, e da qui si rinfocola un’annosa polemica sui delitti e le pene, risolta con forse troppa virtuosa fretta dal Beccaria.

Più che con l'ottimismo di quest'ultimo, io suggerirei allora di guardare all'intera questione con gli occhietti azzurri e affilati di Schopenhauer, con il suo disincanto. Per Schopenhauer, in seguito scopiazzato da Freud, nel sottosuolo psichico convivono due forze impersonali, a contendersi la scena di quella rappresentazione illusoria chiamata individuo. La natura, e la specie.

Alla natura interessa solo una replicazione infinita di sé; mangiare e riprodursi sessualmente, semplificando. La specie ci vorrebbe invece indurre a una convivenza altrettanto necessaria, viste le limitazioni fisiche che ci contraddistinguono; e convivere significa non doverci sbranare per mangiare, non sbranare per accoppiarci, non sbranare il tuo simile, punto e basta, stabilisce infine la specie, e per essere ancora più convincente fa esprimere quel precetto dalla voce di un dio. Ma la natura non è così convinta...

L'inumano, per Schopenhauer, è dunque un modo diverso e un po' fighetto per dire la natura, e l'umano è la specie o se si preferisce quel suo sottoprodotto costituito dalla civiltà. La questione andrebbe allora riformulata in termini interrogativi: compiere gesti inumani, come quelli di Brusca, gesti naturali e perciò contrari alla specie, ci fa automaticamente coincidere a tempo indeterminato con il nostro gesto, oppure noi siamo il gesto solo per un tempo provvisorio, che il codice penale cerca di stabilire?

Esiste in realtà anche una terza ipotesi, e cioè che l'umanità possieda ma non sia i propri gesti, o meglio ancora li faccia come una mucca fa il latte; una mucca non è infatti il suo latte, e così neppure gli uomini sarebbero i loro gesti, non importa quanto criminali. In tal caso la detenzione diviene incompatibile con la specie, già che a gesto compiuto io non sono più quella persona, non sono la mano che ha innescato la bomba o premuto il grilletto. Potremmo sintetizzare il concetto con una formula: fare diverso da essere. 

Per fondarsi giuridicamente, la punizione ha così bisogno di una preliminare fondazione filosofica, in cui gesto ed essenza umana (per i più colti e snob, essere ed esserci) sono chiamati a identificarsi, o perlomeno a riflettersi. Ma in tal caso la lunghezza di una pena non sarebbe proporzionale alla gravità del reato, come ci viene ripetuto, ma piuttosto espressione del sovrapporsi percettivo tra comportamento e persona. Quando la specie avverte, del tutto discrezionalmente, che non sei più il gesto per cui ti ha escluso, puoi essere reincorporato nel cerchio sterilizzato della civiltà, puoi essere liberato come Brusca.

La soluzione a questi dilemmi è meno scontata di quel che sembra, e la specie, nel corso del tempo, si è data risposte diverse e non di rado contraddittorie. Nel caso specifico, se la comunità dei cittadini italiani o, perlomeno, la sua larga maggioranza identificasse ancora Brusca nei suoi gesti delittuosi, potrebbe inventare qualche cavillo legale per confinarlo nuovamente al margine, occultando l'inumano del suo corpo in qualche carcere speciale. Perché l'inumano è osceno, in quanto troppo naturale per la specie.

In fondo il diritto è una piccola utile menzogna, che ci fa percepire la natura quanto più possibile lontana. Ma in realtà è sempre lì, sempre dentro, sempre noi, e ci guarda con lo sguardo ottuso e feroce di Giovanni Brusca, che fa tutt'uno con quello furbo Schopenhauer.