lunedì 28 agosto 2023

Maria Assunta, o sulle parole e le cose

Maria Assunta abitava sopra l’edicola delle due zitelle. Al ritorno da scuola, mio padre, sotto braccio la cartelletta che conteneva i temi degli alunni, si fermava a ritirare la sua copia del Corriere della Sera, e io ci andavo di sabato per acquistare le figurine dei calciatori. Cinque pacchetti.

Numero dispari e squilibrato, nessuna scaramanzia cabalistica o conta della dita di una mano, ma soglia delle mancette settimanali carpite alla nonna per accompagnarla in chiesa, dove al posto del Credo di Nicea recitavo sottovoce la formazione dell’Inter di Eugenio Bersellini.

Ormai non dovevo nemmeno più chiedere, come chi, intercettando lo sguardo del cameriere a cui inviare un cenno d’intesa, ottiene quale risposta un Bitter Campari; e così a me cinque pacchetti di figurine Panini, consegnate dalle mani talcate di una delle due zitelle. Sulla busta tricolore un uomo in braghette bianche e blusa rossa colpisce al volo il pallone in sforbiciata.

Le aprivo davanti al bar dei genitori di Claudio, a pochi metri dall’uscita dall’edicola, nella speranza di trovare la figurina di Pizzaballa, portiere di Verona, Milan e infine Atalanta, con cui avrei concluso l’albo.

Maria Assunta aveva due anni più di me e uno più di Claudio. La carnagione chiara. I capelli neri.

Dietro all'edicola c’era un piccolo giardino, al centro svettava un pino che raggiungeva il quinto piano del condominio accanto, dove abitava Claudio a un paio di rampe di scale dal suo bar. Il pino era stato colpito in due diverse occasioni da un fulmine, ma era sempre sopravvissuto.

Quando si intravedeva il lampo immediatamente seguito dal tuono, dalle abitazioni che danno sul cortile (la casetta anni Venti di Maria Assunta, il mio palazzo, completato alla fine degli anni Cinquanta, e quello più recente di Claudio) le persone si affacciavano alle finestre o uscivano in terrazza, guardandosi con una complicità nuova.

Forse accadeva qualcosa di simile durante la guerra, i bombardieri americani sganciavano le bombe sulla ferrovia e i bambini salutavano i piloti saltellando tra i filari delle vigne, in un attivarsi del corpo che era allo stesso tempo festa e paura, meraviglia. Tanti anni dopo ho scoperto che la filosofia proviene dallo stesso miscuglio.

Claudio aveva una bicicletta simile alle moto di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Era molto scomoda ma molto bella, sosteneva di averla vinta con i buoni del frappè.

Di solito prima si sperimenta una cosa e poi si impara la parola corrispondente, ma, con il frappè, per me è stato diverso. La mamma diceva che potevo fare merenda anche a casa e quelli al bar sono soldi buttati via.

Non ho ricordi precisi della mia bicicletta, solo il colore verde smunto. Tutta la memoria va alla bicicletta di Claudio: il manubrio alto e la posizione avanzata dei pedali, la ruota anteriore più piccola, lunga la sella. E poi era gialla come tutte le cose veloci.

Una sfera di gomma scura azionava la trombetta cromata. Il signor Pittino però non voleva che la suonassimo, quando faceva caldo – ma quando faceva freddo in cortile non si andava – imponeva un silenzio assoluto a tutela del suo riposino pomeridiano, che durava dalle 13.30 alle 18.

A volte io e Claudio ci scambiavamo le biciclette o giocavamo a tappi, fino a quando vedevano Maria Assunta comparire in giardino. Si sedeva su una poltrona di vimini posata accanto al grande pino, le fronde facevano ombra, offrivano un po’ di frescura; ma più che altro credo si mettesse lì per evitare ogni contatto con i raggi del sole.

Indossava abiti a fiori e sandali ricamati sulle fettuccine di pellame. Il parroco, a dottrina, chiamava quello stile hippy, e quando pronunciava il termine si avvertiva una punta di sarcasmo. Sotto i fiori stampati sul tessuto di cotone leggero si intravedevano gambe bianchissime.

Dopo aver scalciato lontano i sandali, strofinava i piedi su fili d’erba misti a terriccio. Un movimento che ricordava i gatti quando sono contenti o ricoprono con la sabbietta le feci.

Tra il cortile che univa i nostri palazzi e il giardino di Maria Assunta c’era un contrafforte di cemento. Partiva basso, un muretto al culmine della rampa d’accesso ai box, e poi arrivava a circa tre metri, sormontato da una rete di metallo arrugginita non più alta di un pony.

Dopo avere lasciato le biciclette appoggiate alla parete, io e Claudio lo percorrevamo poggiando solo la punta dei piedi, il petto rasente la rete. La larghezza dalla parte in cui stavamo avvinghiati non superava i cinque centimetri. Arrivati di fronte al pino scavalcavamo, se l’avessimo fatto prima saremmo finiti nell’orto di non so chi.

Mi piace credere che a Maria Assunta facesse piacere che rischiassimo l’osso del collo per andare a trovarla, se non altro non appariva seccata. In genere teneva tra le mani un libro o un fotoromanzo, al nostro arrivo lo lanciava vicino ai sandali, e ci sorrideva. Poi parlava di cose un po’ da grandi, e noi rispondevamo con cose da piccoli.

Una volta ci ha offerto dell’acqua fresca, l’ha versata da una caraffa di terracotta in bicchieri di plastica trasparente, dove ha aggiunto lo sciroppo di orzata. I due liquidi sembravano da principio recalcitranti a unirsi, ma una volta acquisita confidenza, piano piano, si fondevano in una sostanza del colore delle sue gambe.

Nel giardino c’erano anche delle piantine di basilico, contendevano l’odore di quei pomeriggi assolati a tre cespugli di rose rosse e un pruno defilato, su cui il cocker del Rag. Castoldi (sulla cassetta delle lettere stava scritto così, non so se avesse anche un nome di battesimo) andava a pisciare. Guai a mangiare le prugne perché le due zitelle si arrabbiavano, dicevano che l’albero era il loro.

A ottobre Maria Assunta smetteva di scendere in giardino, e anche io e Claudio smettevamo di arrampicarci per andarla a trovare. Aspettavamo la fine di aprile dell’anno dopo. Potevamo guardare la tivù, se avevamo terminato di fare i compiti. In televisione, alla 16.40 in punto, iniziavano le schermaglie tra Zorro e il sergente Garcia.

Era il 1976. Poi fu il turno del 1977. Ma nel 1978 cambiava tutto.

Maria Assunta non si vedeva più in giardino. Nemmeno a maggio, a giugno. Le due zitelle, vedendomi smarrito nell’acquisto delle figurine, un sabato mi hanno rivelato che era andata ad abitare altrove. Quella ladra, hanno aggiunto. Ci mangiava sempre le prugne.

In autunno sono riprese le lezioni alle scuole medie F. Sassi di Sondrio, e mi sono accorto di una compagna di classe. Si chiamava Simona. Anche l’anno precedente eravamo andati a scuola assieme, nella sezione F, ma adesso era diverso... Prima non me ne accorgevo.

Rimaneva il problema di dare un nome a quella sensazione, più che nella testa stava dentro la pancia.

In fondo provavo qualcosa di simile mentre mi arrampicavo per raggiungere Maria Assunta. Al suo apparire tra il basilico e le rose, sormontata dal pino e con la complicità del pruno, si faceva ancora più forte, quasi un crampo.

Eppure è la cronologia abituale: inizia la sensazione, a cui segue – può passare molto tempo – una sequenza ordinata di lettere. Amore, ad esempio, perché di questo si trattava. Il primo amore, per essere precisi. Mica come il frappè di cui continuavo a conoscere solamente il nome.

L’unica differenza è che non dovevo arrampicarmi su nessun contrafforte, fare l’equilibrista, scavalcare, graffiarmi, stare attento a non cadere. Per poi essere accolto nel giardino dove Maria Assunta ci attendeva sul suo trono di vimini.

Ritrovavo Simona tutte le mattine, entrava in classe sempre prima di me e stava già rivolta in direzione della lavagna. Una concentrazione quasi cocciuta, malgrado i suoi occhi azzurri da dodici diottrie, già pronta a offrire ai professori la soluzione di problemi non ancora formulati. C’è chi ci nasce primo della classe. Intanto, io guardavo lei come si guarda attoniti alla X.

Un giorno sono entrato nel bar dei genitori di Claudio, avevo messo da parte qualche spicciolo che non impiegavo più per le figurine; ora dalle zitelle andavo di giovedì per acquistare i fumetti di Zagor. Ho ordinato un frappè. A che gusto? Fragola.

È divertente vedere il ghiaccio sbattere contro le pareti del frullatore, anzi ascoltarlo, ta-ta-ta-ta, prima di cedere al latte e alla polvere rosa. Se ritagli i buoni che stanno stampati dietro la busta puoi anche vincere una bicicletta. Quindi l’ho bevuto e ho pagato e sono uscito. Tutto qui?

Avevo finalmente imparato come ricomporre i nomi alle cose.

Se dicessi che pochi anni dopo ho letto il nome Maria Assunta su un manifesto funebre, Maria Assunta, 1964 – 1988, ti ricordano con affetto i cugini di Voghera, ora sei in cielo assieme al tuo papà, renderei il finale della storia un po’ patetico. Peggio se aggiungessi il commento delle due zitelle, mettevano sempre l’articolo determinativo: “La droga..." bisbiglia la prima. "È morta" completa la seconda mentre consegna la Gazzetta dello Sport al Rag. Castoldi, "è morta perché si faceva le punture con dentro la droga.”

Ma le cose sono andate a questo modo e non posso farci nulla, solo cercare una nuova storia, ce ne se sono tante in giro. Questa però è la mia storia e se non la racconto io rimarrà senza parole, nessuna traccia di un minimo giardino tra via Trento e via Parolo, a Sondrio. Conteneva due scalatori alla loro prima vetta, due streghe e naturalmente una principessa, dalla gambe del colore dell’orzata.

Nel frattempo Claudio aveva cambiato città, non ho più rivisto lui né la sua strana bicicletta. La figurina di Pizzaballa – ecco perché non la trovavo mai! – pare non fosse stata stampata. Simona si è laureata in Lettere con il massino dei voti, adesso è capo redattrice in una rivista dove spiegano i diversi tipi di orgasmo femminile e come superare la prova costume.

Solo il pino giganteggia ancora al suo posto, ogni tanto gli danno una sfoltita ai rami laterali, ma il signor Pittino non si lamenta più per il rumore della sega elettrica. Nel suo appartamento è subentrato il nuovo inquilino, somiglia un po’ a Dennis Hopper ma gli manca il chopper e il giaccone con le frange. Ha sostituito la targhetta Pittino con una piena di consonanti palatali. Prima le cose e poi le parole, la regola è rimasta immutata.

In ogni caso, qualcuno che si lamenta si trova sempre.

Al termine dell'estate qualche volta ancora mi ricordo di Maria Assunta, succede quando arrivano i primi temporali. Se avverto un fragore più forte, secco, di quelli che ti fanno esclamare Che botta! mi affaccio alla finestra per controllare se il fulmine ha centrato la cima della pianta. Ma non vedo più spalancarsi nessun’altra finestra.

giovedì 24 agosto 2023

Perché negare i libri è diventato non solo giusto ma necessario

A Castelfranco Veneto la libreria Ubik si rifiuta di vendere il libro del generale Vannacci, e Ferdinando Camon, sul Mattino di Padova, critica quella scelta in un articolo che sta facendo discutere, anche per via di una lunga articolata risposta della libraia incriminata, Clara Abatangelo.

Ma non anticipiamo il suo pensiero e restiamo a ciò che ha scritto Camon, il cui argomento cardine è che solo avendo accesso a un testo si può sviluppare un pensiero critico al riguardo, non è mai una buona idea oscurare la conoscenza. A Camon capitò anni prima quando richiese il Mein Kampf nella libreria Feltrinelli di Padova, ottenendo quale risposta: "Noi certa robaccia non la vendiamo." Fu un errore allora e fu un errore adesso, conclude Camon.

Fino ad alcuni anni fa – diciamo dieci, massimo quindici – l'avrei pensata come lui. E appartenendo a una o forse anche due generazioni anteriori alla mia, non mi sorprendo che continui a pensarla così. Perciò lo rispetto, non perché lo consideri un vecchio svampito (tutt’altro, e va ricordato che l’autore di Occidente proprio del Mein Kampf si giovò per la descrizione della sottocultura neofascista), ma è la sua biografia intellettuale a orientarne la percezione, quella di un sistema culturale con funzioni determinate e fisse. Ma rispetto anche la scelta di Clara Abatangelo: non la trovo astrattamente più giusta, ma più attuale e cioè in linea con le mutazioni del sistema culturale, che diversamente dal sentire di Camon sono nel frattempo avvenute.

Il punto di discrimine va individuato nella piena affermazione dell'e-commerce, con la funzione – funzione sociale proprio – delle librerie che smette di essere quella di consentire l'accesso ai testi, come la funzione del panettiere al pane e del lattaio al latte. Certo, esistevano ed esistono allo scopo anche le biblioteche, insiste nella sua risposta la libraia, e ha perfettamente ragione. Inoltre, continua con pari persuasività, l'attività di vendita libraria va inscritta nel regime economico a tutti gli effetti, sottraendola a un certo alone romantico da cui è circonfusa.

Ma qui mi pare che realizzi un autogol: non mi appare un'ottima idea rivendicare la scelta di non vendere il libro più richiesto al momento, come se un bar, per fare quadrare i conti, decidesse di non vendere Coca Cola. Può naturalmente non farlo, ma per tutt'altri motivi: in primo luogo oggettivi (mi riferisco alla natura autoprodotta del testo, i due contendenti però non vi fanno riferimento, e quindi per il momento sorvoliamo) ma soprattutto ideologici, che con piena legittimità sostengono la scelta di Abatangelo.

Ora il delicato punto del ragionamento consiste proprio nella legittimità dell'ideologia, anzi in un certo senso, per un libraio, la sua necessità. Se infatti la mediazione tra offerta e domanda nella filiera commerciale può ora essere svolta da venditori impersonali come Amazon, con vantaggio economico e piena efficienza, è a un altro e nuovo livello che va collocato il ruolo del libraio. Da mediatore a operatore culturale a pieno titolo, che tra i suoi strumenti performativi dispone della discrezionalità della proposta con cui indirizzare il lettore.

Alla Ubik di Castelfranco Veneto, ad esempio, hanno deciso di vendere qualsiasi nefandezza, purché l'autore non sia più vivente. Dunque Hitler sì e Vannacci no. A me sembra un po' una sciocchezza, ma difendo il principio: scegliere secondo una propria idea di giustizia, bellezza, forma e perfino mondo. Che naturalmente è criticabile come ogni gesto estetico, seppur indiretto.

In un parallelo con l'arte, potremmo vedere il libraio contemporaneo come figura simile a ciò che è stato Achille Bonito Oliva per la neoavanguardia: un attore effettivo del movimento, non semplice recensore esterno.

E così i librai, se vogliono sopravvivere alla concorrenza di internet, possono e devono fare cultura, prendere parte, partito, posizionarsi sulla base dei propri convincimenti in molti campi non limitati alla qualità formale del testo. Ciò si fa anche attraverso scelte discutibili come negare ai propri clienti un libro, probabilmente pessimo, ma oggetto di dibattito civile.

mercoledì 23 agosto 2023

Cortina di ferro e sapone, o sull'ambiguità del concetto di bolla social

Le pagine web dei maggiori quotidiani nazionali riportavano ieri della polemica social tra Luca Bizzarri e Selvaggia Lucarelli. Essendo quest'ultimo a me simpatico e la Lucarelli, diciamo così, eufemisticamente, molto meno, la ragione mi appariva pendere dal lato di Bizzarri. Ma quale ragione?

Mi sono fatto la domanda successivamente, dopo la prima reazione emotiva. La materia del contendere era talmente insignificante da non meritare neppure menzione. Eppure era una delle notizie di rilievo delle pagine web dei quotidiani nazionali. Questo l'ho già detto, ma ripetiamolo una terza volta: quotidiani nazionali.

Quando si pronuncia – lo faccio spesso anch'io – l'espressione bolla social, forse sarebbe allora il caso di interrogare il linguaggio che utilizziamo. Se anche fosse una bolla, come i maiali di Orwell esisterebbero bolle più bolle delle altre, che le inglobano come nell'insiemistica fa l'insieme maggiore col minore.

Ciò che scrivo io in questo momento e che il mio amico Pinco Pallino forse commenterà, sta all'interno di una piccola bolla, una bollicina. Resta lì, sospesa in aria per tre giorni, e poi scoppia senza botto, alla maniera delle bolle di sapone. Puff.

Anche la bolla in cui polemizzano Luca Bizzarri e Selvaggia Lucarelli ha i giorni contati, ma nel frattempo riesce a invadere gli spazi, li satura, raggiunge perfino chi non è in contatto con loro come me. Una minima frazione di tempo in cui non si parla d'altro, a parte inezie del tipo la guerra in Ucraina e il Global Warming. È ciò che un tempo si diceva fare mondo.

L'episodio a cui mi sono riferito è davvero marginale, ma sospetto che si possano ricavare elementi più generali, forse perfino universali sulla natura sociale del nostro tempo. Ad esempio: non è vero che la società si è parcellizata in tribù virtuali di scambio (perlopiù iconico), quando in questa negoziazione comunicativa continuano a permanere delle gerarchie, che sono a tutti gli effetti gerarchie sociali.

Non a caso chi le cavalca viene chiamato influencer, con un termine che ricorda le aree di influenza in cui è stata spartita l'Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ma se l'influenza politica e culturale esercitata dagli Stati Uniti ha perdurato per oltre cinquant'anni e poco meno l'URSS, quella di Lucarelli, Bizzarri, Fedez, Ferragni, Scanzi etc dura i proverbiali tre giorni. Poi fa ugualmente puff e bisogna attizzare il fuoco con una nuova polemica.

Quindi ciò che è imploso è il tempo dell'influenza, mentre lo spazio (o se si preferisce la quantità, che attraverso lo spazio monta come la neve nelle valanghe) continua a permanere quale discriminante dei rapporti di potere. Spazio naturalmente astratto e non più fisico come quello della Cortina di ferro. Ma pur sempre spazio dove ci sono vincenti e perdenti, sommersi e salvati. E pochissimi che se ne sbattono i coglioni e vanno a pescare.

 

martedì 22 agosto 2023

Rotta per Antiochia, o su modernità e lettura

Nell'antichità era diffusa la pratica della bibliomanzia. Si apriva a caso la pagina di un libro, in particolare della Bibbia, e da quel che si leggeva si ricavavano delle indicazioni pratiche per la propria vita, frutto del collegamento con una domanda posta al testo in precedenza. Del tipo: È opportuno che io intraprenda il viaggio per Antiochia? Risposta: "La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero", che con un po' di immaginazione potrebbe essere tradotto con un sì, va pure, ma sta attento a dove metti i piedi. Aiutati che il ciel t'aiuta.

A me pare la condizione della tarda modernità simile a quell'antico scenario. Con eccezione dei rabbini, pochissimi allora avevano letto il testo biblico per intero; e a differenza di Mallarmé nessuno direbbe oggi "la carne è triste, ahimè. E ho letto tutti libri." Nemmeno l'uno per cento di quelli pubblicati in un solo anno potrebbero essere letti in una vita intera.

A parte gli studiosi di professione, filologi, docenti universitari e cocciuti autodidatti che passano le giornate in biblioteca, siamo la somma di pagine aperte e lette un po' caso, di cui il nostro corpo costituisce la rilegatura. Ma mi sembra però di scorgere anche una differenza con il passato. È difficile ora incarnare il nostro sapere frammentario, indirizzarlo in un orizzonte biografico, al punto che il più delle volte non viene neppure contemplata la possibilità.

Sì legge un libro, quando terminato si fotografa la copertina e la si posta su Facebook. Ventidue like, va', non male, anche se con la 'Cognizione del dolore' ne avevo fatti trentasette. Senza chiederci cosa quel libro aveva da sussurrarci all'orecchio, proprio e solamente a noi, anzi a me, non dovrebbero esistere plurali al cospetto di un libro preso davvero sul serio, a cui affidare il ruolo di navigatore satellitare. E capite che senza questo ausilio poi è difficile raggiungere Antiochia.

lunedì 21 agosto 2023

Paradise Lost

Se i buoi e i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato, scriveva Senofane nel quinto secolo. Ma io come lo disegnerei, il mio Dio? A volte, i pittori, indecisi sul soggetto del ritratto cominciano a dare forma allo sfondo. Ad esempio, in alto a destra su uno scaffale in metallo, potrei tratteggiare palloni bianchi e palloni blu, la materia di cui sono composti è sottile, con i tipici pentagoni neri impressi sulle sfere da calcio; ma anche altre palle più grandi a spicchi colorati, sono ancora flosce e vanno gonfiate attraverso una pipetta di gomma aggettante. Quindi maschere da sub, pinne, boccagli, frisbee, ciabatte, ciabatte da scoglio in lattice trasparente, costumi, cappelli di paglia, occhiali da sole, teli da spiaggia, borse, sdraio, kit per giocare a badminton sul bagnasciuga, e sempre sul bagnasciuga ribattere tra loro due palline di legno appese a una cordicella, facile colpirsi le dita e perfino rompersele. Meglio lasciar perdere. La mano che disegna darà allora forma a ruspe e camion di plastica, motoscafi di plastica ugualmente in miniatura, soldatini di plastica, bocce di plastica, braccioli e salvagenti di plastica (con o senza ochetta), quasi tutto qui è di plastica. Tra cui una pistola ad acqua modello James Bond, e un secchiello utile per attingere all'acqua del mare e farla colare piano sui torrioni del castello di sabbia, per sagomare le guglie. La paletta e le formine serviranno solamente in seguito, ma non vanno comunque dimenticate, insieme a collanine di ambra e corallo e pochi oggetti di cancelleria, più che altro penne BIC e quaderni per eseguire i compiti delle vacanze. Ci sono inoltre, a richiesta, i francobolli con cui spedire le cartoline che pure non mancano: Qui tutto bene, c'è il sole, Giovanni ha fatto indigestione di cozze, e voi a casa?. Giganteggiano all'ingresso due ombrelloni aperti e un materassino a forma di coccodrillo, con un vano dove inserire la lattina di Fanta; ma fa lo stesso per una birra o una Pepsi. In una cesta di vimini posata al suolo - è possibile acquistare anche quella - stanno delle reticelle di nailon che contengono biglie di vetro e altre di... massì, di plastica. Da un lato sono colorate mentre la metà opposta è trasparente, per lasciare intravedere le fotografie dei ciclisti che sono posizionate proprio al centro: Gimondi, Merckx, Binda, Anquetil, Bitossi, Pollentier. In una bacheca a lato le creme da sole, con i vari filtraggi, sormontata dall'immagine di una bambina a cui un cagnetto abbassa il lembo posteriore del costume, facendo risaltare il sedere bianchissimo. Non senza malizia, accanto si trovano i giornaletti per soli uomini, titoli come Lando, Zora, Maghella. Ma se fai finta di niente e li sfogli, ti accorgi che sono solo dei fumetti, non troppo diversi da quelli (sul banco centrale) di Tex, Zagor, Diabolik e Nonna Abelarda, il mio preferito. O forse è che Caballero e Le Ore Mese vengono tenuti sotto al bancone, e consegnati dopo un cenno d'intesa. Ben in evidenza, al contrario, sono i parei femminili; ragazze bionde dagli incomprensibili gutturali suoni che escono dalla bocca se li provano davanti a uno specchio ovale, starei a guardarle per ore: loro e i loro parei pieni di fiori rossi, gialli, arancione, fucsia; tinte che ritroviamo in altri dallo stampo psichedelico. Ma c'è anche un camicione variopinto unisex, stile indiano, ricorda l'abbigliamento di Sandokan nel trafiggere la tigre, va di gran moda quest'anno. Il 1973. Si fa invece fatica a vendere i berretti da lupo di mare – o blu o blu, come per la Ford T non c'è da lambiccarsi sul colore – con un'àncora dorata cucita sopra la visiera. Ho trascurato i quotidiani locali e la Settimana Enigmistica e riviste dalla copertina lustra con titoli stranieri; solo le immagini di donne, naturalmente poco vestite, che li accompagnano, sono uguali a quelle stampate sulle riviste italiane. Ma la cosa più preziosa sono i Trasferelli: chi sa sa e chi non sa non sa, peggio per voi. Perché questo è il mio paradiso. Un bazar marittimo, sì. Si trovava nello spiazzo in cui l'asfalto cede alla sabbia prima della spiaggia di Lacona, Isola d'Elba. L’anno l’ho già indicato e io non avevo bisogno di nessun Dio, poco importa che avesse aspetto di uomo barbuto, bue oppure cavallo. Bastava il suo Regno di meraviglie. E basta ancora.

Que reste-t-il?

 


Il sempre ottimo Fabrizio Coscia  (docente, critico letterario e teatrale, autore, direttore editoriale e soprattutto grande amante degli animali, ed è quest'ultimo aspetto che me lo fa sentire particolarmente vicino), giovedì ha pubblicato su Facebook il seguente post:

"Ogni cosa, qua sopra, nasce pasce e muore in tre giorni."

Se ne ricava che ciò che ha scritto, se non gli avessi fatto la respirazione bocca bocca, starebbe morendo in queste ore, nessun sepolcro informatico si spalanca da solo al terzo giorno. Ma se ne ricava anche un'altra cosa, in forma di specificazione assente nelle sue parole. Che così acquisterebbero maggiore aderenza alla realtà:

Ogni cosa VERBALE, qua sopra, nasce pasce e muore in tre giorni.

Per le immagini è infatti diverso. Rimangono registrate in un archivio, anzi due: il primo si chiama immagini del profilo e l'altro non ricordo, ma entrambi possono essere richiamati da chiunque (sempre che non vengano posti veti informatici, operazioni comunque troppo complesse per me). 

Ciò porta alla conseguenza che quando qualcuno ti chiede l'amicizia: 1) o l'accetti senza pensarci troppo, come se stessi corrispondendo alla richiesta di una sigaretta; 2) o è proprio a quegli archivi figurali che in prima battuta ti affidi, per farti una sommaria idea della persona con cui stai entrando in relazione, ed eventualmente decidere se proseguire. 

Nel mio caso, quando trovo selfie del richiedente abbracciato con Salvini - eventualità per nulla astratta e fin troppo frequente - la dogana resta abbassata. Se superato questo primo checking dovessi scoprire che trattasi di donna e per giunta carina, particolare ugualmente diffuso e spropositato rispetto alla vita reale, mi sono sempre chiesto perché le donne che mi chiedono l'amicizia sono di norma tanto belle, scattano puntuali le fantasie di fidanzamento.

Scorro così tutte le foto che accompagnano le varie fasi della vita: il primo figlio allattato sotto l'ombrellone a spicchi arcobaleno; il giorno della laurea con il tocco, quel cappelletto squadrato che rende simili a piattaforme petrolifere; in gita scolastica a Venezia - lo si capisce dai souvenir con la gondola o Piazza San Marco - confusa nel gruppone sorridente, da cui spunta una mano che fa le corna al vicino; la stinta polaroid di un uomo giovane e robusto, sembra felice per una promozione sul lavoro o la vittoria di un torneo di boccette, ciao Babbo recita la didascalia, con oggi sono già cinque anni...

Infine mi soffermo su quelle in cui ancora ragazza pedala con un abito di cotone leggero e svolazzante, meglio se di color cobalto con piccoli fiorellini colorati o chiari pois, lo chignon contiene il troppo dei capelli ma alza il sipario sullo spettacolo del collo.

Una premessa personale per trarre una conclusione che a me appare più generale, forse perfino universale, di certo filosofica. Quando Derrida individua nella scrittura il luogo privilegiato dove ricercare la "différance", da intendere come rinvio al tempo mitico del differire ma anche lasciare tracce distintive, i social non esistevano ancora, e non ha così potuto collaudare la sua teoria nell'orizzonte della tarda modernità. Il suo sfondo è ipotetico.

Ma a noi ora basta un click per riconoscere come la traccia verbale sia simile alla scrittura con inchiostro simpatico; solo un cocciuto rompicoglioni può rianimarla scaldando il foglio con un fiammifero, sul manuale di Paperinik insegnavano a farlo con il succo di limone. Diversamente ci toccherà saturare di segni grafici la stessa pagina virtuale che si rimbianca a ogni giro - "cosa stai pensando?" - convertendo il gesto dello scrivere da memoria a presente infinito.

È quanto ho fatto io con la traccia morente di Fabrizio: l'ho rianimata. I più si accontentano di ciò che resta, que reste-t-il recita una celebre canzone francese da cui ha forse tratto spunto Derrida, que reste-t-il de nos amours, que reste-t-il de ces beaux jours, que reste-t-il dei nostri insulti e scazzi sui social?

Immagini, ormai questo dovrebbe esserci chiaro. Solamente immagini.


domenica 20 agosto 2023

Un amore grande. Ma quanta grandezza siamo disposti a concedere al nostro amore?



L'ho rivisto ieri sera per la terza volta, e per la terza volta ho trattenuto a stento le lacrime; massì diciamolo: qualcuna mi è pure sfuggita sul cuscino. Importante che non mi abbia visto nessuno.

Mi riferisco all'episodio San Junipero presente nella terza stagione di Black Mirror, si trova ancora su Netflix. Per chi non l'avesse visto - ma vedetelo! - cercherò limitare gli spoiler, per quanto qualcosa ci scapperà. Questo però lo posso dire senza compromettere la sorpresa: contiene l'idea cinematografica più potente, tenera, spiazzante e, per paradosso, plausibile vista negli ultimi anni sullo schermo.

Non è importante che la regia sia un po' televisiva, anzi lo è totalmente, ma in senso non spregiativo, come per Stendhal che dichiarava il suo stile letterario ispirato al Codice Civile napoleonico, niente preziosismi da primo della classe. E così anche in San Junipero la regia è piana e senza la ricerca di abbellimenti calligrafici, quel guarda come sono bravo che si avverte come sotto testo di tanto cinema americano. Una scelta in levare che fa risuonare ancora di più i dilemmi che dischiude nella mente dello spettatore.

Intanto: è una storia d'amore, da principio adolescenziale e sbarazzina, si potrebbe essere portati a credere di trovarci invischiati in un teen movie. Niente di più sbagliato. Le possibilità che la tecnologia lascia intravedere già adesso, figuriamoci tra una manciata di anni, pongono infatti a questo amore acerbo interrogativi inediti e concreti.

Quando si dice ti amerò per sempre, ad esempio: e se non fosse solo un'iperbole...

Lasciamo il dubbio in sospeso e torniamo a un altro elemento recuperato dalla tradizione, qual è il tema del doppio. Qui viene rimodulato in forma esponenziale: le due protagoniste, attenzione, cominciano gli spoiler, sono una il doppio dell'altra, ma anche di loro stesse. Quindi abbiamo la nostalgia verso un passato reale divenuto mitico nel ricordo: gli anni Ottanta, e da quel ricordo la forbice si spalanca tra gioventù artificiale e vecchiaia autentica. Entrambe sono presenti in una sincronia che imprime una sterzata in direzione della fantascienza.

Ma saremmo fuori strada anche se pensassimo di avere così trovato il bandolo della matassa. Viene infatti richiamato un problema ben vivo nel presente, l'eutanasia, a cui si aggiunge quel pizzico di omosessualità che nel cinema contemporaneo non guasta. Ma è di nuovo riletta nella prospettiva del doppelganger: l'omosessualità non tanto, o non solo, come ricerca esterna di un corpo di genere uguale al proprio, ma, in chiave junghiana, di una parte diversa che sta all'interno di ciascuno, a cui l'altro fa da specchio.

Potremmo chiamarle la parte vera e la parte falsa reclamata dalle consuetudini sociali, la maschera professionale, e con ciò recuperare l'alternativa tra autentico e artificiale che già abbiamo incontrato per il tempo biografico, ponendola nuovamente in forma interrogativa.

Cosa è vero e cosa è falso se i sensi, ricreati dalla tecno-scienza, perdono la capacità di discriminare una sostanza chiamata realtà? E come comportarci quando questo confine diviene incerto, replicando la scelta tra la pillola rossa e quella blu in Matrix? Con la differenza che l'illusione qui rappresenta la via di fuga al dolore e alla degradazione del corpo, in una sensibilità neo gnostica (di segno solo invertito) condivisa con la pellicola dei fratelli Wachowski.

Ma alla fine è il quesito amoroso che nel finale si riprende tutta la scena, un AMORE che più maiuscolo non potrebbe essere. Siamo disposti, per tornare all'ipotesi lasciata in sospeso, a un sentimento tanto grande da sfidare il tempo in senso letterale, congelandolo dentro il loop di una manciata di canzoncine degli anni Ottanta. Ho provato a farlo con Heaven Is a Place on Earth di Belinda Carlisle, presente in colonna sonora con funzione sia diegetica che simbolica, e già al quarto ascolto mi era venuta la nausea.

Non però per questo episodio di Black Mirror, che probabilmente riguarderò ancora. E di nuovo mi commuoverò (ben attento a non essere visto) di fronte allo spaziare senza limite del raggio dell'amore, di ogni amore, perfino di uno nato in discoteca con i capelli impiastricciati di Tenax, e uno sfigato sullo sfondo che gioca a Pac-Man. Amore tra ragazze vecchie o vecchie ragazze, distinzione che abbiamo ormai compreso rappresentare la vera finzione. Una congiura ontologica, la chiamerebbe il filosofo Emanuele Severino.

Ma se per lui tutto da sempre è, qui, quasi messianicamente, è proprio l'amore a sconfiggere la morte, la tecnologia ne è solo lo strumento attuativo. L'elemento davvero decisivo è che ci sia qualcuno disposto a bere molti rum and cola assieme a te. Una sbornia che ha durata di eternità. Ne siamo pronti?

All You Need Is Love

Ho letto che Lars Von Trier sta cercando una fidanzata attraverso Instagram. È un matto simpatico Lars Von Trier, e a parte avere fatto alcuni film bellissimi, a volte le spara davvero grosse, senza contare i problemi di salute degli ultimi anni. Ma non credo siano questi fattori ad aver determinato la decisione, la sua mente è lucidissima e si accompagna alla volontà.

Anche io non sono fidanzato, e così, un paio di anni fa, mi è venuta l'idea di compilare un profilo sulla sezione Dating di Facebook. Confesso di averlo fatto un po' per curiosità, celia e naturalmente per non morire. Ma soprattutto perché amare ed essere amato (lo dico nella forma più semplice possibile) è un'esperienza che mi manca da troppo tempo.

Su Facebook Dating ho però trovato solo la seconda parte del costrutto linguistico: è come se tutte le donne lì presenti – ma immagino di avere fatto loro la stessa impressione – gridassero amatemi, dai, cosa aspettate: AMATEMI!, in una forma imperativa che non regge il verbo amare.

Ma per quel tipo di amore che non è il love inglese, una disposizione genericamente affettiva, non la si nega neppure a un criceto, oppure il filein greco con cui Pietro risponde alla richiesta di Gesù di vedersi confermato nei sentimenti (Pietro, agapàs me?), sostituendo però il verbo agapáô della domanda, che dell'amore indica l'aspetto intimo e vicendevole, e finendo così col confezionare una dichiarazione simile a quella della Pina alla medesima richiesta di Fantozzi: "Ugo, ti stimo moltissimo", tanto che Gesù non può che mandarlo a pascere le pecorelle, per quell'amore lì non funziona nemmeno il plurale.

Di tutte queste cose mi piacerebbe parlarne con Lars Von Trier, possiamo scambiarci le mail, il numero di telefono o meglio ancora vediamoci in qualche bar tra Sondrio e New York. In fondo è una persona aperta e magari sarà disposto a incontrarmi per una Ceres, anche se non sono una donna graziosa né tantomeno una Musa, con la maiuscola, quale lui dichiara di ricercare. Potrei raccontargli della 'sindrome della cornucopia', l'ho chiamata così non trovando il conforto di una definizione già cotta e servita.

È un percepire più che altro, un illudersi che attraverso internet il mondo si dischiuda in infinite occasioni, basta solo farle combaciare, allungare la mano e cogliere. Circostanza per certo verso effettiva: quanti utenti avrà Facebook Dating? Non so esattamente, ma di certo svariati milioni. Tutte possibilità amorose. Sennonché ogni possibile è, a sua volta, consapevole di questa impressionante eruzione della cornucopia, e come la Principessa sul pisello alza l'asticella delle attese, fino a sconfinare nell'utopia sentimentale.

Il sotto testo psicologico diviene così il refrain di una celebre canzone napoletana, da opporre a tutti quelli che non si accorgono di noi nella vita reale: "chella llà chella llà, mo' va dicenno 'ca me vo' lassà... nun sape che piacere che me fa, me ne piglio (su internet) nata cchiù bella (ma anche con le tette più grosse, naturalmente ricca, intelligente, simpatica e soprattutto giovane) e zitella restarrà, ch'ella llà, ch'ella llà, chella llà." O detta altrimenti, a ogni porta che si chiude si spalanca un portone. E qui ci sono infiniti portoni. Tutti chiusi.

Ecco la ragione per cui chi cerca non trova, non l'amore almeno, non sulle applicazioni di social dating. Dammi retta Lars, cancelliamoci da questo luogo mostruoso, fermiamo piuttosto le ragazze per strada, fischiamogli dal tavolino del bar dove siamo seduti anche se rischiamo di essere incriminati, il reato è quello di cat calling che è ha tutti gli effetti una molestia sessuale. Come non detto allora, ordiniamo un'altra Ceres.

Tanto so che comunque non mi avresti dato retta, neppure io do retta a me stesso. Infatti e per quanto non apra quasi mai l'applicazione, da qualche parte ancora si manifesta – un manifesto proprio, come quelli in cui nel Far West stava scritto wanted, solo che l'oggetto del volere sta fuori e non dentro il perimetro dell'immagine – si manifesta la mia faccina imbronciata. Il giorno in cui mi è stata scattata la fotografia stavo a una festa senegalese: sorridi!, ma sorridi tu, io sono occupato a digerire. Mi erano rimasti sullo stomaco due piatti di thiebou den, e non fu una buona idea aggiungere un bicchiere di succo di zenzero con otto cucchiaini di zucchero.

Ora lo stesso sguardo costipato fa capolino sul vasto mondo delle femmine, sotto pochi dettagli anagrafici e morfometrici: maschio caucasico, cinquantasette anni, un metro e ottantatré. Professione: non indicata. Quindi vanno aggiunti gli interessi, i gusti e le aspirazioni. Il mare, il colore del mare, lo sciabordio del mare, l'odore del mare. Sono un po' monotematico, lo so. Ma anche portare a passeggio il mio cane, si chiama Mela, e leggere i libri di Gianni Celati e Flannery O'Connor. Massì, pure guardare i tuoi film, Lars, ma mica tutti eh. Manca solo la canzone del cuore che ho indicato in Amore disperato di Nada (in effetti avrebbe dovuto essere Diavolo rosso di Paolo Conte, ma mi dimezzava il target).

Proprio in questo momento il mio profilo sarà forse finito sul display di una buyer di Cantù, attività di cui ho scoperto l'esistenza su Facebook Dating, non potete immaginare quante buyer ci stanno al mondo, che dopo una scorsa veloce conclude: “Troppo vecchio, troppo brutto, troppo povero, troppo basso, troppo alto...”

È la cornucopia, te l'ho detto Lars. Non esiste ma è conficcata nella nostra testa, la possiamo sentire come il frusciare dei dollari in cui Paperon de Paperoni si tuffa dal trampolino del suo forziere, o il rumore delle eliche mentre Ingrid Bergman sale sull'aeroplano che la condurrà in America, finalmente in salvo, assieme però al marito e non a Rick. "Louis, forse oggi noi inauguriamo una bella amicizia..." conclude Humphrey Bogart rivolto a Claude Rains, prima di prendere la via del ritorno nella notte umida di Casablanca.

Va be', lasciamo andare, sto divagando, e poi questo è il tuo campo. Volevo solo avvertirti che non sarà facile, non per quella mano femminile da sfiorare quasi per caso, questo almeno quanto vogliamo fare intendere, quindi prendere coraggio e stabilire un contatto più prolungato e deciso, accarezzarne il dorso, salire e scendere dalle nocche come un ciclista amatoriale sui colli brianzoli, non ha fretta di raggiungere il traguardo. Infine stringere e mancare un battito quando ci accorgiamo di essere a nostra volta stretti, amare ed essere amati, l'ho già detto, che banalità. D'altronde non era Lacan a suggerire che l'amore è sempre reciproco?

E comunque se su Instagram ti butta bene e trovi una con un'amica, fammi un fischio. Questo non è cat calling e la facciamo franca. Lars, forse oggi noi inauguriamo una bella amicizia...

(PS - ovviamente l'invito vale per tutti, o meglio per TUTTE. Io sono qui. Amicizia o amore, a questo punto, fa poca differenza. Nessuno è perfetto dentro la cornucopia.)

venerdì 18 agosto 2023

Murgia come Springsteen

Da una settimana i social non parlano d'altro, pare che ci si debba schierare come a un derby, Milan Inter, Roma Lazio. Prendo atto e, trascorsa questa minima frazione di tempo del lutto, becco chiuso sigillato, do voce anche alla mia parte di starnazzo nell'aia. Avvertivo nei confronti di Michela Murgia la stessa percezione ambivalente che ho di Bruce Springsteen.

Entrambi hanno fatto cose ottime (Accabadora è un romanzo scritto in stato di grazia, Born to Run l'album che porterei sulla famigerata isola deserta, basta che poi mi diano anche un grammofono), altre cose più ordinarie, diciamo pure medie se non midcult, con qualche scivolone nel palloso.

Nel caso di Springsteen sono certi dischi tardivi di cui non sono mai riuscito a terminare l'ascolto, mentre per Murgia il tedio ha coinciso con una nettezza di giudizio che non di rado sconfinava nell'ideologia, una semplificazione del mondo a cui talvolta indulgeva. Ciò succede quando all'analisi - la complessità contemplata nelle sue variabili - subentra la convinzione di disporre del Vero, inclinando il discorso in quella postura che potremmo chiamare “virtuologia".

Ma l'elemento davvero urticante sta negli springsteeniani e nei murgiani: il feticismo verso il proprio idolo; la personalizzazione del confronto frutto di una relazione, perlopiù illusoria, con la fonte; la foga messianica a ricordare gli occhi lucidi e ispirati di un pope ortodosso mentre incrocia l'icona mariana, e la lunga barba si flette fino a toccare il lastricato della tserkov'.

Quelli, i fedeli dei rispettivi culti, la Chiesa di Springsteen e la Chiesa di Murgia, proprio non si possono reggere!

PS - eh però, quel modo di morire lì… che lezione! La frase "adesso vi faccio vedere come muore un italiano", pronunciata da Fabrizio Quattrocchi di fronte ai suoi tagliagole jihadisti, con Murgia può essere estesa con un perimetro sovranazionale, luminoso e ampio come il lago Omodeo. Si trova nella zona centrale della Sardegna ma viene chiamato mare dagli abitanti del luogo, seguendo uno slancio dal locale all’universale. E così Michela: Adesso vi faccio vedere come muore un essere umano.

Il signor Pittino c’est moi, o sulla perdita dei margini

Quando il corriere DHL, oppure il postino, deve consegnare un pacco, ho notato che da qualche tempo suona tutti i citofoni del condominio. Mettiamo si tratti di Pittino. Una bella scampanellata anche a Bertoletti, Alessi, Longa, Pozzoni, Balzamo etc. Al primo che risponde viene detto: “Mi può aprire… No, non è per Lei: è per Pittino.”

Ci ripensavo ieri quando ho ricevuto un avviso su Messanger. Chi mi scriveva era un uomo di mezza età, o perlomeno così appariva dalla fotina a corredo del profilo, di lui non sapevo nient'altro. Testualmente il contenuto del messaggio: “Auguri di buon onomastico a tutte le persone che si chiamano Assunta, Maria Assunta e Assuntina.” Seguiva una sfilza di cuoricini e altri emoticon in festosa profusione.

La mia risposta, per nulla piccata, pensavo si trattasse di un errore, è naturalmente stata: “Non mi chiamo Assunta. E neppure Maria Assunta o Assuntina.”

Ed è qui che ritrovo il colpo di genio, il neo dadaismo quotidiano: “Sì, lo so. Ma è un messaggio che ho mandato a tutti. Vale anche per gli altri.”

Gli altri del condominio, ho subito pensato. Quelli che aprono il portone di ingresso all’arrivo dei pacchi per il signor Pittino. Oppure gli altri dei social, della Nazione, della Comunità Europea. Di più. Gli altri che calpestano il globo terracqueo, ci scivolano sopra su un gommone col figlio appena nato in braccio, vanno al derby con un tirapugni in tasca, si commuovono di fronte a una serie su Netflix, attendono per ore un aeroplano che li condurrà sull’isoletta greca dove scrivere il prossimo romanzo di successo, contrattano dietro a un distributore Agip il prezzo di un pompino.

Gli altri. Punto.

È l’intero sistema mondo che si è mariassuntizzato, pittinizzato, perdendo contorni specifici e distinzioni. Somiglia a un affresco che smargina, la vernice cola oltre la sinopia. Non so se è a questo che pensava Arthur Rimbaud quando dichiarava je est un autre o Umberto Tozzi nell’intonare gli altri siamo noi, era il Festival di Sanremo del 1991. Ma questo ciò che nel frattempo è accaduto.

giovedì 17 agosto 2023

Scrittori e cantanti, second track

Provo a integrare quanto ho scritto di recente sui cantanti che pubblicano romanzi; pratica altamente diffusa e dagli esiti variabili, particolarmente sgradita agli scrittori-scrittori.

Devo dire che un po' li capisco: è come per quelli che attendono da ore l'ingresso al Billionaire. Poi arriva Bobo Vieri, saluta distrattamente con la mano (con l'altra cinge una ragazza a cui vorresti misurare le gambe, mica lo immaginavi che potessero esistere gambe tanto lunghe), e viene fatto accomodare direttamente nel privè, con la bottiglia di champagne già stappata sul tavolino. Oppure vedi uno scavallare la fila alle poste, quella per salire sulla nave dei pirati al luna park, qualsiasi fila, scegliete il paragone a voi più congeniale. Ė un fatto che anche i cantanti, quando pubblicano narrativa, saltano la fila, giovandosi di un privilegio guadagnato altrove, o meglio ancora di uno status.

Status che però rappresenta la proverbiale arma a doppio taglio, e prima di rosicare (anche io scrivo gratis su Facebook quando John Elkann firma ben remunerati reportage sui lanzichenecchi, cosa che non mi riempie certo di gioia) prima toccherebbe addentrarsi in un ragionamento più sottile, intellettualmente onesto.

Ma per farlo immaginiamo una situazione concreta: Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, si presenta in una famosa casa editrice con un nuovo romanzo già bello e pronto, manca solo l'ok del direttore editoriale. Ora se non si tratta di Adelphi che come noto soffre di bastiancontrarismo (pubblico anch'io? No, tu no), qualsiasi altro editor manderebbe immediatamente in stampa il romanzo di Jovanotti, senza neppure aver letto il titolo che tanto verrà cambiato.

Da un punto di vista commerciale probabilmente avrebbe ragione l'editor, ma solo fino a un certo punto. Continuiamo infatti a immaginare: il romanzo di Jovanotti è un capolavoro, improbabile ma non impossibile. Già me li vedo i redattori dei supplementi culturali, ma in fondo anche i lettori forti, smaliziati: Jovanotti... Ma non è quello che cantava "sei come la mia moto sei proprio come me"? Mica è uno scrittore.

Essere un cantante popolare e incorporarne lo status in ambito letterario, corrisponde a ciò che nel linguaggio del marketing viene chiamata estensione di brand: piazzi un coccodrillo su un paio di scarpe sportive qualunque e, oplà, diventano delle Lacoste, per il mercato immediatamente più appetibili. Ma non così appetibili come delle Adidas o delle Nike, che sono nate con quella specifica caratterizzazione merceologica. Sono, a un tempo, le Lacoste, più delle scarpe anonime ma meno di chi possiede uno status di settore.

Questa è la ragione per cui l'eventuale capolavoro di Jovanotti non potrebbe mai vincere il Premio Strega, anche se si presentasse alla premiazione con il collarino fetish come fece Desiati. Autore a cui personalmente preferisco i romanzi di Guccini, ma anche lui è un cantante, solo un cantante, e non può essere preso sul serio dal sistema culturale.

Una condizione paradossale di accesso/limite descritta nella psicologia del linguaggio da Paul Watzlawick, il quale ha mostrato il funzionamento delle ingiunzioni contraddittorie, i doppi legami. Hanno esattamente questa struttura: vieni Tiziano Ferro, dai, vieni, pubblica un romanzo con noi... Ma poi non sperare di farti chiamare scrittore, quella sedia già è occupata da persone più serie e corrucciate di te. I veri scrittori.

Ritroviamo la stessa ambivalente dinamica anche nei cosiddetti figli d'arte: facilissimo è per loro il primo passo, avere accesso alle audizioni, ottenere particine, trovarsi al Caffè della Pace a parlare di Brecht, Shakespeare e fica. Ma difficilissimo fare scordare a pubblico e recensori che sei solamente il figlio di.

mercoledì 16 agosto 2023

Cantanti che scrivono e scrittori che rosicano



Mi infastidiscono le lamentele degli scrittori ogni volta in cui un cantante scrive e ancor peggio pubblica un libro – è di questi giorni la notizia che Tiziano Ferro ha realizzato un’opera narrativa, La felicità al principio, edizioni Mondadori.

Una lagna che si ripresenta anche nel caso di attori, radiologi, commercialisti, nani da circo etc. La scrittura agli scrittori, questo il sotto testo. Un argomento implicito anche in un recente intervento di Carmela Scotti su Facebook, una scrittrice e, soprattutto, una persona verso cui provo grande considerazione e affetto. Quindi questa non vuole essere una polemica ma un ragionamento, cominciato tra i commenti al suo post.

Per come la vedo io, è la domanda stessa – chi è legittimato a scrivere? – a mancare di sostanza. La scrittura rappresenta infatti la forma grafica di una lingua fonetica; una delle tante lingue storiche oppure di invenzione, come il grammelot. Premessa da cui arriviamo a quella che mi appare la domanda decisiva:

a chi appartiene il linguaggio?

A tutti, è evidente. A tutti e a nessuno – Lacan lo chiamava il Grande Altro perché ne siamo parlati mentre lo parliamo, ci inscrive dentro la sua struttura (che è primariamente un'interpretazione del mondo) mentre lo scriviamo. Diciamo che quella col linguaggio è sempre stata una relazione aperta, dove alle corna si alternano gli abbracci.

Tra gli amanti, come sempre, qualcuno sarà più erotico e smaliziato, avrà una maggiore abilità nello stuzzicare il corpo verbale, altrimenti detta competenza linguistica. Possiamo anche chiamarli stile e vocabolario attivo (in Italia stiamo messi piuttosto maluccio: un ventenne, mediamente, conosce duemila vocaboli, contro i cinque o sei mila degli anni Sessanta).

Diciamo allora che uno scrittore, proprio perché scrive con una regolarità che ne legittima lo statuto da esibire sui social, svilupperà una familiarità maggiore con le possibilità espressive della lingua, cosa che però non fa ancora di lui un buono scrittore.

Ma arriviamoci per piccoli passi, in forma di nuovo interrogativa. Cosa unisce i seguenti nomi: Emily Brontë, Oscar Wilde, Anna Sewell, Alain-Fournier, Margaret Mitchell, Boris Pasternak, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sylvia Plath, J.D. Salinger?

Risposta: sono tutte persone che hanno scritto un solo romanzo nella vita, e per quello sono giustamente ricordate. Mentre Amalia Liana Negretti Odescalchi, in arte Liala, di romanzi ne ha scritti ottantaquattro, e non si può dire che la loro qualità fosse superiore alle opere degli autori menzionati. Viene così meno anche l’argomento per cui più si scrive più si diventa bravi a scrivere.

La storia della letteratura è inoltre piena di grandi autori che provengono da altre professioni, su tutte prevale quella di medico; particolare che personalmente trovo significativo. Mentre nella musica l’unico medico che mi viene in mente è Enzo Jannacci. Torniamo così alle nostre domande.

Perché gli scrittori, per fare dispetto a quegli usurpatori dei cantanti – Tiziano Ferro ma anche Ligabue, Guccini, Vecchioni, Capossela, De André, Ruggeri, Bianconi, Nada, Lenzi, Camillas, Agnelli, Brondi, Lo stato sociale, Lauro, Colapesce, Lolli, Clementi… e potrei continuare con la complicità della barra delle ricerche su Google – perché non scrivono anche loro delle canzoni, o ancora meglio una sinfonia?

Semplice, perché non ne sono capaci.

La composizione musicale presuppone la conoscenza di un linguaggio non naturale, acquisito con lunghi anni di studio e pratica. Un sapere tecnico (notazione e armonia e melodia, per non parlare di quei due vigliacchetti dei bemolle e diesis) che non garantisce la bontà dell’opera, ma è piuttosto una sorta di conditio sine qua non. Mentre per scrivere narrativa non esiste alcuna barriera d’accesso: dopo che un bambino ha imparato a dire mamma, pappa, cacca e no, è già un potenziale scrittore.

Le storie da raccontare non gli mancano di certo, come quella volta che è cascato il succhiotto nell’omogenizzato di pollo ed è rimasto conficcato con la stessa assertività della bandiera che Niels Armstrong pose sul suolo lunare; le mamme si raccontano simili aneddoti ai giardinetti, il trasporto è quello che immaginiamo in Omero nel narrare l’ira del pelide Achille. Saranno forse storie modeste, ma sono pur sempre storie.

Che se ne facciano dunque una ragione i miei amici scrittori: invece di lamentarsi a ogni puntuale sconfinamento di un cantante nei loro possedimenti, si concentrino nello scrivere storie migliori di quella dell'omogeneizzato; cosa che purtroppo non sempre avviene, nemmeno in chi esibisce la sigla di scrittore sul cappellino a forma di cono, alle scuole elementari di un tempo ci veniva scritto sopra asino.

Ecco, se dovessi dirlo con una battuta: uno scrittore è un asino – non sa fare niente che non sappiano fare anche gli altri – ma quando è un bravo scrittore (come Carmela Scotti) quel niente gli viene particolarmente bene, favorendo il manifestarsi di bellezza e comprensione nel lettore. Altrimenti è un asino e basta.

sabato 12 agosto 2023

Imbecille, o sul linguaggio politicamente corretto III

Christian Raimo, uno degli scrittori più attivi e popolari sui social, ha di recente condiviso attraverso Facebook un intervento di Vanessa Roghi, dove la storica di Orbetello criticava (come noi tutti da giorni) l'infelicissimo articolo di Concita De Gregorio su Repubblica, in cui per stigmatizzare comportamenti incivili gli artefici venivano accostati a cerebrolesi cui pulire la bocca. Al suo attivo ha già 234 like, 62 commenti e 35 condivisioni, che a loro volta macinano like come chilometri un camionista. Raimo non sbaglia un colpo.

Premetto che non ho nessuna intenzione di polemizzare con Roghi e Raimo, ma ho trovato curioso il seguente passaggio nel testo:

"...abbiamo imparato a convivere con le tante diversità e la scuola e la società sono diventate un posto migliore e nessuno si è più sognato di dare del mongoloide a qualcuno per dirgli che è un imbecille. Gli si dice imbecille e stop."

Si procede poi con argomenti in buona parte condivisibili, ma torniamo al passo citato. Analizziamolo. Mongoloide è un termine altamente offensivo, così venivano definite le persone con sindrome down. La ragione è nota e sta nella somiglianza con gli abitanti della Mongolia, in particolare la forma degli zigomi, pronunciata e tonda, e il taglio orientale degli occhi.

C'è qualcosa di sconveniente nel provenire dalla Mongolia e avere questi tratti somatici? Assolutamente no.

Imbecille deriva invece dal latino imbecillis, variante del più comune imbecillus con significato di debole fisicamente o mentalmente.

C'è qualcosa di sconveniente nell'essere deboli fisicamente o mentalmente? Direi proprio di sì.

Se ne ricava che mongoloide è un eufemismo, ossia una formula attenuativa per indicare una deviazione da ciò che ora viene chiamato abilismo e un tempo normalità, mentre con imbecille la lingua viene usata in forma diretta, denotativa.

Se volessimo essere pignoli, il ragionamento di Vanessa Roghi andrebbe invertito di segno: per rispetto nei confronti di tutte le persone fisicamente o mentalmente deboli dovremmo stralciare il termine imbecille e ripristinare mongoloide, secondo il principio comunemente accettato per cui, quando parliamo di un male, è meglio alludere che dichiarare, tanto da trasformare un cieco in non vedente e un eunuco in diversamente sessuato.

Eppure qualcosa nelle viscere mi porta a resistere alla logica, affidandomi alle consuetudini d'uso della lingua. Non darei così nemmeno io del mongoloide a chi mi schizza una bustina di ketchup, come feci io, oltre vent'anni fa, sull'abito nuovo del mio sconosciuto vicino di tavolo in un fast food, ma opterei per imbecille, che è appunto quanto egli esclamò. Con piena ragione, tocca aggiungere.

Se dunque io sono un imbecille e non un mongoloide è perché il primo termine mostra meno, è più tecnico. E per un processo noto ai linguisti sono proprio le parole dal significato più stringente che da esso possono congedarsi, in una deriva semantica che prende il nome di connotatività.

In altre parole, ciò che in origine denotava ora connota, e viceversa. Sembra un paradosso ma è un'inversione più frequente di quanto si possa credere, già che i linguaggi tecnici sono appannaggio degli specialisti e di latino e greco ce ne stiamo scordando, con eccezione del liceo classico a scuola non vengono più insegnati, mentre il volto tondeggiante che proviene da una steppa asiatica è più difficile da obliare.

Ne ricaviamo che il linguaggio supera in complessità la virtù che per suo tramite viene proclama, di cui il politically correct rappresenta l'estrema semplificazione, e non è infrequente che siano proprio i termini più distanti dal loro significato letterale a cogliere maggiormente nel segno, facendo male.

Quindi benissimo al tabù verso l'orrenda espressione mongoloide, a fronte della libera circolazione di imbecille, cretino, idiota. Tutte gravi patologie mentali che occhio non vede e cuor non duole, mentre bocca pronuncia. Ma sapendo che stiamo difendendo noi stessi, le nostre emozioni, rappresentazioni. Non gli altri, i deboli nel corpo o nella mente.