martedì 10 novembre 2009

Viva Drupi, o sulla piccola bugia contro la lagnosa menzogna


Parlavo, nei giorni scorsi, con un’amica di Verona. Parlavamo di musica. Un argomento che per molti versi si avvicina alle dispute sul calcio fatte al bar Piero. E' difficile parlare di musica con obiettività, quando ognuno nasconde in un cassetto la bandierina della propria squadra del cuore, da sventolare al primo inciampo. Conviene allora alzare da subito le insegne, come facevano i vascelli nel Mediterraneo per capire se quel puntino laggiù, che si fa sempre più grande, sia il prodiero della guardiamarina o una goletta un pirata: armare i cannoni oppure i calici, questo insegna un buon colpo d'occhio. La mia amica me lo domanda dunque a bruciapelo:

- Chi ti piace?
- Drupi.

Chissà come mai ho risposto Drupi … Avrei potuto rispondere Sergio Endrigo, oppure Nada; Adamo; Piero Ciampi; Mina; Roberto Murolo; Dean Martin; il Quartetto Cetra … Ci sono centinaia di cantanti che ascolto con più frequenza di Drupi, altri generi musicali: il rock anglosassone; la canzone francese; il melodramma; la musica classica … No, Drupi

- Dai, non scherzare …
- Non sto scherzando, mi piace Drupi. Perché, a te non piace Drupi?

Lei mi risponde che non conosce Drupi. Però, così, a naso, ha deciso che non può piacerle. Qualche vago ricordo radiofonico dagli anni settanta, forse un Festival di Sanremo, no, decisamente si è convinta che non le piace.

- Quali sono allora i tuoi gusti, fammi un nome.
- Non so ... P.J. Harvey.

P.J. Harvey, già. I primi dischi di P.J. Harvey piacquero molto anche a me: una musica nuda e senza fronzoli, incazzata e asprigna. Io mi intendo poco di generi ed etichette, ma mi ricordava l’urlo tra il capriccioso e il disperato di Kurt Cobain. Poi credo si sia allineata a quella mesta colonna sonora del presente chiamata “indie”, cioè la nuova scena americana indipendente che riprende la tradizione folk, ma in tono se possibile ancora più sommesso ed essenziale, cantilenato e stranito. Con effetti anche notevoli di spiazzamento, di obliquità posturale, mi verrebbe da dire, ma con un retrogusto che non mi ha mai convinto. Come se ad ogni nota i cantanti indie, ma ancor più le cantanti, fossero a un passo dal cascare giù dal pentagramma, stramazzare al suolo reclamando una flebo di Meritene.
Capisco così che i nostri vascelli sono in rotta di collisione, non calco la mano e cerco di cambiare discorso. Parliamo un po’ di letteratura, cinema?
Ci ripenso però adesso: la musica indie, Drupi … molte cose che non mi tornano.
Vado allora su You Tube a riascoltarmi qualche canzone di Drupi. Sono curioso di capire il perché di quella mia risposta così automatica e certa: Cosa ti piace? Drupi.

Sereno è, ad esempio.

Sereno è esce nel 1974. Una musichetta leggera leggera senza troppe pretese, accordi semplici in sintonia con l’andazzo del tempo; se non fosse per l'unicità di quella meravigliosa voce nera, avrebbe tranquillamente potuto essere una canzone di Ivan Graziani, o di qualche gruppo di rock melodico tipo Cugini di campagna. Però il tema musicale è subito riconoscibile e bello, le parole in piena sintonia. Attacca in questo modo:

Sereno è
Rimanere a letto ancora un po'
E sentirti giù in cucina che
Già prepari il mio caffè
E far finta di dormire
Per tirarti contro me.

Un ritratto di quieta armonia familiare, di serenità appunto. Dove ogni conflitto è come smorzato in un sonno che non è reale – “far finta di dormire” – ma simulato; o meglio ancora teatralizzato. Infatti il male del mondo non è redento, ma accolto con pacifica e sonnambolica ironia, come si ricava anche dalla seconda strofa:

Sereno è
Ricordare il primo giorno che
Sei salita sulla moto mia
Noi due soli senza compagnia
E la volta che hai guidato tu
Dentro al fosso a testa in giù...

Sì, ogni tanto nella vita anche si casca, si finisce dentro un fosso. Ma guardare il mondo “a testa in giù”, come nella figura dell’appeso nei tarocchi, è anche occasione per allargare il punto di vista sulla cose. E in ogni modo l’unico punto di vista che davvero interessi a Drupi è quello di una pacificazione con la vita intera:

Sereno è
Scivolare dentro il mare e poi
Senza il peso dei pensieri miei
Giù nel buio la conferma che
Lassù in alto sempre tu ci sei
Che alla luce aspetti me.

Il mare, eh già. Il mare come antitesi dei pensieri, condizione quasi estatica di nirvana. Ma è uno sperdimento della coscienza da cui richiama la certezza di una dualità rassicurante, un tu che ci struttura dentro la forma individuale, illuminando il nostro profilo dall’ombra minacciosa della perdita definitiva, che è l'altra faccia dell'indistinto. E’ così l’amata, con il suo filo d'Arianna, che da qualche parte ci aspetta. In piena luce.

Sereno è
Dare un calcio ai grattacapi e poi
Con un bacio fare pace noi
E sentirmi come tu mi vuoi
Raccontarti un sacco di bugie
Per poi ridere di te!

Finale potentissimo! Che chiarisce e riassume il senso della canzone in due periodi che anticipano l’estetica e lo spirito degli anni successivi, gli ottanta:

1) Dare un calcio ai grattacapi

2) Raccontarti un sacco di bugie

“Dare un calcio ai grattacapi” equivale, ancora, ad accordarsi provvisoriamente con tutto ciò che è, smussando i punti d'attrito che cigolano nel pensiero; ritorna il pensiero come simbolo di pesantezza e disarmonia. Nel senso che la ragione (i grattacapi) quando non riesce a superare la vischiosità del reale, si arresta come in un loop. E quale il modo di uscire da questa sterile circolarità, che ci restituisce una sensazione di mancata corrispondenza con la vita? Semplice: “raccontarti un sacco di bugie”.
La bugia, come la simulazione iniziale del sonno, il far teatro dell'esistenza, diventa così una forma di consolazione, che si distingue dalla menzogna proprio per la finalità: la bugia
è una menzogna a “fin di bene”; una piccola menzogna, se così si può dire.
Ecco, secondo me questo atteggiamento – della bugia ma a fin di bene – riassume perfettamente l’estetica della canzone pop classica. Il canto come consolazione ed oblio temporaneo, lenimento. Mentre la grande menzogna è quella che non prevede rotte di ritorno, è il richiamo ingannevole (e sempre disciolto nel cantato) delle sirene.
Da alcuni anni si è però affermata un'estetica pop di stile opposto, potremmo chiamarla della ”iper-rammemorazione”. Che non significa un atteggiamento che fa della corrispondenza con le cose, con la complessità del reale, la sua intenzione, quanto una semplificazione di segno uguale e contrario, in cui crogiolarsi in una sintesi del negativo. Atteggiamento in effetti già presente anche nelle premesse genuinamente popolari della musica folk, quali ad esempio i canti di montagna o del lavoro, specie quello nelle risaie. L’umanità che emerge da quei testi, oltre che dall’accompagnamento musicale, è non solo dolente, ma sfigatissima al limite dell’iperbole comica - acutissima l’analisi che ne ha dato Paolo Villaggio in un bello spettacolo teatrale. La canzone diventa allora un modo non tanto per restituire un volto vero e sincero alle cose, ma per esasperarne l’aspetto più dolente e triste in una tela che non abbia spazio per altri toni. Non solo non c’è più nessuno che ci aspetti nella luce, sopra al buio, ma non c’è neppure la luce: solo una tenebra che tutto pervade.
Ecco, io trovo che la musica indie abbia bruscamente inclinato il pop in questa direzione che mi appare come regressiva.
Quando io dico che trovo lagnosa e insopportabile la nuova scena indie americana, propongo dunque questa idea: non solo è musica armonicamente e melodicamente piuttosto banale, ma ricava tali qualità da un gesto di semplificazione del reale, e del musicale, speculare alla canzonetta più spensierata. Con la differenza che il pop leggero mente sapendo di mentire (“raccontarti un sacco di bugie”), mentre la musica indie racconta le sue palle dentro una spudorata e tronfia postura di verità. Il cui effetto è quello di gocciolare lacrime di sale sulla ferita, perché in fin dei conti anche la lagna ha un suo amarissimo miele.

Per riassumere: viva Drupi!

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