domenica 16 gennaio 2022

David, una storia tra storie


Mia madre ha la casa trapuntata di fotografie che ritraggono la famiglia in momenti diversi, come vagoni di un lungo treno. Se da una singola carrozza allargo il campo al convoglio, mi accorgo che quel treno non va da nessuna parte, sbuffa, sferraglia, ma segue binari comunque segnati, non è possibile scartare di lato alla maniera del bisonte, lo cantava Francesco De Gregori in una vecchia canzone dedicata a Buffalo Bill. Da principio inseriva le foto in una cornice, non necessariamente pomposa, ma negli ultimi anni le butta così, come si faceva da bimbi con le figurine; se la tua figurina si sovrapponeva a quella lanciata dal tuo avversario avevi vinto, e diventava tua.

Non so a quale gioco stia giocando mia madre, ma il sospetto è che, in tal modo, cerchi di sottrarre al fumo della motrice la sagoma del suo treno, riprendersi le figurine per completare l'albo. Una sensazione consolatoria e diffusa, la fotografia è stata inventata a questo scopo, e nell’essere un doppio pigro della vita consente di tornare sui propri passi; una sorta di pedinamento in cui la meta coincide con l'origine. Ma non possiamo chiamarlo viaggio di ritorno e a ben vedere neppure viaggio, già che se provassimo a fare il percorso a ritroso, a farlo realmente e non solo nella contemplazione, sarebbe a tutti gli effetti un nuovo viaggio: il leoncino con cui siamo stati fotografati al circo, quel giorno avevamo l'allergia ai pollini, dovevamo ancora ripassare le tabelline e ci scappava la cacca (l'espressione incazzata era dovuta allo sforzo nel serrare gli sfinteri), nel caso fosse ancora vivo quel leoncino ci sbranerebbe. Ci tocca così convenire che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Da qui l'infinita tristezza delle rimpatriate, le feste dei coscritti, i fidanzatini delle medie incontrati per caso all'Esselunga.

Deve essere questa la ragione per cui sua madre, la mamma di mia mamma e cioè mia nonna, al contrario si schermiva ogni volta che cercavamo di fotografarla; l’abitazione in cui viveva con mio nonno non presentava alcun ritratto familiare alle pareti, minimale si direbbe ora. Il suo cattolicesimo contadino, semplice, cocciuto, conteneva un dubbio mai rivelato – scommetterei neppure a sé stessa – che vede nella fotografia non tanto un furto d’anima (come dicono avvenga per alcune comunità di origine arcaica) ma un sigillo imperioso, che vuole convincerci che le cose sono andate a quel modo lì, punto, cosa fatta capo ha.

Ma forse no, di ogni storia, per lo scrittore, esistono infiniti possibili finali, percorsi alternativi, e come in quella barzelletta in cui un tizio va a cinema ogni giorno a vedere lo stesso film, anche mia nonna avrebbe risposto all’interlocutore che gliene chiede ragione: perché oggi Rocky mi sembrava più in forma del solito, ci sta che la spunti su Apollo Creed – ammesso e non concesso che mia nonna conoscesse Rocky e Apollo Creed.

E comunque io mi sento più simile a mia nonna che a mia madre; non sarà, come nel suo caso, la redenzione cattolica dei peccati a motivarmi, ma mi sembra che anche la vita trascorsa dovrebbe avere diritto a una seconda chance, negata dalla fotografia. Non rivedo così alcuna immagine che mi ritrae – per altro ne possiedo pochissime, emulando anche in questo la nonna – ma mi incanto a osservare quelle degli altri, specie le foto scolastiche: un concentrato di possibilità drammaturgiche, di esistenze da inventare.

Oggi ho ricevuto un bel regalo, tutti i siti web pubblicavano la fotografia della classe di David Sassoli; l’anno dello scatto non viene indicato, ma Sassoli era del 1956 e così a occhio si tratta di un gruppo quindicenni; potrebbe essere il 1971, quando lui frequentava la quarta Ginnasio al Liceo Virgilio di Valle Giulia. Il treno che l'avrebbe portato alla presidenza del Parlamento Europeo stava ancora scaldando i motori.

Chi è Sassoli lo sappiamo tutti, è il ragazzo in alto a sinistra circoscritto dal cerchio rosso. Anche la sua vita la conosciamo, in molti abbiamo imparato ad apprezzarla e io sono tra questi, che vorrebbero cambiarne il finale ma non possono. Stramaledette fotografie! Ma chi è il ragazzino al centro, quello con la testa grossa di sbieco e il maglioncino blu; un occhio è socchiuso per via del sole e la mano destra sta nascosta sotto l’ascella opposta, mentre con la sinistra fa le corna – chi è?

Nulla si sa e tutto si immagina, risponderebbe Fellini. E così immaginiamogli una storia, un futuro in cui si è diplomato con fatica, magari ha perso un anno ma poi è subentrato al padre alla guida di una concessionaria di automobili, dopo aver tentato qualche esame alla facoltà di Legge. Acquistano le auto in Bulgaria e poi le rivendono a Roma; possiedono anche una filiale poco fuori Latina, le auto di lusso si vendono bene in provincia. A un party in una villa sull’Appia antica ha conosciuto una brasiliana con cui si è sposato giovanissimo. Pochi mesi dopo erano già divorziati e si è goduto la vita, così ama ripetere, fino alla soglia fatidica dei trent'anni, quando si è risposato con la segretaria di una sua cugina commercialista, con la quale hanno avuto tre figli, cinque gatti, quattro nipoti, due labrador, sette amanti lui (ma esagera sempre con gli amici del circolo di aeromodellismo di Roma nord, tra di loro si chiamano scherzosamente i panzoni volanti) e lei una scappatella (usa proprio questa espressione, scappatella, con il suo padre confessore, ma diversamente dal marito propende alla sottostima numerica), oltre a un incidente mentre tornavano assieme dalla Fiera della porchetta di Ariccia, per fortuna lieve. E in ogni caso l’auto aveva la targa in prova della concessionaria, con l’assicurazione casco.

Quando ha saputo della morte di Sassoli ha preso l'automobile più costosa, ha raggiunto la camera ardente, si è fatto un selfie davanti alla bara è poi l'ha mostrato ai suoi nipoti, insieme alla foto in cui fa le corna infastidito dal sole. Vediamo se riconoscete il nonno, ha aggiunto con la stessa espressione bricconesca di allora.

Già, mi rendo conto quel che state pensando: è una storia modesta, ma con quell'aspetto non sono riuscito a fare di meglio; l’immaginazione non è mai totalmente libera e piuttosto un seme a cui possiamo offrire acqua e parole, più simile al giardinaggio che al gesto teologico della creatio ex nihilo. Però forse possiamo riprovarci con la ragazza dai capelli rossi, è la seconda in alto da destra, il suo pullover è color panna su cui staglia una collanina in corda di stile etnico, lasciando intravedere ai lati il seno appena abbozzato. Gli occhi puntano al suolo, ma per conformismo li supponiamo verdi: capelli rossi e occhi verdi, un abbinamento come giacca nera sopra camicia bianca che indossano i camerieri. Clic.

Lei invece sì che era brava a scuola, si contendeva con Sassoli il titolo di più brava della classe – lo superava in matematica e scienze, ma non in lettere e storia e filosofia – e forse li accomunava anche un primato estetico quasi subito, ricavato da severissime classifiche compilate dai compagni di sesso opposto. Mi piace immaginarmi una relazione inespressa tra i due, i due belli della quarta A: a lui piaceva lei, a lei lui ma entrambi erano troppo timidi per dichiararsi, così alla fine non se ne è fatto nulla; qualcuno però mormora di averli visti camminare tra i pitosfori tenendosi per mano, era il giorno della gita scolastica alla Reggia di Caserta.

Terminato il liceo si è iscritta a Medicina. L’ultimo anno l'ha trascorso all'estero, non esisteva ancora l’Erasmus ma il suo professore di Microbiologia ha molto insistito, oltre ad averla aiutata nella convinzione che quella ragazza taciturna avesse diritto al suo treno, destinazione Heidelberg, Ruprecht-Karls-Universität. È qui che una sera ha provato a dare due tiri a uno spinello (ma non le è piaciuto) e un'altra, dopo infinite richieste da parte di uno spilungone danese che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, ha praticato sesso orale (e questo invece le è piaciuto, anche se non ha mai voluto ammetterlo e poi si è subito sciacquata la bocca con il collutorio alla menta).

Dopo essersi laureata a pieni voti si è specializzata in cardiochirurgia infantile, ha acquistato un cavallo bianco, si è tinta i capelli di biondo – chissà perché si è sempre vergognata del colore dei suoi capelli, forse per via di certe brutte storie, storie volgari, che girano sulle rosse –, ha regalato il cavallo a un buttero (i cavalli devono vivere in libertà, si è detta) ed è andata in Africa per curare i bambini, i vecchi, quelli di mezza età e insomma tutti; che mi importa del tempo scritto sulla pelle ha concluso un pomeriggio mentre osservava l'acqua scivolare da tutte le parti, era appena iniziata la stagione delle grandi piogge, ruscelli senza un'apparente direzione del colore del maglioncino che indossava quel giorno, quando hanno scattato la foto e lei ha abbassato lo sguardo. Ciò che importa è la pelle.

Ma nemmeno in Africa è rimasta molto. È ritornata a Roma e ha approfondito lo studio dell’omeopatia, ha fatto anche un corso di profumeria, un altro di Meditazione Trascendentale, ha riprovato a fumare uno spinello (bah, la stessa schifezza della prima volta) e a fare sesso orale; e però ora con una donna, realizzando che nemmeno quello era ciò che stava cercando. E così continua a cercare, anche adesso che i suoi capelli biondi sono diventati bianchi dopo essere passati per il nero, prima che se li tingesse nuovamente di rosso. Il suo colore, questo finalmente l’ha capito. Per il resto c’è ancora tempo, è appena andata in pensione. C'è la sua pelle, non più solo quella degli altri, pelle chiara e piena di efelidi, di cui prendersi finalmente cura.

Quando ha saputo della morte del suo compagno di classe David Maria, i genitori l'avevano chiamato così in omaggio a padre Turoldo, è andata su Google e ha digitato: "reggia caserta". Solo dopo ha pianto.

PS - Per gli altri compagni, se vi va, continuate voi.

venerdì 14 gennaio 2022

Parliamone...


Anni fa avevo il grilletto facile. Bastava che qualcuno mi guardasse storto, o mi mormorasse qualcosa di sbagliato. Dici a me? rispondevo io, parli con me? sibilavo come De Niro in Taxi Driver, e poi bum bum, due pallottole nella pancia, oppure in testa, in bocca e perfino nella schiena, secondo la geometria dell’infamia. In questo non avevo un protocollo fisso, uccidevo all'impronta.

D'accordo, succedeva solamente in sogno, in fondo chi non si trasforma in killer mentre dorme, mi dicevo sbadigliando al risveglio. È normale. Poi uno mi psicanalista mi disse: “Guarda che non è proprio così, non è normale. In trent'anni che faccio questo lavoro non ho mai trovato qualcuno come te. Le persone di solito non ammazzano altre persone, nemmeno quando dormono, parliamone..." E ne parlammo.

Ora è molti anni che ho interrotto le sedute di psicanalisi, chissà se il mio vecchio analista è ancora vivo, era un uomo piccino che ricordava Perry Mason. Comunque non l'ho ucciso io, giuro! Con quelle cose ho smesso. Ci ho dato un taglio. Adesso, quando vado a letto, tiro fuori una corda, ci faccio un bel nodo e zac; oppure mi lancio dal balcone; ingollo una scatola di pilloline rosa; lascio aperto il gas e cose così, anche in questo caso il mio inconscio trova molti modi per soddisfare il suo desiderio profondo: ammazzarmi.

Ma in realtà, in sogno, mentre dormo e ammesso che riesca a dormire, non sono proprio io a lasciarci le penne; l’impressione è che si tratti del corpo (identico al mio) e della vita di qualcun altro. La stessa persona che ritrovo nel letto al risveglio, buongiorno, buongiorno, ci salutiamo freddamente e poi ognuno per la sua strada, che curiosamente è la stessa.

La notte successiva devo allora ricominciare tutto da capo. In fondo è normale, mi dico nuovamente: chi non si suicida in sogno? Ma questa volta non c'è nessun Perry Mason a rispondermi: “Parliamone...”

giovedì 13 gennaio 2022

Politically correct e pandemia, o sui labili confini tra statistica e pregiudizio



Non mi stupisce la nutrita presenza di persone che provengono da una cultura libertaria, diciamo pure da quella sinistra che Pannella definiva “antropologica” – termine che preferisco di gran lunga al consunto radical chic – nella schiera dei no vax. Ciò che fa difetto in tale visione del mondo è una sorta di zoom ottico, in cui risalta il dettaglio ma viene escluso il campo lungo, il panorama; un insieme complesso che per limiti oculari può essere colto solo dalla statistica. In fondo il politically correct è frutto di tale sguardo ravvicinato; ma facciamo un esempio, così che divenga più chiaro.

Africa. Un concetto, prima ancora che un'area geografica, troppo ampio per poter fare di ogni erba un fascio, magari quello che riduce tutto al colore della pelle e saluta romanamente. Ognuno ricerca così le differenze nei campi a cui è più sensibile. Per le forze dell'ordine saranno le persone giunte nel nostro Paese dalla Nigeria a generare, su base percentuale, più problemi di ordine pubblico di quelle provenienti dal Senegal, al punto che nei controlli di routine si mostrano maggiormente concessive verso quest’ultime; e i nigeriani, che saranno forse più carognetta ma non più scemi, quando fermati senza documenti si dichiarano senegalesi. Lo stesso per alcuni reati odiosi nei confronti delle donne, che non si verificano con un’uguale incidenza (di nuovo statistica) tra comunità con provenienza diversa.

Certo, ciò non ci autorizza – MAI! – ad affermare che, mettiamo, un rumeno o un marocchino è più versato al crimine; ma negando il nesso tra comportamenti individuali e sostrato sociale e culturale di appartenenza, si alimenta il consenso alle destre; le quali da tale nesso balzano a un’equivalenza meccanica e universale (rumeni e marocchini uguale stupratori), e cioè al razzismo.

Ma vediamo ora come si replica lo stesso schema in rapporto alla pandemia. Ormai l’abbiamo capito, anche una persona trivaccinata può contagiarsi e contagiare, e però in percentuali significativamente ridotte; con calcoli un po’ complessi, si è arrivati a un rapporto di uno a dodici. Eppure l’argomentare di molti si concentra ancora su questo aspetto: pure i vaccinati contagiano e finiscono in terapia intensiva, che sarebbe come dire che ci sono anche senegalesi stronzi, rumeni a cui non piacciono le donne, marocchini più buoni di Lupo de Lupis e così via. Cosa che per inciso è verissima, non ha senso il concetto di rumeni, di senegalesi, marocchini e neppure di italiani nel focalizzarci su una persona, che rappresenta un’irriducibile singolarità.

Quando la nostra unica bussola orientativa è però rappresentata dalla statistica – ed è questo il modo di ragionare degli investigatori, oppure degli epidemiologi – anche quei nessi semplificati e rozzi diventano importanti, e possono salvare molte vite; vite uniche e irripetibili e non soggette a generalizzazioni, come lo è ogni vita. Convivere con la complessità significa ammettere la possibilità di essere derubati da un senegalese e contagiati da una persona vaccinata. Ma il buon senso ci invita a sfuggire l’incremento del rischio, per quanto a questo modo finiamo involontariamente con l'alimentare il pregiudizio.